Il sogno di Jeff

Israele e Palestina: tra pareti abbattute e muri eretti

È possibile avviare un processo di riconciliazione, oggi, tra Israele e Palestina? Lo abbiamo chiesto all’antropologo e attivista isrealiano Jeff Halper, direttore del Comitato isrealiano
contro la demolizione delle case (Icahd).

Più di una volta la nostra rivista ha affrontato il tema del conflitto isrealiano- palestinese. Vorremmo chiedere se, oggi come oggi, vedi una qualche possibilità di riconciliazione fra le due parti.
Parlare di  riconciliazione è  prematuro. Questa può e deve avvenire soltanto dopo aver stabilito un accordo di pace. Ci sono stati in passato molti tentativi di dialogo tra israeliani e palestinesi; continuiamo  sempre a dire che faremo lo sforzo di capirci di più, che ci conosceremo meglio, che parleremo dei nostri problemi… Purtroppo, sono tutti tentativi che, in realtà, non hanno mai funzionato; anche perché il governo israeliano non ha mai manifestato la volontà di smantellare, far cessare l’occupazione. Né che al governo ci fossero i laburisti, il Likud, o qualsiasi altro partito.
Chiaramente, quando i palestinesi entrano in dialogo con gli israeliani che fanno parte di un movimento di pace, si rendono conto che questi ultimi non sono in realtà capaci di influenzare la politica del loro governo e quindi il dialogo si esaurisce ben presto perché i palestinesi dicono: «Non possiamo normalizzare le relazioni, imparare a conoscere meglio voi israeliani, diventare amici e, nel contempo, continuare a subire l’occupazione». Bisogna eliminare l’occupazione dai territori palestinesi e poi si potrà iniziare a dialogare. Non possiamo mettere il carro davanti ai buoi.

Cosa ostacola l’inizio di un processo di normalizzazione e, quindi, di pace e riconciliazione?
Il vero problema è rappresentato dalla politica e dalle strategie politiche che vengono prima di ogni processo di riconciliazione. Ciò che mi sorprende sempre è il fatto che non vi sia odio fra la gente comune delle due parti in conflitto. Anzi, in questo senso, penso che siamo noi israeliani ad essere in difetto. Siamo indifferenti ai palestinesi, non ci importa di loro, non ci importa neppure di odiarli; semplicemente, viviamo la nostra vita. Loro sono arabi, vivono sullo sfondo, appartengono allo scenario, non influenzano la nostra vita, siamo convinti di potee fare a meno. L’economia israeliana sta andando bene, il turismo si sta riprendendo… gli israeliani si sentono tranquilli. Il fatto è che noi possiamo  vivere tranquillamente con l’occupazione, non ci pensiamo neppure all’occupazione. Ecco il vero problema.
Per contro, la maggior parte dei palestinesi andrebbe anche d’accordo con gli israeliani… Tutto sommato, non credo che sentano odio verso di noi. L’anno scorso ho fatto parte di uno dei primi gruppi che sono riusciti ad entrare a Gaza rompendo l’assedio dopo l’operazione «Piombo fuso». Ero l’unico isrealiano. e c’erano un sacco di persone che mi chiamavano, mi invitavano per un caffè; alcuni, i più anziani, volevano perfino parlare ebraico. E non di politica, non volevano fare discorsi politici…si chiedevano semplicemente come si sarebbe potuti uscire tutti insieme da questa situazione, da questo marasma che si era creato. Era una conversazione fra gente comune che non discuteva di soluzioni «politiche» come quelle che si potrebbero prendere a livello governativo: gli isrealiani qui, i palestinesi dall’altra parte;  meglio una soluzione che contempli uno stato unico, oppure due stati… Niente di tutto ciò. La conversazione partiva dal dato di fatto che ci fosse un “noi” da tenere presente, protagonista di tutta la vicenda: «Perché “noi” non possiamo semplicemente vivere in questo paese? “Noi”, israeliani e palestinesi. Già viviamo tutti nello stesso paese, perché non possiamo convivere tranquillamente?». Questo discorso, fatto da gente comune, mi ha colpito profondamente; è stato importante per me ascoltare ciò che la gente mi stava comunicando. Se loro avessero detto: «Noi palestinesi “dobbiamo” vivere con voi israeliani, siamo costretti a farlo, ma non lo vorremmo assolutamente», la situazione sarebbe stata radicalmente diversa. Ma quello che si stava invece dicendo è: «Siamo qui tutti insieme, allora viviamo in pace tutti insieme». E, lo diceva la gente comune, che è comunque la maggioranza. Su questa base potrebbe iniziare un cammino di riconciliazione, ma la premessa è, ovviamente, la possibilità di avere una vera pace.

