Non di soli antiretrovirali

Lotta all’HIV/AIDS: a che punto siamo
I missionari della Consolata sono stati coinvolti nella lotta all’Hiv G fin dal primo manifestarsi della malattia, negli anni Ottanta. Sono numerose le testimonianze dei missionari che raccontano del loro sgomento al vedere «decine di persone morire come mosche» di un male misterioso contro il quale la comunità scientifica internazionale era allora completamente impotente. «Oggi condanniamo negli altri le paure e i pregiudizi legati all’Hiv e a chi lo ha contratto», racconta p. Valeriano Paitoni, che segue diversi centri di accoglienza per malati di Aids G in Brasile, «eppure anche noi, all’inizio, avevamo lo stesso atteggiamento: facevamo visita alle persone malate ma non avevamo il coraggio di accettare nemmeno una tazza di caffè, allora. Non ne sapevamo nulla e, anche oggi, molte delle false credenze sono dovute all’ignoranza, al pregiudizio».
Pregiudizio, stigma, ignoranza sono solo alcune delle cause per le quali la battaglia all’Aids non si è ancora chiusa, anzi, pare essere di fronte a nuove, inedite sfide a volte causate proprio da quanto è stato fatto per limitare il contagio: quasi trenta anni dopo la sua ufficiale scoperta, la malattia che all’inizio fu erroneamente considerata come tipica degli omosessuali, e che si è diffusa invece in tutto il mondo fra tutte le fasce sociali, fra uomini e donne, eterosessuali e omosessuali, ha provocato ad oggi venticinque milioni di morti, nonostante i massicci finanziamenti per controllarla e debellarla è ancora un’emergenza mondiale, una
pandemia G.
Dei trentatré milioni di sieropositivi, due terzi sono concentrati nel continente più povero del globo, l’Africa, dove la sanità non è un diritto gratuito, ma un privilegio per chi può permettersi i costi delle visite e dei farmaci, dove le infrastrutture sanitarie sono inadeguate, e dove in media ci sono solamente 2 medici e 11 infermieri per 10.000 abitanti (contro ad esempio i 37 medici e 72 infermieri ogni 10.000 abitanti dell’Italia). Degli oltre due milioni di bambini sieropositivi al mondo un milione e ottocentomila vivono in Africa e dei due milioni di decessi avvenuti nel corso del 2008 a causa dell’Hiv un milione e mezzo sono stati registrati nello stesso continente.
Se è vero che attualmente il numero di persone in cura e che ricevono i trattamenti antiretrovirali G (Arv G) è enormemente cresciuto fino ad arrivare agli odiei quattro milioni, è anche vero che, come riporta l’agenzia delle Nazioni Unite per la lotta all’Aids, l’Unaids, per ogni due persone che iniziano un trattamento Arv cinque contraggono il virus, che i servizi di prevenzione non riescono a raggiungere tutti coloro che ne hanno bisogno e che oltre la metà dei dieci milioni di sieropositivi che hanno urgente bisogno di cure non hanno accesso ai trattamenti Arv.
Sebbene le realtà africane presentino differenze non trascurabili tra di loro, in linea di massima le difficoltà che i missionari segnalano hanno una serie di tratti in comune. Tra questi:
– La resistenza dei pazienti a sottoporsi al test G per timore di scoprirsi sieropositivi e quindi venir esclusi dal contesto sociale nel quale vivono. La maggior parte delle persone che si sottopongono al test lo fanno perché sono già malate o perché i sintomi della malattia si sono già manifestati.
– La distanza dall’ospedale. Spesso per i malati che dovrebbero accedere alla terapia con Arv il costo del viaggio per recarsi fisicamente a ricevere il trattamento è troppo elevato oppure i pazienti sono in condizioni di debilitazione tali da impedire loro di muoversi.
– Ancora, l’effettiva disponibilità dei farmaci Arv non è sempre costante. Infatti, sebbene sulla carta in molti paesi – anche in Africa – le cure e i trattamenti siano gratuiti e foiti dalle autorità sanitarie pubbliche, le strutture sanitarie che li offrono spessissimo ne sono sprovvisti.
– Infine, nutrizione. L’apporto nutrizionale che deve combinarsi con la terapia Arv ha, per molti pazienti e le loro famiglie, costi proibitivi.
Questi fattori causano spesso una discontinuità di trattamento che rischia di creare resistenza ai farmaci di prima linea (cioè quelli più diffusi ed economici) nei pazienti. A quel punto la terapia richiede, per essere efficace, che si passi a farmaci di seconda linea, che sono molto più costosi. È stato stimato che il 5% di pazienti in trattamento di seconda linea sul totale dei pazienti in trattamento nei Paesi del sud del mondo potrebbe costare, da solo, ben un quarto dei fondi a disposizione per le cure.
Dal pregiudizio alla cura: l’impegno dei missionari della Consolata
Nel corso degli anni, i missionari della Consolata hanno seguito l’evolversi della pandemia, ne hanno appreso le dinamiche e si sono organizzati per venire in soccorso dei malati e prevenire il diffondersi dell’infezione.
In ambito strettamente sanitario, i progetti dei missionari della Consolata legati alla prevenzione e cura dell’Hiv sono numerosi in tutti i paesi del sud del mondo in cui operano. Le attività più strutturate si svolgono ovviamente nei grandi ospedali che i missionari gestiscono in Africa.
L’ospedale di Ikonda, in Tanzania, il cui amministratore è p. Sandro Nava, ha un ambulatorio specializzato su Hiv/Aids che fornisce servizi di vario tipo (test, assistenza psicologica e nutrizionale, terapie, eccetera) a una media di 14.000 persone l’anno. In particolare, 1.800 pazienti sieropositivi, tra i quali molti bambini, sono costantemente monitorati e, di questi, oltre 500 ricevono la terapia Arv. Delle oltre mille donne che ogni anno partoriscono a Ikonda, quelle sieropositive possono usufruire di un servizio di prevenzione della trasmissione da madre a figlio, mentre dei 2.000 pazienti che beneficiano di assistenza alimentare la maggioranza è composta da malati di Hiv. Nell’ospedale, sotto la direzione del professor Gerold Jaeger prestano la loro opera circa 15 tra medici, infermieri, laboratoristi e assistenti sociali.
L’ospedale Nostra Signora della Consolata di Neisu, nella Repubblica Democratica del Congo, al quale sono collegati 11 centri sanitari e dispensari anche questi gestiti dai missionari della Consolata, serve un bacino di utenza di oltre 50.000 persone, seguendo quasi 6.000 i pazienti affetti da Hiv e tubercolosi. È in corso un progetto di gemellaggio con l’Ospedale Salvini di Milano, cornordinato dalla dottoressa Barbara Terzi con la collaborazione dell’amministratore p. Richard Larose, per incrementare il numero di malati di Aids assistiti e per incominciare il servizio per la prevenzione della trasmissione del virus Hiv da madre a bambino. Infatti su 1.500 donne che ogni anno partoriscono all’ospedale o ai centri sanitari collegati, circa un centinaio sono sieropositive.
Ancora, a Wamba, in Kenya, il personale del Catholic Hospital, gestito dalla diocesi di Maralal con i missionari della Consolata, ha effettuato circa 3.500 test per Hiv nel periodo 2007-2008 riscontrando una prevalenza Hiv che sfiora quasi il 10% (i sieropositivi sono risultati 325, di cui 189 donne) e tra il 2003 e il 2008 l’ospedale di Wamba ha messo in terapia Arv 130 persone.
Infine, l’Ospedale di Gambo, in Etiopia, funge da «centro sentinella» nell’ambito di un programma nazionale di prevenzione dell’Hiv e ha 67 pazienti in terapia Arv. Dal 2007, sotto la direzione di Fratel Francisco Reyes e dei suoi collaboratori, ha iniziato un programma di screening ante e post natale sulle donne incinte.

Oltre gli ospedali
Al di là dei servizi foiti negli ospedali e nei numerosi centri sanitari e dispensari, che prevedono anche il trattamento di malattie opportunistiche (in particolare la tubercolosi), le strutture sanitarie della Consolata svolgono un intenso lavoro di sensibilizzazione e educazione sanitaria su come evitare il contagio da Hiv e, per i malati, su come ottenere assistenza medica. I quattro ospedali da soli eseguono visite ambulatoriali che sommano a circa 130 mila e il complessivo bacino d’utenza è pari ad almeno cinque volte tanto: questo significa che con attività di sensibilizzazione efficaci che prevedano una collaborazione fattiva della popolazione locale, è possibile raggiungere svariate decine di migliaia di persone, che aumentano ulteriormente se si aggiungono le attività di formazione realizzate nelle parrocchie.
Oltre agli interventi sanitari in senso stretto, i missionari della Consolata, spesso in collaborazione con le missionarie, gestiscono diverse attività che hanno a che fare con l’assistenza ai malati in termini di accoglienza, nutrizione, istruzione.
Un esempio sono certamente la Casa Siloé e Lar Suzanne, strutture aperte negli anni Novanta a San Paolo del Brasile per ospitare circa trenta bambini e una decina di adulti. Non si tratta di strutture ospedaliere, bensì di luoghi dove i pazienti risiedono e vengono seguiti in un’atmosfera simile a quella che si instaura in una vera e propria famiglia. Nei centri per i bambini lavorano dieci persone a tempo pieno, per dare continuità e sicurezza ai piccoli, e centoventi volontari che aiutano in lavanderia e nella pulizia dei locali, portano i bambini a scuola o all’ospedale, li intrattengono nel doposcuola e li fa giocare. Il trattamento medico avviene in stretta collaborazione con l’ospedale governativo, che prescrive e fornisce gratuitamente tutte le medicine da somministrare ogni giorno.
Altro esempio di iniziative come questa sono le attività di sensibilizzazione realizzate ad esempio a Neisu attraverso i Co.Sa., i comitati sanitari di villaggio. Grazie alla formazione che i membri dei comitati ricevono dal personale dell’ospedale di Neisu nel corso di varie sessioni di educazione sanitaria, i Co.Sa. possono fare da «moltiplicatore», diffondendo informazioni corrette sulla prevenzione dell’Hiv una volta rientrati ai loro villaggi.

Lotta all’Aids
e buona sanità di base
La rete di ospedali, centri sanitari e dispensari è fondamentale nel lavoro di lotta all’Aids, così come cruciali sono anche tutti quegli interventi con le comunità locali per fare informazione, educazione, prevenzione.
Oltre alle attività legate specificamente all’Hiv, determinante per garantire l’efficacia degli interventi è il fatto che ogni intervento di cura e trattamento per l’Aids viene innestato su una struttura sanitaria solida e funzionante. I missionari della Consolata, infatti, inseriscono i loro programmi di lotta alla diffusione dell’Hiv e di cura dell’Aids nell’ambito di complessi sanitari dove ad essere garantiti non sono solo i servizi relativi a Hiv/Aids ma anche l’assistenza sanitaria relativa ad altre patologie e, soprattutto, l’assistenza sanitaria di base.
Questo aspetto risulta tanto più rilevante se si traccia un bilancio degli interventi realizzati dalle grandi agenzie umanitarie inteazionali e dalle Ong: dopo anni di campagne e progetti di lotta all’Hiv, infatti, è emerso in modo abbastanza evidente che spesso uno degli elementi che mina alla radice l’efficacia degli interventi di lotta all’Hiv nei paesi del sud del mondo è proprio l’inadeguatezza delle strutture sanitarie di base. Un intervento di cura e trattamento Aids, se non inserito all’interno di una struttura operativa in grado di fornire servizi sanitari di base, rischia non solo di non portare ai risultati sperati, ma di compromettere il funzionamento della struttura stessa: si rischia, per fare un esempio, di fornire farmaci Arv senza essere in grado di curare una banale ferita infetta o un’infezione intestinale.
Difatti i finanziamenti per la lotta all’Hiv finiscono a volte per fagocitare la sanità di base: in molti paesi del sud del mondo il lancio di un progetto in grande stile concentrato su Hiv/Aids rischia di distogliere il già scarso numero di personale sanitario disponibile dalle sue normali funzioni per specializzarsi ed operare esclusivamente sull’Aids, trascurando quindi quello che è la routine sanitaria. Si forma così, di fatto, un vero e proprio sistema sanitario «parallelo», regolato da logiche non sempre in linea con le priorità definite dai governi nazionali, con finanziamenti comunque insufficienti, spesso poco equilibrati e eccessivamente concentrati su un unico ambito sanitario. Ci si trova, nel concreto, a vivere il paradosso di strutture dove il reparto Hiv/Aids è abbastanza ben strutturato, attrezzato e seguito da personale specializzato mentre gli altri reparti mancano perfino delle più elementari attrezzature e del minimo di personale che servirebbero a farli funzionare in maniera sufficiente. Si assiste quindi a una distorsione nell’erogazione del servizio sanitario e a una competizione tra interventi di lotta all’Hiv e sanità di base, mentre i due ambiti dovrebbero essere in cornordinamento e sostenersi l’un l’altro.

L’altra faccia della lotta all’Hiv
Date le considerazioni precedenti, è evidente che un programma efficace di lotta all’Hiv/Aids non può più prescindere dal miglioramento delle condizioni socio – economiche rispetto alle quali l’Hiv/Aids è solo la punta dell’iceberg. Non basta quindi ampliare l’accesso ai servizi per la distribuzione di medicinali; occorre innanzitutto rafforzare i sistemi sanitari di base in modo che siano efficienti, accessibili per tutti e gratuiti.
Sono poi necessari interventi sociali che mettano i malati nella condizione di superare le difficoltà che limitano il loro accesso alle cure, come i già menzionati costi per il cibo o i trasporti, ed evitino la discriminazione sociale.
Dovrebbe, inoltre, essere garantito anche un servizio domiciliare di cura, non solo per chi abita troppo lontano dai centri sanitari, ma anche per chi questi centri non li può raggiungere per motivi di salute. Purtroppo, in quasi tutti i paesi del sud del mondo, e in Africa in particolare, questi servizi di cura domiciliare sono previsti ma, per mancanza di fondi, non sono effettivamente disponibili e la maggior parte dei pazienti che non può recarsi nelle strutture sanitarie non riceve alcun trattamento. I costi per formare gli operatori domiciliari, decisivi specialmente nel trattamento delle infezioni opportunistiche, non sono così elevati e, comunque, inferiori a costi derivanti dal sottrarre personale medico alla sanità di base per destinarla ai progetti di lotta all’Hiv.
Infine è necessario costruire una rete di operatori che possa far sì che i messaggi sulla prevenzione raggiungano i destinatari e, soprattutto, che possa informare le persone sieropositive che esistono servizi presso i quali ricevere cure e trattamenti. Non solo. Oltre a informare, occorre anche invogliare i pazienti a far uso dei servizi offerti, mettendoli in condizione di superare i pregiudizi e il timore che la loro condizione di sieropositività, una volta dichiarata, possa finire per isolarli dalla loro comunità.
Le cliniche mobili, la costruzione di centri sanitari periferici, la formazione di responsabili sanitari comunitari e il lancio di progetti «paralleli» (microcredito, micro – progetti agricoli, formazione professionale e simili) sono alcuni dei mezzi attraverso i quali i missionari della Consolata cercano di ovviare alle difficoltà socio – economiche che impediscono a un paziente di fruire effettivamente dei servizi relativi all’Hiv/Aids a causa della propria condizione di indigenza.

