Induismo intollerante?

Violenze contro i cristiani e musulmani

Tolleranza o intolleranza religiosa in India? Le violenze dei fondamentalisti indù contro le comunità cristiane dell’Orissa e contro i musulmani dell’India pone alcune domande sulla tradizionale tolleranza religiosa dell’induismo.

L’induismo: tollerante o intollerante? L’Occidente si è sempre trovato in difficoltà nell’interpretare la religione e la cultura dell’India. Per secoli è stato posto l’accento sulla sua spiritualità e la sua cultura millenaria, il cui momento d’inizio della sua storia risale a circa 3000 anni prima di Cristo. Oggi, invece, si preferisce mettere in luce il tasso di crescita del suo prodotto interno lordo e l’eccezionale sviluppo delle sue capacità informatiche, che hanno fatto di Electronic City, vicino a Bangalore, la Silicon Valley indiana. Entrambe le letture sono parziali e distorte. Nell’abbracciare le varie anime del mondo indiano, vi è il rischio di lasciarsi condizionare da preconcetti e d’incastellare la complessa realtà indiana in una griglia prefabbricata.
Anche nel dibattito, molto vivo oggi, sul pluralismo e la tolleranza religiosa, l’induismo gode della fama di essere l’esempio di una religione in grado di coesistere pacificamente con altre tradizioni religiose. Poche guerre sono state combattute lungo i secoli nel nome dell’induismo, così come, in generale, gli indù hanno opposto scarsa resistenza all’ingresso o al sorgere di altre religioni nel proprio contesto sociale.
Un uomo come il Mahatma Gandhi, un indù devoto, tollerante e non-violento, che fece della frateità di tutte le religioni la causa della sua esistenza, non poteva nascere che in un’India caratterizzata da una molteplicità di gruppi etnici, linguistici, religiosi e culturali, i cui rapporti erano fondamentalmente di pacifica convivenza.

Movimenti nazionalisti

Questa immagine è stata in qualche modo guastata dalla comparsa in India di un movimento nazionalista indù e dalla nascita di un partito, il Bharatiya Janata, anch’esso nazionalista, che nelle elezioni parlamentari del febbraio del 1998 è riuscito a trionfare. La coalizione di governo, d’ispirazione nazionalista, è caduta poco dopo, nell’aprile 1999, ma le tensioni all’interno del governo dell’Unione indiana e con il vicino Pakistan non sono diminuite. Gli scontri armati tra l’India e il Pakistan, già aggravati nel marzo del 1990, a causa dell’appoggio pakistano ai movimenti autonomisti del Kashmir, sono ripresi nel novembre successivo e anche nel giugno del 1999, dopo che le forze pakistane avevano attraversato la linea di controllo fissata dalle Nazioni Unite.
Nel frattempo un’altra forza politica, d’ispirazione anch’essa nazionalista, il Movimento di Liberazione Tamil, ha aggravato la situazione politica dell’Unione. Una campagna elettorale con un saldo di 280 vittime precedette le elezioni parlamentari del maggio 1991. Le elezioni furono sospese per l’assassinio di Rajiv Gandhi, vittima di un attentato delle cosiddette Tigri Tamil, avvenuto con un’azione suicida, in cui però i Tamil negarono ogni responsabilità. Una settimana dopo, Marasimha Rao fu nominato successore di Rajiv Gandhi quale leader dello storico Partito del Congresso, a lungo governato dal primo ministro Jawaharlal Nehru e, dopo la sua morte nel 1996, da Indira Gandhi, la figlia, uccisa dai separatisti Sikh nel 1984.
Anche la violenza recentemente perpetrata contro le religioni «straniere», come l’islam e il cristianesimo, ha una sua triste storia. Nel 1992 si sono registrati numerosi atti di violenza dei fondamentalisti indù contro la popolazione islamica nelle città di Bombay (ora Mumbay) e di Ayodhya. Gli scontri tra le due comunità, scoppiati a causa della distruzione della moschea di Baber ad Ayodhya, causarono circa 1.300 morti e si estesero ai paesi vicini, quali il Pakistan e il Bangladesh. Nel febbraio 2002 un’altra ondata di violenza contro la comunità musulmana attraversò lo Stato del Gujarat, nell’India occidentale, con capitale Ahmedabad, ricca di templi e di edifici monumentali e uno dei maggiori centri indùstriali del paese. Più di 2.000 persone furono uccise. Di mira furono prese soprattutto le donne, che subirono stupri di gruppo prima di essere bruciate vive. I ribelli indù incendiarono e saccheggiarono negozi, case e moschee. Circa 15.000 musulmani furono cacciati dalle loro case. Secondo il rapporto stilato da Amnesty Inteational, il governo del Gujarat e la polizia di Stato non si impegnarono a sufficienza per difendere la popolazione civile.