E dal punto di vista di Israele?
Non è che la gente di Isreale sia di principio contro la pace; semplicemente agli israeliani non importa nulla di impegnarsi in un processo di pace. L’insistenza dei governi  non è sull’idea di pace, ma su quella di sicurezza, cosa che convince la gente della necessità di continuare l’invasione, di costruire il muro, ecc..
Gli israeliani, per dirla molto brutalmente, possono convivere tranquillamente con l’occupazione, non trovano una seria motivazione per terminare con essa; non c’è una vera pressione internazionale che possa obbligarci ad agire diversamente, l’economia tira, le condizioni di vita della gente sono tutto sommato favorevoli, il terrorismo è in calo e ci si sente sicuri, quindi… 
Il grande problema è che il ritornello della nostra classe dirigente, sia di sinistra che di destra, è sempre stato: «Gli “arabi“ (noi non usiamo il termine palestinese, perché non li riconosciamo come tali), sono fatti così, sono nemici permanenti, ci odiano, non cambieranno mai».
Uno si rende conto che la cosa è semplicemente ridicola, ma è ciò che gente comune crede. La gente dice: «Noi vorremmo la pace ma gli arabi non lo permetterebbero mai. Abbiamo lasciato Gaza e hanno iniziato a lanciarci dei missili, se ora abbandoniamo anche la West Bank sarebbe ancora peggio».
Anche coloro che non hanno mai partecipato direttamente all’occupazione, che non sono mai diventati coloni, sono però convinti che gli «arabi» ci vogliano buttare a mare. E se si dà eccessivo credito a questa visione, viene meno la fiducia nel trovare una soluzione politica al conflitto e cresce la tentazione di appoggiare i partiti più intransigenti nei confronti dei palestinesi e meno inclini a cercare soluzioni politiche e più favorevoli a quelle militari. È un circolo vizioso dal quale è difficile uscire.
La cosa veramente sorprendente è che pur essendo Israele una società aperta, il 90% degli israeliani ha approvato l’invasione di Gaza dell’anno scorso. È un dato incredibile, testimone di un sentimento assolutamente trasversale, che va ben al di là della dialettica politica fra destra e sinistra.  Un sacco di gente di sinistra ha accettato l’idea che, per la nostra sicurezza, noi dobbiamo usare la mano dura nei confronti dei palestinesi.
Israele non vuole accettare nessuna responsabilità e preferisce presentarsi come una vittima. È un fenomeno che appare chiaro anche solo dalla lettura quotidiana dei giornali; per esempio, si giustifica la costruzione del muro per cercare di evitare che i “terroristi” vengano messi a contatto, si mischino con le loro “vittime”. Se tu sei la vittima non potrai essere considerato responsabile e Israele è proprio questo che non accetta: la responsabilità.
Chiaramente, per poter continuare ad essere la vittima ed evitare di assumerti le tue responsabilità è meglio non conoscere, essere lasciati nell’ignoranza delle cose. Lascia che ti faccia un esempio. Uno dei miei migliori amici, professore universitario in Israele, definisce il muro “lo steccato”. Gli sembra una parola migliore, più elegante. Gli ho detto varie volte: «Dammi 10 minuti che ti faccio fare un giro in macchina e ti faccio vedere questo «steccato di cemento alto 8 metri », ma lui si è sempre rifiutato, anche perché dopo averlo visto non potrebbe continuare a chiamare tranquillamente «steccato» un muro di quel genere. C’è quasi come uno sforzo conscio e deliberato da parte nostra di non vedere, di non vedere e di non sapere. Così possiamo continuare tranquillamente a giocare il ruolo di vittime…

Qual è il tuo sogno? Che paese vorresti lasciare nelle mani dei tuoi nipoti?
Vorrei che Israele fosse un unico stato democratico, non in un territorio con due stati differenti.  Questo è il sogno. Oggi, però, ci troviamo in una situazione politica particolare in cui, se da una parte l’idea dei due stati va esaurendosi , occorre constatare realisticamente che non siamo ancora pronti per rivendicare l’idea di un unico stato. Ma cosa vorrei davvero arrivare a vedere, sarebbe un qualcosa di simile a ciò che era la Comunità Economica Europea 30 anni fa: una confederazione economica. In altre parole: Israele, Palestina, Giordania, Siria, Libano a formare un territorio in cui tutti siano liberi di muoversi, di lavorare, di vivere liberamente al suo interno: una sorta di piccola Schengen medio-orientale. Questa, credo, sarebbe un’alternativa possibile ed idonea alla nostra situazione. Lo dico perché non penso che la soluzione dei nostri problemi si possa trovare all’interno dei confini di un unico stato; sono tutti problemi regionali (acqua, sicurezza, sviluppo, rifugiati), che non possono essere circoscritti al  territorio israeliano-palestinese. Bisogna guardare a un’unità più vasta, che comprenda anche i paesi arabi più vicini. Questo darebbe inoltre più sviluppo economico all’interno della regione. Peccato che, purtroppo, nessuno stia riflettendo e lavorando seriamente a questa idea.