Hiv, un’emergenza per tutte le stagioni
Elemento che desta preoccupazione quando si riflette sulle logiche che regolano gli interventi nel sud del mondo è la «riciclabilità» dell’Hiv/Aids come tema su cui si concentra la cooperazione internazionale in mancanza di emergenze più attuali: «L’Hiv non va più di moda, quest’anno: adesso che è finito lo tsunami è il cambio climatico il più gettonato», commentava qualche anno fa con amaro sarcasmo una funzionaria internazionale, constatando le fluttuazioni anche brusche dell’attenzione della comunità internazionale.
Così come «passa di moda» in fretta, altrettanto repentinamente l’Hiv/Aids torna alla ribalta, attraverso gli appuntamenti annuali come la giornata mondiale di lotta all’Hiv (1° dicembre) e anche per effetto di campagne estemporanee lanciate da istituzioni inteazionali e Ong. Ma il problema rimane, anche quando non sta sulle pagine delle riviste o nei documentari trasmessi alla televisione e il modo più efficace di affrontarlo spesso parte dalla lotta alla povertà e all’ingiustizia prima ancora che all’Hiv/Aids.

Chiara Giovetti e Marco Simonelli

Chiara Giovetti e Marco Simonelli




Piccolo popolo, tanti primati

Samariani: pochi, ma «buoni»

Fenomeno più unico che raro, i Samaritani sono sopravvissuti come entità etnica e religiosa a difficoltà e persecuzioni secolari; il loro numero può apparire insignificante; le loro tradizioni sembrano più attrazioni turistiche che espressioni di fede; eppure hanno una forte ambizione: fare da ponte nel conflitto israelo-palestinese… Anche perché, per sopravvivere, hanno bisogno di pace soprattutto.

«Siamo la più antica e la più piccola nazione e setta religiosa del mondo. Per questi e altri primati potremmo entrare in molte pagine del Guinnes of Records – esordisce Husney W. Kohen, fondatore e direttore del Museo dei Samaritani a Kiryat Luza, villaggio sulla dorsale del monte Garizim -. Tre mila anni fa i Samaritani erano 3 milioni; nel medioevo erano un milione e 200 mila; nel 1917 contavano appena 146 persone. Oggi sono 729 (1° gennaio 2010); metà vivono sul monte Garizim, il resto a Holon presso Tel Aviv».
Elegante nella sua lunga veste grigia, 66 anni, Husney Kohen si presenta come uno dei 12 sacerdoti custodi della fede dei Samaritani e, sottolineando il suo lignaggio, spiega l’albero genealogico: «Da Adamo a me ci sono 162 generazioni; da Aronne, fratello di Mosè, 132 generazioni».
LE ORIGINI
«Abbiamo anche il calendario più antico del mondo – continua Kohen mostrando un almanacco con le cifre 3647-3648 -. Questi sono gli anni trascorsi da quando gli ebrei passarono il Giordano, entrarono nella terra di Canaan e rinnovarono l’alleanza qui a Sichem (oggi Nablus), secondo il comando di Mosè:  “Quando il Signore tuo Dio ti avrà condotto nella terra che vai a conquistare, tu porrai la benedizione sul monte Garizim e la maledizione sul monte Ebal” (Deut 11,29)».
E così avvenne, come si legge nel libro di Giosuè: tutte le tribù schierate attorno all’arca dell’alleanza, metà voltate verso il monte Garizim pronunciarono le benedizioni per gli osservanti della legge; metà rivolte al monte Ebal lanciarono le maledizioni contro i trasgressori (Cf Gios 8,33).
Nella regione che prenderà il nome di Samaria rimasero i discendenti di Efraim e Manasse, figli di Giuseppe, e alcuni della tribù di Levi, mentre le altre continuarono la conquista del territorio sotto la guida dei giudici e poi della monarchia. Per 270 anni esse condivisero la stessa storia; seguirono due secoli di storia parallela, in seguito alla divisione (930 a.C.) tra regno di Giuda al sud, con capitale Gerusalemme, e regno d’Israele al nord, con capitale Sichem e poi Samaria.
La separazione politica divenne anche divisione religiosa, a partire dal 722 a.C., quando il regno del nord fu distrutto dagli Assiri e una parte della popolazione (27.290 secondo gli annali dei vincitori) fu deportata e sostituita con coloni della Mesopotamia, provenienti soprattutto da Cutha, che si mischiarono ai 60 mila israeliti rimasti sul luogo. La mescolanza etnica e culturale, con relativo sincretismo religioso, provocò il rigetto da parte dei giudei del sud verso i Samaritani, chiamati con disprezzo «cutheani», cioè gente di sangue misto e semi-pagana.
In realtà, i Samaritani continuarono a ritenersi parte del popolo ebraico e nel 538 a.C., quando i giudei esiliati a Babilonia tornarono a Gerusalemme, i Samaritani offrirono il loro aiuto per ricostruire il tempio e officiarlo insieme, ma furono respinti brutalmente, perché considerati razzialmente impuri. Per questo, nel IV secolo a.C., i Samaritani costruirono il proprio tempio sul monte Garizim, il luogo in cui, secondo il loro credo, erano avvenuti diversi eventi significativi della storia dei patriarchi e del popolo israelitico. Si consumava così lo scisma tra le due popolazioni.
Non passarono due secoli e il tempio fu raso al suolo, nel 128 a.C., dal re di Giuda, Giovanni Ircano, nel tentativo di sottomettere i Samaritani alla tradizione gerosolimitana, portando al culmine, invece, l’incomunicabilità, l’ostilità e l’odio tra giudei e samaritani. E questo era il clima che si respirava al tempo di Gesù (vedi riquadro).
Nei secoli seguenti, con il susseguirsi nella terra santa di varie dominazioni  – romana, bizantina, islamica, turca – i Samaritani sperimentarono momenti di pace alternati a periodi di oppressione e persecuzione, in cui essi furono costretti alla conversione o alla diaspora. Così il loro numero si assottigliava costantemente, fino a raggiungere il minimo storico di 146 persone, grazie anche a una tremenda epidemia scoppiata a Nablus alla fine della guerra mondiale, quando i turchi lasciarono la Palestina.
IDENTITÀ
«Da oltre tre millenni abitiamo in questo luogo; siamo il resto dell’antico regno d’Israele, ci riteniamo e definiamo Bene-Yisrael, figli d’Israele. Siamo i veri israeliti» afferma Husney Kohen in polemica con una corrente storiografica che definisce i Samaritani una setta staccatasi dal giudaismo nel periodo del 2° tempio (538 a.C.-70 d.C.), e continua: «Contrariamente a quanto capita per la maggior parte dei popoli, non è la Samaria a dare il nome ai suoi abitanti, ma il contrario: il termine samaritani deriva infatti dall’ebraico “shamerim”, che significa “custodi, osservanti” dell’insegnamento di Mosè».
Mentre parla, Kohen si avvicina a una parete ricoperta da un drappo rosso con scritte ricamate in oro; rimuove un velo rosso e apre un rotolo di pergamena avvolto in un panno di seta verde, ugualmente ricoperto da una fitta scrittura ricamata in oro. Poi continua, sciorinando altri primati: «Questo è il più antico libro del mondo, il Pentateuco, i cinque libri della Torah, l’unica nostra legge, tramandataci da Mosè. Questo codice è di 150 anni fa, ma ne abbiamo un altro che risale a sei secoli fa, ma non viene mostrato al pubblico; già una volta hanno tentato di rubarlo, quando era nella sinagoga di Nablus. Molti musei vorrebbero comperarlo; il British Museum ha offerto una grossissima somma solo per custodirlo ed esporlo al pubblico, ma non possiamo privarci del nostro tesoro più prezioso».
Oltre al contenuto, la preziosità del codice sta nella sua rarità: è scritto in ebraico antico, con un alfabeto precedente a quello attuale a lettere quadrate, adottato dagli ebrei dopo l’esilio sotto l’influsso della scrittura babilonese. «L’ebraico antico è la madre di tutte le lingue del mondo» continua Kohen, indicando una riproduzione delle lettere dell’alfabeto e spiegando come ognuna di esse corrisponda a un membro del corpo umano.
Il Pentateuco samaritano, la cui redazione è attribuita dalla tradizione ad Abisha, pronipote di Mosè, contiene oltre 7 mila differenze rispetto al testo ebraico masoretico. Per lo più sono diversità ortografiche, ma alcune anche di contenuto «teologico», come la questione del luogo della presenza di Dio. In 22 versetti del Deuteronomio, la versione samaritana usa il verbo al passato: «Nel luogo che l’Onnipotente ha scelto»; mentre la redazione masoretica usa il futuro: «Nel luogo che l’Onnipotente sceglierà» (Dt 16,11).
La differenza è cruciale: per i Samaritani tale scelta è avvenuta ancor prima dell’entrata nella terra promessa ed è il Garizim, unico monte della terra d’Israele espressamente consacrato nel Deuteronomio quale luogo delle benedizioni (Dt 11,29), luogo dove Abramo e Giacobbe hanno costruito altari. Per i giudei, invece, il verbo al futuro esprime solo l’annuncio della scelta, che si realizzerà al tempo di David e Salomone (1000-930 a.C.) e cadrà sul monte del tempio a Gerusalemme.
Un’altra differenza riguarda la redazione del decalogo (Es 20,1-14). Nel testo samaritano il primo comandamento è: «Non avrai altri dei…» (secondo nella versione masoretica); il decimo ordina di costruire un altare sul monte Garizim, comandamento assente nel testo masoretico.
Il luogo del culto è sempre stato il pomo della discordia, da quando Eli scippò al Garizim l’arca dell’alleanza e la trasportò a Silo, fino al tempo di Gesù, come appare dalla domanda della donna samaritana: «I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». E rimane tutt’ora la principale discriminante tra la fede dei Samaritani e quella degli Ebrei, come si apprende dalle labbra stesse di Kohen: «Inutile che certi Ebrei cerchino di ricostruire il terzo tempio a Gerusalemme, quando Dio ha scelto il Garizim».
CREDO E FESTE
«I Samaritani sono guidati da quattro principi di fede – continua -: un solo Dio, il Dio d’Israele; un solo profeta, Mosè figlio di Amran; un solo libro sacro, il Pentateuco, la Torah trasmessa da Mosè; un solo luogo sacro, il monte Garizim. Inoltre crediamo nella venuta del Taheb, “un profeta come Mosè” (cf Dt 18,15), un messia (cf Gv 4,25) della stirpe di Giuseppe e non di discendenza davidica, che verrà alla fine dei tempi, nel giorno della vendetta e della ricompensa».
Samaritani ed Ebrei hanno in comune la celebrazione di sette festività, quelle menzionate nel Pentateuco: la Pasqua con il suo sacrificio (vedi riquadro) per ricordare la liberazione dalla schiavitù in Egitto; la festa degli Azzimi, per sette giorni si mangia pane non lievitato; la festa delle Settimane (Shavuoth) o pentecoste; il primo giorno del Settimo Mese (Tishri), per ricordare l’entrata nella terra di Canaan; il Gioo dell’Espiazione (Yom Kippur); la festa delle Capanne (Sukkot), a ricordo delle abitazioni durante l’esodo, che si conclude con la festa della Gioia della Torah.
«In conseguenza della persecuzione islamica dei secoli passati – continua Kohen mentre mostra un grande plastico di frutta multicolore – i Samaritani costruiscono il sukkot in casa e non all’aperto come gli Ebrei. Comperiamo 3-400 chili di frutta della terra santa, la leghiamo a un graticcio di acciaio formando disegni fantasiosi e lo appendiamo al soffitto della stanza principale; l’ottavo giorno, la frutta è ridotta in succo per la delizia dei più piccoli, e non solo, per festeggiare la dolcezza della Torah».
Altri doveri del «buon samaritano» sono: vivere in terra d’Israele o almeno mantenervi la residenza; celebrare la pasqua sul monte Garizim; fare il pellegrinaggio al monte sacro tre volte l’anno (ultimo giorno degli Azimi, Pentecoste; primo giorno del Sukkot); osservare scrupolosamente le leggi della purità alimentare e del sabato. «In tale giorno – continua Kohen – non solo non facciamo alcun lavoro, ma non usiamo l’elettricità né rispondiamo al telefono, non usciamo di casa se non per andare a pregare nella sinagoga; tornati a casa leggiamo un capitolo della Torah».
PROBLEMI E LAMENTELE
«Siamo la popolazione più giovane al mondo – continua Kohen con un altro primato – ma abbiamo un grave problema: da oltre due secoli soffriamo la scarsità di spose, per cui i nostri uomini cercano donne di altre religioni. Attualmente un’ebrea, 5 cristiane provenienti da Russia e Ucraina, 3 musulmane da Turchia e Azerbaigian sono sposate con uomini samaritani di Kiryat Luza. Prima, però, sono state sottoposte a un periodo di prova, si sono convertite alla nostra religione e impegnate a osservarla».
Sono curioso di sapere come vengono combinati tali matrimoni. «Usiamo anche noi internet e facebook – risponde sorridendo -. Siamo molto religiosi, ma aperti al mondo moderno. I miei figli, due maschi e tre femmine, hanno studiato all’università: una giornalismo, un’altra economia e commercio, la terza informatica; un figlio gioca a pallacanestro».
Contro la sopravvivenza dei Samaritani congiurano anche altri problemi economici e sanitari. «La nostra gente ha spesso mal di testa» lamenta Husney Kohen. La causa è attribuita alle radiazioni elettromagnetiche emanate da 7 torri di comunicazione, costruite e gestite dal governo israeliano attorno al villaggio».
Da più di tre anni i Samaritani sopportano l’embargo al loro rinomato tahinia (crema di sesamo). «Il migliore al mondo» afferma Kohen. Israele ne impedisce l’esportazione per motivi di sicurezza, dicono; in pratica priva del lavoro una decina di famiglie».
Ma il problema più grave per il futuro dei Samaritani viene dalla situazione di guerra israelo-palestinese. I musulmani li considerano ebrei; gli ebrei li ritengono arabi; per questo si sentono spesso «tra l’incudine e il martello» e in passato hanno subito angherie da ambo le parti.
«Come abitanti di Kiryat Luza abbiamo la cittadinanza palestinese – spiega Kohen -; nella vita quotidiana parliamo l’arabo, ma il sabato e nelle feste usiamo l’antico ebraico e lo insegniamo ai nostri figli a scuola. In quanto credenti della Torah, abbiamo ricevuto la cittadinanza israeliana, come quelli della comunità di Holon, in territorio israeliano. Non siamo schierati da nessuna delle due parti. Anzi, molti di noi hanno la carta di identità palestinese, il passaporto israeliano e quello giordano, dato che fino al 1967 eravamo sotto il re della Giordania».
Con tale neutralità i Samaritani si propongono come intermediari tra Israele e Palestina; l’irrilevanza numerica favorisce la credibilità della loro mediazione, dal momento che non rivendicano alcun privilegio territoriale, ma solo la libertà di vivere secondo le proprie tradizioni. «Israeliani e palestinesi devono imparare dai Samaritani – conclude Kohen -. Anche noi vogliamo essere motivo di pace tra i due popoli. Senza pace sono a rischio Samaritani, Palestinesi e Israeliani. La guerra non serve a nessuno. Ma non può esserci pace senza riconoscere ai Palestinesi il diritto alla propria patria. Per questo noi lavoriamo e preghiamo. E anche ora prego Dio perché ci conceda la pace».
Che Dio lo ascolti.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Al voto… senza fretta

Il Paese si prepara alle elezioni

Dopo 50 anni di dittatura quasi ininterrotta, la giunta militare ha promesso libere elezioni.
Ma l’opposizione è divisa, movimenti etnici e spinte separatiste richiedono ancora la presenza dei militari nel governo: la piena democrazia è ancora un miraggio, ma il futuro sarà meglio del regime attuale.
Lo sperano tutti.

