Nucleare? Di nuovo «NO grazie»

Esiste un nucleare sicuro? (prima puntata)

Come accaduto per gli inceneritori, anche per il nucleare è partita la grancassa mediatica per farli accettare senza se e senza ma. Chi è «contro», viene demonizzato. Nel nostro piccolo, noi torniamo a ribadire che i pericoli per la salute rimangono eccessivi. Senza dimenticare che il conto inevitabile – legato all’estrazione dell’uranio e allo smaltimento delle scorie – potrebbe essere pagato dal Sud del mondo. Perché l’energia nucleare è «pulita» da noi, ma «sporca» nelle case dei più deboli. Come storia insegna.

Il 10 febbraio 2010 il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legislativo, che disciplina la localizzazione, la realizzazione e l’esercizio delle centrali nucleari per la produzione di energia elettrica in Italia. Questo decreto è stato approvato senza tenere  in considerazione il risultato del referendum dell’8 novembre 1987, in cui il 70% degli italiani si espresse contro il nucleare.
Pochi giorni dopo, negli Stati Uniti, il presidente Obama ha approvato un prestito di 8 miliardi di dollari, per finanziare la costruzione sul territorio statunitense della prima centrale nucleare dopo 30 anni dall’ultima, costruita in Georgia nel 1979. Anche questo nuovo impianto dovrebbe essere realizzato in Georgia, a Burke. La finanziaria di Obama mette a disposizione del nucleare 36 miliardi di dollari, che vanno ad aggiungersi ad altri 18,5, già in bilancio, ma ancora da spendere, per un totale di 54,4 miliardi di dollari, il che significa, considerando che la costruzione di una centrale nucleare costa circa 8-10 miliardi di dollari, che ci sono fondi a sufficienza per costruire 6 o 7 nuove centrali nucleari. Secondo la Southe Co., la società che costruirà l’impianto in Georgia, la realizzazione di quest’ultimo darà lavoro a 3.000 persone, in fase di costruzione e ad 800 in modo permanente. L’impianto foirà elettricità a 1,4 milioni di abitanti, che andrà ad aggiungersi a quella prodotta dai 104 impianti già esistenti in Usa, i quali producono il 20% dell’energia totale consumata ed il 70% di quella considerata «pulita». I sostenitori del nucleare, e tra questi lo stesso presidente Obama, infatti, considerano l’energia nucleare «pulita e sicura», al pari dell’eolica, della fotovoltaica e della geotermica. Ma è proprio così?

Effettivamente la produzione di energia nucleare non determina un aumento dei gas serra climalteranti, quindi in questo senso tale energia può essere definita «pulita». Se, però, consideriamo cosa accade nelle zone dove sono presenti ricchi giacimenti di uranio, il principale materiale utilizzato come combustibile (una volta arricchito) per le centrali elettronucleari, oppure consideriamo il problema delle scorie nucleari, ci rendiamo conto allora che definire pulita questa energia è un grave errore.
A proposito dei giacimenti d’uranio, è inquietante quanto è capitato in Niger, o nella terra dei navajo nel New Messico. In Niger, nel 2007, sono stati riscontrati livelli di radioattività fino a 100 volte superiori rispetto alla radiazione di fondo nel villaggio di Akokan, dove sorgono due miniere di uranio, gestite da società affiliate di Areva, la compagnia nucleare francese, che dovrebbe occuparsi anche della costruzione e della gestione delle centrali elettronucleari italiane. Nel 2008, l’Areva ha sostenuto di avere bonificato la zona, sotto la supervisione delle autorità nigerine (Niger Department of Mines, Ministero delle miniere del Niger).
Nel novembre 2009 è stata effettuata una spedizione di Greenpeace, con il supporto del laboratorio indipendente francese Criirad e della rete di associazioni locali Rotab (Réseau des Organisationes pour le Transparence et l’Analyse Budgetaire) e sono stati visitati sia le miniere, che i villaggi vicini. Nel dossier di Greenpeace si legge che nel villaggio di Akokan sono stati rilevati livelli di radioattività fino a 500 volte superiori, rispetto al livello di fondo, anche negli stessi punti bonificati da Areva. La contaminazione sarebbe dovuta all’idea di Areva di utilizzare gli scarti delle miniere di uranio, per costruire le strade dei villaggi, un sistema per fare sparire le scorie radioattive.
In Nord America, nel New Messico, le cose non vanno meglio. Secondo l’editoriale del 12 febbraio 2008 del New York Times, nella terra dei navajo permangono tuttora 520 siti di miniere di uranio dismesse ed abbandonate, dopo decine di anni di escavazione (sono state estratte 4 milioni di tonnellate di uranio) per procurare il materiale necessario per le armi della guerra fredda e per la produzione di energia. Restano inoltre 4 siti di lavorazione dell’uranio ed una discarica. Ancora oggi si trovano enormi mucchi di minerali di scarto, che franano. Le miniere aperte percolano pioggia contaminata nell’acqua potabile, mentre il vento solleva polvere radioattiva. In questa terra, le case sono state costruite con gli avanzi delle escavazioni.
Nel 1979, a sud della riserva, si verificò un disastro, allorquando le scorie della lavorazione dell’uranio defluirono nelle acque del fiume Puerco, che i nativi sfruttano per abbeverare il bestiame e per l’irrigazione. Il risultato di tutto ciò sono migliaia di casi di cancro nella popolazione locale ed un’età media scesa a 43 anni. E pensare che i navajo erano in passato una delle popolazioni più longeve d’America. Naturalmente le compagnie minerarie non si sono mai assunte le loro responsabilità e non hanno mai provveduto ad alcuna bonifica. Ed ora cosa succede? Il New York Times riporta che l’industria nucleare americana intende riprendere a scavare l’uranio in questi territori ed una compagnia mineraria ha già richiesto i permessi necessari per una nuova miniera in terra navajo. Le comunità navajo, in particolare quelle di Crowpoints e di Church Rock, hanno intrapreso un’azione legale contro la NRC (Nuclear Regulatory Commission), che ha autorizzato l’apertura della miniera. Il loro grido di battaglia è ora «leetso doo’da», che vuole dire «no all’uranio».

Un altro grave problema è rappresentato dallo smaltimento e dallo stoccaggio delle scorie nucleari. Secondo i dati dell’Inteational Nuclear Societes Council (INSC), ogni anno l’industria nucleare mondiale produce un volume di circa 270.000 metri cubi di scorie tra bassa, media ed alta radioattività. Si tratta di un volume abbastanza insignificante, dal punto di vista quantitativo (una centrale elettrica a carbone da 1.000 megawatt produce annualmente 400.000 metri cubi di ceneri), ma molto pericoloso dal punto di vista della radioattività. In queste scorie si trovano infatti sostanze estremamente pericolose. In particolare, quelle ad alta radioattività, rappresentate dal combustibile esausto delle centrali nucleari e dal materiale proveniente dalle centrali dismesse, contengono in media il 94% di uranio 238, l’1% di uranio 235, l’1% di plutonio, lo 0,1% di attinidi minori (nettunio, americio e curio) e 3-4% di prodotti di fissione.
Queste sostanze impiegano fino a centinaia di migliaia di anni, prima di diventare stabili. Come devono essere trattate, per essere messe in sicurezza? Queste sostanze devono essere ridotte di volume (trattamento), immobilizzate in idonei contenitori, resistenti dal punto di vista chimico, fisico e meccanico (condizionamento), stoccate temporaneamente per qualche decina di anni, in modo che si abbatta l’emissione di calore, per progressivo decadimento ed infine allocate in un sito nazionale centralizzato, per lo smaltimento definitivo. Non sempre, però, le cose vanno così.
I servizi segreti bosniaci – ad esempio – hanno scoperto un traffico di scorie e di materiali radioattivi organizzato dalle truppe francesi appartenenti alla missione di pace Nato in Bosnia-Erzegovina. Secondo il quotidiano crornato Veceji list, durante le missioni di pace Ifor/Sfor della Nato (1), grandi quantità di rifiuti radioattivi dell’industria nucleare francese sono state portate in Bosnia e gettate in tre laghi della Erzegovina, cioè i laghi Busko, Ramsko e Jablanicko. Questa attività è andata avanti per anni. In Erzegovina fu attivata un’unità speciale dell’esercito francese, interamente costituita da soldati maori provenienti dalla Polinesia francese e dalla Nuova Zelanda, con il compito di smaltire i rifiuti radioattivi. Secondo le testimonianze dell’intelligence bosniaca, tali rifiuti vennero cementati e gettati nei laghi con degli elicotteri.
Come possiamo vedere, da questi esempi, l’energia nucleare è «pulita» a casa nostra, ma «sporca» a casa degli altri, cioè nei paesi del Sud del mondo. È un po’ come quando si nasconde la sporcizia sotto il tappeto: tutto appare pulito, ma la sporcizia c’è, nascosta.

La difficoltà di trovare un sito per lo smaltimento definitivo delle scorie nucleari è un problema di non poco conto in ogni parte del mondo. In Italia, nel 2003 era stato individuato come possibile sito il comune di Scanzano Ionico, la cui popolazione si è immediatamente ribellata, per cui tuttora non si sa dove smaltire tali scorie.
Negli Usa è ancora ben lontano dall’essere realizzato il progetto, costato già 8 miliardi di dollari per gli studi preliminari del terreno, di realizzare un deposito permanente sotto il Yucca Mountain, nel Nevada meridionale, 160 chilometri a nord ovest di Las Vegas. Questo progetto prevede la costruzione di un deposito sotterraneo capace di immagazzinare 77.000 tonnellate di scorie radioattive per 10.000 anni, dal costo stimato di oltre 60 miliardi di dollari. Per il trasporto delle scorie in questo sito dovrebbero essere impiegati 4.600 fra treni ed autocarri, che percorreranno migliaia di chilometri, attraverso 44 stati (essendo le scorie attualmente dislocate in 131 depositi temporanei situati in 39 stati), con a bordo materiale estremamente pericoloso. Il solo fatto che si preveda un tempo di immagazzinamento di 10.000 anni per le scorie ad alta radioattività, cioè quelle che possono rimanere radioattive anche per 250.000 anni ed oltre, rende del tutto inadeguata questa struttura.
C’è poi il problema dell’umidità, che, per quanto modesta in questa zona, a lungo andare può determinare la corrosione dei contenitori del materiale radioattivo, permettendone la dispersione nelle falde acquifere. La difficoltà di individuare i siti adatti per depositi permanenti di materiale radioattivo è legata allo sviluppo di enormi quantità di calore, da parte di tale materiale, che potrebbe reagire con i materiali circostanti, provocando la formazione di idrogeno, altamente incendiabile ed esplosivo.
È inoltre indispensabile che il territorio ospitante non sia soggetto a movimenti tellurici. Infine, è indispensabile una sorveglianza permanente, da parte dell’esercito, per scongiurare eventuali attacchi a tali siti, il che comporta una militarizzazione delle zone interessate.

C’è da chiedersi cosa intendano i suoi sostenitori, definendo l’energia nucleare «pulita e sicura», con problemi come quelli appena accennati, al momento del tutto irrisolti. Soprattutto c’è da chiedersi come si possa definire «sicura» questa tecnologia, dopo la catastrofe avvenuta il 18 aprile 1986 a Cheobyl, che ha lasciato dietro di sé una lunga scia di morte, dovuta all’insorgenza, nelle popolazioni colpite, di vari tipi di tumori e di leucemie, nonché di malattie degli apparati respiratorio, digestivo, circolatorio, del sistema endocrino e di quello immunitario, a cui si sono aggiunte gravissime patologie del sistema riproduttivo, che hanno portato ad infertilità, impotenza maschile, aborti spontanei, complicazioni della gravidanza (pre-eclampsia, distacco della placenta e anemia), nonché inibizione dello sviluppo fetale. L’incidente di Ceobyl fu la conseguenza di un mix di errori umani, compiuti durante un’esercitazione condotta senza criterio, unitamente alla tipologia dei reattori di vecchio tipo e pericolosi. Tuttavia, questo è solo il più noto e catastrofico degli incidenti finora occorsi a delle centrali nucleari, ma certamente non l’unico.
Nel 1979 a Three Mile Island, negli Usa, si arrivò quasi alla fusione del nocciolo, mentre nel 1999 un incidente analogo interessò la centrale giapponese di Tokaimura e nel 2007 vi fu uno sversamento di liquidi radioattivi in un’altra centrale giapponese, quella di Kashiwazaki Kariva, una delle più grandi e modee del mondo. Come si fa a parlare di impianti sicuri, specialmente considerando che il loro funzionamento è controllato da uomini e noi sappiamo bene che l’errore umano è sempre possibile? Come si può ben vedere, il ritorno al nucleare, ben lungi dal risolvere i problemi energetici dell’umanità (2), rischia di creare enormi problemi di sicurezza e di aumentare ancora di più il divario tra il Nord del mondo, che fruisce dell’energia ed il Sud del mondo, dove le scorie radioattive possono essere portate con qualche missione di «pace». 
(Fine prima puntata – continua)

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

Glossario
Le parole del nucleare

Attinidi: sono un gruppo di 14 elementi chimici radioattivi, con numero atomico compreso tra 89 e 103. Partendo dal capostipite attinio, la serie, in ordine di numero atomico crescente, comprende i radioattivi naturali: torio, pro-attinio, uranio ed i radioattivi artificiali, detti «transuranici» (nettunio, plutonio, americio, curio, berkelio, califoio, einstenio, fermio, mendelevio, nobelio e laurenzio).

Fissione: reazione consistente nella frammentazione di un atomo in due di massa più piccola, a seguito della collisione di un neutrone con il suo nucleo. Da questa reazione si liberano altri due o tre neutroni, che vanno a colpire altri atomi, innescando una reazione a catena, la cui velocità aumenta progressivamente e, se non viene controllata come avviene nelle centrali nucleari, porta all’esplosione atomica.

Pre-eclampsia: nota anche come gestosi, è una sindrome caratterizzata dalla presenza, singola o in associazione, di sintomi quali edema, ipertensione o proteinuria in una donna gravida.  Si parla di eclampsia quando, alla sintomatologia classica, si associano le crisi convulsive. La causa non è ancora nota, anche se sono stati individuati da più studiosi dei possibili fattori scatenanti come l’ipertensione essenziale preesistente, le patologie renali preesistenti, l’eccessivo incremento ponderale durante la gravidanza, il diabete ed i fattori immunologici. Ricerche più recenti hanno dimostrato che un elemento fondamentale nel determinismo della pre-eclampsia è rappresentato da alterazioni a carico della placenta.

Scorie nucleari: con questo termine si indica solitamente il combustibile esausto, derivante dall’attività dei reattori nucleari. Esse fanno parte dell’insieme dei rifiuti radioattivi, che comprende tre classi, in base al livello di radioattività: bassa (ad esempio, gli indumenti usa e getta, utilizzati nelle centrali nucleari e il materiale utilizzato a scopo diagnostico o nei laboratori di ricerca), media (incamiciatura del combustibile nucleare, impianti di riprocessamento) ed alta (combustibile nucleare irraggiato “tal quale”). Le scorie nucleari ad alto livello costituiscono solo il 3% del volume prodotto dalle attività umane, ma contengono il 95% della radioattività. La loro composizione, mediamente, è la seguente: 94% di uranio238, 1% di uranio235, 1% di plutonio, 0,1% di attinidi minori (nettunio, americio e curio), 3-4% di prodotti di fissione. Le scorie radioattive decadono nel tempo, ma i tempi di decadimento dei vari componenti sono molto diversi: si va dai 300 anni per i prodotti di fissione, ai 10.000 anni per gli attinidi ed ai 250.000 anni per il plutonio.
La gestione delle scorie nucleari, al fine di assicurare la massima radioprotezione per la generazione attuale e per quelle future, consta di diverse fasi: riduzione del volume; predisposizione alla fase di condizionamento (mediante evaporazione, filtrazione, ultrafiltrazione, precipitazione, flocculazione, incenerimento, supercompattazione, a seconda del tipo di rifiuti); condizionamento vero e proprio, cioè immobilizzazione in una matrice solida come il cemento, nel caso dei materiali a bassa e media radioattività e come il vetro borosilicato per i rifiuti ad alta radioattività e successivo posizionamento in idoneo contenitore; stoccaggio temporaneo di alcune decine di anni, per permettere un congruo abbattimento dell’emissione di calore, che caratterizza il decadimento radioattivo; collocazione definitiva in apposita struttura, cioè solitamente in depositi superficiali o a bassa profondità, per rifiuti di media radioattività ed in depositi costituiti da formazioni geologiche profonde, per i rifiuti ad alta radioattività.