Che cosa significa l’uso del bulldozer in un contesto di guerra? Che messaggio trasmette?
Nel contesto del conflitto che stiamo vivendo, i messaggi che vengono trasmessi sono essenzialmente due; il primo è: «Noi siamo al potere e non abbiamo bisogno di voi. Nessun discorso di uguaglianza, non siamo soci… questo è il nostro paese». Il secondo, conseguenza del primo, è: «Fuori di qui!».
 Se tu neghi una casa ad una persona, è come se gliela negassi anche collettivamente, neghi a questa persona il diritto di appartenere a una comunità, il diritto di avere una patria. Questo è il messaggio di fondo che si vuole trasmettere se si demolisce la casa di un altro. La politica delle demolizioni portate avanti dal governo israeliano rappresenta in un certo senso la vera essenza del conflitto. Dal 1967 ad oggi Israele ha demolito più di 24 mila abitazioni palestinesi nei territori occupati. Il nostro lavoro per la riconciliazione consiste oggi soprattutto in questo aspetto. Quando noi ricostruiamo case lo facciamo anche in vista dell’avviamento di un processo di riconciliazione… Diciamo che il nostro lavoro di riconciliazione è oggi politico: consiste nell’essere presenti, nell’aiutare, appoggiare, ma sul territorio consiste nel resistere fisicamente alla demolizione. Resistiamo, ci incateniamo fisicamente alle case perché non vengano distrutte e per questa ragione veniamo anche arrestati… Inoltre, raccogliamo dei fondi per ricostruire case che sono state demolite. È un’azione pacifica di resistenza, non un atto militare. Negli ultimi 10 anni abbiamo ricostruito 165 case, siamo palestinesi e israeliani, uniti in un atto politico e non-violento di resistenza. Vi sono case che sono state distrutte anche due, tre, volte e noi ogni volta le ricostruiamo. Forse non si può materialmente parlare di riconciliazione, ma si tratta, comunque,  diun tentativo per mantenere viva la solidarietà, la nostra voglia di vivere e lavorare insieme. Quando intravedi una soluzione politica dei conflitti allora anche la riconciliazione diventa possibile; i palestinesi vedono che vi sono israeliani che hanno voglia di impegnarsi per una pace giusta. Senza questo ponte politico fra le due parti non credo che si possa arrivare un giorno a parlare di riconciliazione. 

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Resistere Resistere Resistere

Taybeh: ultimo villaggio interamente cristiano

Tre campanili e nessun minareto: l’antica Efraim è l’unico villaggio palestinese interamente cristiano, ma è a rischio estinzione: varie iniziative provvedono lavoro e motivazioni perché la gente resista alla tentazione di emigrare.