Da quando Win ha saputo che ero un giornalista, ho dovuto cambiare hotel. «Mi dispiace – si è scusato – ma è diventato troppo pericoloso tenerti qui tra i miei clienti. Alcuni funzionari hanno già fatto domande e mi hanno fatto capire che i tuoi articoli non sono piaciuti».  
Non che ne sia rimasto particolarmente sorpreso; padre Philip, sacerdote cattolico della cattedrale di St. Mary, mi aveva avvertito: «Ogni hotel che ospita stranieri ha almeno un informatore tra lo staff. Continuando a frequentare lo stesso albergo, prima o poi verranno a sapere chi sei».
Speravo che, scegliendo un alloggio da quattro soldi, riuscissi a mimetizzarmi, ma alla fine quel giorno è arrivato: ho fatto le valige e mi sono cercato un’altra stanza. Prima di andarmene, Win mi ha abbracciato sussurrandomi: «Spero che presto la situazione cambi: i militari non possono durare per sempre».
INCERTEZZE… CERTE
Per sempre no di certo, a lungo, invece, sì. Probabilmente Win, che si avvia verso la settantina, non riuscirà a vedere l’auspicato cambiamento. Prima, infatti, dovranno sparire i due generali che dominano la scena politica del paese: Than Shwe e Maung Aye. Entrambi sono malati e vecchi, è vero, ma da anni stanno manovrando l’Spdc (State Peace and Development Council), la giunta militare che governa la nazione, affinché alla loro dipartita poco o nulla cambi. Tutti e due sanno che in Myanmar non è mai accaduto che vi fosse un trasferimento di poteri pacifico. La loro unica preoccupazione, quindi, è trovare il modo di mettersi da parte volontariamente, preservando gli interessi economici e politici delle loro famiglie.
Nel frattempo tutto rimane come sospeso. Il futuro del Myanmar rimane drammaticamente certo nelle proprie incertezze. È certo che nel 2010 si terranno le elezioni generali, ma non è ancora dato sapere quando verranno aperte le ue. È certo che i militari continueranno ad avere un ruolo fondamentale nel governo del Paese, ma non si sa chi sarà chiamato a gestirlo. È certo che Aung San Suu Kyi non potrà ricoprire cariche istituzionali, ma non si sa se il governo manterrà la promessa di liberarla a novembre. È certo, infine, che la popolazione non si aspetta rivelazioni clamorose dai risultati elettorali, ma non è chiaro in quale verso muterà la situazione sociale ed economica.
«L’insicurezza rende tutto più difficile da affrontare – racconta Htway, uno studente universitario di Yangon -. È frustrante osservare che tutte le speranze di una rinascita vengono spente quando incominciavamo a credere nel cambiamento».
Zeya, sua amica, aggiunge: «A questo punto preferirei sapere che niente cambierà in Myanmar. Almeno avrei una certezza su cui costruire la mia vita. Non voglio più lottare per un’illusione».
C’È POCO DA RIDERE
Non tutti, per fortuna, la pensano come Zeya.
A Mandalay, ad esempio, U Pa Pa Lay e U Lu Zaw, in arte The Moustache Brothers, da anni sfidano la censura rappresentando ogni sera, in una stanzina di tre metri per quattro, uno spettacolo satirico che mette in ridicolo la giunta militare. La popolarità riscossa tra i turisti in visita nella vecchia capitale, ha contribuito a proteggerli da eventuali rappresaglie.
La fama nazionale, invece, non è servita al dentista U Maung Thura, più noto con il soprannome di Zarganar, la cui comicità, più pungente e diretta, non ha riscontrato, tra gli stranieri, lo stesso entusiasmo riscosso dai Moustache Brothers. Questo è stato sufficiente perché i suoi denti fossero spaccati dalle spranghe dei militari. «Oramai sono un dentista senza denti. Chi andrebbe a farsi curare da un dentista che ha perso tutti i suoi denti?» ha scherzato qualche anno fa, quando l’ho incontrato poche settimane prima che fosse di nuovo rimesso in prigione.
Le sue battute restano memorabili e vengono ancora sussurrate nelle serate conviviali e goliardiche: «In Birmania i dentisti non hanno lavoro perché nessuno osa aprire bocca»; oppure la famosa storiella di tre ragazzini che si ritrovano a raccontare le gesta dei loro parenti: un cugino senza braccia che ha attraversato a nuoto l’Ayeyarwady, un fratello senza gambe che ha scalato la montagna più alta del paese, risultano ben poca cosa rispetto allo zio del terzo ragazzino che «pur essendo senza testa, governa un’intera nazione!».
ELEZIONI A SORPRESA
Eppure, anche se l’orizzonte sembra cupo, qualche timido raggio di sole sembra si stia infiltrando tra le nubi. Le elezioni, ad esempio, che dopo l’amara esperienza del 1990 il governo cercherà di manipolare, sono pur sempre una tappa verso quella «road map to democracy» disegnata dalla giunta per ridare al Myanmar una parvenza di partecipazione popolare alla gestione del potere.
«I generali vogliono evitare di ripetere l’esperienza traumatizzante delle elezioni del 1990, quando la Lega nazionale per la democrazia (Lnd) conquistò la maggioranza assoluta dei voti – spiega Sean Tuell, professore di Economia alla MacQuarie University di Sydney -; per questo la data sarà comunicata il più tardi possibile per non lasciare ai partiti tempo di organizzarsi.
Nel 1990, infatti, il regolamento per la registrazione era stato promulgato venti mesi prima la scadenza elettorale e i candidati dell’opposizione avevano avuto la possibilità di compiere una sorta di campagna elettorale, conquistando così la fiducia di gran parte della popolazione. La Lega nazionale per la democrazia, il partito di Aung San Suu Kyi che nel 1990 aveva ottenuto la maggioranza assoluta dei voti, ha deciso di non partecipare alle consultazioni. La dichiarazione di astensione di Aung San Suu Kyi, nasconde però la realtà di un dibattito interno alla Lnd, che rimane fortemente diviso tra chi vorrebbe comunque aderire alle elezioni e chi, invece, è contrario.
Win Tin, uno dei leader storici del partito, ha criticato l’inviato speciale del segretario generale delle Nazioni Unite, Ibrahim Gambari, per aver incoraggiato il governo birmano a organizzare le elezioni del 2010 in modo accettabile per la comunità internazionale. «Non è la comunità internazionale che deve essere accontentata, ma è il popolo birmano» ha giustamente replicato Win Tin.
Tre erano le condizioni imposte dalla Lega nazionale per la democrazia affinché avesse potuto prendere in considerazione un suo coinvolgimento: il rilascio di tutti i prigionieri politici, la riforma della Costituzione approvata nel 2008 in un referendum farsa e la supervisione internazionale del voto.
«L’unico punto accettabile per i militari sarebbe stato il terzo – risponde Bertil Lintner, giornalista svedese che, da Bangkok, segue le vicende birmane -. Degli altri due, solo la liberazione dei prigionieri politici può essere messa sul tavolo delle trattative dalla giunta».
PER STRADE DIVERSE
Nel frattempo le fratture intee alla Lnd si sono allargate, sancendo la spaccatura del partito lungo la crepa di chi segue la linea della dirigenza storica, capeggiata da Aung San Suu Kyi e Win Tin, e chi, invece, preferisce cogliere l’occasione di intrufolarsi nello spiraglio di democrazia che le elezioni lasciano trasparire. Sarà quindi interessante vedere quale posizione prenderà il bacino elettorale democratico: si asterrà o piuttosto dirotterà il proprio voto sui membri della Lnd che, in dissidenza con la Signora, hanno deciso di partecipare alle consultazioni?
In attesa di un verdetto, alcuni leaders si sono già mossi: il National Unity Party, il partito emanazione del vecchio Burma Socialist Programme Party che nel 1990 aveva avuto il 22% dei voti, è sceso in lizza in una nuova veste, meno legata ai militari. Il Democratic Party di Thu Wai e la Graduated Old Student Democratic Association, di idee democratiche, ma critici verso la Lnd, uniranno le proprie forze e anche Sandar Win, figlia di Ne Win, sembra voglia formare una propria lista.
Nelle aree tribali, dove la Lnd e l’icona di Aung San Suu Kyi non sono così inossidabili come nelle regioni Bamar, i movimenti si stanno muovendo l’uno per contro proprio. Per molti di loro, la nuova costituzione assicura una partecipazione alle decisioni locali maggiore di ogni altra precedente, compresa quella del 1947, garantendo la costituzione di sei regioni autonome per i Wa, i Naga, i Danu, i Pa-O, i Pa Laung e i Kokang e la rappresentanza nei governi locali di 135 etnie. «Tutti i gruppi etnici con una popolazione maggiore di 57 mila unità hanno diritto ad avere un loro rappresentante – contesta Pu Cin Sian Thang, portavoce del United Nationalities Alliance, una coalizione di dodici partiti etnici contrari alla costituzione – ma non c’è alcun censimento che attesti la popolazione. Su che base potremmo rivalerci di questo diritto?».
Il Karen National Union, che già aveva rigettato la costituzione del 1947 scegliendo la via della completa indipendenza, ha ribadito il rifiuto di partecipare alle prossime elezioni, a differenza di altri gruppi etnici, come i Kachin, che negli ultimi vent’anni hanno concluso accordi di cessate il fuoco con Naypyidaw, la nuova capitale del Myanmar.
«Dobbiamo difendere i nostri diritti e la costituzione approvata nel 2008, pur con i suoi difetti, contiene dei semi di democrazia. È per questo che abbiamo deciso di partecipare alle elezioni» mi dice James Lum Dau, vice ministro degli Esteri del Kachin Independence Organization e uno dei fondatori del Kachin State Progressive Party.
PROBLEMI A VENIRE
I maggiori problemi, però, nasceranno dopo che i risultati avranno stabilito quale governo dovrà imporre la legge nel paese. Con il 25% dei seggi riservato ai militari, i generali continueranno ad avere un ruolo attivo nella politica del Myanmar, ma per la prima volta dal 1962 ai civili verranno aperte alcune nuove opportunità.
«L’appoggio dei militari sarà comunque indispensabile per approvare gli emendamenti – spiega un giornalista birmano – ma un 25% è sempre meglio che un 100%».
In effetti, alcuni analisti hanno fatto notare che la soglia voluta dai militari potrebbe essere un primo passo di una transizione indolore verso un governo democratico e civile, visto che un improvviso ritiro del Tatmadaw (l’esercito birmano) da ogni forma di potere, potrebbe far piombare il paese nel caos e in una sanguinosa guerra civile con la periferia. È anche per questo che le nuove autorità avranno il difficile compito di disarmare quei gruppi etnici che, nonostante abbiano firmato l’armistizio, continuano ad avere propri eserciti.
Per rendere più accettabile la smobilitazione, la costituzione birmana prevede la formazione delle cosiddette «Forze di guardia alle frontiere». Le armi non saranno più rivolte verso l’interno e verso i soldati del governo centrale, bensì verso l’esterno e usate contro altri gruppi etnici ribelli (cosa, del resto, che già accade). Il problema è che sino ad ora nessuno, tranne il Democratic Kayin Buddhist Army, ha accettato la proposta.
Uno dei punti principali su cui ci si confronterà, sarà l’elezione del presidente, che dovrà essere residente in Myanmar da almeno 20 anni (e quindi vengono esclusi tutti i dissidenti), non essere sposato con stranieri (in questo caso Aung San Suu Kyi, in quanto vedova, potrebbe essere eletta) e non avere figli con passaporto straniero (è questa la clausola che esclude la Lady dalla presidenza).
Anche qui, i militari hanno il diritto di presentare uno dei tre candidati che, quasi sicuramente, non sarà Than Shwe, notoriamente refrattario ai viaggi e agli incontri con stranieri, in particolare occidentali. Ma l’orgoglioso generale non ama neppure essere «comandato», men che meno da una figura, come quella del presidente, che potrebbe essere ricoperta da un civile. Si pensa, quindi, che i militari creeranno una posizione ad hoc, estea al governo, ma altrettanto autorevole; una sorta di Grande Leader o Leader Supremo.
Ed archiviato Than Shwe, rimane il numero due, Maung Aye, l’unico generale che non ha ancora trovato una collocazione nel dopo elezioni e, per questo, potrebbe rappresentare un pericolo nella stabilità nazionale. L’accantonamento di Maung Aye, infatti, porterebbe alla rovina tutta la sua famiglia e l’entourage.
Un’aperta rivolta all’interno stesso dei ranghi militari, potrebbe, inoltre, invogliare i gruppi etnici più refrattari a Naypyidaw, a riprendere la lotta per l’indipendenza. Un’eventualità, questa, che destabilizzerebbe l’intera regione sud orientale dell’Asia, chiazzata da migliaia di minoranze, le quali non si sono mai sottomesse ai governi centrali. Cina, India e Thailandia, in particolare, le nazioni confinanti con il Myanmar e che hanno tutte grossi problemi con le etnie tribali a ridosso delle proprie frontiere, non gradirebbero di certo un paese poco controllato.
La guerra d’Indocina con i suoi tragici lasciti non è ancora scomparsa dalla memoria delle diplomazie mondiali e poco più a ovest, l’Afghanistan è un preciso monito verso chi chiede democrazia senza avere le basi su cui costruirla.

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




«Sono un ribelle permanente»

Incontro con Adolfo Pérez Esquivel

Guerra e pace, economia e neoliberismo, risorse e multinazionali, governi e diritti umani. Tutti temi
su cui il premio Nobel per la pace ha posizioni nette, senza ambiguità. Un personaggio che confida nella forza della fede e della spiritualità. Un personaggio che, con identica sincerità, non ha paura di criticare Barack Obama o elogiare Fidel Castro.


Buenos Aires. Porta gli occhiali ed ha i capelli bianchi «sparati» alla Einstein.
Le pareti del suo ufficio presso la Fundación Servicio Paz y Justicia (Serpaj) dicono molto. Ci sono quadri: «Questa è una tappa della Via Crucis latinoamericana che dipinsi nel 1991»(1). Ci sono foto: immagini storiche e foto di incontri con religiosi e politici di ogni dove. «Qui sono con Fidel Castro, un uomo molto capace e solidale, a dispetto dei forti attacchi che subisce. È uno dei grandi statisti del nostro tempo». Lui si chiama Adolfo Pérez Esquivel, premio Nobel per la pace dell’anno 1980. Nato a Buenos Aires nel 1931, professore di architettura, pittore e scultore, Esquivel ha ricevuto il riconoscimento dell’Accademia svedese per la sua lotta durante la dittatura argentina, ma da allora – e sono ormai passati 30 anni – non ha mai smesso di lottare per affermare e difendere i diritti umani nel mondo.

Lei è premio Nobel per la pace come il presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Come si sente?
«Sono rimasto sorpreso – risponde con un sorriso -, ma gli ho inviato una lettera di complimenti.
Ho scritto ad Obama che mi aveva sorpreso la sua designazione, ma che ora, in quanto premio Nobel, doveva essere coerente, lavorando e lottando per la pace. Però, lamentabilmente, Obama ha subito una metamorfosi. Ogni giorno di più si sta mimetizzando con George Bush. Non può essere che installi 7 basi militari in Colombia, che concordi con la riattivazione della IV Flotta della marina, che mandi 30.000 soldati in Afghanistan in una guerra persa, aggiungendo morte e dolore alla vita di quelle genti. Inclusa a quella dei soldati Usa e della Nato che tornano morti o irrecuperabili per il resto dell’esistenza.
Queste sono le guerre dei paesi ricchi contro i paesi impoveriti. Sono guerre economiche e per l’appropriazione delle risorse naturali.
Se questa è la politica degli Stati Uniti e di Obama, niente ha a che vedere con la pace. Credo che la pace sia un’altra cosa. La pace è un progetto di vita. Obama ha un progetto di morte(2)».

Tuttavia, l’elezione di Obama ha generato molte speranze, soprattutto al di fuori degli Stati Uniti…
«Io capisco che Obama è arrivato al governo, ma non al potere. Una cosa è ciò che Obama può volere come persona, altra è ciò che può fare come capo di una potenza che gli impone condizioni. Lui è schiavo di alcuni centri di potere: il complesso militare statunitense, il Pentagono, la Cia, le grandi imprese multinazionali».