Uranio: è un metallo bianco lucido, ad alta densità, chimicamente molto reattivo e, se si trova in stato di fine suddivisione, piroforico. Esso costituisce lo 0,0004% della crosta terrestre, quindi è un elemento abbastanza raro. I minerali, in cui si trova in diversi stati di ossidazione, sono l’uranite, la pechblenda, la bannerite, la davidite e la coffinite. Esso viene utilizzato come combustibile per le centrali nucleari e le sue riserve accertate sono tra 2 e poco più di 3 milioni di tonnellate, al mondo. In natura, l’uranio è presente in 3 isotopi differenti (hanno lo stesso numero atomico, cioè di protoni e di elettroni, ma diverso numero di massa, poiché è diverso il loro numero di neutroni): si tratta dell’uranio234, 235 e 238. Di questi 3 isotopi, l’uranio238 è il più abbondante (99% di tutto l’uranio naturale), ma non è utilizzabile come combustibile per le centrali, perché il suo nucleo non si presta alla fissione. È solo l’uranio235, che può partecipare alla reazione di fissione nucleare, ma la sua quantità nell’uranio naturale è decisamente bassa (0,7%), quindi è necessario un arricchimento per portare questo isotopo al 3%, nel materiale combustibile.

(a cura di R.Topino e R.Novara)


Roberto Topino e Rosanna Novara




Dietro i sorrisi, l’ombra del generale

Dopo le elezioni presidenziali (gennaio) e il sisma (febbraio)

Nella terra di Pablo Neruda, l’anno del Bicentenario (1810-2010) inizia con una serie di terremoti: la terra trema con rara violenza (febbraio), lasciando morte e distruzione, e il panorama politico è scosso dalla fine dell’era della Concertación, vent’anni ininterrotti di governo di centrosinistra che hanno cambiato il paese. Mentre la presidenta Michelle Bachelet esce di scena con un alto indice di gradimento, al governo del paese torna la destra, guidata da Sebastián Piñera, imprenditore e miliardario. Su di lui e sul suo governo  saranno puntati gli occhi di chi teme un ritorno del pinochetismo, in cui una fetta importante di cileni non ha mai smesso di credere.

C’è una strana atmosfera in questa calda estate cilena. Densa di sensazioni contraddittorie. In quest’ultimo angolo del continente americano dalla geografia così particolare, una striscia di 4.300 chilometri – per intenderci, quanto dal Circolo polare artico al deserto del Marocco – ritagliata tra le Ande e l’Oceano Pacifico e ricca di contrasti, sta accadendo qualcosa che non era non facile prevedere. Proprio nel momento in cui Michelle Bachelet, prima donna presidente in un paese fondamentalmente machista, socialista con un passato di tortura ed esilio (1), raggiunge un livello di approvazione dell’84%, la coalizione di destra guidata dall’imprenditore Sebastián Piñera, spesso definito «il Berlusconi cileno», ha appena vinto le elezioni presidenziali.
Per cercare di comprendere un tale terremoto politico, bisogna conoscere un poco la storia di questo paese che forse proprio la sua geografia rende così diverso dal resto del continente sudamericano.

Duecento anni, due dittature

Quest’anno la República de Chile festeggia il suo Bicentenario: il 18 settembre 1810, approfittando della prigionia del re deposto da Napoleone che aveva occupato la Spagna, la colonia spagnola iniziò infatti, con la formazione della prima giunta di governo, il processo che la porterà nel 1818 all’indipendenza. Duecento anni di vita repubblicana con una stabilità inconsueta per quell’area del mondo, interrotti però da due dittature.
La più sanguinaria, quella del generale Augusto Pinochet, pose termine nel 1973 all’esperienza del governo di Salvador Allende, il primo socialista al mondo eletto democraticamente, che aveva nazionalizzato le grandi miniere di rame e cercato di introdurre riforme democratiche in una società polarizzata tra povertà estrema ed estrema ricchezza.
Pinochet, con l’appoggio degli Stati Uniti preoccupati per il pericolo di una diffusione del socialismo che avrebbe minacciato i loro interessi economici nell’area, instaurò un regime di terrore durato ben 17 anni con migliaia di oppositori e comuni cittadini assassinati o scomparsi, e decine di migliaia incarcerati, torturati ed esiliati. Fino al referendum perso dal dittatore nel 1998, e al ritorno della democrazia nel 1990.
Da allora vent’anni ininterrotti di governo della «Concertación de Partidos por la Democracia» la coalizione delle forze di centro-sinistra, hanno cambiato molto questo paese. E questo malgrado i limiti fissati da una costituzione imposta dallo stesso Pinochet, che prevede un sistema elettorale binominale unico al mondo, studiato apposta per impedire cambiamenti sostanziali, equilibrando nel parlamento destra e sinistra.

La Concertación e i difetti del miracolo cileno

In questi vent’anni il tenore di vita medio dei cileni è cresciuto enormemente, la povertà si è drasticamente ridotta – dal 45% dei tempi della dittatura al 10% attuale, Santiago è la capitale commerciale del Sudamerica e le sue multinazionali investono in tutto il continente; le esportazioni di materie prime e prodotti agricoli di qualità, a partire dal vino, continuano a crescere.  Prima del terremoto di febbraio, i conti dello stato, favoriti dai prezzi del rame (di cui il Cile è il maggiore produttore) e da una gestione oculata, andavano a gonfie vele, nonostante la crisi internazionale, permettendo di costruire infrastrutture e organizzare una rete di servizi sociali che ammortizzano in parte gli effetti della crisi e della disoccupazione. Il paese, con una crescita media del 5% all’anno, è al primo posto in America Latina per Indice di sviluppo umano (Isu) ed in molti altri indicatori di sviluppo, ed è appena stato ammesso nell’Ocse, primo paese in quell’area del pianeta.
Certo non tutto è perfetto, in Cile. Dal nord del deserto di Atacama, dove le miniere di rame creano buona parte della ricchezza del paese, all’estremo sud della Patagonia, o nella Araucania che resistette per tre secoli – ultima area del continente – all’invasione dell’uomo bianco ed è ora minacciata da grandi interventi voluti dalle multinazionali per sfruttae le ricchezze naturali, molti cittadini si sentono lontani e trascurati dalla capitale e dalla «Zona Central» dove si concentrano le ricchezze e i grandi investimenti. Se a Santiago, metropoli di quasi sette milioni di abitanti, la rete dei trasporti pubblici, delle autostrade, dei servizi, continua a crescere avvicinandola sempre più ad una modea capitale europea, ed anche l’offerta culturale non è da meno, lo stesso non accade in egual misura nel resto del paese.
Uno dei punti deboli del Cile è il sistema educativo. Se il governo socialista di Allende aveva cercato di garantire un sistema scolastico pubblico universale e unitario, provocando le proteste delle classi più abbienti che preferivano mantenere una separazione tra l’educazione di eccellenza riservata alle élite e una di base per il popolo, il neoliberismo che ha ispirato la dittatura pinochetista ha portato allo smantellamento del sistema pubblico. È stata così garantita soltanto la gratuità di un’istruzione di base e affidato il resto al mercato e all’investimento privato, accollandone dunque i costi alle famiglie e contemporaneamente trasformando l’educazione in uno dei più grandi business del paese, con la nascita di innumerevoli scuole e università private. L’inadeguatezza del finanziamento del sistema scolastico pubblico, che anche il governo della Concertación non è riuscito a superare (le tensioni all’interno del mondo scolastico hanno portato negli ultimi anni a lunghi periodi di occupazione degli istituti, nella cosiddetta «marcia dei pinguini», con riferimento alle uniformi scolastiche) produce un esodo sempre più marcato verso quello privato.
Analogamente il sistema sanitario, basato su un doppio binario pubblico («Fonasa», Fondo Nacional de Salud) e privato (le cosiddette «Isapre», Instituciones de Salud Previsional), pur garantendo una copertura gratuita agli indigenti, favorisce ancora l’impresa privata lasciando al pubblico solo i contributi di chi non può permettersi l’iscrizione alle assicurazioni private.
La mancata risoluzione delle questioni relative all’educazione e alla salute durante i vent’anni di governo della Concertación è forse una delle ragioni del distacco dalla politica da parte di molti cileni, soprattutto giovani, i più colpiti anche dall’aumento della disoccupazione.

Il grigio Frei contro il magnate Piñera

Ma ci sono anche altre ragioni che hanno portato alla vittoria della destra. Tra queste certamente  l’eccessiva fiducia in se stessa da parte di una coalizione di governo logorata – soprattutto a livello locale – da tanti anni di potere ininterrotto e di rigida alternanza tra le sue componenti democristiana, socialista e radicale. E poi la scelta di un candidato poco carismatico come Eduardo Frei, democristiano dall’immagine grigia – ex presidente e figlio di un altro presidente – poco amato dalla sinistra soprattutto per la sua deregulation del mercato del lavoro e le sue privatizzazioni, la cui immagine è stata  ulteriormente compromessa nello scontro fratricida al primo tuo con l’altro candidato di centro-sinistra Marco Enriquez-Ominami, che si presentava come la novità contro il déjà vu.  
Un altro fattore decisivo è stata la capacità da parte della destra ex pinochetista di rifarsi un’immagine presentandosi fin dal nome («Coalición por el Cambio») come «il cambiamento», tappezzando il paese con uno slogan molto obamiano come «Sumate al cambio», ripetuto ossessivamente su ogni albero, su ogni palo della luce, in ogni giardino, e naturalmente in televisione, alla radio, sui giornali, accompagnato dal sorriso fisso e immutabile – molto berlusconiano – del suo candidato Sebastián Piñera, imprenditore di successo divenuto tale anche grazie alla sua vicinanza con il regime di Pinochet (di cui il fratello José era ministro). Sebastián Piñera, populista al punto da farsi fotografare in costume mapuche per conquistare il voto degli indigeni, e promettere che il suo primo atto di governo sarebbe stato un buono una tantum di 40.000 pesos (circa 55 euro)  per quattro milioni di famiglie. E, naturalmente, impegnandosi a creare quello che è ormai un classico delle promesse elettorali: «un milione di posti di lavoro».
 
Aerei, televisioni, calcio e… scandali

Il nuovo presidente eletto, spesso definito «il Berlusconi cileno», che ha fatto fortuna introducendo nel paese le carte di credito ed è ora proprietario di una importante quota della compagnia aerea di bandiera Lan, del network televisivo Chilevisión, di una catena di farmacie, della maggior squadra di calcio del paese e di innumerevoli altre imprese, attento alla sua immagine tanto da ricorrere alla chirurgia estetica, è stato coinvolto in passato in alcuni scandali, i più importanti dei quali furono forse quello del Banco de Talca di cui era amministratore al momento del fallimento (si salvò dal carcere per un intervento dell’allora ministro della giustizia del governo di Pinochet), ed il caso di insider trading di cui fu accusato quando – pare approfittando di informazioni riservate – acquistò una quota importante della compagnia aerea Lan il giorno prima che il prezzo salisse…

Nelle mani delle grandi imprese 

Piñera, appoggiato dai partiti di destra Renovación Nacional e Unión Demócrata Independiente – gli unici che avevano apertamente sostenuto il generale Pinochet in occasione del referendum del 1988 – ha voluto dare un segnale di discontinuità rispetto agli ultimi vent’anni nella scelta della compagine governativa: a parte il ministro della difesa, già presente in due governi di centro-sinistra,  si tratta di personalità provenienti quasi esclusivamente dal mondo dell’impresa privata, dalla «classe alta» del paese, con studi nelle più esclusive università straniere, in buona parte direttamente coinvolte per i loro interessi nei settori dei quali si dovranno occupare. Qualcosa di molto vicino ai «Chicago boys», i professori che si erano formati alla scuola neoliberista dell’Università di Chicago, ai quali si era affidato Pinochet. Persone lontane dalla «gente comune» ed anche da quei tanti cileni che, superata la povertà, hanno creduto di potersi lanciare alla conquista del benessere votando per un imprenditore che prometteva ancora meno stato e più mercato, ancora meno garanzie e più opportunità.
Tutto questo ha permesso alla destra di tornare al potere democraticamente, per la prima volta dopo cinquant’anni. Eppure la gente che festeggiava nelle strade, sventolando ritratti e busti del generale Pinochet, gridando slogan contro i comunisti, sbeffeggiando i desaparecidos e le vittime del regime militare e inneggiando al ritorno del buongoverno dopo vent’anni di corruzione, è la dimostrazione che buona parte della base elettorale di questa che vorrebbe presentarsi come una destra modea e liberale, persino progressista, è la stessa del regime militare, di cui vede in Piñera una continuità, e questo getta un’ombra sul futuro di un paese che, paradossalmente, proprio questa alternanza pare dimostrare essere ormai una democrazia pienamente compiuta. 

Di Carolina M. Lara Meneses e Luca Robino

(1)  Per un ritratto di Michelle Bachelet, si legga: Paolo Moiola-Angela Lano, Donne per un altro mondo, Il Segno dei Gabrielli editori, 2008.
(2)  Subito dopo la vittoria nelle presidenziali, le azioni della Lan sono schizzate verso l’alto. Il neopresidente Piñera possiede un pacchetto azionario pari al 26,33 per cento del capitale.

Carolina Meneses e Luca Robino




Saharawi: il popolo dimenticato

Viaggio in una nazione che «non c’è»

Una delegazione italiana della Rete Comuni Solidali (Re.Co.Sol.) visita i campi profughi per osservare, ascoltare, capire e … non permetterci di dimenticare.