La sua storia risale a migliaia di anni prima di Cristo, quando arrivarono nella regione alcuni clan cananei, provenienti dalla penisola araba; una storia travagliata fin dal nome, citato almeno sei volte nella bibbia come Ofra, Efron, Efraim, Afra, finché nel 1187 il Saladino gli diede il nome definitivo: era capitato che, ricevendo gli omaggi di una delegazione di Afra, il presentatore storpiò talmente il nome da significare «demonio malefico»; affascinato dalla bellezza e gentilezza dei delegati, il condottiero musulmano cambiò il nome in «Taybeh», che significa «Bello di nome».
Taybeh è bello anche di fatto, con le sue casette bianche appollaiate su una collina sassosa, 35 chilometri a nord-est di Gerusalemme, ai margini della Samaria e del deserto di Giuda. Visto da lontano assomiglia ad altri innumerevoli villaggi arabi disseminati nelle zone collinose della Terra Santa; è così piccolo che non figura sulle mappe ufficiali di Israele e Palestina; ma quanto più ci si avvicina tanto più appare la sua singolarità: al posto del solito minareto e rispettiva moschea, spiccano tre bei campanili di altrettante chiese cristiane: la cattolica latina, che conta oltre 750 fedeli, quella greca-ortodossa con poco più di 450 membri e quella greco-cattolica o melchita con circa 160 seguaci.
Storia e tradizioni
«Taybeh è l’unico villaggio della Terra Santa abitato da soli cristiani: tutti arabi. Anch’io sono arabo, nato a Jenin 42 anni fa; dal 2002 sono parroco della comunità cristiana di rito latino» esordisce don Raed Abusalhia, parlando ai visitatori, come fa ogni domenica dopo la celebrazione della messa. Di solito li accoglie nella «Sala del divano», ammobiliata come una tenda di beduini; questa volta, però, ci raduna tutti in chiesa, poiché due gruppi di ospiti (indiani del Kerala e cristiani uniati di San Francisco, Usa) sono troppo numerosi.  
«Gli abitanti del villaggio sono tutti arabi – ripete don Raed – e si vantano di essere stati evangelizzati da Gesù in persona, come si legge nel vangelo». Dopo la risurrezione di Lazzaro, racconta l’evangelista Giovanni, «i sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio… e decisero di uccidere Gesù. Pertanto egli… si ritirò di là nella regione vicina al deserto, in una città chiamata Efraim, dove si trattenne con i suoi discepoli» (Giovanni, 11,47-54).
L’enunciato evangelico è molto scao. Ma ci ha pensato la fantasia mediorientale a fornire altri dettagli, a cui si ispira anche don Raed. «Gesù venne in questo luogo per quattro motivi – continua il parroco. Primo perché la Samaria è un posto tranquillo e i samaritani sono ospitali; secondo perché questo era un luogo di rifugio e chi vi accorreva godeva di immunità e non poteva essere perseguito neppure dai rabbini; terzo perché qui Gesù aveva degli amici a cui ricorreva nelle difficoltà; soprattutto egli venne in questo luogo quasi desertico per prepararsi agli ultimi eventi della sua vita, come aveva già fatto tre anni prima, ritirandosi a pochi chilometri da qui, sul monte della Quarantena o delle Tentazioni, per prepararsi alla sua vita pubblica».
Secondo la tradizione, proprio sulla strada verso Efraim sarebbe avvenuta la guarigione dei 10 lebbrosi (Luca 17,12) e il samaritano guarito avrebbe accompagnato Gesù fino al villaggio, gridando talmente la sua felicità che gli apostoli ne furono irritati. Ma Gesù, continua la leggenda, si fermò, chiamò il samaritano, lo benedisse e lo congedò. L’uomo, baciando il suolo, chiese un nuovo nome e Gesù lo chiamò «Efraim», che significa «doppio frutto», cioè, la vita ricevuta due volte.
Un’altra tradizione racconta che, arrivato ad Efraim, i notabili del villaggio lo invitarono a restare con loro, poiché quelli del tempio lo odiavano, e un ragazzo gli corse incontro con un melograno. Gesù ne approfittò per raccontare una parabola. Spaccò il melograno e lo mostrò ai presenti, dicendo: «I chicchi di questo frutto sono dolci, come sapete, ma sono racchiusi in una membrana molto amara. Così il Figlio dell’uomo deve passare attraverso le amarezze della morte, prima di gustare la dolcezza della risurrezione».  
Anche alla Madonna, venuta a Taybeh per trovare il Figlio, la gente avrebbe offerto un melograno. A tale leggenda si ispira l’icona della «Madonna di Efraim», in cui la vergine è rappresentata con in mano il melograno, frutto sacro in oriente, simbolo di pienezza, fecondità ed eternità.
«Leggende a parte – continua il parroco – i cristiani di Taybeh rivendicano la discendenza apostolica della loro fede e la consapevolezza di avere mantenuto vivo il vangelo da due mila anni senza interruzione, resistendo all’islamizzazione avvenuta invece nel resto della Palestina. Tale resistenza e costanza nella fede è testimoniata dalle rovine di due antichissime chiese bizantine costruite nel paese fin dall’inizio del IV secolo. In una di esse, El Khader o chiesa di san Giorgio, potete vedere il battistero in cui gli abitanti di Taybeh hanno attinto e continuano ad attingere la fede cristiana» (vedi riquadro).
Uniti  dalla stessa sorte
Taybeh è un laboratorio di ecumenismo. I parroci delle tre comunità formano un comitato che si incontra una volta al mese per discutere i problemi della gente, trovare soluzioni ed anche per pregare insieme, fatto non comune in Terra Santa. Tale intesa è necessaria anche perché molte famiglie, in seguito ai matrimoni misti, fanno parte di più chiese. Per evitare confusioni in famiglia e di fronte ai musulmani, le tre chiese hanno concordato di celebrare natale e pasqua nelle stesse date, nonostante le differenze di calendario: natale il 25 dicembre, secondo il calendario gregoriano-latino, e pasqua seguendo il calendario giuliano-ortodosso.
«Qui pratichiamo l’ecumenismo della vita. Non capisco perché, con tanti incontri ecumenici ad alto livello non si riesca a stabilire una data definitiva per la pasqua valida per tutte le chiese cristiane nel mondo, senza dipendere dalle fasi della luna» sottolinea polemicamente don Raed, tra sonori applausi degli uniati americani.
«Coltiviamo buoni rapporti anche con i musulmani: una quarantina locali (“ospiti di passaggio” dicono i paesani), e quelli dei 16 villaggi circostanti. Noi cristiani ci sentiamo palestinesi a tutti gli effetti. Viviamo insieme da almeno 14 secoli e ci sentiamo un solo popolo: stesse tradizioni, stessa lingua, stessi problemi, stessa sorte. Nel conflitto in corso non rappresentiamo una terza parte, ma siamo sulla stessa barca con i nostri fratelli musulmani e abbiamo a cuore la liberazione della nostra terra in modo pacifico, senza essere antisemiti né anti-israeliani».
Don Raed insiste nell’affermare che lui e la sua comunità sono arabi, per confutare una certa «propaganda» che identifica il cristiano con l’occidentale e lo contrappone all’arabo islamico. «A volte ci capita di essere vittime di reciproci “pregiudizi”, ma con il dialogo riusciamo a superarli». Lo prova il fatto che gli alunni più piccoli della scuola del Patriarcato Latino sono per un terzo musulmani: vengono dai villaggi vicini, compagni di scuola dei ragazzi di Taybeh con normalissime relazioni di amicizia.