Lei insiste sempre molto sul ruolo che le imprese multinazionali hanno nella situazione mondiale.
«Le multinazionali non hanno frontiere e si muovono nel mondo in funzione di saccheggiare le risorse dei popoli. Le Nazioni Unite hanno lanciato un allarme sulla sovranità alimentare. Secondo la Fao, ogni giorno nel mondo muoiono di fame 35.000 bambini. Come si chiama questo?
Questa è la sfida che dobbiamo affrontare. Le grandi multinazionali lavorano sulle monocolture. Ma la natura non ha mai creato monocolture, ma diversità per generare l’equilibrio. Stanno distruggendo una creazione di Dio. Soltanto piantando il seme della solidarietà e del lavoro, si possono generare la pace e la vita».

Per tornare alla domanda iniziale, allora perché l’Accademia svedese ha assegnato il premio Nobel per la pace a Barack Obama?
«Francamente non lo so. Come – a dire il vero – non so perché lo diedero a me. Credo che si sbagliarono anche nel mio caso. Perché io sono un ribelle permanente di fronte alle ingiustizie.
Sì, un ribelle, ma nella speranza».

La chiesa, la fede,
la speranza

Un ribelle di base cristiana…
«Sì, io ho una base cristiana, che
per me è fondamentale. La mia fonte è il vangelo. Io sono cresciuto con i francescani. E seguo molto quella spiritualità, come quella di Charles de Foucauld».

Si dice spesso che la chiesa stia sempre con il potere…
«No, non la chiesa, ma la gerarchia e comunque non tutta. Guardate le pareti di questo ufficio… Lì sta Evaristo As, vescovo di San Paolo. Qui sta la foto di mons. Angelelli, un martire, assassinato dalla dittatura militare. Pensiamo a una figura come mons. Romero…
Io sono un uomo di meditazione e preghiera. Per me l’azione deve avere un retroterra trascendente. Ci sono valori e principi. Tutte le persone sono fratelli o sorelle, anche se sono miei nemici.
Quando si dice “ama anche il tuo
nemico”, cosa si sta dicendo? Di non fare loro danno, ma di cercare di trasformae il cuore.
Io sono un sopravvivente e l’unica
cosa che mi sostenne in quei momenti fu la fede. Quando, dopo 32 giorni in un calabozo(3) immondo (perché non entrava né luce né altro), aprirono la porta, vidi sul muro che un prigioniero precedente aveva scritto con il proprio sangue: “Dios no mata” (Dio non uccide). Questo è una testimonianza di fede profonda».

Ci dica qualcosa di più sulla sua prigionia durante la dittatura…
«Fui 14 mesi in prigione e quindi in libertà vigilata. Il 5 di maggio del 1977 mi presero e, incatenato, mi misero su un aereo della morte che volò alcune ore sul Rio de la Plata ed il mare. Alla fine decisero di non gettarmi fuori a causa delle forti pressioni inteazionali.
Debbo ringraziare Dio per essere
ancora qui a lavorare e a testimoniare. Dunque, come non si può avere fede? E non una fede distruttiva. Per me la fede è vita».

Si spieghi…
«Nel senso dell’allegria del vivere e non dell’angustia esistenziale. A volte la chiesa dice: “In questa valle di lacrime…”. Ma no, ciò che abbiamo è un mondo con ricchezze straordinarie da condividere. Le lacrime ci sono, ma sono la guerra, l’Iraq, l’Afghanistan, la fame, la povertà, i bambini a cui hanno rubato la speranza della vita».
A dispetto di tutto, lei parla ancora di speranza…
«Perché, nonostante tutto, abbiamo la capacità di trasformare la realtà. E questa è la speranza».

Un tribunale
per l’ambiente

Come presidente dell’Accademia internazionale di Scienze ambientali di Venezia, cosa pensa del recente vertice di Copenhagen?
«Credo che l’unica cosa che si è ottenuta a Copenhagen(4) è che non si è approvato nulla. Si è capito che c’è una guerra tra i paesi poveri o impoveriti e quelli ricchi, che vogliono appropriarsi delle risorse e che per questo mettono in campo gli eserciti, le forze multinazionali, l’Organizzazione mondiale, del commercio, il Fondo internazionale, la Banca mondiale…
Questo è il tragico.
Attraverso l’Accademia delle scienze di Venezia, di cui io sono presidente, abbiamo proposto la costituzione del Tribunale penale internazionale per l’ambiente e un Osservatorio internazionale sul comportamento ambientale delle imprese multinazionali che sono le principali responsabili della distruzione dell’ambiente.
Si pensi alle imprese minerarie o a quelle della soia. Si pensi alle imprese contaminanti del Nord che vengono mandate in America Latina, Africa ed Asia. Sono le multinazionali che si appropriano dei semi e se un contadino li usa, lo accusano di essere un delinquente».
E qui dove vede la speranza?
«Per esempio, il movimento dei
contadini senza terra dell’America Latina che si sta diffondendo anche in Africa e in Asia tentando in tal modo di stabilire dei vincoli Sud-Sud. Questi contadini vogliono la terra per lavorarla, non per sfruttarla; per dare vita, non per dare morte. Al contrario delle multinazionali che stanno distruggendo per guadagnare di più e in poco tempo. Altra cosa a cui occorre prestare molta attenzione è il movimento degli indigeni, che stanno recuperando la memoria e la lingua e che si stanno organizzando. Altro elemento importante sono i movimenti delle donne, che stanno avanzando in tutti i campi con la loro sensibilità, con il loro diverso modo di pensare. Sono leader straordinarie per le sfide che ci attendono».

L’uomo, la tecnologia e
l’accelerazione del tempo

A quali sfide si riferisce?
«Abbiamo avuto enormi progressi nel campo della scienza e della tecnologia, che ci hanno portato ad un processo di “accelerazione del tempo”. Ma in questa accelerazione noi abbiamo perso la capacità di analisi e il ritmo con la natura. Non abbiamo più tempo per guardare il sole, l’acqua, gli insetti. Siamo entrati in una dinamica che ci fa dimenticare di essere umani e ci fa diventare schiavi della tecnologia. Dobbiamo liberarci. Dobbiamo liberare la parola. In una parola, dobbiamo pensare».

È azzardato dire che spesso la gran parte dei media non aiuta a pensare?
«I mezzi di comunicazione non
stanno a servizio della gente, ma del potere. Non permettono di pensare e non informano, al contrario disinformano. E condizionano. Quando fui in Iraq, ci fu una strage di centinaia di bambini e mamme. La sola cosa che la Cnn disse è che due bombe intelligenti – perché adesso le bombe “pensano” – erano entrate per i canali di ventilazione di un bunker militare e avevano ucciso delle persone.
Una parola può essere tanto distruttiva come un’arma. E poi la menzogna, che è – come diceva Ghandi – la madre di tutte le violenze. Su una menzogna si sono fatte le guerre d’Iraq e di Afghanistan e praticamente tutte le guerre.
Oggi i mezzi di comunicazione ci
impongono il pensiero unico. Per questo, abbiamo necessità della ribellione sociale, politica e dello spirito. Per liberarci e per recuperare il senso di essere persone».

«Essere persone» sembrerebbe una ovvietà…
«Nel teatro greco, gli attori usavano maschere, che fungevano anche da amplificatore della voce. Quando si toglievano la maschera, gli attori smettevano di essere personaggi e tornavano ad essere persone. Nella nostra società ci sono persone che continuano ad essere personaggi e non si tolgono la maschera per paura di vedere se stessi. Sta capitando ai nostri politici, sta capitando ad Obama. Sta capitando a molti – politici, presidenti, premi Nobel – che si comportano come personaggi avendo paura di essere persone».

Ad ogni persona fanno capo dei diritti proprio in quanto persona. Lei ha combattuto per i diritti umani negli anni della dittatura. Com’è oggi la situazione?
«I diritti umani non sono soltanto
quelli per cui abbiamo combattuto contro la dittatura. Sono anche quelli economici, sociali e culturali. Sono quelli di educazione, di lavoro, di informare e di essere informato. Sono quelli della cosiddetta “terza generazione”, dove ad esempio si parla del diritto all’ambiente. In breve, i diritti umani sono integrali e indivisibili. Come la democrazia è indivisibile dai diritti umani».

Tutti parlano di diritti umani, ma alla prova dei fatti la realtà è spesso diversa…
«È vero. Ci sono governi che hanno firmato, ma che non hanno ratificato gli accordi. Per esempio, gli Stati Uniti che fino al giorno d’oggi non hanno ratificato la “Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia”(5). Come può essere che una grande potenza che si atteggia a difensore della democrazia si opponga?
Questo va molto al di là della volontà personale di Obama. È la politica degli Stati Uniti che impone la propria volontà al resto del pianeta. Ma tutto questo può terminare perché nessuna società è statica. Come i diritti umani che sono una dinamica permanente della vita. Una dichiarazione non è una lettera morta. C’è una dinamica nella società e nelle coscienze. Credo che nei prossimi anni assisteremo a cambi fondamentali.
Oggi c’è uno svuotamento di valori e  di contenuti, ma non dobbiamo disperare».

La fame in Argentina:
incredibile, ma vero

Come vede l’Argentina dopo gli anni del tracollo economico?
«È un paese ricchissimo, ma impoverito. E purtroppo non gli si permette di uscire da questa situazione di impoverimento. C’è una sorta di sottomissione.
Quando ci sono 10 milioni di persone in condizioni di povertà su un totale di 40, la situazione è allarmante. Quando, in un paese produttore di alimenti, muoiono di fame 25 bambini al giorno…».

Al giorno?
«Al giorno, al giorno, secondo dati ufficiali dell’Unicef. Ma la realtà è più drammatica. Il mio amico dom Helder Camara – che vedete in quella foto – raccontava che, quando egli dava un piatto di cibo ad un povero, si commentava: “Questo vescovo è un santo”. Ma quando cominciò a chiedere perché ci sono i poveri, l’opinione cambiava: “Questo vescovo è comunista”.
Non possiamo fermarci agli effetti, senza ricercare le cause. Perché c’è la povertà? Perché si espellono i contadini dalle campagne? Perché le imprese minerarie transnazionali si portano via tutti i minerali strategici? In tutto questo, c’è una grande complicità dei governi».

United Colours
of Benetton

Anche dell’attuale governo argentino?
«Del nostro governo attuale come dei precedenti. Insomma, dobbiamo domandare perché i poveri sono aumentati in un paese dove nessuno dovrebbe morire di fame. Dobbiamo attaccare le cause. Dobbiamo domandare perché si svende la terra ad un signore che voi conoscete bene…».

Si riferisce a Benetton?
«Benetton possiede più di un milione di ettari(6). E ha tolto 385 ettari ad una famiglia mapuche(7). Oltre ad essere immorale, questo è ingiusto. Ma quando protestiamo, dobbiamo anche fare una domanda: chi vendette questa terra a Benetton?».

Paolo Moiola

Paolo Moiola




«Ricostruire» la persona

La parola allo psicologo (missionario)

Padre Enzo Viscardi, missionario della Consolata, psicologo, è docente all’Università Cattolica di Milano. È al suo secondo viaggio ad Haiti (dopo il sisma) per lavorare sulla «rimozione del trauma» con seminaristi, preti e religiosi. Lo abbiamo incontrato a Lilavois, periferia di Port-au-Prince, dai missionari Scalabriniani.
«Si parla di disturbo post traumatico da stress. Il rischio maggiore è la non azione, l’incapacità di riattivarsi, restare a contemplare le macerie e non fare nulla. Poi ci sono reazioni tipo la disperazione o la negazione, per cui non vedi la situazione reale. Senza contare le varie conseguenze che si portano avanti nel tempo, come allucinazioni, ansie improvvise, difficoltà di rimanere in posti chiusi, fino a problemi fisici, come tremiti del corpo, ecc. Il fatto è che questi disturbi diventano cronici alcuni mesi dopo l’evento. Per questo l’intervento dovrebbe essere fatto all’inizio».
Lui e la sua équipe sono intervenuti a diversi livelli.
«Si parte dai dati scientifici che descrivono la realtà. Per questo abbiamo fatto interventi su cos’è il terremoto, come ci si può salvare, come gestire l’emergenza.
Dopo si fanno esempi concreti per dare loro il senso che si può ricostruire partendo dalle piccole cose. Se prendo un mattone un giorno e domani ne prendo un altro e lo metto sopra, dopo due giorni sarà ancora lì. Perché il senso che ti rimane è quello dell’inutilità di ricostruire, in quanto poi tutto sarà distrutto».
Poi si passa a terapie individuali e di gruppo.
«Questo consiste soprattutto nel far raccontare alla persona quello che ha vissuto, nei particolari. C’è bisogno di ricordare. Tra le conseguenze ci sono anche le amnesie. La gente non ricorda per negazione. Ha bisogno del racconto personale e l’ascolto del racconto degli altri, per questo i racconti si fanno in gruppo. Ha bisogno di ricollegare, rimettere insieme i pezzi di una situazione che è stata molto traumatica.
Chi subisce un trauma di questo genere, quando inizia a raccontare poi va avanti e fa uscire quello che ha dentro. Però non basta. L’intervento non si deve fermare al solo racconto ma si passa alla ricostruzione, quindi alla rimotivazione».
Dentro chi ha vissuto il terremoto nascono molte domande. Come mai io ero qui, mi sono salvato e la persona che era a cinque metri da me io l’ho vista morire? Come i seminaristi dei padri Camilliani, salvi nel parcheggio mentre i loro colleghi, già in macchina, venivano sepolti dalle macerie. E tantissimi altri casi.
«A queste domande si risponde in modo pericoloso, come: chi meritava di vivere o di morire … Di fronte a un’esperienza estrema come questa dove, come dice il Vangelo “uno viene preso e l’altro viene lasciato” occorre lavorare sul senso e sul significato di quello che è successo non solo a livello fisico ma di motivazione e senso della vita».
«Qui ad Haiti c’è stata la questione di chi ha mandato il terremoto. Dall’inizio l’interpretazione più frequente è legata al vudù. Oppure a Dio che “ci ha puniti un’altra volta per i nostri peccati”. L’immagine di Dio contro questo popolo sempre molto martoriato. L’intervento sui significati io l’ho fatto da prete, con celebrazioni, messe. Ho parlato della bontà del Padre che non è lì a decidere di fare il terremoto sui cattivi o sui buoni».
L’analisi di padre Enzo si spinge a scovare alcuni aspetti «positivi, se possibile» del terribile evento.
«Ci sono due o tre esperienze che la gente ha fatto, soprattutto i giovani.
Primo: si sono resi conto che il mondo li ha riconosciuti come popolo. Si sono meravigliati su come tutto il mondo si sia accorto di loro. Pensavano di non esistere.
Secondo: hanno capito che gran parte della distruzione è causa di come loro avevano costruito e urbanizzato la città.
Terzo: c’è la voglia di provare a ricostruire la società su basi diverse. è positivo il fatto di dire: “tutto è distrutto, possiamo riprovarci”. Altra cosa: all’inizio c’era una solidarietà tra di loro che non c’era mai stata. Questo è importante. Un’esperienza che non avevano mai fatto». Padre Enzo è ad Haiti anche per un altro progetto. Verificare la possibilità di una collaborazione tra l’Università cattolica di Haiti e quella di Milano: «È un’idea della Conferenza episcopale haitiana e ne abbiamo parlato con monsignor Louis Kebrau, vescovo di Cap Haitien, l’attuale presidente. Chiedono l’appoggio a nuovi leader in ambito amministrativo e politico» racconta padre Enzo. «Si potrebbe realizzare una convenzione tra università e poi organizzare diverse iniziative, iniziando ad esempio con un master in comune».

Marco Bello

Marco Bello




Due volte vittime

Chi gestisce il futuro del Paese

Dopo il terremoto la comunità internazionale si mobilita. Gli Usa inviano 20.000 marines e prendono in mano la situazione. Il governo haitiano si affida a esperti stranieri per il piano di ricostruzione nazionale. Quando avrebbe dovuto mobilitare le «forze vive» della nazione. Ma società civile e partiti politici non ci stanno. Intanto si profila all’orizzonte la scadenza elettorale.  E la commissione per la ricostruzione è cornordinata da una vecchia conoscenza: Bill Clinton.