Sono le tre di notte quando la jeep si ferma nel deserto algerino. Non vedo nulla, i fari illuminano a stento alcune corde che fungono da tiranti di una tenda. Scendiamo confusi, storditi dal viaggio e ci guardiamo attorno senza orientarci. Alì ci informa che siamo arrivati a Aaiuni, a sud di Tindouf, precisamente nella sua «casa», in cui saremo ospitati. Scarichiamo le nostre valigie nella polvere che si alza intorno, mentre qualcuno grida: «Avete visto il cielo?» e tutti col naso in su, senza parole. Il cielo stellato più bello del mondo! Tratteniamo il respiro, mai visto una tale bellezza …
Entrare in un altro
mondo
Senza rendercene pienamente conto, ci troviamo in un altro mondo, in un campo profughi del popolo saharawi, in Algeria, al confine con la Mauritania e il Sahara Occidentale, lo Stato che non c’è, pur se tratteggiato su tutti gli atlanti. Mi chiedevo da ragazzina, quando dovevo studiare l’Africa, cosa volessero dire quelle righe diagonali che coloravano la cartina geografica e ricordo che un’insegnante mi aveva parlato di contese nel definire a quale Stato spettasse di diritto la terra a sud del Marocco. Ora, insieme ad altri 15 compagni di ventura della delegazione italiana di Re.Co.Sol., mi trovo a due passi da quella mappa, una delle terre più amate, sognate, desiderate, impossibili… un mondo sconosciuto ai più, dove siamo venuti per osservare e ascoltare.
Alì, la nostra guida, ci invita ad entrare nella tenda dove sua moglie ha preparato il tè per noi. Così ha inizio la nostra full immersion nel luogo più povero che abbia mai visto, dove i saharawi sono riusciti a ricostruire una società organizzata, collaborativa ed efficiente. Lo stupore di questa dissonanza si coglie sui nostri visi che si affacciano all’interno della tenda, meravigliosa, tutta un tappeto, divani comodi sui tre lati e un tavolino lungo e basso su cui è appoggiato il necessario per il nostro pasto; qui dentro, dove pare che la sabbia del deserto sia lontana, Adì, bellissima ragazza, mamma di un piccolo di sei mesi, avvolta nel suo musata in fantasia rossa, dà inizio al rito che ci accompagnerà per una settimana: su un braciere portatile ha preparato la bevanda che versa nei bicchierini appoggiati sul tipico vassoio arabo. Il primo tè che ci offre è «amaro» come la vita e lascia in bocca un retrogusto da cui prende il nome. Il tempo di assaporarlo e ne arriva un altro, questa volta «dolce» come l’amore, e poi un terzo, l’ultimo, «soave» come la morte.
Con uno spagnolo stentato abbozziamo le prime parole di presentazione e di ringraziamento, ma è più semplice spiegarci a gesti perché la donna e gli autisti che ci hanno accompagnato fin qui conoscono solo l’arabo. A scuola, a partire dalla terza elementare in poi, si impara lo spagnolo, ma molti adulti non lo conoscono.
La nostra prima notte «profuga» trascorre nella semplicità di questa accoglienza, poi i padroni di casa se ne vanno e lasciano la tenda interamente a noi. Qualcuno apre il sacco a pelo e cede al sonno, qualcun altro esce a guardare incantato la volta celeste, avvolto dal buio totale e dal silenzio del Sahara.
Vivere nel deserto
La tenda di Alì sorge al limite del villaggio. Lo scopriamo al mattino, quando usciamo per andare «in bagno». Il deserto è disseminato di casupole e tende che paiono cadute a caso sulla sabbia di questo luogo piatto, ampissimo, giallo come è tutto qui, a perdita d’occhio.
Il villaggio di Aaiuni è composto da sette centri, ciascuno con circa 7.000 persone che vivono in minuscole casette di mattoni di sabbia cotti al sole. Ogni famiglia possiede una costruzione per l’inverno, quando le temperature scendono verso lo zero, una tenda che va meglio d’estate quando si raggiungono i 50/60 gradi, e poi un cubicolo con una turca e un secchio pieno d’acqua che funge da sciacquone.
Sulla soglia di ogni abitazione, un pannello solare, una batteria d’auto, una parabolica. Ecco il necessario per accendere un neon nelle tende alla sera e per riuscire ad avere notizie dal mondo con una radio. Qui non si possono caricare cellulari né batterie delle macchine fotografiche, non si usano rasoi elettrici, nessun elettrodomestico. E qui non c’è nessun lavandino né doccia. L’acqua è portata dalle cistee che arrivano da Tindouf e scaricano nelle taniche di lamiera che il tempo ha arrugginito. Una gomma porta l’acqua in prossimità delle abitazioni, ma tutto viene centellinato.  A 20 minuti dal villaggio esiste un pozzo che pesca a 150 metri di profondità acqua salata. È lo scherzo che il deserto fa a questo popolo che abitava sul mare. Grazie ad un desalinatore donato dalla provincia di Roma si può utilizzare quest’acqua per tentare di coltivare piante medicinali di cui i vecchi sanno ancora servirsi per guarire molte malattie.
Tra le abitazioni si apre un varco che va verso il nulla: è la strada da cui arrivano e partono le jeep in direzione degli altri centri. In realtà la strada non esiste: è solo una traccia che il vento di sabbia copre presto. Eppure gli autisti riescono a condurci dove dobbiamo andare: le scuole, il centro per i disabili, l’ospedale, la casa del vice-governatore. Sono giorni intensi, il tempo è breve e non va sprecato. Noi dobbiamo visitare e conoscere per poter presentare la situazione in Italia al nostro rientro.
Sognano il mare
Ci accorgiamo presto che molte cose sono simboliche per i saharawi, in primis i colori della bandiera: il verde indica la loro terra che si affaccia al mare più pescoso dell’atlantico: El-Aiun, Dakhla, El-Argob erano i nomi delle città costiere in cui essi risiedevano; il nero è l’oppressione subita per l’invasione avvenuta 35 anni fa, il rosso è il sangue versato da molti di loro, il bianco è la pace che desiderano e in cui sperano. Se il loro sogno si avvererà, se riusciranno un giorno a tornare nelle città di un tempo, il verde che ora sta in basso, prenderà posto in alto nella bandiera.
Ma qual è la storia di questo popolo?
Durante la Conferenza di Berlino del 1885 il Sahara Occidentale viene assegnato alla Spagna. Nel 1957 vengono scoperti enormi giacimenti di fosfati nella zona settentrionale della colonia che acquista molto interesse economico da parte di varie potenze. Nel 1965 l’ONU sollecita la Spagna a lasciare il dominio coloniale e ad organizzare un referendum per l’autodeterminazione del popolo saharawi, ma la situazione resta immutata per un altro decennio. Nel 1970 il popolo saharawi organizza una grande manifestazione contro il colonialismo che viene repressa nel sangue. Tre anni dopo nasce il Fronte Polisario, il movimento di liberazione saharawi. Tra il 1974 e il 1975 finalmente la Spagna decide per il referendum, ma subito il Marocco e la Mauritania annunciano un’opposizione con qualunque mezzo. Così, vista la forte pressione dei due Stati vicini, la Spagna rinuncia all’idea.
Nell’autunno del ’75 il Marocco annuncia una marcia di 350.000 uomini volontari verso nuove terre da coltivare: la marcia verde, che dovrebbe essere pacifica, in realtà si rivela una vera e propria invasione delle regioni in cui vivono i saharawi. La Spagna cede l’amministrazione del nord del paese al Marocco e il sud alla Mauritania in cambio di favori economici. Così, mentre l’esercito e i civili spagnoli si ritirano dal Sahara Occidentale, il fronte marocchino e quello mauritano entrano nella regione per prendee possesso.
Per i saharawi si aprono due possibilità: restare sotto questi nuovi dominatori che non garantiscono nessun diritto, li allontanano dalle proprie abitazioni costringendoli ai lavori più umili, li considerano cittadini di serie B, oppure scegliere l’esodo verso l’unico sbocco possibile: l’Algeria. Colonne di fuggiaschi partono dalle terre invase verso quello Stato. Alcuni si fermano ancora nel Sahara Occidentale, dentro i propri confini, e organizzano i primi campi profughi, ma nel 1976 il Marocco li bombarda con napalm e fosforo.
Il Fronte Polisario e il Consiglio Nazionale del Saharawi velocemente concludono i trasferimenti dei saharawi a sud di Tindouf, in Algeria, nel deserto di pietra, luogo ostile e difficile dove vengono costruiti gli accampamenti per 300.000 profughi. Viene proclamata la R.A.S.D. (Repubblica Araba Saharawi Democratica) che ottiene il riconoscimento da parte di più di 70 Paesi. Nel Sahara Occidentale il Fronte Polisario inizia una dura guerriglia di resistenza. Nel 1979 la Mauritania ritira le proprie truppe, ma il territorio viene subito occupato dal Marocco con l’appoggio di Spagna, Francia e Stati Uniti.
Nel 1980 il Fronte libera diverse zone dall’occupazione del Marocco che risponde edificando una muraglia fortificata, minata ed elettrificata lunga 2.500 chilometri in cui racchiude i territori occupati. A ovest del muro, nella zona costiera del Sahara occidentale inizia una massiccia colonizzazione: molte famiglie marocchine sono invitate a trasferirsi in queste zone in cambio di agevolazioni sociali e fiscali; i saharawi iniziano a denunciare la pulizia etnica del loro popolo da parte degli invasori. Fuori dal muro la guerra continua. Nel 1991 l’Onu riesce ad imporre il cessate il fuoco e l’organizzazione di un referendum per l’autodeterminazione del popolo saharawi. Ancora una volta però il Marocco boicotta in ogni modo la preparazione del referendum, continuando le azioni militari e affermando l’obbligatorietà di includere tra i votanti i coloni marocchini. Così la consultazione viene rimandata e ancora oggi, a distanza di 19 anni, nulla è accaduto. L’annessione del Sahara Occidentale da parte del Marocco continua a non essere riconosciuta dalle Nazioni Unite.
Organizzare da zero
Ci sono profughi e profughi: quelli che aspettano, quelli che sognano e a poco a poco si deprimono, quelli che si arrabbiano col mondo, quelli che perdono la propria identità e provano a ritrovarsi in un’altra, …
Poi ci sono i saharawi che, nonostante sia passato così tanto tempo – ben 35 anni di esilio nel deserto di Tindouf -, non smettono di impegnarsi e lottare per riavere ciò che spetta loro di diritto. Il Fronte Polisario ha accettato tutte le risoluzioni Onu, il cessate il fuoco e la liberazione dei prigionieri, ma la vita del suo popolo si svolge comunque ancora in estrema povertà, sollevata solo dagli aiuti dell’ACNHUR e di molte associazioni europee (anche italiane) che li sostengono. I saharawi si sono rimboccati le maniche, costruendo una comunità organizzata secondo principi collettivistici e solidaristici che sono un esempio per tutti noi: gli insegnanti, gli infermieri, i medici, … tutti i ruoli sociali e politici sono volontari, non stipendiati.
Visitiamo le scuole, dall’infanzia alle superiori. è il giorno degli esami per gli allievi della primaria e per i più grandi: serietà assoluta, banchi separati, insegnanti in guardia. Poi suona l’intervallo, spuntano sorrisi e presentazioni nel cortile polveroso dove i più piccoli corrono e giocano, divorando pane e marmellata proprio come in tutti i paesi del mondo. Nonostante le condizioni precarie, nonostante il tetto dell’asilo sia mezzo sfondato e non ci siano libri per tutti e la polvere intasi ibanchi, gli abiti e i vecchi computer su cui le ragazze provano i primi rudimenti dell’informatica, non c’è un minore in tutto il campo profughi che non vada a scuola. Pensare che gli insegnanti non percepiscono alcuna retribuzione adeguata, se non un compenso simbolico di 50 euro al mese.
Anche l’ospedale è gestito volontariamente: «Sarebbero necessari incentivi economici per gli infermieri – dice il vice-governatore, quando gli chiediamo quali siano le necessità più impellenti – non è facile dedicare quotidianamente tempo ai malati, senza un ritorno economico sufficiente per vivere un po’ meglio» Non è l’unica richiesta che ci viene presentata: «Qui manca tutto, ma sicuramente l’acqua è alla base di qualunque sostentamento. Le cistee sono arrugginite, l’acqua si ossida e non è buona. Per voi ospiti abbiamo cucinato utilizzando acqua minerale imbottigliata, ma noi usiamo l’acqua delle cistee e molti hanno problemi intestinali». Lo conferma il pediatra che è con noi e nelle pause tra uno spostamento e l’altro nei villaggi, visita i bambini del campo: la maggioranza ha problemi dovuti all’acqua e alla sabbia del deserto che il vento porta ovunque, anche nei polmoni.
«Servirebbero serbatorni in materiale non ossidabile per ogni famiglia. Ci sono 4.600 famiglie nei campi. Ogni serbatornio costa 150 € circa» – aveva concluso il governatore. Ma servirebbe anche un ambulatorio permanente per il controllo sanitario dei bambini, provvisto di medicinali di base. E biancheria lavabile per l’ospedale e materiale scolastico e una nuova scuola matea più adeguata e sicura…
È incredibile come qui, dove servirebbe tutto, si riescano a definire le priorità: al primo posto acqua, sanità e scuola. È la lezione che ci lasciano i saharawi. Pochi giorni che ci insegnano molto: a guardare nel deserto riconoscendo la vita, il coraggio, la costanza e la speranza; a stabilire priorità dove manca tutto. Una bella dimostrazione per noi. Anche i nostri politici avrebbero molto da imparare.

Di Grazia Liprandi

Grazia Liprandi




Incontri on the road

In Australia, sulle tracce di antichi crateri

Un viaggio nel nord-ovest dell’Australia diventa l’occasione di incontri ricchi
di fascino e umanità, in un ambiente naturale ricco di contrasti e biodiversità.