«Noi cristiani – continua don Raed – non vogliamo essere definiti “minoranza”: parola che in arabo ha la stessa radice di debole, perseguitato, straniero. Niente di tutto questo. La nostra rilevanza non dipende dal numero, ma dal tipo di presenza e testimonianza che riusciamo a garantire». Ma non si pensi che sia facile restare cristiani in Terra Santa. «Il problema principale è la mancanza di libertà, in seguito all’occupazione militare israeliana e alla politica di sicurezza, diventata più oppressiva dopo lo scoppio della seconda intifada» spiega don Abusalhia. Centinaia di chilometri di «muro», posti di blocco, check points tengono i palestinesi prigionieri nei loro territori, dai quali non possono uscire senza uno speciale permesso, rilasciato dall’amministrazione israeliana solo per motivi particolari.
Tale isolamento è reso più pesante dalla politica di colonizzazione perseguita dal governo ebraico senza sosta e con ogni mezzo, comprando dai palestinesi o espropriando con la forza i loro terreni. Attoo a Taybeh ci sono già cinque insediamenti ebraici e quello di Ofra continua ad espandersi, erodendo anche il territorio del villaggio cristiano. Tale politica rende più difficile gli spostamenti anche all’interno dei territori palestinesi: alcune strade sono riservate esclusivamente alle auto dei coloni israeliani, costringendo i palestinesi a nuovi e più lunghi percorsi. «Prima della costruzione di Ofra – precisa don Abusalhia – il percorso tra Taybeh a Ramallah era di 13 chilometri; oggi è di 35».
Sopravvivenza a rischio
Conseguenza di tale situazione è l’emorragia migratoria, che minaccia la sopravvivenza del villaggio cristiano, al pari della presenza cristiana nel resto della Terra Santa. Prima della guerra dei sei giorni (1967), Taybeh contava 3.400 abitanti; oggi sono più che dimezzati; almeno 7 mila persone originarie di Taybeh sono sparse per il mondo, in America, Giordania o semplicemente a Gerusalemme.
Per frenare tale emorragia le autorità religiose e civili di Taybeh hanno posto in atto varie iniziative. Prima di tutto, contro la minaccia della colonizzazione, è stato costituito un fondo comune, con il contributo degli emigrati, per acquistare i beni di chi decidesse di emigrare: una legge non scritta, ma scrupolosamente osservata, proibisce di vendere ai non cristiani le proprietà, terreni e case, che devono passare da padre in figlio.
Ma non basta: bisogna motivare la gente a restare nel paese, foendo lavoro e prospettive per il futuro. La chiesa ortodossa ha lanciato il progetto per la costruzione di 20 abitazioni: alla raccolta dei fondi contribuiscono anche cattolici romani. «La spesa prevista è di un milione di dollari» chiarisce don Raed, con un sorriso accattivante verso gli uniati americani.
«In tempi di check point e strade chiuse – continua don Raed – è quasi impossibile raggiungere l’ospedale di Ramallah o Gerusalemme; in questi anni, nei check point abbiamo avuto la nascita di 76 bambini e 24 decessi tra madri e bambini. Per questo abbiamo dovuto ingrandire il centro medico, foendolo di una sala parto e altre piccole strutture di emergenza. Oggi il centro medico, nonostante la sua minuscola taglia, offre tutti i servizi di un vero ospedale. E questo grazie al vostro aiuto» conclude il parroco ammiccando agli estasiati americani. E continua senza distogliere lo sguardo dal gruppo califoiano: «Cerchiamo sponsor e volontari per sostenere la scuola, che oggi accoglie oltre 450 alunni, dall’asilo al liceo, e la nostra Beit Afram, la casa di riposo per anziani e di riabilitazione per handicappati, realizzata nel 2005 con fondi donati dalla parrocchia di San Lorenzo in Firenze e gestita dalle suore Figlie dell’Addolorata».
A Taybeh c’è anche una casa di accoglienza per pellegrini e gente di passaggio, intitolata a Charles de Foucauld, il quale passò a Taybeh una prima volta nel 1897 e vi ritoò l’anno seguente per una settimana di ritiro, dal 14 al 21 marzo, traendo da qui ispirazione per ben 35 pagine dei suoi scritti spirituali.
Olio extra vergine e…
 per la pace
La parrocchia cattolica, essendo la più numerosa e meglio organizzata, è l’asse portante di tutto lo sviluppo del paese, valorizzando al massimo le risorse locali e con gli aiuti che vengono dall’estero. «Ma noi cristiani di Terra Santa non vogliamo restare mendicanti, dipendere dagli altri. La nostra gente ha voglia di lavorare e creare prodotti di qualità» continua il parroco.
Appena arrivato a Taybeh don Raed ha creato la Olive Branch Foundation (Fondazione ramo d’olivo) che ha finanziato la realizzazione di un moderno oleificio e l’avvio di laboratori artigianali per la produzione di oggetti di legno d’olivo, sapone, candele, maftul (cuscus), ceramiche… La produzione dell’olio di oliva è un’attività ancestrale a Taybeh, praticata da 300 famiglie su 380, con oltre 30 mila olivi e altri 180 mila nei territori dei villaggi circostanti. Ma l’intifada e relative misure di sicurezza israeliane hanno reso difficile il mercato dell’olio di Taybeh, dimezzandone il prezzo e riducendolo a moneta di baratto.
La gente era così scoraggiata che non si curava più di raccogliere le olive. «Un anno, all’apertura delle scuole, molta gente si trovò senza soldi per pagare la tassa scolastica – racconta don Raed -. Dissi che potevano pagare con l’olio: sei taniche da 16 litri all’anno per ogni studente. Mi ritrovai con oltre trenta ettolitri d’olio d’oliva da smaltire, in compenso la gente trovò nuovo coraggio».
L’installazione a Taybeh del frantornio moderno, senza più dipendere da quello di Silwad, ha permesso di ottimizzare la produzione dell’olio con certi accorgimenti tecnici, come la raccolta ritardata delle olive e la frantumazione in giornata, cosicché l’olio può  essere classificato come «extra vergine». «Nel 2003 – continua don Raed – abbiamo firmato un contratto con una Ong francese, Ater Ego, che assorbe gran parte della produzione locale: oggi l’olio di Taybeh viene venduto in 4 mila supermercati francesi, mentre i prodotti artigianali, tramite il commercio equo-solidale, vengono spediti in ogni parte del mondo».
Un’altra idea del vulcanico parroco, lanciata nel 2004, è la «lampada della pace», una ceramica a forma di lucerna tradizionale o di colomba, che oltre a dare lavoro e di che vivere dignitosamente ad una ventina di famiglie, vuole richiamare l’attenzione sulla Terra Santa, straziata da decenni di conflitto israelo-palestinese, in una situazione che a tutt’oggi sembra senza via di uscita. «Ci resta un ultimo rimedio: rivolgiamo al Signore la nostra preghiera per la pace in Terra Santa, attorno a un’idea semplice e simbolica: la lampada, con olio e luce, è un messaggio di pace da parte nostra e un segno di solidarietà da parte vostra» spiega il parroco sempre rivolto agli americani.
Il suo obiettivo è far giungere le «lampade della pace» a più di 100 mila chiese in tutto il mondo. «Con una tale catena di preghiera che unisce i cristiani di tutto il mondo, il buon Dio ascolterà il nostro appello, non avrà altra scelta!» conclude don Raed, volgendo lo sguardo accattivante anche agli indiani del Kerala.