«Il terremoto rappresenta una nuova tappa per Haiti. In un certo senso niente può essere come prima. I 35 secondi del sisma hanno avuto un impatto di ampiezza straordinaria, che si prolungherà per molto tempo ancora». Suzy Castor parla nel suo ufficio nel Cresfed  (Centro di ricerca e di formazione economica e sociale per lo sviluppo), situato nel quartiere di Canapé Vert. Struttura che, nonostante le vistose crepe, è sopravvissuta al sisma. «Questo è valido sia che si tratti di distruzione fisica materiale sia di perdita di vite. Perché 300 mila morti sono anche 300 mila risorse che abbiamo perso». La storica haitiana è anche militante politica (partito Opl, Organizzazione del popolo in lotta): «Per questo io credo, non sia un’opportunità, ma l’occasione per potere ricostruire, non solo fisicamente, ma anche materialmente. Noi parliamo di “rifondazione”. C’è stata la fondazione nazionale con il primo gennaio 1804, l’indipendenza di Haiti, la libertà, i molti sogni. Penso che questa rifondazione debba farsi, in modo naturale. Tutti ne parlano adesso».
Un’opportunità importante, che però sta inesorabilmente scivolando via dalle mani degli haitiani. E non è la prima volta nella storia del paese.

Aiuti, marines e piani di sviluppo

Dopo il sisma che crea un vero disastro, la comunità internazionale si attiva. La solidarietà dai popoli di mezzo mondo è commovente, ma anche gli interessi di alcuni stati sono evidenti. Gli Usa mandano nel paese 20.000 marines.
Il 31 marzo si tiene a New York la conferenza per la ricostruzione di Haiti. Vi partecipano i paesi donatori e le Nazioni Unite.
Il governo haitiano deve preparare un piano di sviluppo per il paese. Per farlo, anziché coinvolgere i diversi settori della nazione, utilizza un altro documento il Post disaster needs assessments, un modello (anglosassone) di valutazione dei bisogni dopo i disastri, realizzata, in questo caso, in gran parte da esperti stranieri. è così che il governo partorisce il «Piano d’azione per il sollevamento e lo sviluppo di Haiti» con l’obiettivo di fare «di Haiti un paese emergente da oggi al 2030».
Ma i movimenti sociali e i partiti politici haitiani non ci stanno e contestano duramente il documento. Nei contenuti e soprattutto nel metodo. «A livello della società civile, le organizzazioni hanno denunciato l’assenza di partecipazione. Di fatto non riconoscono il piano del governo perché loro non hanno potuto partecipare» ci spiega il giornalista Gotson Pierre. «Il piano non collega le richieste che potevano venire dal paese rurale, dalle donne, dai quartieri popolari, dai campi di sfollati, etc. Non è veramente articolato sulle aspirazioni dei settori sociali di Haiti».  E continua: «Lo stato da solo non può risolvere questa situazione. Da qui la necessità di cercare di mobilitare l’insieme della società haitiana per far affrontare la situazione: questo è il ruolo dello stato». Ma tutto ciò non è successo. Gotson Pierre: «Non si sente questa capacità di mobilitazione dei settori della società per far fronte a questa situazione». Anche gli aiuti della comunità internazionale vanno cornordinati: «Bisogna creare questa sinergia tra la volontà della comunità internazionale, la possibilità dello stato di cornordinare lui stesso questo sforzo e la società haitiana, altrimenti non arriviamo da nessuna parte».

Groviglio politico interno …

Ma non basta. Il 15 aprile il governo riesce a far votare al Parlamento il prolungamento di 18 mesi della «Legge sullo stato di emergenza», legge che di fatto trasferisce tutti i poteri all’esecutivo. Il 10 maggio la camera dei deputati e un terzo del senato scadono (ad Haiti il senato è rinnovato un terzo alla volta per sei anni). In effetti le elezioni generali (amministrative, legislative e presidenziali) dovrebbero – il condizionale è d’obbligo – tenersi a fine novembre, in modo che il nuovo presidente della Repubblica (René Préval non può ricandidarsi) possa assumere la carica alla scadenza costituzionale: il 7 febbraio.
Il senatore Jean-William Jeanty fa parte di un gruppo di 10 parlamentari che hanno votato contro la legge d’emergenza e si definiscono «resistenti»: «Abbiamo denunciato questa legge e abbiamo pubblicato una lettera, protestando contro la sua incostituzionalità».
Un’altra mossa del presidente è stata far votare un emendamento della legge elettorale che rende possibile prolungare il mandato presidenziale «qualora non fosse possibile tenere le elezioni nella data costituzionale». Continua l’onorevole Jeanty: «Abbiamo poi scritto una lettera contro la legge che corregge il mandato del presidente. Noi siamo in “resistenza” completa rispetto a quello che si fa attualmente nel paese».

… e affari inteazionali

E con la legge di emergenza riaffiora anche un vecchio «adagio» della geopolitica dell’area. Continua il senatore Jeanty: «La legge sullo stato di emergenza delega i poteri non solo all’esecutivo ma anche all’internazionale, perché in essa è definita la creazione della Commissione ad interim per la ricostruzione di Haiti (Cirh), di cui Bill Clinton sarà il cornordinatore principale». La Cirh ha preso ufficialmente forma il 17 giugno scorso ed è composta per la metà di rappresentanti di istituzioni e paesi donatori (Usa, Francia, Canada, Spagna, Brasile, Unione europea, Onu, Banca mondiale, ecc.), e per l’altra metà di rappresentanti haitiani «istituzionali», parlamento, governo, giudiziario e (poco) collettività locali. È co-presieduta dal primo ministro Jean-Max Bellerive e da Bill Clinton. Quest’ultimo non è estraneo alla storia di Haiti, in quanto fu lui (insieme a 20.000 marines) a «riportare in patria» il presidente Jean-Bertrand Aristide, dopo i tre anni di sanguinoso regime di Raul Cédras (1991-94). Un Aristide molto vicino ai democratici statunitensi, ormai edulcorato e «venduto» agli interessi dello zio Sam.
«In questa legge si dice chiaramente che la Cirh deve assicurare la “messa in esecuzione del programma di sviluppo” di Haiti. Questo vuol dire che i poteri della commissione sono superiori a quelli dell’esecutivo» continua Jeanty. Una vera ingerenza degli stranieri negli affari interni del paese.
La società civile e i partiti politici, tenuti totalmente al di fuori del processo, temono che non solo la ricostruzione del paese ma anche la visione del futuro di Haiti sia gestito dai paesi stranieri, in particolare dagli Stati Uniti.
Ribadisce Suzy Castor: «Nella storia non conosciamo alcun caso in cui il salvataggio viene dall’estero solamente. Non dico che non si deve contare sull’appoggio dell’esterno, ma se non è il popolo che prende in mano il suo destino, non c’è futuro».
Mettere nelle mani della comunità internazionale gli orientamenti per lo sviluppo di una nazione è, certo, fatto anomalo e premessa a nuove forme di controllo geopolitico. Continua Suzy Castor: «Per questo dico, il primo responsabile di questo orientamento deve essere il governo haitiano, insieme alla popolazione. La cooperazione può continuare a essere quello che è con i risultati che conosciamo, oppure, approfittando di questa esperienza, fare un passo che può essere benefico alla nazione. Ma questa cooperazione rischia di trasformarsi in nuove forme di tutela per il XXI secolo».
Tutela che gli Usa cercano da oltre un secolo (riuscirono ad occupare il paese dal 1915 al ’34). Haiti interessa non solo perché è nel “cortile di casa”, nell’area geopolitica a totale (o quasi) controllo nordamericano. È da vent’anni il principale snodo per il traffico della cocaina dal Sud al Nord America, pratica incoraggiata da governi corrotti e putchisti o dalla mancanza dello stato. È all’origine delle migliaia di boat people, che a ondate successive hanno tentato (e tentano) di raggiungere la Florida. È inoltre molto vicino a Cuba: le due isole sono separate solo dagli 80 Km del Passe du Vent, nel Nord Ovest. Zona dove, già da molti anni si dice, gli Usa volessero trasferire la base di Guantanamo. Per gli Usa Haiti è anche un mercato, del riso in particolare, alimento base della dieta haitiana. Secondo una strategia ben pianificata l’american rice invade da oltre 15 anni i piatti degli haitiani a scapito dei produttori locali. E dopo il sisma l’immissione di riso Usa è stata straordinaria. Perché dunque, in prospettiva, non fare di Haiti una nuova Porto Rico?

Verso improbabili elezioni

Secondo il senatore Jeanty il governo non ha offerto alcun margine di negoziato. Per questo il movimento tende a radicalizzarsi e la situazione potrebbe scaldarsi.
Fino dal 10 maggio si moltiplicano le manifestazioni in capitale e nei capoluoghi dei dipartimenti. Mobilitazioni contro il presidente René Garcia Préval e contro la legge di emergenza. Sono organizzate dai movimenti della società civile e dai partiti politici. Alcuni settori chiedono le dimissioni del presidente e la creazione di un governo di transizione, altri vogliono che si tengano le elezioni nei tempi stabiliti. Tutti sono contrari al prolungamento –  fuori costituzione – del mandato. «Per me è essenziale che si metta in piedi un potere di transizione che identifichi i bisogni di questo momento e formi le strutture che permettano di farci uscire da questa situazione creatasi a gennaio e per poter andare avanti» spiega Jeanty.
Il 24 giugno nuova mossa del presidente: il Consiglio elettorale provvisorio (Cep), presieduto da Gaillont Dorsainvil ottiene il mandato per organizzare le elezioni del 28 novembre. Ma il Cep è un altro nodo duramente contestato da opposizione e società civile. Dorsainvil aveva la stessa carica durante le passate elezioni, che hanno visto la vittoria di Préval ed è accusato di essere vicino al presidente. L’attuale Cep è poi stato coinvolto in diversi scandali. La richiesta popolare è invece quella di un Consiglio nominato secondo i criteri dettati dalla costituzione del 1987, con maggiore partecipazione di tutti i settori della società haitiana. «E inoltre c’è la volontà di Préval: lui vuole organizzare le sue proprie elezioni, in maniera da portare la sua ombra al palazzo presidenziale dopo di lui» sostiene il senatore.

Ricostruzione: «this is business»

Un segnale evidente dell’interesse Usa e Canadese è l’impegno che questi due stati si sono presi per ricostruire rispettivamente 47.000 e 16.500 edifici. Impegno che in realtà è il grosso business della ricostruzione edilizia. Il primo ministro canadese è volato ad Haiti per assicurarsi che le imprese canadesi vi partecipino. C’è un negoziato politico in appoggio all’imprenditoria. Da sottolineare che la legge sullo stato di emergenza rende molto semplificate le procedure per l’assegnazione degli appalti.
Nella conferenza di New York del 31 marzo i paesi donatori hanno promesso 9,9 miliardi di dollari su 5-10 anni per la ricostruzione di Haiti. Cifra in parte confermata (7,8 milioni) all’incontro internazionale del 2 giugno a Punta Cana (Repubblica Domenicana). Di fatto, però, a cinque mesi dal sisma, solo 150 milioni di dollari erano stati sbloccati da Brasile e Venezuela. Quest’ultimo ha anche cancellato un debito petrolifero di 395 milioni.
È chiaro che questa montagna di soldi “promessi” solletichi la cupidigia di molti. Si pensi, inoltre, che nel 2006 Haiti era il paese più corrotto del mondo secondo la classifica di Transparency Inteational (vedi MC gennaio 2007). Forse per questo Préval e la sua équipe hanno difficoltà a mettersi da parte.
René Préval, già primo ministro e delfino di Aristide (’95), è poi diventato presidente della Repubblica in un primo mandato (’96-2001) durante il quale subiva la pesante influenza del predecessore. È di nuovo eletto presidente nel 2006, dopo il periodo di transizione del primo ministro Gérard Latortue (vedi intervista su MC marzo 2005). Ma durante i suoi due mandati non ha mai fatto nulla di concreto e ha pesanti responsabilità sullo stato in cui versa oggi il paese.
Camille Chalmers, direttore esecutivo del Papda (piattaforma di organizzazioni della società civile haitiana), mette in luce il doppio dramma del popolo haitiano.
«Oggi per la maggior parte degli attori potenti sul terreno, lo spazio di ricostruzione è uno spazio di riconquista e ri-colonizzazione, per approfittare della terribile crisi post sisma e spingere su una serie di riforme economiche, che vanno nel senso di un controllo diretto delle risorse strategiche da parte delle multinazionali».
I movimenti della società civile haitiana, nati agli inizi degli anni ’80 per cacciare Duvalier, hanno vissuto periodi storici altei di effervescenza e appiattimento. Oggi, rivitalizzanti da questa nuova solidarietà interhaitiana, stanno cercando di creare un fronte unico e fornire proposte alternative. Vogliono una rottura rispetto allo stato della dipendenza, dell’esclusione e del dominio oligarchico. Chalmers: «Secondo noi pensare oggi a delle risposte alla crisi post sisma vuol dire pensare delle risposte alla crisi strutturale haitiana che data molto prima il 12 gennaio e attraversa tutto il XX secolo». Ma come?
«Uno degli strumenti che stiamo cercando di mettere in piedi è quello che chiamiamo l’Assemblea dei movimenti sociali di fronte alla crisi haitiana. Sarà uno spazio di incontro di tutti i movimenti sociali di Haiti, nel quale vorremmo arrivare a definire l’opzione di sviluppo, ovvero una visione di sviluppo economico e sociale, per avere un minimo di accordo sui grandi orientamenti da prendere rispetto al futuro».
Ma la strada è ancora lunga e, soprattutto, il cammino intrapreso dal governo dopo il sisma va nella direzione opposta.

Marco Bello

Marco Bello




Ritorno a Port-au-Prince

Alla riscoperta della capitale caraibica

Sono passati alcuni mesi dalla grande tragedia del 12 gennaio. La stagione delle piogge è arrivata e dopo di lei quella degli uragani. Port-au-Prince, con i suoi quasi 3 milioni d’abitanti è una città ferita. Case distrutte e tendopoli si sono aggiunti al caos quotidiano, al caldo, all’umidità e agli odori forti. Ma la dignità è grande e una nuova solidarietà sembra nata.

L’aereo che ci porta a Port-au-Prince atterra sotto una pioggia battente. È buio pesto perché è sera inoltrata. Non pensavo che la pista della capitale avesse le luci. Il bus interno ci recupera e ci lascia ad un hangar poco lontano. È qui che sono stati allestiti gli arrivi dell’aeroporto Toussaint Louverture, danneggiato durante il sisma del 12 gennaio. Una poliziotta gentile ci timbra il passaporto e poco dopo una doganiera assonnata ci indica di uscire. Tutto è tranquillo e normale. La stagione delle piogge è cominciata e con lei gli allagamenti di strade, cortili, terreni.