Pluralismo religioso
e tolleranza

Dagli scontri tra indù e musulmani, costellati da vere e proprie stragi, recentemente si è passati ai linciaggi e alle persecuzioni delle comunità cristiane, opera di fondamentalisti indù, che accusano i cristiani di indebito proselitismo. I cristiani in India, cattolici e protestanti, sono una esigua minoranza. Di fronte a circa l’83 per cento di indùisti e all’11 per cento di musulmani, i cristiani sono soltanto il 2 per cento su una popolazione di 1 miliardo e 150 milioni di abitanti. L’induismo comprende inoltre un’ampia varietà di credi e pratiche religiose; si va dalle pratiche di una devozione intensa e appassionata all’ascetismo severo e all’affidarsi alle proprie capacità yogiche, da un pantheon indù popolato da un grande numero di divinità alle molteplici forme di teismo fino al più radicale rifiuto dell’esistenza di un Dio personale. E mentre si considera questa diversità come una debolezza, la si può considerare anche come la base stessa per riconoscere la diversità fuori dalla propria tradizione religiosa e fondare quella che si è soliti definire «tolleranza indù».
In effetti, l’assenza di un credo comune in un unico Dio può considerarsi la principale ragione della tolleranza indù verso le altre religioni. Una simile generalizzazione non fa però giustizia alla tradizione indùista, che certamente include anche forti tradizioni teistiche e monoteistiche. Nelle Scritture indù si ritrovano infatti vari tentativi di mantenere un equilibrio fra il riconoscimento della diversità e la ricerca di unità dell’unica realtà. Questa unità a volte la si ritrova in un Dio personale e a volte in una realtà ultima non personale.
Accade però che nella storia religiosa dell’India tra le tante divinità del pantheon indù si sia giunto a considerare il proprio dio come superiore o più potente degli altri. Questo concentrarsi su un dio particolare portò sovente a un vero e proprio settarismo nella storia dell’induismo e a sanguinose competizioni fra i diversi gruppi religiosi. Si aggiunga ora il desiderio di trovare una chiara e ben definita identità indù di fronte alle pressioni esercitate sull’induismo da altre tradizioni religiose venute dall’esterno, come il cristianesimo o l’islamismo.