Di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Cari missionari

I conti della pace

Riflettendo sulla lettera «Armi e bandiere» (Missioni Consolata dicembre 2009), e senza entrare nel merito dell’opportunità o meno dell’acquisto degli F-35, ho pensato di mettere a disposizione la mia competenza professionale (faccio il contabile) per chiarire un po’ la questione dei posti di lavoro che verrebbero creati dall’assemblaggio a Cameri dei suddetti aerei: 300 posti a fronte di un investimento complessivo stimato in 15 miliardi di euro. Facendo la divisione risulta che ogni posto di lavoro verrebbe a costare allo Stato (cioè ai contribuenti) 50 milioni di euro. Ipotizzando che il lavoro per la produzione dei caccia si protragga per un ventennio, è possibile fare un confronto con il costo di un posto di lavoro «pacifico» per lo stesso periodo di tempo Dunque, calcolando (ad abundantiam) in 50 mila euro il costo del lavoro medio annuo (comprensivo di stipendio, imposte e contributi) di un operaio specializzato, o impiegato, o insegnante ecc., e moltiplican- dolo per venti, si ottiene un costo totale per vent’anni di 1 milione di euro, vale a dire un cinquantesimo del costo per ogni unità lavorativa nel programma F-35. Detto in altri termini, con quel che costa un posto di lavoro nello stabilimento di Cameri, si possono creare 50 posti di lavoro nelle industrie civili, nel commercio, nella sanità, nella scuola. In totale 15.000 posti di lavoro invece di 400. Riservati 300 di questi posti di lavoro “pacifici” ai mancati lavoratori di Cameri – al Sig. Pietro perché possa pagare le rate del mutuo, all’Ing. Giorgio appena divenuto papà, al Dott. Giuseppe perché possa mantenere la famiglia, ecc. – con i costi rimanenti si petrebbe permettere a 14.700 altre persone attualmente disoccupate di provvedere agli stessi bisogni.
Tengo a precisare, a scanso di equivoci, che l’abissale differenza nel costo dei posti di lavoro (50 a 1, come detto), non dipende assolutamente da un’altrettanto grande differenza nelle retribuzioni dei lavoratori. Il fatto è che nel programma F-35 l’incidenza del costo del lavoro è minima, il grosso dei costi essendo costituito dalle spese per lo sviluppo (o l’acquisto dagli Usa) delle sofisticatissime tecnologie del nuovo caccia.
Viceversa, il costo per creare un posto di lavoro nell’istruzione o nella sanità equivale in pratica alla sola retribuzione lorda del lavoratore in quanto non si tratterebbe di costruire nuove scuole ed ospedali (che pure costerebbero assai meno dei cacciabombardieri) ma solo di assegnare personale aggiuntivo alle strutture già esistenti, quasi tutte sofferenti per carenza di organico (si veda per la scuola la riforma Gelmini).
Se poi si volessero investire i 15 miliardi di euro nell’edilizia popolare, calcolando in 100 mila euro il costo di costruzione di un dignitoso appartamento, risulta che se ne potrebbero costruire ben 150 mila! A quante persone si darebbe lavoro costruendo 150 mila alloggi? E a quante si darebbe un tetto?