Per le strade della capitale

Il mattino Port-au-Prince ci accoglie con il suo solito caos. Con i tap-tap smarmittati carichi di gente, e i giganteschi camion americani «Mack» che non guardano in faccia a nessuno prendendosi la strada come e quando vogliono. Le lunghe file di mezzi di ogni tipo a passo d’uomo lungo le arterie principali. Sotto un sole caldo e un’umidità che induce una traspirazione continua. Se si prende un appuntamento bisogna contare più di un’ora per un qualsiasi trasferimento: il tempo è aleatorio, non è una variabile di nostro dominio. Ma il traffico congestionato, i blokis, come si dice in creolo, sono una costante di questa città, almeno negli ultimi 15 anni. Non è certo una scoperta del terremoto.
Ci rinfranca vedere che la capitale non è distrutta. Molte case sono crollate, ma molte hanno resistito. È strano notare come sia successo a «scacchiera»: un edificio in perfette condizioni a fianco di un altro ridotto a un mucchio di macerie, o ancora a una casa molto danneggiata. La distruzione è avvenuta di più in certi quartieri piuttosto che in altri. La città bassa, ba lavil, il centro nevralgico, è il più colpito e con lei molti edifici pubblici e simbolici. Dal palazzo presidenziale a diversi ministeri e uffici governativi. La cattedrale, la chiesa del Sacro Cuore. Alcuni hotel rinomati. Molte le scuole crollate o danneggiate, così come gli immobili dell’università.
E il traffico vuol dire movimento, commercio, lavoro, vita. Sì, Port-au-Prince è viva, vitale, molto più di quello che ci si possa aspettare dopo il dramma che l’ha colpita e dopo le immagini che abbiamo visto attraverso i mass media. Già dal mattino presto il formicaio umano si attiva. Uomini e donne con il vestito «buono» cercano di infilarsi su uno degli innumerevoli tap-tap per recarsi in ufficio. Mamme e papà zig-zagando nel traffico, accompagnano per mano il figlioletto a scuola, vestito con l’impeccabile uniforme. Gli operai si accalcano per attraversare il cancello del Parc Industriel Métropolitain (ampia area recintata e controllata nella periferia Nord), dove faticheranno tutta la giornata per poco più di un dollaro, in una delle tante fabbriche manifatturiere. Le madam sara – donne commercianti al dettaglio di ogni cosa, dal sale alla verdura, dai quadei ai prodotti di bellezza – sono già appostate con i loro grandi cappelli di paglia nelle vie di mercato. Segni di quotidianità. Di voglia di vivere. «La gente ha subito reagito – ci racconta l’amico giornalista Gotson Pierre – il giorno stesso. Non si è fermata un istante. Se si fossero fermati sarebbe stato peggio, avrebbero avuto più difficoltà a riprendersi. Invece hanno cominciato subito: a soccorrere i feriti, a togliere macerie».
E una grande solidarietà umana, da tempo perduta in questa città caotica e violenta, sembra rinata, come ci spiega Suzy Castor, nota storica e politica haitiana: «La solidarietà interhaitiana è venuta fuori fin dal primo giorno. Ci si lamentava molto della mancanza di questo valore, ma con il terremoto è stata spontanea. Si vedevano delle cose straordinarie che rasentavano l’eroismo». E continua: «Il terremoto è stato duro, terribilmente. Ma due o tre giorni dopo la vita è ricominciata. Per me è straordinario questo dinamismo di cui ha fatto prova il popolo haitiano. Questa forza nella disavventura, è una grande fortuna che abbiamo».

Città nella città

Ma il paesaggio urbano di Port-au-Prince non è cambiato solo per le case distrutte. E i mucchi di macerie lungo le strade fatti da chi, faticosamente, toglie pezzo per pezzo quello che resta della propria casa e lo ammucchia in strada, nella speranza che un giorno qualcuno porti via tutto. Ovunque in capitale, come nella vicina Petion-Ville (comune adiacente dalla parte montagnosa, abitato dalla classe media) e a Léogane, epicentro del sisma, sono comparse tende di ogni specie e forma. Qualsiasi spazio aperto, piazza, campo sportivo, cortile è diventato una tendopoli. Lo sono i Champs de Mars, giardini di fronte al palazzo presidenziale, lo è la piacevole piazza Saint Pierre, nel centro di Petion-Ville. Ci sono zone dove al posto delle tende si trovano ancora i ripari di fortuna, fatti da lenzuoli, stuoie e teli colorati. Altrove sono i teloni blu degli aiuti umanitari che hanno avuto la meglio.
Anche a Canapé Vert, bel quartiere residenziale che si arrampica sulla collina, come a Pacot, a Tourgeau, a Bois Patate, file di tende a igloo, dalla due posti alla famigliare sono allineate sui bordi delle strade rendendo difficile il passaggio.
Sulla route Nazionale 2, in uscita dalla capitale verso la città satellite Carrefour, i ripari di fortuna si trovano addirittura nell’isola tra le due carreggiate.
Camp Fierté è una tendopoli o «centro di accoglienza» come sono anche chiamati, nel cuore di Cité Soleil, una delle più grandi e tristemente conosciute (anche prima del terremoto) bidonville di Port-au-Prince. Qui è difficile lavorare, la tensione è sempre palpabile, proprio per la popolazione che abita questo quartiere e la sua storia. Il campo è assistito da Medici senza frontiere e dall’Ong italiana Avsi. Sotto alcune grosse tende si è ricreata una scuola e un ambulatorio per consultazioni e prime cure dove si avvicendano medici italiani, sempre con un progetto di Avsi. «Ieri è arrivato un tizio con una grossa ferita da arma da taglio – ci racconta uno dei medici sul posto – lo abbiamo suturato in fretta e poi abbiamo capito che c’era più tensione del solito. Per questo abbiamo finito le consultazioni molto presto». «Questo bambino è un “meno quattro”, non ne avevo ancora visti qui» dice un’altra dottoressa con in braccio un frugoletto che pare avere pochi mesi. In gergo vuole dire che pesa quattro chili in meno di quanto dovrebbe: «È in uno stato avanzato di malnutrizione».
Marino Contiero, cornoperante dell’Avsi, lavora qui ogni giorno. Organizza distribuzioni di cibo e di acqua. Ci accompagna in giro tra le grosse e pesanti tende della Protezione civile italiana e quelle più leggere di Medici senza frontiere. «Il clima in generale non è buono e nei campi la situazione si fa dura ed è sempre più difficile lavorare. Anche nei quartieri di Cité Soleil (ci sono ampie zone di baracche non crollate, ndr.) si verificano continui scontri tra le bande e le sparatorie sono giornaliere». Ci racconta che anche in altre zone, come Martissant, quartiere popolare all’uscita Sud della capitale, le gang sono tornate attive e a volte impediscono le distribuzioni alimentari (si veda su questo fenomeno MC gennaio 2007).
Nel campo vediamo soprattutto donne e bambini, ma anche ragazzi. Gli uomini sembrano non esserci. Ci chiediamo quali saranno i tempi per il ritorno alla «normalità» o piuttosto a una casa decente per tutte queste persone. Molte tende non sono fatte per resistere mesi sotto il forte sole dei Caraibi e si stanno deteriorando. Le piogge iniziate a maggio sono torrenziali, e creano fiumi di fango. A giugno è anche iniziata la stagione degli uragani e questi ripari possono facilmente prendere il volo.
Marino: «Spero di terminare presto con le distribuzioni e incominciare a fare qualche cosa di concreto per aiutare le famiglie a tornare a casa loro». Questo è infatti previsto dal programma. Le distribuzioni non sono fatte a caso: «Noi di-
stribuiamo solo a donne e bambini e abbiamo delle liste ben verificate. Non diamo più teloni come all’inizio e il cibo è dosato con grande precisione. Occorre fare di tutto affinché non si inneschi la spirale della dipendenza». In effetti questo è un rischio enorme. Esistono già i campi «fantasmi» dove la gente viene di giorno solo perché una qualche Ong internazionale distribuisce cibo. Poi la notte rientra nei propri quartieri. «Ma allo stato attuale distribuire acqua e cibo in alcune zone è necessario perché ci sono molti casi di malnutrizione, anche grave, nei bambini» conclude Marino.
Le stime ufficiali parlano di 1,3 milioni di senza tetto a causa del terremoto e circa 500.000 sarebbero quelli che ancora vivono in tenda.

Il trauma che non si vede

Ma c’è qualcosa più difficile da vedere, se si guarda solo in superficie. Qualcosa di molto importante, che si percepisce parlando con la gente. «La popolazione è rimasta traumatizzata. Ad esempio i nostri seminaristi che hanno visto morire i loro compagni». Chi parla è padre Crescenzo Mazzella, camilliano, da oltre dieci anni nel paese. Il crollo del centro di formazione della Conferenza haitiana dei religiosi (Chr) ha causato molte vittime. «I nostri seminaristi erano in macchina e stavano per partire. A fianco, nel parcheggio, la macchina di un gruppo di loro compagni era già accesa. La scossa li ha sepolti, mentre i nostri sono rimasti indenni. Ma scioccati. Ora è molto più difficile lavorare con loro». Il sisma, qui come altrove, ha deciso per la vita o la morte di qualcuno secondo un criterio che non ci è dato conoscere. «Dopo questi drammi occorre ricostruire la persona, prima ancora di ricostruire le infrastrutture» afferma padre Enzo Viscardi, missionario della Consolata e psicologo. Dopo il sisma ha già compiuto due viaggia ad Haiti, su richiesta del nunzio apostolico, Monsignor Beardito Auza, proprio per lavorare con religiosi e seminaristi sulla «gestione e rimozione del trauma». «Occorre aiutare le persone a gestire il trauma, e motivarle per riprendere la vita normale con un impegno in prima persona nella ricostruzione – ci racconta padre Enzo -. Abbiamo lavorato con terapie individuali e di gruppo, per togliere il senso di “distruzione totale” che porta alla non azione» (vedi box).
L’appoggio psicologico è dunque altrettanto importante quanto quello materiale, anche se meno visibile e forse meno praticato.
Tutti, a Port-au-Prince, parlano della «grande scossa» che deve ancora arrivare. Molti, dopo mesi, pur avendo la casa in buone condizioni e usandola durante il giorno, preferiscono dormire nella tendina piantata in cortile o in strada. Ed è forse anche per questo che il governo (nel momento in cui scriviamo) non ha ancora dato il permesso di ricostruire le scuole e gli altri edifici in muratura, ma solo in materiali provvisori: legno, lamiere, tende. Le Ong e gli enti privati hanno costruito in questo modo le scuole crollate, e così – fatto molto importante – i bambini e i ragazzi hanno potuto riprendere le lezioni.
Come al College Saint Martial un’antica scuola della capitale, fondata dai padri dello Spirito Santo (Spiritani). Dall’asilo al liceo, la scuola è sempre stata un riferimento per gli abitanti di Port-au-Prince. Situato nella città bassa, alla fine di rue de Miracles, il College ha subito danni gravissimi. I due grossi edifici con le aule scolastiche sono crollati e la casa dei padri, seriamente danneggiata, è da radere al suolo. La Bibliothèque Haitienne, collezione unica di volumi, giornali, documenti originali e fotografie sulla storia di Haiti si trovava al secondo piano. «Siamo riusciti a salvare quasi tutto, e a metterlo al sicuro nella cappella – ci racconta padre Paulin Innocent, superiore regionale degli Spiritani – in attesa di rifare la biblioteca in un nuovo edificio. Per smantellare il palazzo rimasto in piedi ci hanno chiesto 100 mila dollari!».
Ma gli oltre 1.000 allievi di Saint Martial hanno potuto riprendere i corsi a marzo. Tutti, nelle loro uniformi pulite, dai piccoli dell’asilo, in una tendona dell’Unicef, all’ultimo anno del liceo, in aule fabbricate in materiale leggero. Il tutto dipinto in verde-giallo, da sempre i colori della scuola. Sono segni importanti per un ritorno alla normalità.

Marco Bello

Marco Bello




12.01.2010 HAITI (ORA) ESISTE

Quel che resta di Boukman

«Haiti n’existe pas», Haiti non esiste, è il titolo di un libro dell’esperto Christophe Wargny, dedicato al bicentenario dell’indipendenza di Haiti (1804-2004). Ebbene, questo era vero fino al 12 gennaio scorso. Nessuno conosceva neppure l’esistenza di questo piccolo paese dalla storia tanto originale e travagliata. Molti italiani lo confondevano con Thaiti, atollo del Pacifico.
Oggi, per lo meno si sa che esiste e più o meno che si trova nelle Americhe. È stato pure scritto che è il più povero …
Peccato, però, che l’informazione  – di massa – che si è avuta su Haiti nei giorni e nelle settimane successive al terribile evento, sia stata sovente molto parziale, superficiale e fatto più grave, viziata dal punto di vista italiano (vedi sparate di Bertolaso e battibecco con Hillary Clinton e trionfalismo per l’intervento – minimo e fuori luogo – delle autorità del nostro paese).  
Tanto di cappello per i colleghi inviati che hanno raggiunto Port-au-Prince pochi giorni dopo il sisma. Sapersi muovere in quella situazione, non essendo mai stati nel paese era impresa non facile. Peccato che, come spesso accade in questi casi, ma soprattutto per la «sconosciuta» Haiti, ci sia stata scarsità di conoscenza del paese, della sua storia, della sua cultura. La lettura della realtà, nuda e cruda come si vedeva. Ma dando poco, o nulla, la parola agli haitiani.

Siamo tornati ad Haiti. Ci siamo tornati anche per raccontarvi cosa sta succedendo adesso, quando nessuno ne parla più e gli italiani credono che sia tutto finito. Per portarvi le speranze e i sogni degli haitiani sul loro futuro, ma anche per mettere in luce i meccanismi e gli intrecci che si stanno giocando sulla pelle di questo popolo. Un popolo ricco di umanità, ma sfortunato. Perché anche qui, sul terremoto, qualcuno ci sta guadagnando.

Marco Bello

Marco Bello




Cana (15) Le nozze di Cana, oltre le nozze di Cana

Il racconto delle nozze di Cana (15)

Nelle puntate precedenti, iniziando il commento dell’espressione «E nel terzo giorno» mettemmo in relazione la settimana della creazione di Gen 1 e la settimana che descrive Giovanni 1, elencando i singoli giorni e gli eventi che vi accadono. Abbiamo detto che lo schema dell’una e dell’altra settimana non è cronologico, ma teologico. In altre parole, non bisogna chiedersi «che cosa è avvenuto?», ma «che cosa l’autore vuole insegnare?». La prima domanda esige una risposta puntuale dal punto di vista storico-scientifico; la seconda, invece, attende una risposta di «valore»: qual è il senso di ciò che l’autore scrive e perché scrive in questo modo? Le due settimane, infatti, sono portatrici di un contenuto che va oltre la banalità dell’accaduto cronologico.
Se non entriamo nella prospettiva globale della Scrittura come sfondo, principio e fine di ogni singolo passo, di ogni singola parola, finiremo sempre per leggere la Bibbia a spizzichi, piccoli aneddoti edificanti senza sale e senza senso, buoni solo per occupare un po’ di tempo distratto durante la celebrazione della messa.

Se va male, il celebrante usa quel testo, preso come capita, per imbastire esortazioni morali o invettive contro il mondo che nulla hanno da spartire con il testo e la rivelazione. Il sale perde il suo sapore (cf Lc 14,34-35) e la lucerna diventa opaca (cf Mt 5,15), inutile per illuminare la strada e per dare senso al percorso. Il fuoco bruciante della Parola di Dio ridotto a misero scaldino della nostra ignoranza.

Una Biblioteca per la Parola
La Bibbia non è un libro scientifico in senso tecnico, ma un libro di salvezza, in senso teologico; lo aveva capito bene Galileo Galilei, che all’inquisizione che lo condannava per le sue ipotesi «eretiche» sulla subalteità della terra nei confronti del sole, diceva: «La Bibbia non ci insegna come è fatto il cielo, ma come andare in cielo». È compito della scienza dirci «come è fatto il cielo», mentre è compito della fede che emerge dalla Scrittura, dirci «come andare in cielo». Non bisogna cercare a tutti i costi una sovrapposizione tra scienza e fede perché le due prospettive viaggiano su binari diversi e non necessariamente devono combaciare perché hanno metodi e strumenti d’indagine diversi. È importante che la fede non voglia prevaricare sulla scienza e questa su quella.
Il Concilio Vaticano II, nella costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei Verbum, forse il documento più bello tra i sedici conciliari, ci sostiene e rafforza in questa convinzione e in questo metodo perché con la sua autorevolezza magisteriale ci garantisce che è così (sottolineature nostre).