Perth: una terra diversa da tutte le altre, l’Australia. Troppo piatta, calda e arida per avere ghiacciai, troppo antica per avere attività vulcanica, qui il terreno è stato dilavato per milioni di anni e la vita di piante e animali ha dovuto adattarsi a condizioni estreme. Unico tra i continenti ad essere rimasto isolato, qui si sono sviluppate forme di vita molto diverse, che rappresentano un forte interesse per visitatori e studiosi.
 Ritoo a Perth dopo 10 anni al seguito di una spedizione che ricerca i crateri da impatto di asteroidi, ben visibili in un territorio vasto e disabitato. Mi fermerò a casa di Wendy, deliziosa amica inglese da molti anni in Australia, dopo una vita di lavoro in Arabia Saudita e in Sud Africa. La sua casa domina le dune di Scarborough, sobborgo sull’oceano indiano, dove i tramonti sono spettacolari, anche nelle fresche sere di fine luglio.
Oggi Wendy ha seguito la lezione settimanale d’italiano con un’amica, Antorninette, che si ferma con noi a cena. «Mia madre era irlandese, devota di San Antonio», così spiega il perché del suo nome. Molto conosciuta nello stato del West Australia, prima donna ad essere nominata giudice, Antorninette dichiara serenamente la sua profonda fede cattolica. Nello svolgere il suo delicato compito, segue una linea di grande comprensione e mitezza. «Ho visto casi di violenza terribile, ma la condanna deve mirare alla riabilitazione, non all’annientamento della persona».
Kununurra
Cominciamo il viaggio da Kununurra, sede degli uffici del Wolfe Creek  Crater National Park. Nella parrocchia partecipo alla messa in onore della prima santa australiana. Nata a Melboue nel 1842, Mary Mackillan si consacrò alla vita religiosa a 24 anni, dedicandosi alla promozione delle donne e all’educazione dei bambini nelle zone remote. La chiesa è affollata, ma prima delle letture i bambini vengono invitati dal padre a recarsi nella sala accanto per seguire la messa con l’aiuto di una catechista. Alcuni sono aborigeni, di sangue misto, molto belli. Li ho visti giocare, i bimbi dalla pelle scura, scalzi e felici, nei parchi punteggiati da baobab di questa cittadina del Kimberley, che ho raggiunto con un lungo volo da Perth.
«Fino al ’76 i bambini erano tolti alle famiglie e messi in collegio per essere educati». La suora che mi parla indossa una camicetta rossa. «Oggi si cerca di riparare, ma oramai è troppo tardi». Intanto dall’altra parte della strada si svolge la cerimonia delle chiese protestanti unite. I numerosi fedeli sono seduti o accoccolati a terra e la voce del pastore è amplificata da un megafono. Gli anziani aborigeni vagano intanto lungo i viali; alcuni siedono tristi con una bottiglia o una latta di birra in mano. Le donne sono scalze, i denti guasti e lo sguardo perduto. I loro lineamenti sono duri, la pelle molto scura. Pare ci siano problemi tra aborigeni puri e i meticci, frutto di incroci avvenuti tra i primi coloni e donne native, che sono poco accettati sia dai bianchi che dal loro popolo. Questi territori sono riserve aborigene, ma le miniere sono sfruttate da grossi gruppi minerari. Si estraggono minerali come ferro, stagno, zinco, rame e, nella montagna presso il lago Argyle, i rarissimi diamanti rosa.
 Windham
Windham è un porto sul profondo fiordo che collega il mar di Timor con i territori del West Australia. Qui le maree superano i 9 metri e lasciano lagune bianche di sale. I coccodrilli di mare sono giganteschi e il porto che un tempo era usato per il bestiame pare abbandonato.
«Siete italiani? Di Torino?». Un anziano signore mi apostrofa in perfetto italiano, mentre compro cartoline al post office di Windham. «Mi chiamo Giorgio Pucci, la mia famiglia era originaria di Lucca. Abitavamo a Trieste, dove mio padre era maresciallo di polizia. Conosco Torino, ricordo la caserma dove ero militare, nel ’41. Dopo la guerra gli inglesi mi hanno portato a Perth, inteato in un campo, e spedito a tagliare i boschi. Avevo una fidanzata in città, per due volte sono scappato per andare da lei, ma mi riprendevano sempre». Sorride divertito anche quando racconta di aver saputo poi che la ragazza era rimasta incinta di uno scozzese. «Mi avevano trasferito quassù, al nord, a 2.000 km da Perth; la ragazza non mi ha aspettato. Lavorai fino al 1985 nella più grande macelleria del paese, 12 ore al giorno, dalle 6 del mattino fino a sera».
Giorgio ha avuto una brava moglie, una cinese che aveva bottega a Windham e che gli ha dato tre bravi ragazzi. «Ora è anziana e malata, ospite in una clinica, mentre i miei figli abitano nella regione, mi vengono a trovare e mi aiutano. Ho una pensione di circa 700 euro e ricevo anche 100 euro di pensione dall’Italia». Giorgio è una bella persona, ha occhi azzurri stupiti e mi commuovo sentendolo parlare così bene l’italiano. Ne ho incontrati altri di italiani così, che hanno lasciato il nostro paese per Argentina e Australia. Hanno portato lontano la loro serietà di lavoratori e mi domando che cosa hanno in comune quegli italiani vacanzieri che incontrerò poi in aereo, al ritorno a Milano.
Crateri
Gli amici della spedizione mi hanno raggiunta, dopo 6.000 km di deserto percorsi in una 4×4 giapponese. Abiti e auto ricoperti di polvere rossa, sono pronti a ripartire alla scoperta di altri crateri. Uno dei più famosi è quello di Wolfe Creek, il cui fondo ricoperto di fiori selvatici azzurri, ha un diametro di 800 m. Lo raggiungiamo percorrendo un tratto della Tanami road, una sterrata che attraversa il deserto più difficile del continente. Piantiamo le tende e ci fermiamo per la notte, per dar modo a Mario, astrofisico dell’osservatorio di Pino torinese, di effettuare le sue ricerche. Altri quattro caravan sostano nelle vicinanze, sono tutti australiani che arrivano dal sud, dopo aver percorso le piste seguite dalle mandrie. La notte è fredda, illuminata dalla luna piena e le stelle sono meno visibili del solito.
Fitzroy Crossing
Fitzroy è un fiume che in questo punto scorre tra alte pareti calcaree, formate da corallo e conchiglie, quel che resta di una grande barriera corallina del periodo devoniano, 350 milioni di anni fa. Ci troviamo lontani dal mare, ma nel fiume vi sono razze, squali toro, coccodrilli di mare e altri pesci, che risalgono la corrente per centinaia di km. Sulle rive ci sono diversi tipi di alberi di eucalipto e di malaleuca, che ha la scorza sottile come carta e produce un olio balsamico e disinfettante. Ci troviamo in zona aborigena e l’unico locale è un confortevole bar, annesso al campeggio dove abbiamo piantato le tende. Le pareti sono tappezzate di cartelli: «Se sei ubriaco, non puoi entrare». «Proibito entrare a chi non ha scarpe e non è propriamente vestito». «Se ti ubriachi verrai cacciato». E così via. Qui però gli aborigeni vengono e si comportano bene. Stella è una giovane che mi rivolge la parola e con grande orgoglio mi dice: «Questo è il mio paese». Sorride e le si illuminano gli occhi.
Ma i giovani che vedo al lavoro sono tutti stranieri, con un visto per restare un anno nel paese. Vengono dalla Nuova Zelanda, dall’Europa e dall’Asia, come Irene, cinese di Taiwan. Il nome lo ha adottato perché il suo è troppo difficile da ricordare.
 Broome
La fama di Broome è legata alle perle, che qui hanno dimensioni gigantesche. I primi pescatori venivano dal Giappone, poi si crearono gli allevamenti e ora l’economia della città si basa su questa attività, oltre al turismo e all’arte aborigena, un tipo di arte del tutto diversa, che ha le radici nelle antiche credenze e nei miti della cultura aborigena. Gli artisti aborigeni che sono riusciti a farsi conoscere nel mercato dell’arte si sono riscattati da una vita di abiezione e di perdita di identità.
80 miles beach
Prima di raggiungere il più grande porto commerciale australiano, ci fermiamo per la notte in un grande campeggio sulla «spiaggia delle 80 miglia» che viene usata anche come via di comunicazione dai fuoristrada. La marea si ritira per centinaia di metri, creando all’alba e al tramonto riflessi interessanti sulla sabbia bagnata, ricoperta di conchiglie. Mentre negli stati del sud nevica, piove e fa freddo, qui gli ospiti si godono sole e mare, si pesca e si cucina intorno alle griglie comunitarie.
Io preparo la solita minestra con il liofilizzato, mentre Peter sta arrostendo patate e zucca per i due bimbi e la giovane moglie. «Sono impresario edile a Brisbane», mi spiega, «ho chiuso per 6 mesi e voglio fare una lunga vacanza, ora che i figli non vanno ancora a scuola». I tratti del viso sono mediterranei, infatti il nonno è arrivato da Salina tanti anni fa. «I miei genitori sono stati in Italia, mi hanno detto che Salina è molto bella. Un giorno spero di andarci anche io». Dalle isole Eolie sono partiti in molti per l’Australia, prima e subito dopo la guerra.
Auskie
La road house è l’unica possibilità per noi di fare il pieno di carburante e sostare per la notte. Una fila di prefabbricati circonda lo spiazzo per le tende e i caravan, la caffetteria gestita da una donna in gamba, che tiene tutto sotto controllo, è il punto di riferimento di una vasta zona mineraria.
Paul ha la tuta gialla impolverata di rosso. Si rivolge a me con un largo sorriso, mentre aspetta il panino che ha ordinato. La polvere rossa gli si è raggrumata sul viso, sotto gli occhi azzurri che mi sorridono. Mi vuole parlare del suo lavoro e della famiglia che ha lasciato a Perth. Scopro che fa l’operaio di un’impresa che sta effettuando trivellamenti a 60 km da qui alla ricerca di ferro e altri minerali di cui è ricchissima questa terra. Il lavoro è duro, dodici ore al giorno, senza sosta per il pranzo. Da un taschino tira fuori alcune foto sgualcite: lui giovane, magrissimo, con moglie e due bambine bionde. Poi le foto tessera delle tre figlie: «Questa», mi indica una biondina diciottenne, «è il genio di famiglia. Vuole studiare da avvocato, per diventare giudice e risolvere i crimini».
«Absolutely, certamente» dice, quando gli chiedo se è contento, «qui mi pagano bene. Prima mi accontentavo di lavori occasionali, ora mi danno 5.000 $ ogni due settimane, e posso ritornare a casa una settimana su quattro».  Paul in 12 anni di lavoro è riuscito a comprarsi la casa a Perth, mantenere bene la famiglia e aiutare il figlio avuto da una precedente relazione, che lo ha reso nonno da un anno.
Durante la stagione delle piogge il lavoro si ferma, le strade sono sovente impraticabili e le case sono ancorate alla roccia con strutture di ferro, per evitare che siano spazzate via dai tifoni.
Un topo speciale
L’attenzione lodevole che gli australiani hanno per l’ambiente, è molto recente. Il paese è stato pesantemente sfruttato sin dal sec. 18°, quando si sono insediati i colonizzatori inglesi. L’inserimento di animali e piante estranee ha danneggiato un ecosistema fragile, diverso da tutti gli altri. Qui nel Pilbara, regione remota e sconosciuta agli stessi australiani, ma ricca di risorse minerarie, vive un topo considerato prezioso per l’ambiente. Prende il nome dalla tana che si costruisce, il Pebble mound. Ora è protetto e prima di aprire una miniera o costruire una casa, bisogna accertare se non vi siano le sue tane, sul terreno. Sono vere e proprie abitazioni, che il topolino costruisce portando le pietre una ad una in bocca, dotandole di stanze, cunicoli, zone riservate al nido, uscite di sicurezza.
La sterminata steppa è ricoperta da cespugli spinosi che è meglio evitare, per via di spine dalla punta calcarea che infetta le ferite. Tutto è diverso dalla natura che conosciamo, anche i fiori selvatici, vistosi e stranissimi, che stanno incominciando a fiorire in questo inizio di primavera. I colori sono smaglianti, devono lottare per essere impollinati e alcuni, per riuscire a svilupparsi in terreno sterile, hanno bocche che intrappolano e digeriscono gli insetti.
Newman
 Quando hanno aperto quella che è la più grande miniera di ferro a cielo aperto al mondo, hanno fatto sgombrare le capanne del vecchio villaggio. Per costruire la città e sistemare i lavoratori immigrati, hanno spostato nel bush gli aborigeni, costruendo per loro case popolari e lasciandoli sradicati, senza i punti di riferimento della loro cultura.
Questa terra aspra è stata abitata dall’uomo da più di 30.000 anni. I primi abitanti hanno elaborato raffinati sistemi per sopravvivere in condizioni durissime e tuttora i loro discendenti sono le migliori guide per percorrere le piste nei deserti australiani.
«Abbiamo fatto molti errori, con la popolazione aborigena», mi dice Jane, che sta aspettando il figlio all’uscita della scuola elementare di Newman. «Tuttora i loro bambini raramente frequentano la scuola. Se arrivano la mattina, fanno la doccia, prendono la colazione, e si da loro un paio di scarpe, che vengono ritirate nel pomeriggio, prima di rimandarli a casa con il bus».
Anche a Newman c’è la chiesa cattolica, circondata da un giardino di palme e fiori. La mattina alle 9 c’è la messa, celebrata da padre Roger, un simpatico nigeriano che cura anche la parrocchia di Tom Price, altra città mineraria della regione. Sono solo due le fedeli presenti, oltre a suor Beth, due infermiere indiane, che hanno trovato lavoro in ospedale, ma sognano di ritornare a casa.
BHP
è la sigla di un colosso delle miniere, con pozzi di petrolio e gas offshore non solo in Australia, ma anche in Canada e nei Caraibi. Nel 1969 ha aperto questa miniera, dove si estrae l’ematite Brokman, con alto grado di purezza di ferro. Da allora la richiesta di mano d’opera è in continuo aumento e la città in espansione. Visitiamo la miniera, dove un’intera montagna è stata scavata e spianata. Ora è come una torre di babele con giganteschi gradoni dove passano i camion carichi di 60 tonnellate di materiale, che viene poi macinato e purificato negli impianti, prima di essere caricato sui treni diretti a Port Hedland. Treni in media lunghi 2,5 km, con centinaia di vagoni carichi fino a 30.000 tonnellate di minerale. I numeri che ci sono foiti dalla guida che ci accompagna sono impressionanti. Il primo carico che lasciò Port Hedland nel ’79 era diretto in Giappone, ora sono Cina e India i maggiori acquirenti.
Nanuturra
«Non si è mai troppo vecchi per far campeggio», mi dice il ragazzo keniano addetto al distributore, che mi consegna la chiave della cabin della road house di Nanuturra. Le scorse notti ho sofferto il freddo, in tenda. Nel parco Karjini abbiamo percorso a piedi le profonde gorge, spaccature nella laterite rossa, con cascate e pozze d’acqua fresca. Abbiamo viaggiato per più di 600 km in mezzo al nulla, senza incontrare un’auto, una casa. Solo alcune indicazioni per raggiungere le stations, isolate fattorie di allevatori. Unica possibilità di fare il pieno e sostare è questa road house, forse la più isolata di tutto il paese, gestita da Valeria, efficiente e seria come tutte queste dame australiane dell’outback. «Conosco un po’ di italiano perché ho ospitato una ragazza di Varese quando mia figlia era al liceo, a Perth». Anche Valeria ha fatto una scelta, vivere in questa solitudine, dove però si incontra gente diversa, tutti i giorni. Per la cena mi consiglia il piatto preparato dal giovane keniano, pollo con verdure, ottimo dopo lo scatolame con cui siamo sopravvissuti nei giorni scorsi.
Entra una bella, giovane donna, con una bambina di 9-10 anni. Hanno ambedue le trecce bionde e i jeans rossi di polvere, si fanno dare un panino ed escono prima che io possa capire chi sono. Il loro road train ha dei problemi e dovranno passare qui la notte. La mamma lavora in una station col marito e si occupa anche del trasporto del bestiame, guidando il gigantesco camion. La bimba la segue ovunque e per la scuola si collegano via radio tutte le sere, per seguire le lezioni.
All’alba sono svegliata dalla partenza dei giganti delle strade australiane, con i paracanguri e le prese d’aria lucidi di cromature, che portano tre o quattro vagoni e possono essere lunghi più di 40 metri.
Overlander Road house
Siamo diretti a Shark Bay e dobbiamo fermarci prima dell’imbrunire, quando i canguri che escono dal bush e attraversano la strada. Il Nanga Caravan Park è un luogo bellissimo, ma la struttura è fatiscente. «La padrona è una ricca cinese di Singapore che lascia le sue proprietà nell’abbandono e si fa vedere due volte l’anno per ritirare i soldi», mi spiega Daniel, che fa parte del personale, scarso e mal pagato. La cucina del campeggio è in disordine, sporca. Chiedo a Daniel se vuol cenare con noi stasera, cucinerò il pesce che ha pescato e lui mi promette di riordinare. Sarà una bella serata, con ottima pasta australiana di grano duro condita con sugo di pesce. Il vino lo abbiamo finalmente trovato allo spaccio, dopo giorni di ricerca.
Conchiglie
Shark Bay vuol dire natura ricchissima. Qui la schell beach è una spiaggia immensa fatta interamente di conchiglie compatte, con uno spessore di 10 metri. Nella zona ci sono le cave dove vengono estratti mattoni fatti di conchiglie, tutte uguali, piccole e bianche. Nell’800 si costruirono così edifici, molto belli, e anche una chiesa, a Denham.
Il mare chiuso nel profondo golfo di Shark bay ha una densità e salinità molto alta, ed è famoso per le stomatoliti. Chiamati anche fossili viventi, rappresentano la forma di vita più antica esistente sulla terra e furono scoperti solo nel 1956. Relativamente recenti, hanno solo 3.000 anni. Le stomatoliti che vediamo nella Hamelin pool, dove l’alta salinità impedisce a competitori e predatori di sopravvivere, si presentano come rocce scure, appena coperte dall’acqua del mare. Sono ancora visibili i segni delle ruote dei carri che trasportavano carichi di lana al porto. Oggi sono stati eliminati gli animali introdotti dai coloni, che hanno danneggiato l’ambiente. Con il progetto Eden si cerca di reintrodurre quelli estinti e tutta la zona è protetta dall’UNESCO.
Kalbarri
Kalbarri è una cittadina sul mare che dà il nome al parco nazionale famoso per i fiori, molto strani, su piante ancora più strane: infiorescenze grandi a pennacchio, a forma di pigna, di spazzola, ma anche fiori piccoli, bianchi e gialli, semprevivi. La percorre il fiume Murchison, che ha scavato nella roccia un canyon a forma di grande anello, prima di raggiungere il mare. Siamo nella fascia temperata, che consente la coltivazione di grano, banane e uva.
Alfredo è un bell’uomo, alto e snello, che con Joyce ha fatto 600 km per passare un weekend a Kalbarri. «Viviamo a Perth, città costruita dagli italiani», mi dice, mentre aspettiamo la cena seduti insieme allo stesso grande tavolo di un rustico ristorante. Alfredo arrivò da Lucca nel ’51 per lavorare come muratore, spinto dalla necessità. Allora in lucchesia si era poveri, si mangiavano castagne e si facevano le figurine del presepe, che venivano vendute in giro per l’Italia, nelle ceste di vimini.  Sulla spiaggia di Perth Alfredo conosce Joyce, ragazza dal nome esotico, ma di padre valtellinese. «Mio padre era arrivato prima della guerra, per fare il boscaiolo», mi confida Joyce. «Morì giovane, nel ’49, per una ferita riportata sul lavoro. Mia madre rimase senza aiuto e per mantenere i 4 figli fu costretta a lavorare come lavandaia e domestica». Ora Alfredo e Joyce si godono la pensione nella casa di Perth, con orto e giardino, dove bisogna stare attenti ai serpenti velenosi e al ragno rosso. Le tre figlie sono sposate, un genero è filippino, e hanno 6 nipoti. Italiani di Australia, con storie di fatiche, lavoro e soddisfazioni.

Di Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




Una marcia in più/ L’arrivo dei «magnifici tre»/ Il lungo viaggio

Storie di adozioni

Anna e Gino / Una marcia in più

Anna e Gino, hanno una figlia di quattro anni «biologica» come si dice in gergo e hanno avuto in adozione un bimbo cambogiano di 17 mesi.
Anna. L’idea di intraprendere il percorso dell’adozione internazionale è nata durante l’adolescenza, nei miei primi viaggi in Inghilterra, venendo a contatto con una società multirazziale. Mi sono chiesta perché l’Italia non fosse così. La prima idea, in realtà, era stata sposare uno straniero, magari di colore. Poi subito dopo ho iniziato a pensare all’adozione. Questa volontà si è poi rafforzata alla nascita di Eleonora, sperando anche che questo avrebbe potuto insegnarle valori positivi di tolleranza e solidarietà.                             
Gino. Nell’ambito scout ho conosciuto persone adottate o in affidamento e mi è sembrata una buona cosa. Una opportunità per un bambino (magari non l’unica), ma anche per la coppia. Come al solito è uno scambio. Con Anna è stata una bella sorpresa condividere l’idea, meglio ancora realizzarla.

Durante il percorso per diventare genitori adottivi le difficoltà incontrate sono state poche. Abbiamo vissuto l’iter con molta serenità, non ci siamo mai sentiti giudicati, forse perché eravamo molto convinti della scelta e delle motivazioni, e crediamo che questo in qualche modo abbia influito positivamente anche su chi doveva esprimere effettivamente un giudizio.
Ovviamente avevamo le spalle coperte dal fatto di avere già una figlia e pure piccola, che quindi assorbiva totalmente la nostra attenzione nei tempi morti, quelli che di solito sono vissuti con molta ansia dagli aspiranti genitori adottivi.
Non abbiamo affrontato il cammino adottivo con la tensione delle coppie senza figli, che sentono l’urgente bisogno di dare e ricevere affetto e sono spesso reduci da travagli di ogni genere per ottenere una gravidanza.
Per quanto riguarda il percorso formativo previsto dai servizi  sociali riteniamo che, almeno nella nostra regione, ci sia una buona organizzazione  tesa ad informare fin dall’inizio le coppie in merito ai vari risvolti: legali, burocratici, organizzativi, educativi e affettivi.
Tra gli enti che curano l’adozione internazionale abbiamo riscontrato differenze non trascurabili.

Le prime vere difficoltà sono emerse quando, dopo l’arrivo di Yan, ci siamo resi conto che, per quanto l’avesse desiderato e fosse stata da noi coinvolta e preparata, Elenora soffriva a causa del  fratello.  Infatti un conto è immaginarsi un piccoletto da coccolare e abituarsi lentamente alla sua presenza, un altro è ritrovarselo già autonomo che pretende i suoi spazi e … i giochi.
Ci siamo così sentiti un po’ spiazzati e impreparati  nei confronti di Eleonora. Crediamo che  su questo tema enti e servizi possano fare molto per la preparazione e il supporto dei figli già presenti e dei genitori: serve una maggiore formazione della famiglia esistente.
Al momento l’attenzione che pongono enti e servizi è particolarmente concentrata verso i bambini adottati. Ma bisogna dire che i servizi si stanno attrezzando su questo.

Rispetto a Yan non abbiamo avuto difficoltà con l’asilo nido, mentre ci siamo dovuti confrontare con la scuola matea che finora non ha formato in modo specifico le maestre, le quali (a parte in alcuni casi), non conoscono il mondo dell’adozione e le implicazioni psicologiche dei bambini e dei genitori.
Dopo un inizio un po’ difficile, dopo aver fatto presente la nostra situazione e informato le insegnanti, a oggi dobbiamo riconoscere un impegno quotidiano positivo da parte loro. Mentre l’istituzione scolastica  ha fatto una dichiarazione di volontà per l’attenzione alla formazione futura delle insegnanti.

Anna e Gino

Cristina ed Enzo / L’arrivo dei «magnifici tre»

Siamo tornati da Addis Abeba con Johannes, Haliu e Hermias i nostri tre splendidi bambini etiopi di 8 e mezzo, 7 e 5 anni.
«Tutti maschi?», «Certo un po’ grandicelli … ,  speriamo in bene … », «E come farete con la scuola? Non sarà certo facile un inserimento a metà anno in un paese con una lingua ed addirittura un alfabeto diversi … », «Quindi sono neri … non che oggi le cose stiano come qualche tempo fa, ma inserire dei ragazzini di colore già grandi non sarà facile, i bimbi sanno essere crudeli a volte. E crescendo la situazione non credo migliorerà… », «Che bravi certo ne avete del coraggio … ormai così grandi e con tanti ricordi non sarà facile farsi accettare come nuovi genitori … », «Certo che tre in un colpo dopo tanti anni da soli … sarà molto dura».

Queste, grosso modo, le osservazioni di «buon senso» di quanti apprendevano la notizia del nostro abbinamento con i «magnifici tre». Grazie al cielo non difettiamo di amici che di buon senso ne hanno poco e che ci hanno incoraggiato molto a compiere questo importante passo.
Ancora una volta la realtà ha superato la fantasia.
Siamo partiti dicendoci che magari due fratellini erano meglio perché, sarebbe stato un punto forza per i nostri figli, magari anche molto diversi somaticamente e cromaticamente da noi, portarsi appresso un pezzetto della propria storia, e al contempo non recidere un legame certamente parte della loro identità. L’associazione aveva poi segnalato la presenza di diversi gruppi di fratelli che, per ovvi motivi, trovavano più difficoltà dei singoli bambini ad essere abbinati. Certo non ci sfiorava l’idea di prendere tre bambini, come declamava la piantina, pressoché definitiva, della ristrutturazione della nostra nuova casa, che esibiva una distribuzione degli spazi pensata per «sole» 4 persone.
Sull’età poi eravamo abbastanza rigidi: doveva essere entro i 5 anni! Una prima «picconata» alla nostra posizione è arrivata dal corso organizzato dal Comune: le adozioni ormai sono in gran parte di bambini già grandi, 7 – 8 anni. Del resto anche loro hanno diritto ad avere una famiglia. Non è detto che siano inserimenti più problematici di quelli dei neonati ed è importante per tutti i bambini avere genitori di un’età adeguata e non dei nonni – genitori. L’intervento, vibrante e ben argomentato ci ha messo molto in discussione, anche se non ci siamo sentiti di aumentare di molto la nostra disponibilità.
La seconda «picconata» è giunta dall’associazione che guardando le nostre carte di identità ci ha proposto una fascia di età di abbinamento dai cinque agli otto anni compiuti! Dopo qualche momento di smarrimento durante il quale abbiamo sentito dentro di noi infrangersi l’immagine del nostro bambino ideale, ci siamo un po’ ripresi pensando che, trattandosi pur sempre di una fascia teorica, magari i nostri figli sarebbero stati più verso i cinque che non gli otto.

Ebbene, a quattro giorni dal nostro ventesimo anniversario di matrimonio abbiamo ricevuto la telefonata di Silvana che ci annunciava, come una vera cicogna, la possibilità del nostro abbinamento con tre fratellini etiopi, tutti maschi, di età ecc. ecc.
Come si fa a dire «no» in questi casi? Come si fa a dire «si» in modo consapevole, evitando il rischio di una disponibilità solo emotiva che però ti tradisce nel vivere quotidiano a contatto con triplici capricci, un’organizzazione improvvisamente impazzita (lavatrice in moto perpetuo, spesa fantasiosa per mediare su gusti culinari incompatibili con i nostri, preparazione di tre bambini entro le 8,20 per l’ingresso a scuola…) , una richiesta di attenzioni che già in partenza soffre di uno scarto incolmabile di tre (figli) a due (genitori)?
Ne abbiamo parlato molto tra noi, con le nostre famiglie, con i servizi di zona e soprattutto insieme ai molti amici che ci hanno accompagnato in questo percorso. Attraverso il confronto con loro e la loro esperienza di genitori abbiamo cercato di capire che tipo di difficoltà avrebbe comportato il «si», ma soprattutto abbiamo sentito la loro vicinanza, il loro incoraggiamento e sostegno, «qualificati» da esperienze, pur faticose ma certamente positive e coraggiose, di adozione e affidamento di minori «grandicelli» vissute direttamente o da molto vicino.

E poi l’incontro. È vero. I nostri figli non sono neonati, ma neanche grandi quanto «temevamo»: preparati al peggio scopriamo che i vestiti portati, in realtà sono troppo lunghi e larghi.
Hanno ugualmente diritto ad una famiglia. Ne hanno già persa una e se lo ricordano bene.
Sono ugualmente, se non di più, affamati di coccole e attenzioni: baci, carezze e abbracci sono ancora oggi il nostro veicolo principale e reciproco di comunicazione. Anche oggi che, sempre di più ed oltre ogni più ottimistica previsione, stiamo arricchendo il comune vocabolario.
Non sono neonati ma persone con una loro autonomia (che ha i suoi lati positivi) non da plasmare a nostra immagine e somiglianza ma che ci arricchiscono e mettono in discussione con le loro domande, intuizioni, punti di vista che arrivano dall’altra parte del mondo per di più personalizzati dal loro vissuto.
Abbiamo scelto di inserirli il prima possibile nel contesto scolastico. Per noi è stata un’esperienza commovente incontrare un mondo della scuola che pensavamo perduto: una direttrice sensibile e decisa che ha posto le migliori premesse per un inserimento di successo; delle insegnanti motivate ed entusiaste e dei genitori aperti che hanno accolto i nostri figli con affetto, considerandoli una risorsa per la classe.
I nostri figli non erano nemmeno bambini. Erano adulti «per forza». Oggi si stanno riappropriando della loro infanzia. Un po’ come le loro biciclette: da grandi, come impone la loro taglia, ma con le rotelle, come richiedono l’inesperienza, la recente scoperta, il rispetto delle tappe di crescita. Ed è uno spettacolo vederli giocare con il «normale» entusiasmo tipico dei bambini.
È vero. I nostri figli non sono neonati. Del resto l’adozione non sostituisce una gravidanza, e non è giusto considerarla un suo surrogato. L’adozione non è dare la vita. È ridarla a chi l’aveva perduta. Ed è crudele negare questa possibilità nel tentativo di imitare un meccanismo riproduttivo che ci ha visti «parte lesa». Il punto di partenza qui è capovolto. In questo caso si ri-genera una persona che già c’è, certamente «lesa» nei suoi diritti di bambino.

Cristina ed Enzo

Maria Elisabetta ed Enrico / Il lungo viaggio

La scelta di adottare un bambino non è stata semplice e, tanto meno, immediata. È stato un processo lento, a tratti doloroso, che è maturato nel tempo. Abbiamo iniziato a pensare di adottare un bimbo solo dopo dieci anni di matrimonio. E forse l’averci pensato così tardi è uno dei rimpianti maggiori che abbiamo. Spesso ci diciamo che se avessimo iniziato prima, magari oggi invece che un figlio ne avremmo due o forse tre. Ma tant’è. Il destino ha voluto così, è così è stato.
In ogni caso nel processo di adozione siamo stati molto fortunati. Abbiamo presentato la domanda di adozione nel marzo 2006 e abbiamo abbracciato il nostro piccolo il 10 dicembre 2007. Un anno e mezzo è pochissimo in un processo che, in molti casi, richiede anni e anni di attesa.

Come dicevamo però non è stato un processo indolore. Anzi. I colloqui con gli assistenti sociali, i numerosi corsi ai quali si deve partecipare obbligatoriamente, i libri che si leggono sono tutti passi che, ogni volta, scavano nella coscienza dei futuri genitori adottivi e vanno giù nel profondo, causando ferite non da poco. Tutto il sistema di verifica delle capacità genitoriali è, di fatto, un processo che ti porta a prendere coscienza del tuo fallimento nella capacità di generare un figlio. E prendere atto di un fallimento non è mai facile. A questo poi si aggiungono le paure di non essere all’altezza di una sfida così importante. Il risultato è uno stato d’ansia che ci ha accompagnato per alcuni mesi, in particolar modo negli ultimi mesi prima di accogliere il piccolo. «Chi sarà il bambino? Quanti anni avrà? Qual è la sua storia?»: sono domande che ti seguono sempre. Che non ti fanno dormire. Ma a fianco di esse c’è anche il desiderio di diventare papà e mamma. Un desiderio fortissimo che attenua ogni dolore e ti dà la forza per andare avanti. Fino al giorno dell’incontro.

Per noi l’incontro è stato quasi improvviso. Il 7 novembre l’ente autorizzato al quale ci siamo rivolti ci ha chiamato. Dovevano comunicarci l’abbinamento con un bambino. Sapevamo che il piccolo era vietnamita, ma non conoscevamo né il nome, né l’età, né da quale provincia del Vietnam provenisse. Vedere la sua foto ci ha riempito di gioia. Il piccolo aveva allora cinque mesi e mezzo, era sano e, soprattutto, non aveva subito traumi psicologici. La comunicazione però non significava partenza immediata. Abbiamo dovuto aspettare più di un mese prima di imbarcarci per Hanoi.

Il viaggio è stato lungo e difficile. I pensieri e le domande non ci hanno lasciato neppure un minuto. Ma non abbiamo dovuto aspettare molto per avere le risposte. Appena arrivati in albergo il telefono è squillato. «Domani mattina fatevi trovare alle 6 nella hall dell’albergo. Andiamo a prendere il bimbo», ci avvisava con voce perentoria il referente locale dell’ente. Quella notte abbiamo dormito veramente poco. E la mattina infatti eravamo stravolti. Abbiamo ancora le foto che ci siamo fatti fare dalla receptionist alle 6 di mattina. Il viaggio da Hanoi a Nam Dinh è passato velocemente. Arrivati al municipio di Nam Dinh, eravamo come in trance. Facevamo fatica a capire cosa ci stesse capitando. Ci hanno fatto firmare molti documenti. Poi a un certo punto ci siamo voltati ed è entrato il bimbo. Pallidino, spaurito, infagottato in una copertina azzurra. Ci guardava terrorizzato, poi si è messo a piangere. Dopo pochi minuti siamo ripartiti. Ed è cominciato un viaggio che non è ancora terminato.

Maria Elisabetta ed Enrico

Autori vari




AMORE GENERA AMORE

Da genitori a nonni (adottivi)

Una coppia di volontari sbarca in un paese centroamericano per mettersi al servizio dei desplazados. Ma diventa anche famiglia adottiva. Storia di altri tempi o … sono solo cambiate le procedure?

La storia della nostra famiglia inizia nella tragedia, ma ha un lieto fine.
Finora, per pudore e riservatezza, non l’abbiamo mai raccontata a chi non ci conosce, anche se l’hanno ascoltata dalla nostra voce tanti amici e conoscenti. Oggi, tuttavia, pensiamo che la nostra piccola, ma felice avventura possa contribuire ad infondere fiducia a genitori e figli che stanno formando una famiglia attraverso l’adozione, in un periodo in cui la nostra società fa così fatica a trovare motivi di condivisione e di speranza.

Dal lontano Salvador

I nostri figli sono orfani di guerra: i loro genitori Eugenia e Alejandro sono stati uccisi a Ayutuxtepeque in El Salvador, vittime degli squadroni della morte, addestrati per fermare il comunismo nel piccolo paese centroamericano. Nel periodo dal 1979 al 1991, il popolo salvadoregno ha pagato alla «Guerra fredda» tra Usa e Urss un tributo di sangue altissimo: villaggi rasi al suolo, uccisioni, torture, sparizioni; i morti sono stati 70.000, i feriti non sono mai stati contati. La repressione colpiva soprattutto quella parte della chiesa cattolica che aveva fatto la scelta preferenziale per i poveri, sancita dalla Conferenza episcopale latinoamericana di Medellin. Sono stati uccisi decine di sacerdoti, suore, insegnanti, catechisti. Il 24 marzo del 1980 il vescovo Oscar Aulfo Romero è stato assassinato mentre celebrava l’Eucarestia.
Eugenia e Alejandro non erano ribelli armati, erano solo dei contadini, ma la notte del 10 marzo 1982 sono stati prelevati dalla loro casa, strappati ai loro figli e fucilati dalla Policia de hacienda, assieme ad altre venti persone del loro villaggio. La strategia della repressione militare era quella di «togliere l’acqua al pesce»: impedire, seminando il terrore, che la guerriglia ricevesse appoggio dalla popolazione rurale.
Dopo qualche mese, nell’ottobre del 1982, arrivammo in Salvador, giovani coniugi, volontari dell’associazione Mani Tese, impressionati dalle terribili testimo- nianze che arrivavano da quell’angolo del mondo. Con l’aiuto dei Padri Somaschi abbiamo realizzato il primo progetto di Mani Tese a favore dei desplazados, i poveri che arrivavano nella capitale fuggendo dalle aree dove esercito e guerriglia si combattevano. Sempre grazie ai Padri Somaschi abbiamo fondato la nostra famiglia: sono stati loro, infatti, a parlarci di quattro fratellini rimasti senza genitori e rifugiati nella parrocchia di un giovane sacerdote, cugino della madre uccisa.

Una nuova vita

All’epoca, in Italia l’adozione internazionale non era regolamentata da una legge specifica, semplicemente era deliberato il provvedimento del paese di origine del bambino. Dal canto loro, le autorità salvadoregne non stavano a sottilizzare: gli orfani erano un peso economico e un problema sociale, meglio facilitae l’affidamento a coppie straniere.
Così nel giro di un paio di mesi ci ritrovammo genitori di tre bambine, di 8, 4 e 3 anni e di un maschietto di 12 mesi.
Quando rientrammo in Italia, nel dicembre del 1982, ci presentammo al Tribunale dei minorenni di Milano che, superato lo scetticismo iniziale, ci sottopose alla procedura per ottenere l’idoneità che ci fu concessa alla fine del 1983.
Mentre affrontavamo gli aspetti giuridici e burocratici, anche con la benevola assistenza degli operatori del comune della nostra cittadina, la vita famigliare si avviava alla normalità.
Fin dal primo giorno, i bambini si sono adattati alla nuova vita, accettando tranquillamente le tante diversità: la lingua, il clima, i vestiti pesanti, la casa.
Dal punto di vista affettivo, fummo subito accettati come il nuovo papà e la nuova mamma e amati senza condizioni. Un amore grande che incluse immediatamente i nonni, gli zii, gli amici e tutti coloro che venivano in contatto con la nostra famiglia.
Tante volte ci siamo interrogati su questo inizio così «liscio», trovando delle risposte empiriche: i nostri figli non hanno subito il trauma dell’abbandono, non sono stati in istituto, la causa della loro sofferenza era estea alla famiglia, noi abbiamo conosciuto e, in parte condiviso, la loro storia…tutto vero, ma è anche vero che i bambini si affidano senza riserve a chi li cura e, sempre senza riserve, sono disposti ad amare chi li ama.

Non siamo superman

Certo è stato faticoso, lavoravamo entrambi e dovevamo gestire una famiglia di sei persone, tuttavia ce l’abbiamo fatta.
Non ci sentiamo né diversi né, tanto meno, migliori di tanti altri genitori.
I nostri figli sono cresciuti come tanti altri figli, tra successi e problemi, tra soddisfazioni e difficoltà. Oggi sono quattro adulti con una loro vita affettiva e professionale ma, quello che più conta ai nostri occhi, è che sono persone serene, sensibili e generose.
Il colore della loro pelle non ha mai creato imbarazzo in seno alla nostra famiglia e alla nostra comunità, neppure quando erano gli unici bambini «diversi». Oggi in una società, attraversata da un razzismo più sbandierato che reale, il loro aspetto «extracomunitario» e la loro identità italiana servono a far capire, anche ai più ottusi, che il mondo è in evoluzione e che la diversità è un fattore di crescita.
Quest’anno la nostra famiglia è cresciuta: nostra figlia maggiore e suo marito hanno concluso un’adozione internazionale e sono diventati genitori di tre sorelline messicane di 8, 4 e 3 anni.
Ad accogliere la nuova famiglia in aeroporto c’eravamo tutti: nonni, bisnonni, zii, prozii, amici, colleghi. La nostra allegria è risultata contagiosa, anche le altre persone davanti agli arrivi inter- nazionali hanno voluto partecipare, tenendo palloncini colorati e cartelli di benvenuto.
Avremmo, forse, dovuto essere più discreti, ma la nostra commozione era incontenibile e le bambine ci hanno ricambiato con i loro visetti sorridenti e gli occhi che brillavano. Una nuova famiglia è nata e dovrà fare il suo cammino, affrontando le giornie e i dolori di ogni famiglia. Come genitori adottivi, sentiamo una profonda riconoscenza verso nostra figlia e nostro genero che ci hanno reso nonni adottivi.
Grazie a queste bambine, la nostra famiglia sta vivendo una nuova esperienza, così densa di emozioni che vorremmo farla partecipare al mondo intero.
Ecco perché l’abbiamo voluta raccontare: la nostra storia dimostra che l’adozione è una scelta di amore che genera altro amore e semina felicità.

Di Sabina Siniscalchi

Sabina Siniscalchi




Un gruppo per crescere

Un’associazione dalla parte delle coppie

Creare uno spazio dove si possa parlare di adozione. Perché parlare di certe cose non è facile. Nel gruppo le famiglie possono ascoltare le emozioni di gente che ha già vissuto una problematica. E si possono preparare ad ogni evenienza.

Elio Biasi, corporatura robusta, parla deciso, mai fuori luogo. Soprattutto: sa di cosa parla. È il promotore dell’associazione Gruppi volontari per l’affidamento e l’adozione, che opera a Torino e provincia.
Il gruppo nasce nel 1982 come gruppo di sensibilizzazione e promozione all’affidamento. Poi nel 1987 passa ad occuparsi di adozione perché «il comune ha preso in mano l’affidamento» e diventa associazione.
«Abbiamo voluto far nascere un gruppo per aiutare le coppie in difficoltà, sia prima, quando occorre seguire tutto l’iter, sia nel dopo».
L’adozione implica problematiche forti: discriminazione razziale, riuscita scolastica, problemi sanitari, paura del rifiuto, eccetera. «C’era, e c’è tuttora, questa esigenza: molte famiglie non sanno a chi chiedere e sono timorose su certe cose».
Il metodo: raccontare le proprie esperienze. Elio lo chiama: «automutuoaiuto», ovvero condividere il proprio vissuto su certe tematiche con gli altri, in una dinamica di gruppo.
«Certe questioni meno importanti quando i figli sono piccoli, poi con la crescita vengono fuori. A posteriori ci diciamo: se avessimo lavorato meglio su alcune cose, che non abbiamo valutato, probabilmente potevano risolversi in una maniera migliore. Sono quelle cose che nessuno ti ha detto. Ci ha sempre animato questa grossa voglia di trasmettere agli altri e di creare dei luoghi dove si potesse parlare di adozione».
In seguito l’associazione crea due gruppi, uno per le famiglie che devono adottare e l’altro per chi affronta la post adozione.
«L’importante è che le famiglie ascoltino le emozioni da gente che ha già il vissuto e in questo modo si prepari a quanto può accadere».

Farsi una «corazza» protettiva

«Ad esempio – continua Elio – cerchiamo di dare un sostegno per affrontare tutte le traversie per ottenere l’idoneità. E cerchiamo di preparare la gente anche al caso di esito negativo. Noi non vogliamo fare gli psicologi e gli assistenti sociali. Ma è molto importante avvisare la coppia che potrebbe esserci questa eventualità».
Fondamentale è il concetto di gruppo: «Secondo me la famiglia va guidata, occorre aprirle gli occhi, darle tutte le possibili informazioni sui disagi che ci sono sul cammino. Il gruppo ti sostiene quando tu hai problemi a relazionarti con il bambino. Se non c’è un gruppo alle spalle come fai?
Le capacità e l’esperienza di gestire il gruppo è tirare fuori il problema al momento giusto. Riuscire a portare chi ha vissuto un problema a parlarne con gli altri».
I loro incontri sono seguiti da 10 -15 coppie, che si avvicendano. Dal gruppo principale, negli anni, ne sono nati altri che si incontrano regolarmente: «L’idea è non avere tanta gente. Ma avere più gruppi sparsi nel territorio». Così hanno preso vita i gruppi di Collegno, Rivalta, Bibiana e Aosta. Ogni incontro è gestito da uno o due volontari: «Persone che hanno seguito il mio gruppo e poi hanno sentito la spinta per creae un altro»
Sono nati anche gruppi legati ad altre associazioni. E anche le équipe dei servizi sociali hanno capito l’importanza di questo accompagnamento: «Importante è che gli psicologi delle Asl si stanno ispirando al nostro lavoro e organizzano riunioni con le coppie adottive che hanno selezionato nella loro zona e che poi hanno avuto il figlio. Questa è la cosa più bella per noi». Gli incontri (uno al mese per gruppo) hanno un calendario annuale sulle tematiche. «Prima svisceriamo le problematiche e poi invitiamo dei tecnici: psicologo, fisioterapista, assistente sociale, operatore dell’ente autorizzato, ecc.» prosegue Elio.
«L’obiettivo è anche di mettere le famiglie a conoscenza dei loro diritti, di quello che possono fare in caso di …, da chi possono andare.
Raccontiamo le nostre storie, più che dare consigli. Gioie e dolori. Serve anche per creare uno scudo per loro, ma grazie a quello che abbiamo fatto noi».

Verso il futuro

L’associazione è conosciuta, i servizi sanno che esiste e nei corsi preparatori della Regione la citano. Però la frequentazione è cambiata negli anni: «Ultimamente c’è più gente presuntuosa, o non preparata all’adozione, che vuole prendere e non dare. Vengono due o tre volte. Poi spariscono».
A Elio non piacciono molto gli enti autorizzati (vedi altri articoli), almeno quelli privati: «Penso che la cosa più importante da fare sia creare enti pubblici che possano collaborare con il governo dei paesi di origine dei bambini, tramite i loro specialisti: assistenti sociali, psicologi. Per semplificare il tutto, senza passare attraverso agli enti privati».
Elio Biasi è un fiume in piena, trasmette una grande carica umana. E pensa al futuro: «Una delle cose che voglio fare adesso che sono in pensione è portare l’adozione e l’affidamento nei corsi prematrimoniali. È importante far conoscere alle coppie che, tra le diverse possibilità di avere figli, ci sono anche queste».
Ma anche portare avanti le relazioni con il tribunale. Far capire l’utilità dei gruppi: «Vorrei parlare loro dei malfunzionamenti, come la disparità di selezione da un servizio sociale all’altro. Qualcuno fa cose fuori ruolo, mettono in crisi la coppia, sembra quasi che debbano martellarli per vedere se sono in grado o meno. Ma non sempre è il modo migliore».

Di Marco Bello

Marco Bello




Guardare al futuro

Anna Maria Colella, direttore Arai

I bambini vanno aiutati a crescere nella propria famiglia e nel proprio paese. Ma talvolta questo non è possibile. Il confine tra lo stato di indigenza e l’abbandono non è sempre netto. Ecco il punto di vista della dottoressa Colella, fondatrice del primo (e unico) ente pubblico per le adozioni inteazionali.

Anna Maria Colella è un funzionario della Regione Piemonte che si occupa da anni della promozione e della tutela dei minori. Annovera tra i tanti incarichi quello di esperta per le politiche minorili presso l’Ufficio di gabinetto dell’allora ministro per la Solidarietà sociale Livia Turco. Inoltre, è stata componente della Commissione adozioni inteazionali e anche dell’Osservatorio nazionale minori.
Nel 2001 ha promosso la nascita del primo (e unico) ente pubblico italiano per le adozioni inteazionali, l’Agenzia regionale per le adozioni inteazionali (Arai) di cui è direttore.

Come è cambiata l’adozione internazionale negli ultimi anni?
«Lo scenario dell’adozione internazionale è cambiato molto. Occorre partire dalla Convenzione de L’Aja per poter parlare di adozioni inteazionali a tutto campo. Nel ‘93 a L’Aja è stato siglato un accordo, tra paesi di origine e paesi di accoglienza, dove si individuava come principio basilare la «sussidiarietà delle adozioni inteazionali»: le adozioni sono possibili, ma solo nel momento in cui il paese di origine non riesca a dare una risposta di famiglia al bambino in abbandono. Si tratta di un principio molto importante, riconfermato con la legge italiana di ratifica della Convenzione de L’Aja (legge n. 476 del 1998).
Lo stato italiano peraltro prevede in tale legge che anche gli enti che si occupano di adozione debbano sviluppare, nei paesi nei quali operano, progetti a sostegno dell’infanzia. Viene ribadito in tal modo un aspetto molto importante: la tutela dei diritti dei bambini passa soprattutto attraverso l’attenzione degli stati di origine, in quanto ciascun bambino deve essere aiutato e sostenuto innanzi tutto nel suo paese».

Il che sembra in contraddizione con l’adozione?

«Questo principio è stato al centro dell’attenzione di tutti (stato, regioni, enti locali) ed è un riferimento per le coppie che vanno ad adottare all’estero. In passato le famiglie avevano l’idea di adottare con facilità in un paese straniero, un bambino molto piccolo e sano. Questo era il desiderio di tanti e spesso lo è ancora.
La trasformazione di questi anni è passata anche attraverso la diffusione di una diversa cultura dell’adozione, promossa sia dai servizi sia dagli enti che si occupano di adozioni. L’enorme cambiamento riguarda soprattutto la maturazione, da parte delle coppie aspiranti all’adozione, di una maggiore consapevolezza delle caratteristiche dei minori in stato di abbandono: sono spesso bimbi in età scolare, con difficili storie famigliari alle spalle e con disabilità, appartenenti a gruppi di fratelli in adozione. Si è cercato sempre più di far capire la differenza tra il bambino desiderato e il bambino reale».

Pensa che questa consapevolezza sia stata raggiunta?
«Le coppie italiane che desiderano avere un figlio adottivo hanno ben compreso questa realtà. Ci sono coppie che si preparano ad accogliere gruppi di fratelli, bambini grandi, a volte con difficoltà sanitarie.
Abbiamo accompagnato diverse famiglie all’adozione di bambini di etnia rom di 8 – 9 anni:  sono casi complessi, per nulla facilitati dal dibattito italiano su integrazione e interculturalità, che rende più difficile l’accoglienza di bambini con differenze somatiche e il loro inserimento nella rete sociale allargata. Un altro principio da tener presente è quello per cui le coppie italiane non possono realizzare adozioni “fai-da-te”, ma devono essere accompagnate da enti autorizzati, iscritti in un Albo presso la Commissione per le adozioni inteazionali (Cai) della Presidenza del Consiglio dei ministri. Una volta che si ottiene il decreto di idoneità all’adozione internazionale, rilasciato dal Tribunale per i minorenni, bisogna conferire l’incarico a un ente autorizzato, che, tra i vari compiti, annovera anche la preparazione delle coppie all’intero percorso adottivo. Nel panorama italiano ci sono circa 70 enti privati e un solo ente pubblico: l’Arai».

Ci sono ancora le coppie che vogliono un bimbo «piccolo, subito e sano»?

«Dipende molto sia dalla professionalità dei servizi socio-assistenziali e sanitari del territorio, sia dalla capacità dell’ente di preparare e accompagnare la coppia: l’accompagnamento è un percorso di crescita e consapevolezza.
Certi paesi d’origine chiedono alle coppie requisiti particolari e disponibilità specifiche. Se la relazione sociale, elaborata dall’équipe adozioni del territorio di residenza, riporta che la coppia non se la sente di adottare un bambino di colore o di etnia diversa, è difficile che quella coppia venga accompagnata ad adottare in un paese i cui bambini presentano differenze somatiche evidenti. Noi, però, dobbiamo sostenere le coppie e farle crescere nella loro disponibilità e nella consapevolezza che la realtà dei bambini dichiarati adottabili è complessa.
Ci sono enti che realizzano adozioni in paesi che presentano situazioni giuridiche, sociali e politiche in cui è molto difficile lavorare. Ne è un esempio il Vietnam, dove, di recente, sono emerse delle irregolarità nello svolgimento delle procedure adottive, che hanno portato all’arresto di alcuni cittadini vietnamiti incaricati della gestione di orfanotrofi collegati all’adozione».

In alcuni paesi, genitori in stato di indigenza acconsentono a «dare» i figli in adozione.

«Tutto dipende dalla capacità del paese di origine di controllare le proprie strutture e verificare che i bambini siano effettivamente in stato di abbandono. Alcuni, per esempio, prevedono che venga firmato un consenso all’adozione da parte della famiglia di origine; in tal caso è compito dei paesi d’origine controllare che il consenso non sia stato estorto alla madre per problemi di povertà o indigenza. In base alla nostra legislazione, infatti, un bambino può essere adottato se ne viene dichiarato lo stato di abbandono e di adottabilità.
Se si opera in stati dove la povertà è tale per cui maggiori sono le difficoltà legate all’ottenimento dei provvedimenti di abbandono, bisogna lavorare con cautela. Problemi di questo tipo non riguardano generalmente quei paesi dotati di strutture giuridiche e amministrative consolidate, come il Brasile e la Russia».

In casi di grande povertà il confine tra abbandono e impossibilità di occuparsi dei figli non è netto.

«Sono situazioni difficili da decifrare: alcuni bambini sono in abbandono solo a causa della povertà della famiglia d’origine? Fino a che punto la povertà stessa incide sull’incapacità educativa?
Una mamma molto povera, che vuole bene al suo bambino e lo vuole tenere, va aiutata; se, al contrario, non dimostra l’amore e l’attenzione necessari ad educare il figlio e a crescerlo, bisogna chiedersi se è più importante la mamma o il futuro del bambino.
È pur vero che bisogna avere delle alternative positive da offrire, come strutture adatte a sostenere le famiglie e i loro bambini e investire risorse nella cooperazione internazionale, nel sostegno alla mateità e all’infanzia. È estremamente importante che tutti, lo stato, le regioni, gli enti locali, gli istituti religiosi, le Ong, facciano la loro parte.
All’inizio della mia esperienza professionale nel settore non appoggiavo di buon grado le adozioni inteazionali, ritenendo che ciascun bambino dovesse essere aiutato nel proprio paese d’origine».

Qual è stata per lei la svolta?
«Nel 1998 sono andata in Brasile e ho visto per la prima volta bambini che crescevano negli istituti. Di fronte a questa situazione ci dobbiamo chiedere con che diritto diciamo no alle adozioni inteazionali, se queste possono essere uno strumento per dare una famiglia a un bambino. Se non ci sono legami affettivi e giuridici che tengono quel bambino nella sua terra, un altro paese può dargli gli affetti che non ha trovato. È fondamentale però avere e mantenere il rispetto per questi bambini, per la loro cultura, il loro passato, la loro lingua, la loro storia. Adottando un bambino dal Sud America o dall’Africa bisogna fare in modo che non perda le sue origini: la cultura del paese d’accoglienza va ad aggiungersi alla sua, quale risorsa in più.
Noi, come servizio pubblico che si occupa di progetti di cooperazione internazionale e di adozioni,  cerchiamo di preparare il più possibile le coppie a questo passaggio, a non tagliare i legami con il paese d’origine del loro bambino. Per questo riteniamo che soggioare nel paese di provenienza del minore per un certo periodo di tempo sia utile per capire e conoscere meglio la sua cultura. Concordo in ciò con le autorità sudamericane, che richiedono una permanenza minima delle coppie di 40 – 50 giorni.
L’adozione internazionale è una sfida da vincere verso il futuro e rispetto a un mondo sempre più multietnico, caratterizzato dalla convivenza di culture diverse. Noi operatori del settore, occupandoci di bambini, dobbiamo per forza guardare al futuro. Grazie all’adozione internazionale si stringono legami anche tra paesi: una famiglia con figli di origini diverse può rappresentare un modello per migliorare la convivenza e l’integrazione nella scuola e nelle istituzioni».

Perché un’agenzia regionale?
«Questo servizio pubblico è nato per dare un’opportunità in più alle coppie piemontesi aspiranti all’adozione internazionale. Il fatto che possiamo prendere in carico solo coppie della regione è una positività, ma è anche un vincolo: siamo più vicini alla coppia, ma, allo stesso tempo, abbiamo il limite di non poter prendere in carico coppie di altre regioni, che magari hanno decreti di idoneità più ampi. A seguito di una Convenzione con le amministrazioni di Liguria e Val d’Aosta, dal 2010 anche le coppie residenti nelle due regioni possono avvalersi di questo ente pubblico».

Verso un ente nazionale?
«Ci sono altre regioni italiane che vedono positivamente la possibilità di poter istituire un servizio pubblico regionale nelle adozioni inteazionali. Se, da un lato, bisogna valorizzare gli enti privati già esistenti, considerato che alcuni di questi lavorano con molta competenza e professionalità, dall’altro lato sarebbe auspicabile che altre  regioni diano vita a dei servizi pubblici in questo settore».

A cura di Marco Bello

Marco Bello




Una strada in salita

L’adozione, un terreno delicato

Vengono dal cielo

Avvicinarsi al mondo delle adozioni, anche solo per capire qualcosa in più, è molto coinvolgente a livello personale. Si toccano aspetti di profonda umanità, ed è inevitabile entrare nell’intimità dell’altro, nella sua sfera dei sentimenti, pur tentando di farlo in punta di piedi.
Le storie sono tante, tutte importanti, alcune bellissime, altre molto tristi. Ma ci si rende subito conto, che in questo campo, non esiste la mediocrità.
Abbiamo cercato di affrontare il tema con umiltà, senza accusare (troppo) e ascoltando molto. Non abbiamo la pretesa di essere esaustivi, ma vorremmo dare al lettore alcune possibili piste di lettura e delle pennellate di storie umane. Per non allargare ulteriormente il campo d’azione si è deciso di non estendere il dossier all’adozione nazionale.
Dedichiamo questo lavoro a tutti i bambini haitiani che hanno perso la famiglia il 12 gennaio 2010.

Marco Bello

L’Italia è uno dei primi paesi al mondo come numero di adozioni inteazionali. Ma avere un bambino in adozione è tutt’altro che facile.
E i tempi di attesa sono in media di due anni. Dal 1998 la procedura è allineata con la convenzione dell’Aja. Ma la situazione si fa più «scivolosa» in certi paesi di origine.

«Erano passate 24 ore dal nostro arrivo a Phnom Penh capitale della Cambogia. Ci avevano portato in un orfanotrofio fuori città. Non era male, pulito, perfino profumato. Entriamo in una stanza e da un’altra porta arriva una donna con in braccio un piccolo di 14 mesi. La maman ci sporge il fagotto, poi ci fanno firmare alcune carte. E via, pochi minuti dopo, di ritorno verso la città sul taxi scassato. Il bimbo irrigidito, impaurito, di vedere noi “visi pallidi”, di sentire noi con un odore diverso». È il racconto di un incontro tra genitori e figlio: un trauma, quasi una seconda nascita, che ha dato origine a una seconda vita.

Boom di adozioni

In Italia arrivano ogni anno poco meno di quattromila bambini stranieri (3.964 nel 2009) per inserirsi in circa tremila famiglie adottive. I maggiori paesi di provenienza sono stabili: Russia, Ucraina, Colombia, Etiopia e Brasile, insieme coprono quasi il 60% delle adozioni inteazionali nel nostro paese.
Questi alcuni dati «freddi» del rapporto annuale della Commissione adozioni inteazionali (Cai), l’autorità centrale per le adozioni inteazionali. Dati importanti per capire le tendenze italiane e dei paesi che foiscono bambini in stato di adattabilità.
Dati dietro i quali si nascondono migliaia di storie personali e di famiglie.
L’adozione internazionale è cambiata radicalmente nel 1998, quando l’Italia ratifica la convenzione dell’Aja del ’93. La convenzione, firmata da paesi di origine e di accoglienza, regolamenta l’adozione internazionale e impone nuove modalità e procedure.

Percorso ad ostacoli

L’iter per diventare genitori adottivi è un percorso ad ostacoli. Innanzitutto si presenta domanda al Tribunale dei minorenni di propria competenza. Si devono quindi affrontare accertamenti di tipo sanitario e innumerevoli colloqui con l’équipe adozioni del proprio territorio. Questa è composta da assistente sociale e psicologo e da essa dipenderà in larga misura l’idoneità o meno della coppia ad accogliere un bambino in adozione.
Alla fine dei colloqui, l’équipe invia al Tribunale per i minorenni una relazione che descrive la situazione personale, relazionale e ambientale degli aspiranti genitori adottivi. Sarà il giudice, in base a questa relazione a emanare il tanto agognato «decreto di idoneità» che permette di affrontare il passo successivo.
A questo punto la coppia è obbligata a scegliere uno degli enti autorizzati, associazioni senza fini di lucro (precisarlo è d’obbligo), che dovrà accompagnarla in tutte le fasi successive.
«L’adozione è cambiata in meglio sotto certi punti di vista» racconta Elio Biasi, papà adottivo di due figli brasiliani, ora maggiorenni. «Prima ci voleva più tempo per avere il decreto di idoneità e meno per avere l’adozione. Per questa seconda fase c’era più la strada del “fai da te”». Esistevano già degli enti specializzati, alcuni dei quali operano tuttora e sono quelli oggi indicati come «storici».
«Ci si muoveva tramite l’aiuto, il passaparola. Con tutti i pericoli che poteva comportare. Anche io ne ho aiutati molti, tramite missionari, in Brasile. Ma erano percorsi consolidati, di cui eravamo certi», continua Elio che, si può dire abbia dedicato la sua vita all’adozione, in quanto da 28 anni investe tempo ed energie in un’associazione di aiuto alle coppie (vedi articolo).
«Da quando ci sono gli enti, è più veloce il tribunale, poi ci si arena. Inoltre, la maggior parte degli enti non ti fanno scegliere il paese in cui andare. Ma devi dare la disponibilità multipla. Uno potrebbe invece avere motivazioni particolari verso un dato paese».
E rincara la dose: «Loro (gli enti, ndr) tendono a spingere i paesi dove hanno più possibilità di riuscita, hanno referenti più attivi. Agli enti, secondo me, non interessa darti il bambino, ma chiudere la pratica il più in fretta possibile, perché comunque porta a casa soldi. Non pensano alle sofferenze della coppia, ma al lavoro che devono fare. Si va dai due a tre anni dopo il decreto, per avere il figlio».
E come districarsi nella scelta dell’ente? «Oggi c’è molta domanda. Hanno molte coppie. Qualsiasi ente a cui telefoni per avere informazioni ti fa aspettare 4-5 mesi prima di darti un primo appuntamento.
Non si riesce a capire perché si debba aspettare così tanto. In due o tre anni può succedere di tutto. Dopo l’abbinamento (quando la coppia è associata a un bambino in stato di adattabilità, ndr) aspetti ancora alcuni mesi. Loro danno la colpa alle burocrazie dei paesi. Ma io non sono così convinto che non si possano eliminare questi percorsi».

Procedure non troppo chiare

Gli enti sono tenuti ad avere dei «referenti» nei paesi, ovvero dei loro incaricati che devono sbrigare le procedure burocratiche, accogliere le coppie quando arrivano, e accompagnarle in tutti i momenti della loro permanenza nel paese.
Con il lemma «il fine giustifica i mezzi» molti enti hanno comportamenti a dir poco dubbi in alcuni paesi. «L’associazione per la quale lavoravo puntava ad ottenere l’adozione il più in fretta possibile» racconta una ex referente che ha lavorato per un ente italiano in Africa dell’Ovest.
Ma i tempi erano molto lunghi: «Molto spesso ci si rendeva conto che bisognava pagare qualcosa sottobanco per fare andare avanti le pratiche. Io non ero d’accordo con questo metodo, mentre l’ente non aveva problemi. Per loro l’importante era velocizzare il processo». Per questa incompatibilità, dopo cinque mesi la referente decide di dimettersi.
Di casi di corruzione se ne sentono svariati, a vari livelli, in diversi paesi, soprattutto africani.
Un altro aspetto delicato è quello della facilità con cui i bambini, in alcuni casi, diventano adottabili: «Mi rendevo conto a volte che sarebbe bastato appoggiare la famiglia magari con un progetto di sviluppo, e questa avrebbe potuto e voluto tenere il bambino. Il problema è che non si creava l’alternativa per questa mamma» continua la referente. In questo modo si nega il principio di sussidiarietà sancito dalla convenzione dell’Aja, che prevede come priorità quella di creare le condizioni affinché i bambini trovino una famiglia nel loro paese. «Non riuscivamo a comunicare direttamente con i genitori, perché usavamo l’interprete. Questi, portati davanti al notaio, firmavano per l’adottabilità del proprio figlio». 
Non si vuole qui attaccare il lavoro dei molti enti italiani estremamente seri. Ne sono un esempio quelli che lasciarono il Vietnam, quando nel settembre 2009, furono condannate 16 persone per falsificazione di documenti per rendere adottabili 250 neonati.

Non tutti gli enti, vengono per nuocere

E dal punto di vista delle coppie?
«Le esperienze con gli enti sono sempre soggettive, dipende se ti è andata bene oppure no. Io non accuso mai un ente, ma mi permetto di dare giudizi generali in base a quello che sento. Moltiplico sempre, quantifico e mi rendo conto dei soldi che circolano», continua Elio Biasi.
In effetti un’adozione internazionale costa cara, anche se ci sono delle tabelle della Cai che le regolamentano. «Un’adozione va dai 10 mila euro di un paese africano ai 30 mila di un paese dell’Est Europa. A parte ci sono le spese di permanenza, viaggio nel paese» ci ricorda Elio.
I costi sono suddivisi in spese in Italia e in spese da fare nel paese straniero. Queste, a volte, raggiungono delle cifre anche molto alte.
«In Italia l’ente ha esperti e professionisti: giuristi, assistenti sociali, psicologi. Questi devono aiutare la coppia a predisporre il fascicolo capire dove depositarlo, fornire una formazione sul paese, … poi ci sono enti che dicono di fare queste cose ma non le fanno» ci svela un’addetta ai lavori. E si aggiungono tutte le spese fatte in Italia per la struttura.
«Gli enti hanno spese che si aggirano sui 3.000 – 4.000 euro in Italia. Ma alcuni hanno aumentato e ne chiedono 5.000 – 6.000. In questo caso è la Cai che dovrebbe fare un controllo per verificare innanzi tutto se i servizi vengono resi, e secondo quanto costano effettivamente all’ente». Continua l’operatrice. Poi ci sono i servizi all’estero che differiscono dai paesi: preparazione documenti, traduzioni e legalizzazioni. Spese di procedure. Il Brasile ad esempio ha procedure gratuite, altri chiedono un contributo per il mantenimento del minore che ha già vissuto in una struttura per anni. C’è il referente da pagare, talvolta l’avvocato. E ancora i follow up obbligatori: le relazioni che le coppie devono redigere insieme all’ente da mandare allo stato straniero ogni anno (o ogni semestre), in alcuni casi fino a 18 anni del figlio adottivo.Ma gli enti, essendo Onlus, organizzazioni senza fini di lucro, devono solo rientrare nei costi e non fare profitti. «Un’adozione che con un ente costa in tutto 13.000 euro, nello stesso paese altri enti la fanno pagare 25.000» conclude l’operatrice.
Mentre Elio si chiede: «Perché ci sono enti che fanno 10 adozioni in un paese e altri che ne fanno 200? Io non do giudizi, faccio solo le moltiplicazioni».

di Marco Bello

Marco Bello




Cana (12) Un Dio «straniero» abolisce i confini

Il racconto delle nozze di Cana (12)

«Manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere a lui» (Gv 2,11).
Abbiamo riflettuto a lungo sul significato del vino e le sue implicanze, e, senza esaurie la simbologia e i testi, ne abbiamo esaminato i più importanti. Facciamo un passo avanti proponendo l’ipotesi che il racconto dello sposalizio di Cana possa essere un midràsh cristiano della liberazione dalla schiavitù d’Egitto che, passando attraverso «i colpi» (le piaghe) e la peregrinazione nel deserto, trova nel Sinai il proprio fondamento e culmine. All’interno di questa prospettiva, possiamo dare alcune indicazioni ulteriori che ci aiutino a vedere sempre più profondamente Cana in rapporto con il Sinai, mettendo in evidenza analogie e confronti che di primo acchito non sono evidenti.
Nel «segno» di un Dio diverso
Nella mentalità e nella intenzione dell’evangelista, l’evento di Cana è connesso con la 1a delle dieci piaghe con cui Dio ha spezzato la resistenza del faraone perché liberasse Israele dalla schiavitù. La parola «piaga», in ebraico «negà‘» e in greco «plēghê», nel libro dell’Esodo è usata solo per il decimo colpo che convincerà definitivamente il faraone: l’uccisione dei primogeniti (cf Es 11,1). Per i primi nove fatti, descritti nei capitoli 7-10 del libro dell’esodo, l’ebraico usa sempre il termine «’ot» che il greco della Lxx traduce sempre con «sēmeîon» (cf Es 4,8-9.30; 7,9), lo stesso che usa Giovanni per definire lo sposalizio di Cana (cf Gv 1,11). Non si tratta come banalmente si dice di «miracoli» nel senso moderno del termine, ma di «segni» che devono accreditare il Dio di Mosè presso gli Israeliti schiavi e presso il faraone che è invitato a riconoscere la «potenza» del nuovo Dio.
Non entriamo nel merito della formazione del testo del racconto dell’esodo che è la confluenza di diverse tradizioni con riflessioni di natura teologica, scritte in epoca tardiva, ma proiettate in epoca antica da un redattore che sta riflettendo sulla «teologia della storia». Sarebbe inutile, oltre che stupido, volere cercare la spiegazione di questi «segni» in prodigi astronomici o con le scienze naturali, perché si tratta di fenomeni naturali, all’epoca conosciuti, riletti in modo iperbolico per fare risplendere davanti agli Israeliti e al faraone l’onnipotenza del Dio straniero Yhwh che vanta diritti anche dentro i confini dell’Egitto.
Nel 2° millennio a. C. la concezione della divinità era quella del «dio territoriale»: una divinità cioè non aveva poteri fuori dei confini di sua competenza. La divinità è legata alla terra, gli dèi egiziani erano impotenti in Babilonia e quelli di Assiria nulla potevano in terra di Canaan. Il loro sconfinamento era affidato alla guerra: se un popolo vinceva su un altro popolo, gli dèi di questi si sottomettevano a quelli del vincitore. Due esempi classici di «divinità territoriale» si trovano nel ciclo delle gesta di Eliseo: la donna di Zarèpta (Libano meridionale) crede in un Dio straniero annunciato da un profeta straniero che viene da oltre confine e ne riceve il beneficio della farina e dell’olio (cf 1Re 17,10-16); l’altro esempio è Nàaman, capo dell’esercito siriano, affetto da lebbra. Egli va da Eliseo che lo guarisce. Prima di ritornare al suo paese, egli chiede al profeta di potersi portare un po’ di terra d’Israele, quanta ne possono trasportare due muli. Giunto al suo paese, per potere ringraziare il Dio d’Israele che lo ha guarito, è sufficiente che salga su di essa per ritrovarsi «realmente» sulla terra d’Israele (2Re 5,1-27; Lc 4,27). Pregare su quella terra aveva, quindi, lo stesso valore che essere in Israele (è lo stesso principio che sta alla base del tappeto di preghiera dei Musulmani).
Il «segno» non è miracolo
In questo contesto, è evidente che lo scopo dei «segni» operati da Mosè è rivelare agli Israeliti e al faraone che il Dio straniero rappresentato da Mosè non conosce confini, ma è libero di agire nel deserto, nella terra di Madian quanto in Egitto. Allo stesso modo «il segno» di Cana ha lo scopo di «manifestare la gloria di Gesù», cioè la novità del suo messaggio: il Dio che egli annuncia è un Dio non straniero, ma lo Sposo che chiama alle nozze dell’alleanza l’umanità intera qui rappresentata dai discepoli che sono i garanti del «segno» di Cana di Galilea. Il rapporto con l’esodo non è solo letterario, ma riguarda anche il contenuto. Già in Es 4,9, Yhwh preannuncia che Mosè dovrà cambiare l’acqua del Nilo in «sangue» come avverrà con il 1° segno: «Con il bastone che ho in mano io batto un colpo sulle acque che sono nel Nilo: esse si muteranno in sangue … Tutte le acque del Nilo si mutarono in sangue» (Es 7,14-24, qui 17.20). Accennare soltanto al nesso che può intercorrere tra l’acqua cambiata in vino a Cana e l’acqua cambiata in sangue in Egitto, ci fa immediatamente comprendere la portata del racconto evangelico che travalica il fatto dello sposalizio che è un semplice «accidente» di contorno.
Il parallelo più volte sottolineato tra Sinai e Cana è un dato di fatto che balza agli occhi: da una parte la Toràh rivelata e dall’altra la Gloria manifestata; al Sinai è Yhwh che parla, a Cana è il Lògos che si rivela; nell’uno e nell’altro caso domina il tema dell’alleanza in chiave nuziale. Anche il confronto «tipologico» tra Mosè e Gesù è un elemento acquisito e quasi una costante nei vangeli e specialmente in Gv che lo impone fin dal «prologo» come parametro costitutivo: «La Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia della verità fu data per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1,17). Abbiamo tradotto «la grazia della verità» e non «la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (Bibbia-Cei 2008) per coerenza con Gv 1,14: «E noi vedemmo la sua gloria,  gloria come di unigenito dal Padre, pieno [della] grazia della verità», dove i due termini ricorrono insieme e nell’uno e nell’altro caso sono una endiadi (1) di rafforzamento.
Da Mosè alla pienezza della verità
Al Sinai fu data «la Legge», ora a Cana è data «la grazia della verità» cioè la pienezza della rivelazione che «venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Per Paolo la Legge aveva l’obiettivo di guidare alla fede, dunque è nell’ordine dei mezzi, come la Chiesa, come i sacramenti. Per questo motivo l’apostolo la paragona ad un «pedagogo» che ha il compito di accompagnare il discepolo nel cammino di maturazione e di crescita: «Così la Legge è stata per noi un pedagogo, fino a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede» (Gal 3,24-25; cf 1Cor 4,15). Ora che è arrivata «la pienezza della verità», si apre la «cella del vino» che è il monte Sinai e inizia la festa delle nozze del Lògos. La figura di Mosè come anticipazione (tipo) di Cristo (antìtipo) è importante nel IV vangelo(2).
Gv infatti lo cita 13 volte (Gv 1,17.45; 3,14; 5, 45.46; 6,32; 7,19.22 [2x].23; 8,5; 9,28.29), ma solo nella prima parte, nel «libro dei segni» e mai nella seconda parte: «il libro dell’ora» che è quella della rivelazione definitiva, della «epifania della grazia per grazia» (Gv 1,14), il cui culmine e fondamento è la morte-risurrezione di Gesù. Interessante la nota che Mosè compare solo nel «libro dei segni», come a dire che egli è nell’ordine del provvisorio e il suo compito è funzionale al profeta che verrà dopo di lui (cf Dt 18,15.18; At 3,22; 7,37). Anche dall’uso del nome e della sua distribuzione nel testo, concludiamo che Mosè apparteneva alla dimensione del mondo finito, dei «segni», ed era proteso verso il suo naturale compimento: «Il Lògos-Sarx/Cae/Fragilità fu fatto» (Gv 1,14). Qui è il vertice di tutta la rivelazione.
Con la sua presenza a Cana, Gesù non rivela solo la «sua Gloria», ma svela anche il ruolo e l’importanza di Mosè nel disegno di Dio che trova nel Sinai il suo fulcro e la sua chiave di lettura: senza Gesù (antìtipo) anche Mosè (tipo) sarebbe sminuito nella sua importanza. Si potrebbe dire che il fatto di Cana è l’evento-cerniera che per Giovanni evangelista salda il cammino dell’AT con quello del NT: l’uno senza l’altro non può sussistere e l’uno diventa il senso o quanto meno il fondamento di senso dell’altro. In questo sta il principio che la Scrittura deve essere letta tutta nel suo contesto globale perché è una storia «unica» che si snoda in molte tappe e che ancora non è finita.
Principio o inizio?
Siamo convinti che il racconto dello sposalizio di Cana con il Vino che fa da protagonista d’eccellenza, sia un midràsh di tutto il racconto dell’esodo. Per capire meglio il testo del vangelo nel contesto di tutta la Bibbia, esamineremo il testo biblico, la versione della Lxx, il targum e infine il midràsh che costituiscono il materiale e l’ambiente dove nasce, si forma e si sviluppa il NT, in modo particolare il vangelo. è evidente che Gv non prende ogni singolo fatto, ma si riferisce ad alcuni di essi che diventano così emblematici e quindi tipologici. L’obiettivo a cui tende il racconto è Gv 2,11: «Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui». Così almeno la traduzione corrente, anche dell’ultima edizione della Bibbia-Cei (2008), che nella nota al versetto spiega: «[Gv] 2,11 Questo … fu l’inizio dei segni»: non solo il primo dei segni, ma il modello di tutti (questo è il significato della parola greca tradotta con inizio). Difatti il miracolo di Cana ha rivelato la divinità (gloria) di Gesù e ha aperto ai suoi discepoli il significato delle opere prodigiose (che Gv preferisce chiamare segni)». Non fu solo il primo segno, ma un «modello».
Secondo noi, mantenendo l’uniformità con il prologo, Gv 2,11 non deve essere tradotto con «inizio dei segni», perché si darebbe una connotazione temporale che l’autore esclude volutamente, ma si deve tradurre così: «Questo principio dei segni fece Gesù in Cana di Galilea, e manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere a lui». L’evangelista, infatti, usa il termine «archê» che in Gv 1,1 tutte le Bibbie traducono correttamente con «In principio» e non si capisce perché la stessa parola qui debba essere tradotta con «inizio» dandovi una connotazione temporale, mentre in Gv 1,1 deve essere tradotta con «principio» che invece ha una valenza fondativa, cioè di senso profondo. Inoltre la frase «i suoi discepoli cedettero in lui» per noi ha un valore non compiuto, ma ingressivo perché comincia a svilupparsi, lasciando davanti a sé uno spazio per una maggiore maturazione che, secondo noi, avverrà dopo la morte/risurrezione di Gesù con l’opera del Paràcleto (cf Gv 14,26). La traduzione più consona è dunque: «I suoi discepoli cominciarono a credere a lui», cioè mettono in moto un’attitudine verso Gesù, perché la fede non è un atto acquisito una volta per tutte, ma un processo, un cammino, una maturazione.  
Dalla non-fede a «cominciarono a credere»
Il riferimento alla fede iniziale dei discepoli non è una nota folcloristica o ascetica, ma un preciso commento teologico che Gv mette in relazione con il «principio» della fede incipiente dei discepoli. Si crea così un confronto aperto tra esso e Mosè che invece è nella esperienza del roveto ardente si mostra uomo «di poca fede», cercando di svignarsela opponendo ostacoli motivati forse dalla paura (Es 3,1-15). Al «segno» (sēmêion) che Dio dà dal roveto, l’arrivo cioè al monte Sinai (cf Es 3,12), Mosè risponde con una obiezione d’incredulità: mi chiederanno chi mi manda, non si fideranno (cf Es 3,13) che diventa certezza di rifiuto, anzi opposizione dichiarata. A Dio che garantisce «ascolteranno la tua voce» (Es 3,18), Mosè risponde coinvolgendo nella sua incredulità coloro che nemmeno conosce e attribuendo loro la certezza della non-fede, ipotecando la loro fede. Egli cioè, attribuisce agli assenti atteggiamenti e sentimenti di cui lui non può disporre: «non mi crederanno, non daranno ascolto alla mia voce» (Es 4,1). Mosè non vuole nemmeno «cominciare» a credere perché l’obiezione è una scusa per esimersi dalla sua missione. Qui è il dramma: Mosè estende la sua non-fede agli assenti. Alla fine, dopo una lunga intervista e contrattazione con Dio (cf Es 3,13-4,1), Mosè accetta il compito di tornare in Egitto a liberare gli schiavi, ma pagherà amaramente, come vedremo, questa sua incredulità.
A Cana invece, i discepoli videro la «Gloria» e «cominciarono a credere», come anche l’atteggiamento della Madre, simbolo del popolo d’Israele credente e in attesa di Dio, che si abbandona con fiducia alla parola del Figlio, nonostante la sua resistenza: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5). Da una parte l’incredulo Mosè che trascina nell’incredulità anche coloro che dovrebbe liberare e dall’altra la fede senza riserve della Madre-Israele e dei discepoli-Umanità. Vi è la contrapposizione di fede/non fede che nel Prologo viene individuata nel binomio luce/tenebra (cf Gv 1,5.9.11). Dio si era impegnato in prima persona con parole che avrebbero dovuto smuovere qualsiasi dubbio: la liberazione degli schiavi d’Egitto è «già avvenuta», è scontata. L’autore, infatti, mette in evidenza che Dio non è ancora intervenuto e usa i verbi del suo agire al passato [tranne il terzo], come se fossero già conclusi: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto» (Es 3,8). Anche a Cana è Dio stesso che è convocato alle nozze: «Fu invitato alle nozze anche Gesù» (Gv 2,2) che è una annotazione strana e superflua nel contesto di un matrimonio in Palestina, a cui partecipa tutto il villaggio con parenti e amici. L’evangelista poteva/doveva omettere questa indicazione dell’invito, a meno che non avesse avuto una ragione nascosta per sottolineare la «presenza» di Gesù che non è casuale; come se dicesse che Gesù doveva e voleva andare alle nozze perché in quello scenario di sottofondo avrebbe cominciato a svelare qualcosa della sua personalità e della sua gloria, cioè della sua divinità. – [continua – 12 ]

Di Paolo Farinella

Note

(1) Endiadi
Dal Greco «hèn – una cosa / dià – per mezzo / dyòin – due», endiadi è una figura retorica con cui si esprime un concetto attraverso due o più parole: in questo caso «grazia e verità» sta per «grazia della verità» e riguarda la «rivelazione» nuova, fatta da Gesù. Mosè è legato all’alleanza del Sinai che conduce alla rivelazione definitiva del Lògos in Gesù di Nazaret (su queste questioni e temi cf F. Manns, L’Evangile de Jean, 29-30 e relativa bibliografia; v. inoltre M.-E. Boismard, Moïse ou Jésus, essai de christologie johannique, Leuven 1988, 22-46).
(2) Il Confronto tipologico
Si chiama «tipo» una figura o un personaggio o  un fatto precedente che anticipa una figura o un personaggio o un fatto successivo che invece viene chiamato «antìtipo» dal greco «antìtypon – cosa che accade dopo». Nell’esegesi biblica, un fatto del NT è «antìtipo» di un analogo fatto dell’AT o «tipo» che ne aveva dato l’anticipazione profetica: es. Gesù nel sepolcro per tre giorni è «antìtipo» di Giona che resta tre giorni nel ventre della balena e che è quindi  il «tipo». L’arca di Noè è il «tipo» del battesimo che è l’«antìtipo» (cf 1Pt 3,20-21).

Paolo Farinella