Giorgio Parodi
Asti

Anche la «ragioneria della pace» può essere utile a chiarire i vari aspetti di un problema complesso come quello degli armamenti. Ringraziamo il lettore che ha provato a dare fondamento economico a una discussione che si era finora mantenuta su un piano prettamente etico .

Grazie Antonella

Carissimi amici,
Gesù dice che non c’è amore più grande che dare la vita per coloro che si amano. Così vi racconto di una giovane madre, che ho aiutato a crescere da quando aveva otto anni.
Ho ricevuto tre messaggini dal Kenya. Il primo era del 2 dicembre scorso: «Ho bisogno di preghiere, sono malata. La settimana scorsa mi han detto che ho un cancro del sangue. Sono incinta di sette mesi. Per favore, domanda a Dio che mi dia ancora tre mesi». Il secondo, del 9 febbraio di quest’anno, era scritto dal marito: «Sembra che la fine sia vicina. Dio è stato buono. Abbiamo una bellissima figlia nell’incubatore. I dottori qui non possono fare di più». L’hanno chiamata Olivia. L’11 febbraio è arrivato il terzo: «Mi dispiace. Il Signore ha chiamato Seya questa mattina». In questi tre messaggini si sintetizza il grandissimo atto di amore di Antonella Seya, giovane mamma turkana che avrebbe compiuto 28 anni il prossimo settembre.
Antonella ha dato la sua vita per la figlia che portava in grembo. Non ha scelto l’aborto, che certamente le hanno proposto. Ha dato tutto. Un grandissimo dono, da chi non aveva altro che la sua vita da donare.
Antonella, piccola donna africana, la tua morte non ha fatto notizia, neanche nel tuo paese, il Kenya. Con l’appoggio di molti amici avevo investito tanto su di te, per aiutarti a diventare un’infermiera. Economicamente è stato un povero investimento davvero, visto che hai lavorato solo per pochi anni. Ma sono fiero di te, perché hai dato una grandissima prova d’amore. Sei stata l’investimento più bello che abbia mai fatto.
Approfitto di queste poche righe per ringraziare tutti coloro che han letto la storia pubblicata sulla rivista dello scorso dicembre, «Colei-che-ride non ride più», e hanno dato una mano. Il vostro aiuto è investito specialmente in educazione, perché con l’educazione si combatte la povertà e si rendono persone soggetto del proprio riscatto. Se poi, donando un po’ di affetto, si aiutano anche delle persone a fare delle scelte d’amore, allora l’investimento è davvero perfetto. Grazie di cuore. Se altri vogliono unirsi e dare una mano a far studiare tanti ragazzi e giovani, sono i benvenuti, perché questo servizio ha tempi lunghi e i bisogni sono tanti. Grazie, asante sana (kiswahili), ace olen (samburu).

p. Gigi Anataloni
Torino

I missionari alla Rai: spegnete il gossip,
riaccendete l’informazione

La Federazione Stampa Missionaria Italiana (Fesmi), che raduna una quarantina di testate per un totale di 500mila copie mensili, interviene contro l’intenzione della Rai di chiudere 5 sedi estere.

A meno di clamorosi ripensamenti, la Rai sta per chiudere cinque sedi di corrispondenza nel mondo: Beirut, Il Cairo, Nairobi, New Delhi e Buenos Aires. Cinque su quindici in totale. Stiamo parlando di entrambe le sedi africane, dell’unica in America Latina e di quella in un paese così importante, non solo politicamente ed economicamente, come l’India, oltre che di quella di un paese-simbolo come il Libano.
Se andasse in porto, sarebbe una decisione grave, contraddittoria e miope. In una parola: controproducente.
Come Federazione della Stampa Missionaria Italiana, la condanniamo con forza, auspicando che la dirigenza Rai torni sui suoi passi, anche alla luce delle proteste non solo nostre, ma di molte altre realtà della società civile che in queste ore si stanno levando.
L’ipotesi di chiudere un terzo delle sedi di corrispondenza nel mondo è grave, perché va a colpire il Sud del mondo, quella parte di pianeta già oggi marginale nel circuito informativo italiano. È grave perché ispirata a criteri economicisti che, come tali, dovrebbero essere estranei a un «servizio pubblico» che voglia qualificarsi davvero come tale. Se un problema di compatibilità economica esiste, non è spegnendo l’informazione sul mondo che si risolve ma, semmai, vigilando sugli esosi compensi alle «star» del piccolo schermo o sugli sprechi cui la Rai ci abituato da troppo tempo.
È una decisione contraddittoria, perché la sede di Nairobi è stata aperta – anche per effetto di un tenace «pressing» delle riviste missionarie – soltanto due anni fa.
Ancora: qual è il senso della chiusura di una sede come l’Egitto, cruciale per monitorare l’area mediterranea e, in parte, il mondo islamico? Che senso avrebbe abbandonare oggi l’India, da tutti indicata come uno dei paesi-chiave del presente e del futuro? Appare chiaro che siamo di fronte a una scelta – se attuata – per nulla lungimirante e, alla distanza, destinata a ricadute negative. Controproducente, appunto. Il contrario di quell’efficienza che tanto viene sbandierata.
Contro la deriva di un’informazione Tv sempre più avvitata su stessa, ci eravamo pronunciati nel febbraio 2006 con l’appello «Notizie, non gossip», pubblicato da tutte le riviste della Fesmi: chiedevamo alla Rai una risposta alla scarsità di notizie da intere aree del mondo. Nel maggio 2007, dopo l’apertura della sede di Nairobi, avevamo salutato con favore l’evento: «Se la Rai ha aperto una sede in Africa, molto lo si deve alla mobilitazione del mondo missionario», aveva detto in quell’occasione Enzo Nucci, corrispondente Rai da Nairobi. Speravamo fosse l’inizio di un impegno serio. Per dar voce a popoli, culture, paesi senza voce. Purtroppo – duole constatarlo – non è andata così.
Con tutta evidenza, il problema dei tagli delle sedi estere è solo la punta di un iceberg: la questione riguarda la sensibilità complessiva per i fatti del mondo, le vicende dei continenti solo apparentemente «lontani». Non vorremmo che la scelta di dismettere le sedi straniere confermasse una volontà di ritirarsi nel guscio di un’informazione che per baricentro abbia l’Italia o l’Europa.
Un servizio pubblico che voglia dirsi realmente tale dovrebbe puntare a rendere i suoi telespettatori autentici «cittadini del mondo». Non è certo questa la strada. Chiediamo ai vertici di Viale Mazzini un tempestivo e radicale ripensamento.