Contro i cristiani dell’Orissa

A scatenare la furia dei fondamentalisti contro i cristiani è stato un omicidio eccellente, quello dello Swami Laxmanananda Saraswati, guida spirituale del Vishwa Indù Parishad, il movimento dei nazionalisti indù nello Stato dell’Orissa. Un comando di una trentina di persone, ben armato, ha fatto irruzione nel suo ashram e lo ha freddato. L’azione fu rivendicata dai guerriglieri maoisti del People’s Liberation Revolutionary Group. «Abbiamo ucciso lo Swami – hanno detto – perché mischiava la religione alla politica». Nonostante questa rivendicazione, i seguaci dello Swami Saraswati hanno subito puntato il dito contro i cristiani. Un’accusa non casuale: da tempo, infatti, lo Swami Saraswati conduceva una durissima campagna contro le conversioni al cristianesimo. Accusava i missionari di mangiare le vacche sacre e di «comprare» battesimi tra i cosiddetti «tribali», una popolazione indigena di circa 500 gruppi che insieme ai kanikar, i muthuvan, gli urali e i mala arayan sono ancora oggi considerati dei dalit, degli intoccabili, dei fuori casta, nonostante che la divisione in caste sia stata ufficialmente abolita in India.
Le popolazioni tribali dell’India nord-orientale sono sicuramente i più ben disposti verso la religione cristiana. Non credono nella reincarnazione come gli indùisti, ma ritengono che quando si muore si va a Dio; per questo pregano per i defunti e conoscono il sacrificio, che permette loro di comprendere meglio il sacrificio eucaristico. A un anno dall’ondata di violenza nello Stato dell’Orissa più di cento cristiani sono morti per mano dei fondamentalisti indù; di questi almeno 57 erano dalit, così come migliaia di rifugiati che hanno visto distrutte le loro case e le loro proprietà.
La campagna ideologica condotta dallo Swami Saraswati contro i cristiani, accusati di fare proselitismo fraudolento tra le fasce più povere della popolazione, cominciò nell’agosto del 2008 con l’uccisione di un sacerdote carmelitano di 38 anni, che aveva dedicato la sua vita ai poveri e agli emarginati e svolgeva il suo apostolato nello Stato indiano dell’Andhra Pradesh. Fu trovato cadavere con diverse ferite al volto, mani e gambe spezzate e gli occhi strappati dalle orbite. Alcuni giorni dopo una missionaria laica di 22 anni venne arsa viva nell’incendio dell’orfanotrofio che dirigeva in un villaggio del distretto di Bargarh. In quegli stessi giorni un cristiano del villaggio di Rupa, nel distretto di Kandhamal, morì bruciato nella sua abitazione distrutta dal fuoco, e altre tre persone furono uccise negli incendi appiccati alle loro case da estremisti indù. Chiese e scuole cattoliche e di altre confessioni cristiane sono state devastate da una parte all’altra dell’Orissa. Perfino le missionarie della Carità, le suore di Madre Teresa di Calcutta, furono assaltate e alcune di loro prese a sassate; anche un ospedale per anziani, tenuto dai missionari della Carità di Madre Teresa, fu distrutto. Chiese, centri sociali e pastorali, case religiose e orfanotrofi vennero presi di mira al grido: «Uccidete i cristiani e distruggete le loro istituzioni».
Non era comunque la prima volta che accadevano tali fatti. Nel novembre del 2007 il Consiglio Globale dei cristiani indiani aveva già fatto pervenire un rapporto al Comitato Nazionale dei Diritti umani dell’India, nel quale erano documentati 464 attacchi contro i cristiani nei venti mesi precedenti tale data. L’ondata di violenza che ha colpito l’Orissa non è per questo terminata. Una delegazione di vescovi cattolici e di altre confessioni cristiane, poche settimane dopo l’inizio delle violenze seguite all’uccisione dello Swami Saraswati, si è incontrata con il Primo Ministro indiano per presentargli un dossier sui danni subiti dai cristiani. Secondo questo dossier, 26 cristiani furono assassinati, dei quali 12 solamente nel distretto di Kandhamal; inoltre furono distrutte 41 chiese e luoghi di culto, 17 case, 4 conventi, 3 alberghi, 7 sedi istituzionali e un numero imprecisato di veicoli. Il panico suscitato da tale violenza ha spinto molti cristiani ad abbandonare le loro case e a rifugiarsi nella foresta oppure a emigrare. Il proposito dei fondamentalisti è infatti quello di cacciare i cristiani dalla regione, come risulta evidente dagli slogan ripetuti un po’ ovunque. Estremisti indù hanno perfino attaccato e dato alle fiamme la cattedrale di Jabalpur, nello Stato del Madhya Pradesh, edificio che ha 150 anni di vita e che ha subito danni irreparabili.
Nei mesi successivi all’agosto del 2008 le violenze contro i cristiani si sono ulteriormente complicate. Agli indù si sono unite alcune comunità battiste e diversi gruppi evangelici. «Nella mia diocesi – riferisce il vescovo Jose Mukala di Koshima, nel nord-est dell’India – c’è un grande numero di persone che desiderano diventare cattoliche, ma esiste una fortissima opposizione da parte di alcune confessioni protestanti locali». A Koshima, nel cui distretto i primi cattolici sono stati battezzati solamente nel 1951 all’arrivo dei missionari, ora, in poco più di cinquant’anni, essi hanno raggiunto la cifra di 58.000 fedeli su una popolazione di un milione e 900 mila abitanti, per la maggior parte evangelica.

Violenze anche
nelle nazioni vicine

Gli attentati contro i cristiani in India hanno risvegliato gli estremisti indù che nel Nepal chiedono la fine della libertà religiosa. Il 25 maggio 2009 una bomba è esplosa nella cattedrale cattolica di Dhobighat, alla periferia di Kathmandu, la capitale. Sulla scena del crimine sono stati trovati degli opuscoli di un gruppo militante indùista, denominato National Defense Army (Esercito di difesa nazionale), che ha rivendicato anche l’assassinio del sacerdote salesiano John Prakash, avvenuto nel luglio 2009 nella zona orientale del Nepal. Questo cosiddetto esercito per la difesa nazionale lotta per la restaurazione della monarchia indùista, abolita nel 2008. La bomba aveva un forte potenziale di deflagrazione. Nella cattedrale vi erano circa 300 persone. Un adolescente e una donna sono morti; le persone, molte delle quali ferite, sono state sbalzate lontane dai loro posti, i vetri della cattedrale e gli arredi distrutti. Nel Nepal oltre l’80 per cento degli abitanti è indùista; i cattolici sono solo 7.000, ma ogni anno si registrano circa 300 nuovi battezzati.
La violenza contro i cristiani dell’India ha così superato le frontiere, coinvolgendo, oltre al Nepal, anche il vicino Pakistan. Dei circa 170 milioni di pakistani, nella stragrande maggioranza musulmani, i cristiani vengono subito dopo gli indùisti con circa 2 milioni e 800 mila fedeli. La loro persecuzione è un fatto antico, soprattutto nel Punjab centrale, dove i cristiani vengono sovente accusati di blasfemia. Durante le violenze provocate nel luglio del 2009 dai musulmani nel quartiere cristiano della cittadina di Gojra, nel Punjab, sono stati arsi vivi due bambini, tre donne e due uomini, tutti cristiani. La tensione ha continuato a salire dopo che si era sparsa la voce di una presunta profanazione del Corano per mano di cristiani. In questa tragedia sono state date alle fiamme anche numerose case di cristiani e soprattutto le scuole. Negli ultimi due anni circa 170 scuole hanno subito danni e più di 400 strutture educative sono state costrette a chiudere i battenti o a sospendere la propria attività. Le violenze contro i cristiani in Pakistan non sono però terminate. Il 28 agosto 2009 sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco altri cinque cristiani nel centro della città di Quetta, nel Belucistan. Il nuovo episodio arrivava poco dopo il massacro nel Punjab, in cui erano morti undici cristiani e più di cento case erano state saccheggiate o bruciate. I cristiani in Pakistan vivono in uno stato di continua tensione per l’uso improprio delle cosiddette leggi sulla blasfemia e sulle presunte offese contro il Corano e Maometto.
Infine, nello Sri Lanka, l’isola a sud dell’India un tempo denominata Ceylon, i ribelli Tamil di religione indù, i cui combattenti si definiscono Tigri e lottano contro le forze governative, hanno provocato almeno 70 mila morti. Centinaia di migliaia sono stati gli sfollati tra la popolazione civile e circa 250 mila sono rimasti intrappolati nella zona degli scontri. Una tragedia che si consuma ormai da molti anni. Il conflitto tra le forze governative e le Tigri Tamil, che lottano per la liberazione della loro patria nelle zone a nord dell’isola, è infatti iniziato nel 1983 e pare sia terminato il 18 maggio 2009 con la resa incondizionata dei ribelli. Tuttavia l’arcivescovo di Colombo, la capitale del Paese, al termine del conflitto ha dichiarato: «Potremmo dire che abbiamo vinto la battaglia, ma la guerra non è finita».

Quale la causa
delle violenze?

Ecco descritta per sommi capi una delle tante tragedie umane sconosciute o dimenticate. Nel corso delle violenze in Orissa, che ha riguardato almeno 392 villaggi dell’India, circa 500 persone hanno perso la vita, 54 mila sono stati coloro che hanno dovuto abbandonare le loro case date alle fiamme e 180 chiese son andate distrutte. Ma che cos’è che ha fatto scatenare la furia dei fondamentalisti indù: la conversione al cristianesimo dei tribali dell’India? La paura di perdere la propria identità religiosa nel contesto di un’India democratica e liberale? L’irrompere della globalizzazione che intacca e mette in crisi gli schemi tradizionali? L’influenza dell’Occidente, per molti aspetti laico e indifferente, con il suo potere economico e culturale che convince e trasforma ogni cosa?
Secondo alcuni vescovi indiani la causa dell’attuale persecuzione contro i cristiani non è religiosa, ma nazionalista e politica; in particolare del partito nazionalista Bharatiya Janata, legato al movimento Rashtriya Swayan Sevak Sangh, che ha ispirato diversi gruppi di fanatici. Uno dei fondatori di questo movimento si chiamava Golwalkar. Egli rifiutava l’idea di un’India laica. A essa contrapponeva l’idea dell’Indù Rashtra, di un’organizzazione indù nella quale non ci fosse posto per altre religioni.
I vescovi dell’India non condividono le accuse di proselitismo forzato, dietro cioè ricompense o con l’inganno, perché – dicono – la comunità cristiana «continua a offrire i suoi servizi a tutti i settori della società indiana senza alcuna discriminazione». «Le accuse infondate di conversioni fraudolenti – continuano i vescovi – sono dovute agli interessi di gruppi impegnati a polarizzare la società in base alle loro credenze religiose». Il portavoce della Conferenza episcopale dell’India ha affermato che, dopo gli attacchi e i saccheggi nell’Orissa durati mesi, i cristiani sono ora costretti a convertirsi all’induismo, e a saccheggiare e distruggere le loro chiese. Inoltre, se la maggioranza delle religioni presenti in India convive in modo pacifico, alcuni governi della Federazione hanno messo in atto e ampliato le leggi sull’anti-conversione e non intervengono in modo tempestivo ed efficace per contrastare la violenza contro le comunità cristiane locali.
Questi fatti indùcono a pensare che le violenze contro i cristiani, cattolici o protestanti, non siano semplicemente una strategia socio-politica, ma piuttosto l’espressione di un integralismo religioso che cerca d’imporre l’induismo in ogni parte dell’India, anche nelle regioni delle minoranze tribali del nord-est e, nella parte meridionale del Paese, tra i cristiani del Kerala, regione evangelizzata fin dal IV secolo. Gli attacchi a chiese e istituzioni cristiane si sono infatti estesi negli Stati di Chhattisgarh, Madya Pradesh, Kaataka e Kerala e rischiano di dilagare in altri Stati della Federazione, ormai entrati, come altre parti del mondo, nel vortice del fondamentalismo religioso prodotto dalla secolarizzazione della società.
Una tale violenza – affermano ancora i vescovi dell’India – sta umiliando l’antica civiltà indiana e valori come la non-violenza (Ahimsa), la tolleranza, il rispetto per le religioni, il diritto alla libertà di coscienza e di religione, che l’India ha gelosamente conservato per secoli e che la Costituzione indiana ha posto a fondamento della nazione. In India tutti si dicono scioccati per gli avvenimenti accaduti nell’Orissa. Va inoltre riconosciuto che la deriva del fondamentalismo è solo una manifestazione aberrante di una piccolissima parte dell’India. Essa è però oggi un grave rischio anche per quelle religioni che tentano di preservare e difendere la propria identità con metodi violenti, inaccettabili alla coscienza umana e all’interno stesso dei contenuti della propria fede in Dio.
In India – osservano i vescovi – c’è comunque «bisogno di un dialogo profondo» che non va impoverito dal sincretismo, ma sviluppato nel rispetto reciproco. Il cardinale Oswald Gracias, arcivescovo di Bombay e presidente della Conferenza episcopale indiana, ha ricordato che la Chiesa cattolica in India «non ha mai mancato» di promuovere il dialogo e continuerà a farlo rimanendo «dalla parte dei poveri, dei malati, senza guardare se sono indùisti, musulmani o cristiani». Accanto alla preghiera «è vitale e fondamentale» il dialogo. «Solo un vero dialogo interreligioso – ha continuato – permetterà di eliminare ogni possibile causa di tensione e di disaccordo tra gruppi religiosi ed etnici dell’India».
Tutto il mondo cristiano, a cominciare da papa Benedetto XVI, lo desidera e spera che siano rimossi al più presto equivoci e pregiudizi. L’India non si merita il radicalismo dell’Indùtva, il movimento estremista nell’India democratica. Non va infatti dimenticato che nella tradizione indùista la non-violenza è uno degli insegnamenti più importanti e che una guida esemplare della non-violenza è stato il Mahatma Gandhi, giunto al punto di sacrificare la propria vita per mano di un fanatico indù. Lo stesso Primo Ministro della Federazione indiana ha riconosciuto che l’ondata di violenza che ha colpito i cristiani in questi ultimi mesi è una vergogna nazionale, in contraddizione palese con i grandi valori di non-violenza, tolleranza e rispetto delle religioni che l’India ha coltivato per secoli. 

Di Gianpiero Casiraghi

Giampiero Casiraghi

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