«Poiché… tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, bisogna ritenere, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle sacre Scritture. Pertanto “tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” (2Tm 3,16). Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l’interprete della sacra Scrittura, per capire bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi (=autori) abbiano veramente voluto dire e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole. Per ricavare l’intenzione degli agiografi, si deve tener conto fra l’altro anche dei generi letterari. La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa in testi in vario modo storici, o profetici, o poetici, o anche in altri generi di espressione. È necessario… che l’interprete ricerchi il senso che l’agiografo in determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso, intendeva esprimere e ha di fatto espresso. Per comprendere infatti in maniera esatta ciò che l’autore sacro volle asserire nello scrivere, si deve far debita attenzione sia agli abituali e originali modi di sentire, di esprimersi e di raccontare vigenti ai tempi dell’agiografo, sia a quelli che nei vari luoghi erano allora in uso nei rapporti umani. Perciò, dovendo la sacra Scrittura essere letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all’unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell’analogia della fede» (Dei Verbum, nn. 11 e 12).

Cinque custodie e una biblioteca
Per capire la lunga citazione del concilio, che con questo testo ha operato una vera rivoluzione negli studi biblici, è necessario fare un passo avanti sul modo con cui noi leggiamo le sacre Scritture. Quando prendiamo in mano una Bibbia, abbiamo davanti un libro che cominciamo a sfogliare dalla prima pagina in avanti. Ben presto ci stanchiamo e lasciamo perdere perché quello che leggiamo ci sembra anacronistico, irreale, fantasioso; ma molto più spesso lasciamo perdere perché non capiamo.
Tutto ciò è inevitabile perché noi pretendiamo di leggere con le nostre categorie mentali di «oggi» un libro scritto con criteri diversi e categorie mentali che si snodano in un arco di 1.600 anni. Vi si trovano autori diversi che scrivono in tempi diversi, con linguaggi diversi e con metodi e generi letterari diversi. Se vogliamo capirci qualcosa, dobbiamo entrare «nel» mondo della Bibbia e abitarlo, imparandone i linguaggi, le trame narrative o poetiche, disceendo i diversi livelli di storicità e le tecniche di trasmissione che l’hanno portata fino a noi.
Quando prendiamo in mano la Bibbia, dobbiamo avere la consapevolezza che di fatto abbiamo davanti non «un libro», ma una intera «biblioteca» composta da 73 libri, di cui 46 dell’Antico Testamento, quasi tutti in ebraico e 27 del Nuovo Testamento, tutti in greco.
Questa «biblioteca» è complessa, con sezioni, scaffali, generi diversi e ogni volume può essere opera di un singolo, ma molto spesso è frutto dell’apporto di tanti autori, di norma anonimi, che bisogna imparare a conoscere nella loro personalità, nei luoghi di vita, nella loro storia e formazione. Per fare questo bisogna interrogare molte scienze: le lingue antiche in cui furono scritti i singoli libri, la letteratura del tempo corrispondente, se esiste, e poi la poesia, la storia, la geografia, l’archeologia, la musica, le usanze proprie non solo dell’autore di ogni libro, ma anche dei popoli vicini.
Bisogna imparare i metodi per tramandare insegnamenti e scritti e tutto ciò che in qualsiasi modo può interessare e aiutare la comprensione di un testo e di un autore. Non basta leggere la Bibbia, bisogna anche sapere «come» leggerla e da dove cominciare.
Chi legge la prima pagina della Genesi, non può limitarsi a ripetere noiosamente: «E fu sera e fu mattino: giorno primo… secondo… sesto», senza sapere che il primo racconto della creazione con cui si apre la Bibbia è quasi la «ouverture» musicale del primo libro che è «la Genesi». Esso contiene tutti i temi del libro e non è affatto noioso, ma ha un andamento liturgico, ieratico.
Su questo racconto viene proiettata la solennità liturgica del tempio di Gerusalemme su cui si misura la creazione. Il creato è il tempio in cui celebra la liturgia della vita nascente a cui le schiere celesti rispondono, come nel tempio, con il ritornello salmodiante «fu sera e fu mattino» e «Dio vide che era cosa buona». Dio è il sommo sacerdote che distende il cielo come la tenda del tempio, raccoglie le acque come quelle del catino per la purificazione, separa gli esseri viventi, come fa il sacerdote con le vittime sacrificali, benedice le creature come il sacerdote fa nel tempio con il popolo partecipante.
Il racconto della creazione è la trasposizione della liturgia del tempio a livello cosmico e universale, esattamente come fa Giovanni che proietta la nascita di Gesù di Nàzaret a livello del «Lògos» eterno che «è presso Dio». Nulla può essere di più stridente se è vera la convinzione di Natanaele: «Da Nàzaret può venire qualcosa di buono?» (Gv 1,46).
Quanti lettori, a una immediata lettura, sanno che il racconto della creazione di Gen 1 è stato pensato verso il sec. VI a.C. a Babilonia, durante l’esilio, e tramandato per circa un secolo oralmente fino al 444 a.C., quando fu raccolto in un rotolo/libro? Esso è il racconto più recente, che però viene messo «in principio» proprio per la sua natura liturgico-sacerdotale, finalizzata alla difesa della settimana, culminante nel giorno di «shabàt», che è il vero obiettivo della narrazione.
Quanti lettori sanno che, al contrario, il racconto della creazione, riportato nei capitoli 2-3 di Genesi che parlano del serpente, dell’albero, di Adamo e della costola, è invece il racconto più antico, databile al sec. IX-X a.C. e posto in secondo piano perché ha una prospettiva e un andamento diversi dal primo?
Il libro della Genesi contiene dunque due racconti di «creazione», che non hanno un senso storico (nel senso moderno del termine), ma sono una proiezione della storia di Israele a livello cosmico (Gen 1) e a livello universale sul piano dell’umanità (Gen 2-3). Gli Ebrei lo indicano con la prima parola con cui inizia: «Bereshit – In principio»; la Bibbia greca detta Lxx in greco, invece, la indica con il suo contenuto: poiché tratta delle «origini» del mondo, dell’uomo e dei patriarchi, dà al racconto il titolo di «Genesi». Questo volume di 50 capitoli, a sua volta, è messo insieme ad altri 4 rotoli/libri che prendono il nome di «Pentateuco – Cinque custodie» (dal gr. penta – cinque e thêke- – custodia/fodero) cioè cinque libri.

La nuzialità oltre le apparenze
È possibile che i nostri lettori siano impazienti di arrivare alla spiegazione diretta e immediata del testo delle nozze di Cana. La loro impazienza è comprensibile perché sono stati educati a «sentire» pezzi di Bibbia, letti durante la Messa e ai quali non si presta eccessiva importanza, perché considerati «una cosa che bisogna fare», ma che forse si vorrebbe abolire perché «allunga» inutilmente la Messa.
A ciò si deve aggiungere che spesso l’omelia non aiuta, ma aggrava le cose per la sua superficialità e perché il testo biblico viene preso «a pretesto» per una predica morale, travisando così il senso del testo e la mente dell’autore che lo ha scritto. Il popolo cristiano non ha una formazione biblica, anzi ignora la Scrittura, per cui la sua religiosità è spesso acqua tiepida riscaldata che si raffredda al primo soffio di vento.
Un esempio esplicito è il racconto delle nozze di Cana. Il testo integrale è proclamato nella liturgia latina della 2a domenica del tempo ordinario dell’anno liturgico C, cioè la domenica dopo il Battesimo del Signore, che a sua volta segue immediatamente la festa dell’Epifania. La scelta della riforma di Paolo VI non è casuale, ma riprende la tradizione antica orientale, presente ancora oggi nell’Ortodossia, che in un’unica festività (Epifania) celebra quattro manifestazioni o «rivelazioni» di Gesù.
La liturgia latina ha separato i quattro momenti che sono: Natale, Epifania, Battesimo e Cana. In essi si vive una «pedagogia» salvifica e catechetica centrata sul tema dell’incarnazione, che esplode in quello centrale dell’alleanza, espressa con il tema della nuzialità.
Gli antichi, e oggi gli Ortodossi, nella festa della Epifania celebrano: la manifestazione di Gesù agli Ebrei (Natale), ai Pagani (Epifania) e all’umanità intera (Battesimo). La quarta manifestazione (Cana) è la chiave d’interpretazione per capire il senso delle prime tre: Cana non è la consacrazione delle nozze come sacramento, che è un concetto totalmente assente all’autore, ma la «ragione» per cui Dio si è manifestato agli Ebrei, ai Pagani e al mondo: stabilire l’alleanza nuova preannunciata dal Ger 31,31:

«31Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore -, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. 32Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore. 33Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore -: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo».

Dire che la presenza di Gesù santifica le nozze di Cana e istituisce il sacramento del matrimonio è una mistificazione del testo, estranea al senso immediato e al contesto del racconto, che invece ha una portata profetica che abbraccia l’Antico e il Nuovo Testamento.
Il profeta Geremia, infatti, parla di «alleanza nuova» che per il secolo VII a. C., ma anche per il tempo di Gesù, è una bestemmia e una eresia perché essa è messa direttamente in contrapposizione con quella antica del Sinai a cui gli Ebrei non furono fedeli. Non solo, ma il Signore dice espressamente: «Scriverò sul loro cuore» questa alleanza. Anche un cieco vi vedrebbe immediatamente un riferimento alla Legge del Sinai, scritta «sulle pietre». Tutti questi temi si trovano nel racconto delle nozze di Cana che, pensato e scritto come commento (midràsh) dell’alleanza del Sinai, porta una novità supplementare, una grande novità: la «nuova alleanza» del profeta Geremia che Gesù «manifesta» non è un’alleanza diversa che sostituisce la prima, ma è quella stessa del Sinai che in Gesù di Nàzaret diventa «nuova ed eterna».
Abituati a «sentire» solo pezzi di Bibbia e solo nella Messa, i cattolici vivono un dramma: non hanno mai una visione d’insieme della Scrittura e nemmeno dei singoli libri o autori. Il loro approccio è occasionale, la loro formazione è episodica e agiografica (raccontini edificanti) e la loro ignoranza diventa, di occasione in occasione, permanente.
Dubitiamo che chi comunemente legge il racconto delle nozze di Cana di Gv 2 metta direttamente il testo in relazione con la settimana che l’autore descrive in Gv 1 e successivamente, attraverso questa, richiami anche la settimana per eccellenza, quella della creazione, che apre la rivelazione scritta in Gen 1, cercando e trovando un nesso logico che diventa visione di salvezza, conoscenza e contemplazione del disegno di amore sponsale che la Scrittura vuole comunicare.
Solo in questa visione d’insieme ci rende conto che lo «sposalizio» è un puro «accidente», cioè un piccolo evento banale di vita quotidiana per dire e dare un grande messaggio che travalica i tempi, all’indietro, per giungere alle origini dell’umanità, passando per il monte Sinai e, in avanti, superando ogni spazio per giungere integro fino a noi per annunciare l’unica salvezza, quella che Dio ha promesso a Israele e che ora nei tempi nuovi, realizza pienamente in Gesù Cristo, lo sposo delle nuove nozze che Dio prepara per la nuova umanità.                   [continua – 15]

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Come una goccia di rugiada

Mukululu –  Gallarate: quando lacrime di gioia e di dolore diventano gocce di vita e fraternità

 

Le gocce della foresta pluviale del Nyambene sono tra quelle più fotografate al mondo. Io stesso le ho fotografate per vent’anni. Non sono gocce diverse dalle altre, è sempre e solo acqua, eppure quelle hanno un fascino tutto speciale, perché da quelle gocce dipende ormai la vita di migliaia di persone. Vi riassumo qui quarant’anni di una storia, che forse avete già letto altre volte su queste pagine.

GOCCE, MILIONI, MILIARDI DI GOCCE

C’era una volta una regione ai piedi del Monte Kenya, tutta terra vulcanica fertilissima, dove fiumi, ruscelli o sorgenti sparivano ingoiati dal terreno dopo una vita fugace. L’acqua era il cruccio e la fatica più grande delle donne. Se ne trovava poca e a grandi distanze. I bambini soffrivano; la poliomielite era di casa.
Un giorno, negli anni Sessanta, un missionario dal cuore (P. Franco Soldati) grande creò a Tuuru un centro per i piccoli malati di polio. Vi si facevano miracoli di carità. All’acqua provvedeva la pioggia. Poi venne una grande siccità, ma nessuno aveva il cuore di rimandare i piccoli là da dove erano venuti. Il vescovo del posto (Mons. Lorenzo Bessone di Meru), che doveva fare il burbero, ma burbero non era, convocò senza preamboli un giovane fratello missionario che si era già fatto notare per la sua capacità di risolvere situazioni impossibili. «I bambini hanno bisogno di acqua», gli disse. «Pensaci tu». Il giovane, che mago non era, ma aveva intelligenza, volontà e cuore da vendere, si mise all’opera e trovò l’acqua lontano, lontano, nascosta nella foresta su un vulcano addormentato, il Nyambene. Giuseppe si chiamava, della famiglia degli Argese da Martina Franca, la terra dei trulli, dove l’acqua è sempre stata un bene più prezioso dell’oro.

Una foresta generosa

Senza soldi e tanto ingegno si mise all’opera per far sì che i piccoli polio di Tuuru potessero bagnarsi nelle salubri acque della foresta del Nyambene. Motori e pompe fuori questione, si alleò con la gravità e in men che non si dica, si fa per dire, il progetto fu pronto. Con l’aiuto del vescovo si trovarono anche i finanziatori, generosi ed efficienti, della Misereor di Germania. «Compera uno scavatore e il lavoro sarà fatto in un attimo», gli dissero. Fece due conti. Uno scavatore = lavoro per 100 operai per tre anni. Comperò pale, picconi e carriole; formò sul campo muratori e carpentieri, falegnami e scalpellini, idraulici e tubisti. Ed ecco là: nel 1971 a Tuuru bastava aprire un rubinetto e l’acqua scorreva in abbondanza. Ma …
Ma non erano solo i piccoli di Tuuru ad aver bisogno di acqua. Lungo i 25 chilometri del tracciato quante capanne, quanti villaggi, quante scuole. Acqua, più acqua, ancora acqua. Però la sorgente iniziale era davvero piccola.
Come accontentare tutti? Osservazione e gambe buone furono gli alleati di fratel Mukiri (già, perché la gente aveva cominciato a chiamarlo così, il silenzioso). L’osservazione, che gli fece notare come i canali appena scavati si riempissero d’acqua ogni santo giorno. Le gambe buone, che lo portarono ad esplorare ogni angolo della vasta foresta alla scoperta di sorgenti e rivoletti d’acqua.
Da dove veniva quell’acqua che invadeva gli scavi, visto che non c’erano né sorgenti né ruscelli né scrosci di pioggia nottua? Quel che osservava era solo la gran nebbia mattutina e la rugiada abbondante in un ciclo continuo tra la foresta e l’atmosfera. Saltò allora dentro gli scavi e cominciò a studiare il terreno, strato dopo strato. Ed ecco lì il segreto svelato: un leggero manto di argilla impermeabile raccoglieva tutta l’acqua immagazzinata dall’humus della foresta. Evaporazione, condensazione, nebbia, gocce di rugiada sulle foglie, inumidimento dell’humus: un ciclo vitale continuo dove la foresta assorbiva l’umidità dell’atmosfera anche durante i periodi senza pioggia.
Da qui allo scavo di gallerie che seguissero lo strato sotterraneo di argilla, il passo fu breve. Le gocce, milioni, miliardi di gocce divennero rivoletti. I rivoletti, convogliati nell’acquedotto, si trasformarono in vita per cento, mille, centomila persone in più.

Un lungo cammino

Dopo quarant’anni i risultati sono là, davanti a tutti. C’è una rete di oltre 250 chilometri di tubi con molti serbatorni sparsi sul territorio; ci sono centinaia di water points (lett. punti acqua) e rubinetti comunitari, in villaggi, posti di mercato e case; decine di scuole e centri di salute possono riempire i loro serbatorni, e oltre 270 mila persone e quasi 70 mila animali beneficiano dell’acqua della foresta pluviale del Nyambene. Ogni giorno, quando le stagioni sono regolari, 3 milioni e mezzo di litri vengono distribuiti (ca. 13 litri per persona, non contando gli animali). Non molti secondo i nostri standard (noi consumiamo in media 80 litri a testa al giorno!), molto meglio di quando di litri ne avevano solo 40 per famiglia alla settimana, ma ancora molto lontano dal livello minimo di 25 litri per persona al giorno suggerito dalle Nazioni Unite.
Durante i periodi di siccità, che non mancano mai, l’acqua viene razionata e ridotta a un milione e mezzo di litri al giorno, equivalente a solo 6 litri a testa. Poco sì, ma … è vero, dopo quarant’anni di lavoro c’è ancora molto da fare per assicurare quello che è un bene essenziale e un diritto fondamentale di ogni uomo (checché ne dicano certe convenzioni interazionali manipolate dalle lobby dei signori dell’acqua che ne vogliono la privatizzazione a tutti i costi).
Evidenzio poi, tra gli altri, due grossi risultati: il centro per bambini polio a Tuuru è quasi senza clienti e, dopo quarant’anni, il progetto continua a funzionare, cresce ed è pieno di nuove idee. Se pensate che questo sia un risultato da poco, basta ricordare che moltissimi altri progetti contemporanei o simili sono disastrati o defunti.

Verso il luogo di costruzione dell’URA Dam 3

Un sogno che cerca altri sognatori

L’ultimo sogno? Fare una diga in foresta per creare un grande bacino artificiale sul torrente Ura (che si perde presto nel fiume Tana), e poter immagazzinare la maggior quantità possibile di acqua, sfruttando le piogge torrenziali caratteristiche del posto. Ci sono già due piccole dighe che insieme immagazzinano 63,5 milioni di litri di acqua, il sufficiente per ammortizzare 20 giorni di distribuzione durante i periodi di siccità o di disastri naturali. Ma è niente quando la siccità dura per mesi, come è successo già più volte, l’ultima l’anno scorso, 2009, quando fu necessario razionare l’acqua per oltre cinque mesi. Così il non più giovane Giuseppe (il prossimo novembre avrà 78 anni) accarezza un sogno: una nuova doppia diga che raccolga prima 500 milioni e poi un miliardo di litri, allora sì, i lunghi periodi di siccità non farebbero più paura, e ci sarebbe acqua anche per orti e piccoli campicelli.
Questo sogno non è di ieri, Giuseppe, i suoi amici e collaboratori del Tuuru Water Scheme (TWS) ci stanno lavorando dal 2006. I progetti sono pronti nei minimi particolari, persone generose ci hanno lavorato per anni con Mukiri. Il tutto è stato studiato in ogni dettaglio, secondo la filosofia che ha caratterizzato il TWS fino ad ora: rispetto, difesa e miglioramento dell’ambiente, coinvolgimento della popolazione locale e tecnologia non invasiva. Questi sono i tre capisaldi che hanno  fatto sì che il TWS sia ancora vivo e funzionante, esempio studiato e copiato in tutto il mondo.
Una meraviglia ecologica
Entrare nella foresta del Nyambene è come entrare in una cattedrale gotica. Lasciato il campo di Mukululu, dove Fratel Giuseppe Argese ha la base, si sale attraverso una strada sterrata stretta che zigzaga nel verde di splendidi campi di tè che assediano la foresta da tutti i lati. Entrati nella foresta viene subito da guardare in su in cerca della luce che penetra a stento tra il fitto fogliame, gli alberi enormi come colonne che sostengono il cielo. La foresta è una fragile e stupenda meraviglia ecologica, un prodotto di milioni di anni di paziente lavoro della natura su quello che resta di un vulcano spento, una delle tante bocche ai piedi del maestoso vulcano che era il Monte Kenya.
In questa foresta centinaia di uomini hanno lavorato per oltre quarant’anni a caccia di acqua, e il loro impatto è minimale. Le piste sono strette e zigzaganti tra albero ed albero, abbastanza per passare con un trattore o un fuoristrada. Dove si è lavorato, altri alberi sono stati piantati; dove i lavori sono di tanto tempo fa, la foresta ha riconquistato i suoi spazi perduti. Una pattuglia attenta di guardiani protegge dai boscaioli abusivi a caccia di legno pregiato, come la canfora. I sentieri sono rinforzati con paletti per farne delle scalinate onde evitare inutili erosioni. I disastri naturali sono curati, anche a costo di enormi sacrifici, come è successo l’anno scorso, quando dopo una notte in cui sono caduti 200 millimetri di pioggia, si sono registrate grosse frane, cedimenti negli sbarramenti e occlusioni ai punti di raccolta acqua.
C’è poi il piano di cintare la foresta, registrata dal governo come area protetta, per evitare le intrusioni, il disboscamento e l’impoverimento del manto boschivo a difesa di un’area essenziale alla vita di tante persone. Il tutto accompagnato anche da un lavoro di sensibilizzazione nelle scuole e nelle comunità locali, tante volte manipolate da affaristi o politicanti senza scrupoli che vorrebbero mettere le mani su una realtà dalle grandi potenzialità economiche (legname) e politiche (controllo di voti e mani sui fondi di gestione e mantenimento del progetto TWS).

Che possiamo fare?

In questi quarant’anni si sono spesi (bene) miliardi di lire in un progetto amato dalla gente e stimato a livello internazionale. Il finanziamento locale (la gente paga 2 centesimi di euro per ogni 20 litri di acqua, ma non tutti pagano) serve per la manutenzione ordinaria, il rinnovamento delle linee, i salari del personale impiegato nella gestione e manutenzione della rete. Per il grande sogno, la nuova diga con relativo bacino, sono necessari circa un milione di euro.
Sono in molti a crederci: la Diocesi di Meru, il TWS, gruppi di amici ed Onlus (anche la nostra) e Ong varie. Fratel Giuseppe è sereno su questo. Ha cominciato senza soldi e la Provvidenza ci ha pensato. Se anche questa è un’opera che Dio vuole, i soldi arriveranno.
Per gli ampliamenti a livello locale, piccole linee aggiuntive e nuovi punti di distribuzione, si punta invece molto sulla cooperazione locale con l’aiuto di mini progetti sostenuti da amici in tutto il mondo. È in questo contesto che l’esperienza seguente trova il suo spazio. Vi lascio a Samuele Cattaneo, che condivide con noi una storia bellissima.

LA FONTANA DI SUSANNA

Gianluca Water Point

Quante volte chi – come noi – ha figli in età scolare si è domandato il senso dei ripetuti regali di fine anno scolastico o di fine ciclo propinati alle insegnanti? Quante discussioni sfibranti sono state fatte circa il colore della cintura o la caratura della collanina, o la pietra dell’anellino – dell’ennesimo anellino di cui talune insegnanti magari prossime alla pensione hanno pieni i cassetti? Per i nostri tre figli Isacco, Noemi e Susanna, un sacco di volte. Forse per questo motivo, quando Noemi concluse la scuola dell’infanzia, come rappresentanti di classe proponemmo, ai genitori dei bambini che avrebbero definitivamente salutato la maestra Donatella, di pensare a qualcosa di diverso, e forse a lei più gradito. Donatella è stata insegnante d’asilo anche di Isacco, che ora ha 11 anni: la conosciamo bene fin da quel tragico anno (Isacco era al suo secondo anno di scuola materna) in cui in un incidente stradale perse Gianluca, suo unico figlio diciannovenne, dopo più di un mese di terapia intensiva. Con tantissima fatica Dona(tella) si è rialzata dalla grande tristezza, e ha continuato a far crescere con amore i nostri figli e i figli di molte altre famiglie di Gallarate. E dunque quale regalo migliore poteva esserci se non quello di dedicare a Gianluca qualcosa di speciale? Di certo Dona l’avrebbe gradito più che non l’ennesimo ciondolo d’oro bianco … Bisognava solo trovare qualcosa di più comprensibile e utile tanto a chi riceveva, quanto a chi offriva il dono, in questo caso famiglie di bimbi di 5/6 anni. In quell’anno a scuola Dona aveva trattato ampiamente il tema dell’acqua, all’interno di un percorso di educazione ambientale, facendo comprendere quanto questa sia un dono prezioso, da rispettare e non sprecare, soprattutto pensando a quei paesi che ne soffrono l’estrema scarsità. L’acqua è un diritto di tutti, e di tutto bisogna fare perché tutti ne abbiano disponibilità. Perché allora non dedicare a Gianluca la costruzione di un pozzo? Ci siamo subito informati presso diverse associazioni ed ONG, laiche ed ecclesiali, ma ci siamo subito scoraggiati: l’importo minimo per l’escavazione di un pozzo nelle diverse microrealizzazioni a noi note non era inferiore ai 2.500 euro; noi avremmo al massimo potuto raccoglierne 500, almeno inizialmente …

L’incontro con Mukiri

La Provvidenza ha poi fatto sì che la nostra ricerca incrociasse la storia di Fratel Argese e della sua opera come fratello missionario della Consolata in Kenya. Là, da quarant’anni, Mukiri, il silenzioso, unendo ingegno e fatica al naturale fenomeno della rugiada mattutina prodotta dalla fortissima escursione termica lungo le pendici del Monte Nyambene, ha realizzato un sistema idrico che eroga acqua potabile in centinaia di punti di distribuzione ed evitando così decine di chilometri a piedi per l’approvvigionamento d’acqua. Contattati i missionari della Consolata a Torino scoprimmo che con le nostre forze avremmo potuto realizzare un punto di distribuzione per rendere più usufruibile l’acqua di Mukiri. Ecco cosa avremmo regalato a Dona come segno di riconoscenza per l’affetto e la dedizione educativa di quegli anni: un rubinetto aperto in Kenya, a circa 5.800 km da Gallarate!
«Dal Cielo, dove Gianluca abita tra le braccia del Padre Buono, scende la rugiada. Le mani silenziose di Mukiri l’hanno incanalata in mille zampilli che dissetano la gente di Mukululu, e gli allievi grandi di Dona, che lasciano la scuola materna, “hanno aperto” un altro rubinetto, quello della Fontana di Gianluca. Altri bambini berranno da lì, ricordandosi dei loro amici italiani, della loro maestra e di suo figlio».
Con non poche difficoltà queste parole ci aiutarono a convincere gli altri genitori, un po’ frastornati dalla novità dell’iniziativa, e una sera, tutti in pizzeria insieme a Dona, i bambini alternarono la lettura della filastrocca «La fontana di Gianluca» con le loro grida ripetute come tam tam nella savana. Pochi mesi dopo, grazie alla fattiva collaborazione di P. Adolfo De Col, giungeva a Dona la foto del «Gianluca’s water point», come là ormai viene chiamato.
Questa nano-realizzazione ebbe poi un seguito imprevedibile: l’idea di dedicare alla memoria di una persona cara una parte dell’impianto di distribuzione idrica del progetto acqua di Mukiri raccolse altre adesioni: ormai sono numerose le “fontane” che hanno un nome italiano sulle colline del Nyambene.
Ma lo Spirito non aveva smesso di soffiare …

Una goccia di nome Susanna

Pochi anni dopo, nel 2007, Isacco doveva partecipare alla sua messa di Prima Comunione. E anche qui si ripeteva il solito rito consumistico del regalo che ci lasciava tanti dubbi. Pensammo allora che le fontane di Mukiri potevano essere anche qualcosa di diverso da cippi funerari: perché non suggerire ai missionari della Consolata il meccanismo delle “bomboniere solidali” della Caritas Ambrosiana? Al posto dei soldi gettati in angioletti in gesso o in peltro, potevamo offrire gocce di rugiada per una nuova fontana in Kenya, non più dedicata alla memoria di un defunto, ma come segno vivo di una promessa di vita cristiana, di volta in volta arricchita dai doni sacramentali. Iniziammo così a versare le nostre prime offerte per «Isaac’s water point», la Fontana di Isacco. In calce alla targa della fontana, non più una data di morte, ma la scritta «Jesus give him Living Water, Living Bread» (Gesù, donagli l’Acqua viva, il Pane vivo).
Poi il 27 dicembre 2008, alle ore 8.50, un’altra goccia cadde sul Monte Nyambene. Non era una goccia di rugiada, ma la prima di tante lacrime versate da quella mattina per la morte improvvisa di Susanna, la nostra piccola di tre anni e mezzo, stroncata in meno di 48 ore da una polmonite fulminante… «Guidami, Luce Gentile nel buio che mi avvolge, Guidami Tu. La notte è oscura e la casa è lontana, Guidami tu. Custodisci i miei passi. Non ti chiedo di vedere l’orizzonte lontano, un passo alla volta è abbastanza per me …» (J. H. Newman).
Ci fece subito visita la direttrice dell’asilo, insieme a Dona (Susanna da tre mesi aveva iniziato, ancora con lei, la scuola materna): «Molti genitori vorrebbero offrire dei fiori, ma ho preferito prima chiedere a voi»… Guardo negli occhi Daniela (mia moglie) e subito rispondiamo che avremmo preferito dirottare questi soldi … in un’altra fontana. «Susanna’s water point – A life that is lit and that will never stop shining»: una vita che si accende e non si spegnerà mai, furono le parole che ci disse il nostro Vescovo in quei giorni e che ora si leggono sull’insegna di quella fontana in Kenya.
Alla fine della celebrazione della «Nascita al Cielo di Susanna» c’era la necessità di parlare ai numerosissimi bambini presenti: cosa dire per rendere meno dolorosa la partenza della loro amica, o compagna o sorella dei loro compagni di scuola? Forse bastava spiegare che le nostre lacrime dovevano trasformarsi in gocce di rugiada, e raccontare di nuovo la storia di Mukiri: «… E sapete, bambini? Da oggi, per la generosità di molti tra i presenti e in ricordo della vostra compagna di scuola, di queste fontane di rugiada, ce ne sarà una in più, a disposizione di tutte le mamme dell’Ura Valley, a nord del vulcano Nyambene. La chiameremo la Fontana di Susanna. Perché a Susanna piaceva scavare e giocare con la terra. Perché nelle sue ultime ore Susanna aveva una gran sete e oggi dal Cielo sarebbe contenta di offrire un po’ d’acqua a chi la prova tutti i giorni in terra d’Africa. Perché anche Susanna è un po’ come una goccia di rugiada, che una mattina è caduta, piccolissima, nella terra, che ora sembra non esserci più, ma che non smetterà mai di dissetare con la sua vivacità le arsure della nostra esistenza».

Nano-realizzazioni

Il testo girò nelle scuole, la notizia della micro realizzazione si diffuse tra le famiglie, gli allievi e le orchestre in cui suona Daniela, tra i colleghi di lavoro, il Nuoto Club a cui sono iscritti i nostri figli, parenti e amici. Nel giro di pochi mesi la somma raccolta fu così consistente che ci ha permesso di offrire, oltre alla Fontana di Susanna, anche la cucina e la sala mensa dell’Asilo Infantile di Mukululu, là dove Mukiri, dopo averne dissetato i corpi, ora disseta anche la mente dei bambini del Nyambene!
La notizia della Fontana di Susanna ha ridato nuovo vigore all’idea della nano-realizzazione: sono sempre più numerose le persone che si sono rivolte ai missionari della Consolata per dedicare un punto di distribuzione idrica a persone defunte o a testimonianza di un sacramento ricevuto.
Forse un giorno avremo la possibilità di unirci a quanti ogni anno partecipano alla carovana dei missionari della Consolata in Kenya, e lavare le nostre quotidiane lacrime alla Fontana di Susanna. Per ora ci basta gioire, ogni mattina presto, nel vedere una goccia di rugiada velare l’erba sotto casa: anche a 6.000 km da lì Susanna, in braccio a Dio Padre, sta dissetando nello stesso modo qualche suo e nostro fratello africano.

Gigi Anataloni e Samuele Cattaneo

La cascata dell’Ura, all’origine del torrente Ura, è dentro nel cuore della foresta. Qui c’è sempre acqua.