FESMI (Federazione Stampa
Missionaria Italiana)




Maschere in crisi

Il nome è uno dei tanti, difficili da pronunciare e ancor più da scrivere, di quelli che solo la fervida fantasia di un genitore sudamericano riesce a concepire per i propri figli nel tentativo di imitare il suono dell’originale yankee. Ha circa trent’anni e guadagna venti-trenta euro al giorno, tirati su senza molta speranza, vestito da cartone animato in una delle più affollate piazze di Madrid.
Il nome lo ascolto distrattamente e alla storia che lo accompagna mi sembra di aver già molte volte prestato attenzione, ovunque mi è capitato di incontrare migrantes latinoamericani: un passato da dimenticare, un presente che si vorrebbe cambiare e un futuro il cui colore oscilla tra il verde degli agognati dollari, sui quali costruire il sogno di una casetta nel paese natio e il grigio di altre giornate spagnole passate a cercare di sopravvivere fino alla fine del mese.
Per il turista che si aggira nella città asburgica, fra la Puerta del Sol e la Plaza Mayor, è impossibile non imbattersi in uno di loro: uomini e donne travestiti da pupazzi. Sono centinaia, attenti a gestirsi ogni singola mattonella di pavé, agghindati nelle fogge più strane fra cui trionfano gigantesche Minnie, ansimanti (per il caldo e il sudore) Pluto… e persino un grottesco Uomo Ragno con tanto di improbabili e debordanti maniglie dell’amore. Alcuni si convertono in statue viventi, altri, molti, si contendono spiccioli di Euro e scampoli di gloria intralciando il passo di chi gira rapito dalle magie dell’architettura e incantato dalla musica di qualche chitarra che suda flamenco. Posano per una foto e chiedono un contributo per le ore spese vestiti da fumetto, modei picaros senza arte né parte.

Presenti in ogni città turistica, a Madrid hanno fatto il nido e conquistato il centro, colorata e allegra denuncia di una crisi economica che non accenna a passare e che vede la Spagna vivere il suo momento più nero dopo gli anni delle vacche grasse.
Per i primi che vi si sono dedicati, questa sorta di attività para-turistica è stata in effetti una buona opportunità per sbarcare il lunario, in attesa di potersi riconvertire professionalmente. Ultimamente, molti hanno infatti perso un lavoro che, fino a pochi anni fa, era ritenuto discretamente sicuro, tanto nell’edilizia quanto nel turismo. Oggi, l’inflazione dei personaggi di gommapiuma crea una stagnazione anche in questa piccola e spontanea Disneyland nel cuore della capitale spagnola.
Due statue viventi esemplificano la situazione. La prima è «l’uomo con le valigie» , figura di «migrante immobile», una vera e propria contraddizione in termini. Eppure, a ben pensarci, modello di non pochi viaggiatori della speranza, fermati alla frontiera del sogno europeo o titubanti se tornare da dove vengono e consegnarsi alla storia di sempre, da cui si è fuggiti, stanchi di sfidare la sorte e le bizze dell’economia spagnola che li sta tradendo.
Il secondo è una caricatura di Gesù, immobile al centro della Plaza del Sol, a guardare inebetito una folla di gente che non lo va più a cercare in chiesa, ma lo trova lì a sudarsi lo spazio fra un guerriero Apache e una sagoma di Pippo. Anche lui, povero Cristo, cerca di guadagnarsi una resurrezione a breve termine. Di questi tempi, si accontenterebbe forse anche solo di quella del Pil.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli