Scuola con… battiscopa

Iringa: una giornata con i volontari dell’Allamano Centre

Fondato e diretto dalle suore missionarie della Consolata, l’Allamano Centre comprende asili, scuole, ambulatori e assistenza medica, soprattutto con attività di prevenzione dell’Aids e di attenzione a famiglie e singole persone sieropositive. Oltre a una ventina di persone impiegate a tempo pieno (medici, infermieri, consulenti, addetti ai laboratori, ecc.), il Centro si avvale della collaborazione di 70 volontari che gioalmente assistono i malati a domicilio.

Un odore di cipolla, misto a sudore e urina mi blocca le narici. Joseph è lì che aspetta solo di morire. La malattia è devastante. È devastato! Metastasi di pensieri mi bloccano il cervello. È troppo giovane. È un bravo ragazzo. Non si può morire così. Ma è sereno. Crede in Dio e mi dice che le missionarie della Consolata gli hanno fatto sentire l’amore di Dio e le volontarie dell’Allamano Centre lo aiutano.
La moglie non c’è. È andata a prostituirsi, per una manciata di scellini, contagiando altri o andando con altri contagiati che a sua volta trasmetteranno il virus. Non c’è famiglia che non sia stata colpita dall’Aids. Il pombe, un fermentato alcolico, ubriaca la testa e l’anima. E il virus si propaga. L’amore e il sesso qui sono la stessa cosa. L’amore è libero per natura. Non ci sono preconcetti, non c’è protezione, non c’è contraccettivo mentale. «Siamo tutti malati. Il condom non ha fermato la trasmissione, anzi – mi dice Joseph -, quindi è inutile rinunciare.

Due ore nel bush con Concetta e i volontari dell’Allamano Centre, struttura per la cura e il sostegno a malati sieropositivi, ideata, realizzata e gestita dalle missionarie della Consolata, con l’aiuto di medici, psicologi e personale tanzaniano.
Un caldo che ti scioglie il midollo. Non sento più le labbra arse dal caldo e il corpo. Saltiamo buchi, attraversiamo campi desolati, mangiamo polvere. Concetta, una straordinaria italiana che ha scelto di vivere qui aiutando le missionarie della Consolata e i tanzaniani, tira dritto. Guida decisa nel bush. Ormai lo conosce bene. È da più di un anno che accompagna i volontari dell’Allamano Centre nel giro ai malati terminali, quelli che non hanno più la forza di andare al centro per prendere le medicine.
Ogni giorno è un colpo al cuore. Bambini e giovani che vede morire, o trova già morti. Ma Concetta riesce a strappargli e strapparti un sorriso, sempre. E tutti le vogliono bene. Girare con lei è un divertimento. Con un accento tipicamente campano parla in kiswahili. Dopo ore di sabbia, spine e campi di girasole, imbalsamati dal sole, arriviamo a casa di un altro malato. Anastasia. Cinque figli. Tre morti. Il marito già morto l’ha contagiata, forse senza saperlo.
Una lamiera arrostita a 35°, girasoli a seccare. Un bimbo in lacrime ci viene incontro, spaventato e incuriosito. Vivono talmente distanti dalla città e così inteati nel bush che avrà visto raramente i wazungu. Si avvicina, vuole toccare la mia macchina fotografica, ma si ferma a dieci centimetri dal mio ginocchio e immobile mi fissa. Mi sfiora un ginocchio continuando a fissarmi. Due grandi pupille nere mi sfondano il cuore. Ha solo tre anni e probabilmente è malato.

Toiamo a casa e ci accoglie suor Luisella Benzoni. Una pazzesca suora missionaria che, oltre a prendersi cura di un asilo affollatissimo, insegna e si occupa di altre cento cose, come tradizione per le missionarie della Consolata.
Luisella mi prende subito il cuore. Visito la sua scuola, che gestisce in tipico stile lombardo. Mi fa sorridere la sua precisione, la sua organizzazione in una realtà dove non esiste ordine. Non esiste la parola organizzazione. E lei lo sa bene e ride con me di questo. Due occhi blu e un accento bresciano che mi hanno fatto ridere e divertire per settimane. La sua serietà e organizzazione è direttamente proporzionale alla sua ironia e simpatia.
Ma questa sua ironia, sono convinta, è una protezione contro la disperazione che vive e sente ogni giorno. La sua scuola è un asilo e scuola pre-elementare che ha bisogno di tanto, ma la sua cura e il suo amore lo fanno sembrare bellissimo. Personaggi della Walt Disney disegnati sui muri ci danno il karibu (benvenuto) e 130 bambini, bene ordinati, mi intonano l’inno del Tanzania, mi cantano la Vecchia fattoria, mimando gli animali e mi rendono partecipe in una loro lezione.
Suor Luisella ha fatto una delle cose più difficili ma necessarie: insegnare alle maestre e ai bambini che la scuola è fondamentale ma per essere accessibile a tutti deve essere curata, un senso civico che manca da troppo tempo anche a noi italiani. Ho conosciuto le sue maestre che ridipingevano un battiscopa, una cosa del tutto estranea alla cultura africana. Questo dimostra quello che ho sempre pensato e sostenuto: l’Africa non ha bisogno di una scuola da terzo mondo, dove bisogna accontentarsi, dove la creatività fatta anche da poco, l’ordine, la pulizia sono solo eufemismi.

di Romina Remigio

E non finisce qui

Sono ripartita da Dar Es Salaam il 21 maggio alle 21.20 con un volo della Swiss Air, dopo aver saltato per più di un’ora e mezza per le strade di Mbagala, nel taxi di Goldwin, accompagnata da due amiche speciali che hanno voluto addolcire quello che sarebbe stato il trauma della partenza.
Era già notte, quando ho lasciato Mbagala, il villaggio che mi ha ospitato per mesi; anche la luce elettrica come sempre se n’era andata. Abbiamo caricato la macchina, illuminati solo da un cielo stellato straordinario, che mi ha augurato safari jema (buon viaggio).
Ho salutato velocemente gli amici, le bibi (nonne) e zie con un inevitabile nodo alla gola. Su un sedile di velluto liso, cercavo di fissare nella mente, naso e orecchie immagini, odori e suoni di Mbagala.
Arriviamo in aeroporto che già la gente è in fila per il check-in. Un vento caldo e umido mi attraversa e mi sbatte in faccia. Penso che sto per partire, sto per lasciare il Tanzania. Ogni passo verso il check-in mi tuona dentro come una pugnalata. Devo salutare le mie amiche e penso alle altre missionarie che mi hanno rapito il cuore, ma non riesco a reggere l’affetto dei loro sguardi. Carica di zaini, borse e con una zucca, che sarà motivo di discussione da Dar Es Salaam in Svizzera, perché sembra troppo stravagante girare con una grande zucca, le abbraccio ed entro.

Salita sull’aereo avverto immediatamente la fredda consapevolezza di essere in Europa. Caos, musica e sorrisi africani sono stati prontamente sostituiti da distratti sguardi svizzeri.
Un’italiana, contenta e convinta di aver trovato un’altra italiana, mi vomita tutto il suo risentimento nei confronti dei tanzaniani e del caos del Tanzania; me la cavo con un «sorry, I don’t speach italian» (spiacente, non parlo italiano) e, incollata al finestrino, l’iPod impiantato nelle orecchie, cerco di confondere pensieri e ricordi che affollano la testa. Lascio la pista di Dar Es Salaam con Elton John che canta Your song. Chiudo gli occhi sperando solo di addormentarmi e svegliarmi a Zurigo.
Arrivo alle 6.45 in una Zurigo grigia, umida e fredda. Un aeroporto modeissimo, pulitissimo, fighissimo… tutto issimo. Ordinati e in un silenzio troppo fastidioso seguo i miei compagni di viaggio al controllo bagagli. Ci esaminano come fossimo terroristi. Gli apparecchi elettronici devono seguire un accurato controllo «svizzero».
E io in tipico stile profuga: infradito africane, jeans stra-scoloriti e strappati, felpa ancor più scolorita, abbondavo di apparecchiature elettroniche. Mi sento due occhi addosso. Alzo lo sguardo e mi ritrovo di fronte una «donnona» che esamina attentamente le macchine fotografiche, obbiettivi, computer, come se una fotoreporter fosse un mercante d’armi.
Accendo il telefonino che inizia a squillare all’impazzata per gli sms di amici che mi danno il benvenuto in Europa, tra sguardi urtati compostissimi vicini. Voglio il Tanzania! Voglio il caos, la musica, le grida dei bambini, i clacson delle macchine, la polvere e le buche!

O sservo due africani, cercando nei loro occhi la mia stessa disperazione. Sono una delle ultime a salire sull’aereo. Nemmeno il cioccolatino svizzero, in puro cioccolato al latte finissimo, riuscirà ad addolcire l’ultima ora e mezza di viaggio. Sorvoliamo Roma. La guardo dall’alto. Bella come sempre, ma sono davvero arrivata!
E ora sono qui, divisa tra due mondi, con la certezza che non posso tornare alla mia vita senza aiutare seriamente gli amici che hanno vissuto con me e le straordinarie missionarie capaci di prendere in mano il cuore dei più poveri e disperati tra i poveri, accarezzarlo e dargli la forza e il coraggio di andare avanti, vivendo con loro e cercando di aiutarli con progetti reali, ma fuori moda per le istituzioni inteazionali di cooperazione.
Credenti o meno, atei o non atei, la mia considerazione oggettiva finale, è che aiutando i missionari sicuramente possiamo aiutare questo popolo a liberarsi dal giogo che lo soffoca da decenni.

Romina Remigio




Basta mosche …suglio occhi

Dove gli aiuti… aiutano davvero

INTRODUZIONE

Un giornalista non è solo un rigoroso traduttore di informazioni, ma anche un cantastorie. La voce di chi non ha voce. Gli occhi di chi non può o non vuole vedere. Ha la possibilità e la capacità di potersi fermare. Fermarsi a riflettere, osservare, parlare, ascoltare e ascoltare. E questo ho scelto di fare per sei mesi di vita in Tanzania.
Il mio rapporto con il Tanzania è stato da subito viscerale. Il 15 dicembre 2007 la prima sensazione è stata di soffocamento. Un vento caldo, umido mi ha bloccato le narici e i polmoni, ma il cuore era tornato a casa.
«Inside Tanzania» non è solo un reportage. Ma un esperimento di sei mesi di vita a Mbagala, periferia di Dar Es Salaam, e in altri slum musulmano-integralisti, vivendo la quotidianità e gli effetti della cura antiretrovirale su malati di Aids/Hiv. Insieme. Come loro e con loro. Questo era il mio obiettivo.

Un progetto di reportage nato nel luglio 2007 con la mia collega Alessandra Sinibaldi per indagare come mai nonostante la mole mondiale di fondi stanziati da qualsiasi tipo di associazione, ente o struttura grande e piccola per progetti in Africa, questa terra continuasse a morire inesorabilmente. Un’inchiesta sulla cooperazione internazionale decentrata e non, laica e religiosa.
Avevamo passato un mese a girare fotografando e lavorando senza freni. Interviste, riprese, traduzioni, visite, libri, incontri nei villaggi con musulmani, cristiani, protestanti, malati, dottori e scatti e scatti.

Pur disponendo di enormi risorse le organizzazioni inteazionali non riescono a raggiungere risultati soddisfacenti sia nel campo dello sviluppo che nella lotta all’Aids in Africa. Missionari e missionarie, invece, con scarsissimi aiuti e senza la ribalta mediatica, riescono a fare autentici miracoli a favore della popolazione. Lo evidenzia una giovane giornalista nel suo documentario «Inside Tanzania», elaborato
in sei mesi di vita africana.

S ono tornata in Tanzania il 15 dicembre 2007, stavolta sola. Alessandra ha dovuto subire un intervento al ginocchio.
Il soggetto del reportage era lo stesso: indagare come vengono investiti e impiegati i fondi inteazionali per la cura dell’Aids. Ma per fare ciò dovevo prima di tutto rendere «protagonisti», nel reportage e nella mia vita, la gente dei villaggi. Dovevo diventare una di loro. Rassicurarli e farmi conoscere.
Sono stanchi di essere fotografati da jeep cariche di bianchi, che scattano per riportare a casa la foto del poverissimo africano. Ormai è un rito per molti volontari di onlus o associazioni fare il cosiddetto «giro turistico» per i villaggi, mascherato anche dal termine «eco-turismo» ora estremamente di moda, ma pochi sono gli esempi di eco-turismo nel senso etimologico.
I masai sanno dai loro fratelli impiegati nei villaggi turistici e davanti a resort, rigorosamente vestiti con gli indumenti tradizionali e costretti a scimmiottare la loro cultura per affascinare il turista, che molti bianchi realizzano foto che poi vendono a riviste, quindi vogliono essere pagati.
Per sei mesi con la gente
La maggior umiliazione per un fotoreporter è pagare il suo soggetto. È la via più semplice e veloce per non instaurare nessun tipo di contatto o fiducia, ma dalle foto questa sensazione salta agli occhi.
Ho vissuto nella periferia più degradata, colpita da quella piaga che sta «fucilando» l’Africa da decenni. Senza acqua, senza luce, in «case» con lastre di lamiera infuocate, dove solo delle coraggiosissime missionarie operano la loro evangelizzazione. Nei campi, nelle moschee e madrase, davanti a un piatto di polenta e fagioli e davanti a un piatto vuoto, su stuoie, negli ospedali e nei dispensari.
Ho vissuto sei mesi della mia vita seguendo famiglie che mi hanno accettato come figlia, sorella e amica, nella loro speranza di guerra all’Aids, scoraggiandomi e entusiasmandomi con e per loro. Vivere sei mesi, nella stagione più calda dell’anno, nella zona più calda, e satura di persone non è stato facile! Ma la voglia di raccontare attraverso la mia macchina e la mia stessa pelle questo spaccato di vita vera era più forte di qualsiasi malaria, malattia o paura.
Incontri con realtà… speciali
La curiosità, l’interesse giornalistico e, prima ancora, la voglia di capire e raccontare mi hanno fatto girare gran parte del Tanzania, indagando e scoprendo le realtà molteplici di cooperazione. Ho conosciuto realtà di fede profonda, di ritmi di vita scanditi dalla parola di Dio.
Da un Dio che scuote il corpo e la mente sostenendoti in lavori massacranti di aiuto gratuito.
E ho visto realtà di egoismo e superficialità che sembrano giocare con la vita delle persone e con i soldi dei fondi mondiali. Ho conosciuto anche grandi associazioni come il «Cuamm», «Medici con l’Africa», il cui personale medico è attivo anche in strutture governative.
Uno di questi medici è Mario Battocletti, medico chirurgo, presso l’ospedale governativo di Iringa, a cui fa capo più di un milione di persone. Mario vive a Iringa con sua moglie e i suoi tre bambini. Quando sono andata a casa sua, ho scoperto un grandissimo professionista con il sogno di lavorare in Africa e salvare vite. Ed è quello che fa da mattina a sera, scontrandosi con la realtà confusa e purtroppo corrotta della società e dell’ospedale. Ma non si arrende.
Poi ci sono i laici missionari e singoli volontari che fanno tanto e lo fanno senza rumore, ma con creatività, ingegno e impegno. Più osservavo, giravo, conoscevo, e più sentivo che questo reportage stava diventando una missione. Una missione di informazione non solo sul Tanzania, stato sconosciuto se non per la bellezza dei suoi parchi e delle sue spiagge, ma sul mondo dei missionari che operano in un continente a noi ancora sconosciuto seppure ne siamo assuefatti.
Assuefatti all’idea che i media ci hanno sempre proposto e continuano a propinarci, alla convinzione che come l’Iraq, l’Afghanistan, sono realtà irrisolvibili ma per quali fattori? Perché? Conosciamo solo il bimbo con la mosca nell’occhio e la pancia gonfia, la guerra in Somalia, i bambini soldati, le violenze in Congo, Ruanda, Darfur e le meravigliose spiagge di Zanzibar, Pemba, Sharm e Marsa Alam!
Tra stereotipi e disinformazione
Chi conosce l’Africa (non me ne vogliano i grandi esperti di geopolitica, cultura e tradizioni) è chi legge i giornali missionari che attraverso le voci, le testimonianze di missionarie, missionari, volontari e operatori di pace, che vivono trenta, quaranta, settanta anni la realtà, hanno la voglia e la pazienza di fermarsi ad ascoltare, aiutare e poi raccontare.
Chi vive la quotidianità dei giornali, degli special televisivi ha imparato attraverso esponenti del mondo dello spettacolo, i noti «ambasciatori» a donare un euro attraverso l’sms all’Africa che non va mai avanti… a quell’Africa che muore di fame sempre e comunque. All’Africa fatta di uomini e padri che schiavizzano le mogli e i figli pur di non lavorare, a un popolo che muore di Aids perché superficiale e poligamo.
E poi veniamo a scoprire che tutto il denaro mandato tramite sms, per il Darfur o per le famiglie colpite dallo tsunami non è mai arrivato a destinazione. È bloccato in una banca belga o svizzera, ma è solo questione di tempo, recita la smentita sui giornali, ma come non c’era un’emergenza?
A me verrebbe da dire «tanto ci sono i missionari che, attraverso amici, parenti, benefattori e l’animazione, sono in grado di aiutare la gente, anche senza milioni di dollari!».
Allora due sono le cose o i missionari, avendo la corsia preferenziale di dialogo con Lui, riescono a moltiplicare i soldi, come Qualcuno moltiplicava i pesci, o sono angeli straordinari prestati a noi comuni mortali per insegnarci a vivere.
E l’interrogativo dominante: «Ma come mai, sono decenni che mandiamo, mandiamo e rimandiamo soldi attraverso queste grandi associazioni e la situazione è degenerata in un’emorragia acuta? Il dato certo è che se ne sono sentite tante. E la gente non si fida più o, se si fida, è perché la comunicazione di quella associazione è stata fatta seguendo le teorie e le tecniche migliori della comunicazione di massa.
Una comunicazione che ha screditato e criticato in maniera velata ma fin troppo efficace, per anni, la cooperazione religiosa di congregazioni presenti da decenni che dopo sessanta, settanta, cento anni ora sembrano non essere più in grado di insegnare, curare e aiutare. Io da conoscitrice del mondo giornalistico la spiegherei attraverso due fattori.
Primo fattore: sono religiosi. E in Italia sappiamo che qualsiasi persona sia religiosa o legata alla chiesa, da sempre sinonimo di sfarzo e di eccesso, non va più di moda. Pensateci!
È vero che ci sono tanti laici che hanno una fede profonda, ma se siamo arrivati alla società attuale, sarà colpa dell’economia che non va, dei nostri governanti che non sanno fare il loro lavoro, dei media che attraverso la pubblicità presentano modelli sbagliati…, ma sarà anche colpa nostra, che abbiamo perso di vista i valori fondamentali di dignità, onestà e serietà e li abbiamo sostituiti con la corsa frenetica al raggiungimento del denaro.
Una carissima amica missionaria, di una saggezza stravolgente, mi disse un giorno: «Voi andate avanti seguendo la regola delle tre S: sesso, successo e soldi». Noi giovani, usciti da poco dalle università, non possiamo che confermare che il fine delle lauree è guadagnare, guadagnare per permettersi tutto.
Il secondo fattore per cui attualmente i missionari non hanno più il successo di una volta è che non sono dottori. Sono poche le vocazioni. Poche le missionarie dottoresse e i missionari dottori laureati. In un dispensario in capo al mondo, in una zona dove non c’è luce, acqua, ma solo povertà e malattia ci sono suore missionarie settantenni, solo infermiere, che lavorano 15-18 ore al giorno, insegnando e formando praticamente Clinical Officer, capaci di sostituirle un domani, ma per i nostri dottorini e dottori delle Ong, non vanno più bene. «Non sono preparate. Sono superficiali» mi sono sentita ripetere.
Dove finiscono gli aiuti?
Potrei fare un elenco delle strutture inteazionali e associazioni che operano in Tanzania con metodologie e scopi diversi dai missionari. Ma non è il mio obiettivo.
Con il mio reportage non ho affatto intenzione di osannare solo le missionarie della Consolata, poiché ho incontrato tante congregazioni cattoliche; mi ha molto colpito, per esempio, la realtà delle missionarie della Carità, le suore di Madre Teresa, che accolgono orfani anche con gravi handicap e anziani. Anche i protestanti anglicani e luterani, le associazioni di laici missionari o volontari fanno tanto e bene.
Mi ha lasciato molto perplessa invece, il fatto che in uno stato dove il 10% della popolazione nasce con handicap fisici e mentali, nonostante la massiccia presenza delle Ong e associazioni di aiuto, non ci sia in tutto il Tanzania una struttura di ricovero per bambini, ragazzi e adulti che abbiano forti handicap mentali e fisici, una sorta di Cottolengo.
Anzi le suore del Cottolengo ci sono in Tanzania, ma anziché mantenere il carisma che hanno in Italia, con il lavoro straordinario che portano avanti, in Tanzania si occupano della pastorale… forse anche il carisma oltre oceano subisce un cambiamento climatico, fisico!
Ma non posso, inoltre, non sottolineare la diffidenza motivata delle persone quando si parla di offerte, donazioni e aiuti economici a istituti religiosi che magari sembrano sconosciuti o inaccessibili materialmente, perché talmente impegnati sul campo che sono fuori dalla comunicazione on-line, telefonica satellitare e per principi propri, fuori dalla pubblicità capillare.
Mai nessun missionario della Consolata manderà cartoline, foto di bambini tristi e malati, a tutti gli italiani, augurando loro buon natale, buona pasqua, buona festa della mamma e del papà… per colpire il cuore e le menti degli italiani, popolo statisticamente tra i più sentimentali e sensibili al mondo in materia di aiuto, nonostante il materialismo dominante, direbbe qualcuno! 
Non sarò certo la prima a fare scornop o a dichiarare che istituzioni mondiali come l’Unicef, spendono l’85% delle loro entrate tra pubblicità e stipendi, lo stesso vale per la Croce Rossa e una miriade di associazioni, grandi e piccole, che ci mandano bollettini, cartoline, e-mail… chiedendo offerte.
Con ciò non voglio dire che queste grandi realtà non abbiano fatto nulla di concreto negli anni, anzi! Il punto è però un altro: se si hanno a disposizione dieci, venti, cento milioni di dollari e l’85% viene investito non nell’istruzione, nella lotta all’Aids e alla malaria (che, non dimentichiamo, in Africa provoca la morte di un bambino ogni 5 minuti, ma piuttosto in stipendi, pubblicità, trasporti e tutto ciò che riguarda la gestione dell’istituzione, è evidente che non riusciremo a fermare un bel niente, a cambiare nulla.
Ci saranno solo progetti che partiranno e avranno un iter di due anni, cinque anni, fino al momento in cui ci saranno i soldi decisi e stanziati. Il progetto non sarà rifinanziato e il dottore di tuo a capo, andrà via e tutto toerà come prima. Secondo lo stesso Mario Battocletti: «Il problema è la non cooperazione tra le realtà private in primo luogo tra loro, e poi con quelle statali. Non c’è una programmazione di governo, ma è pur vero che sempre più spesso ogni Ong tende a fare autonomamente e quindi c’è una dispersione di aiuti».
Un approccio diverso
Altra cosa che mi ha fatto riflettere e decidere di farmi portavoce dei missionari e in particolare delle missionarie della Consolata, attraverso un reportage che fosse una missione di sensibilizzazione e informazione sulla realtà troppo scomoda delle grandi strutture di cooperazione, è la vita stessa e le strutture dei missionari rispetto alle altre. A livello igienico, sanitario, lavorativo ho visto e fotografato dispensari e centri gestiti da missionari, in villaggi senza acqua e luce, che non hanno nessuna carenza rispetto alle strutture delle Ong. Certo minor personale, ben pagato, logicamente non come quello delle «grandi», ma di gran lunga superiore alla paga stabilita dal governo.
I ritmi sono diversi. In un dispensario non c’è orario. A Mbagala, periferia di Dar Es Salaam, il dispensario delle missionarie della Consolata visita quotidianamente dalle 500 alle 600 persone. Non ho mai visto suor Franca Lidia Cochis, la suora che lo gestisce, mandar via qualcuno. Ho sentito invece dalle due di notte, passi silenziosi di mamme che si mettevano in fila, dopo aver percorso 20-30 km per far vedere i loro bambini alla sister, perché l’umanità è diversa. L’approccio e la cura sono diversi. Lo staff professionalmente competente visita, prescrive, fa iniezioni e dà le stesse medicine a prezzi inferiori.
Suor Franca Lidia, con un immaginabile sforzo, gira tutta Dar Es Salaam per comprare le medicine a prezzi inferiori dai Medical Store. Perché lo fa? Non ha uno stipendio. Non è più giovanissima. È guidata solo dalla fede e dalla scelta che ha fatto cinquant’anni fa, quando ha deciso di diventare una suora missionaria della Consolata.
Cambiare: si può e si deve
Non ho visto uffici e centri delle Ong nei villaggi di periferia delle grandi città, degradati e difficili per motivi di ordine non solo sociale e sanitario ma anche religioso, fatta eccezione per la zona di Iringa, realtà in cui c’è una maggiore concentrazione di strutture di cooperazione e sviluppo. Una consistente presenza di tali uffici l’ho vista, invece, nella parte ricca di Dar Es Salaam, davanti all’Oceano Indiano, dove la vita è altissima rispetto alla media della popolazione e il mare è un incanto. Ma questa scelta sarà stata solo una coincidenza!
In una delle proiezioni del documentario con il quale sto girando l’Italia, con lo stesso scopo di sensibilizzare sulla realtà anche difficile e traumatica nella quale operano i missionari, perché è giusto non far vedere sempre e solo il bambino con la mosca negli occhi, ma in troppi pensano che la vita del missionario sia affascinante, in posti bellissimi, con ritmi di vita molto più tranquilli dei nostri, con meno preoccupazioni; allora il mio obiettivo è anche scuotere la gente, dicevo che mi ha colpito un commento di un padre. «Siamo tutti missionari. Dal momento del battesimo, siamo tutti missionari».
Io non pretendo e non posso dare risposte e soluzioni ai problemi riguardanti il bisogno di fondi economici per la cura antiretrovirale o per le strutture dei missionari, ma mi chiedo e vi chiedo: nel momento in cui scegliamo di lavorare nell’ambito della cooperazione è perché abbiamo interesse e obiettivi a realizzare qualcosa che sia di aiuto a quello stato e alla sua gente perché in difficoltà.
Quindi possiamo anche declinare l’invito a lavorare seguendo le norme e gli standard mondiali di marketing e pubblicità. Proviamo a fare i missionari! Abbiamo famiglie, figli da mantenere, non possiamo lavorare gratuitamente perché la vita è altissima, è chiaro e noto a tutti. Non dico di fare solo i volontari, ma anziché andare in una parte del mondo per fare carriera o ridurre gli anni che ci avvicinano alla pensione o per guadagnare quattromila, settemila euro al mese, con progetti destinati a salvare la vita di esseri umani, grandi e piccoli, fermiamoci a un guadagno di mille, mille e cinquecento euro e il resto investiamolo nella totalità del progetto.
Per molti sarà un’utopia. La certezza è che continuando così non aiuteremo nessuno ma continueremo solo a riempirci la bocca di Africa, aids, malaria e morte, alimentando il binomio Africa=morte e a disperdere i fondi.
Un esempio…
Ho conosciuto una coppia di italiani a Dar Es Salaam che mi ha colpito particolarmente: un medico italiano, fisioterapista, Augusto Zambaldo, che dirige il reparto di riabilitazione dell’ospedale Ccbrt (Comprehensive Comunity Based Rehabilitation, Centro riabilitativo su base comunitaria del Tanzania) che lavora nell’ospedale specializzato per problemi alle ossa (Ccbrt, Comprehensive Community Based Rehabilitation Tanzania), costruito da una Ong tedesca, ottimo dal profilo medico, e sua moglie Laura, una graziosissima insegnante.
Augusto Zambaldo vive da più di 20 anni in Tanzania con la sua famiglia. Ha lavorato per anni prima in Kenya e poi in Tanzania in strutture ospedaliere anche di missionari, preferendo vivere con uno stipendio molto più basso rispetto alla media dei suoi colleghi, con ritmi di vita altrettanto massacranti, animato solo dalla voglia di aiutare e sapeva di essee in grado.
Le figlie sono nate in Kenya, hanno studiato in Tanzania e ora una frequenta l’università in Italia. Augusto e Laura hanno scelto la strada più difficile. Non sono diventati mai ricchi, materialmente, ma credo che le emozioni che hanno vissuto in questi decenni sono state un’immensa ricchezza. Le difficoltà non sono state e non sono poche soprattutto per l’equilibrio familiare.
Mi raccontavano che una delle figlie voleva tornare in Italia, perché la scelta di vivere in Tanzania aiutando gli altri, non era la sua, ma la loro, gli ripeteva. È normale che una ragazza giovanissima, nata e cresciuta in Africa, una volta arrivata in Italia, dove tutto sembra possibile e realizzabile con minor sforzo, voglia vivere nel bel paese!
Augusto e Laura erano in crisi perché significava separarsi, dopo una vita vissuta sempre l’uno al fianco dell’altro. Augusto non concepiva l’idea di lasciare tutto e tornare, ma non poteva nemmeno dire di no a sua figlia. Il lavoro di un medico in quei posti è una missione. E per Augusto lo è.
Laura aveva deciso di tornare in Italia per stare vicina alla figlia, ma Augusto sapeva che un figlio ha bisogno di entrambi i genitori. Non so cosa ha poi deciso Augusto, ma qualsiasi sia stata la sua scelta credo proprio che non sia stato semplice.

Di Romina Remigio

Romina Remigio




«DIO È AMORE»

la parabola del «figliol prodigo» (24)

Concludiamo il nostro lungo cammino in compagnia dell’evangelista Luca, il quale da par suo ci ha fatto conoscere profondamente cinque personaggi: un padre sconfinato che non esita a dare la vita per i figli; il figlio minore, sognatore e irrequieto, ma senza una propria progettualità tanto da finire subito in fallimento; il figlio «anziano», apparentemente tutto dolce e obbediente, ma nel suo cuore è tragico senza possibilità di redenzione; la persona di Gesù, che non smentisce la sua natura di rivoluzionario delle convenzioni religiose e sociali del suo tempo; e infine noi stessi, noi lettori, che dopo questo viaggio «dentro» la parabola del cosiddetto «figliol prodigo», non possiamo rimanere gli stessi di quando abbiamo cominciato.

Punto di arrivo e di partenza: domande personali
La parabola del figlio prodigo, infatti, penetra nel midollo della nostra anima e ci scaifica fino all’osso come una spada tagliente (cf Eb 12,4). La lettura e il commento che abbiamo fatto ci obbligano a una presa di posizione personale nei confronti di Dio e dei nostri stili di vita. Le domande sono individuali. Chi è Dio «per me?». Il comportamento del padre che perdona senza chiedere in cambio nulla, un perdono gratuito, senza condizione mi scandalizza oppure mi rivela un «volto nuovo» di Dio che prima non immaginavo? Ritengo che il comportamento del padre sia «ingiusto» secondo i miei criteri della giustizia che spesso si avvicina fino a confondersi con la vendetta? A quale dei personaggi della parabola mi trovo più vicino? Per quali motivi? Ha senso la mia pratica religiosa, dopo avere vissuto questa parabola dal punto di vista del padre/Dio?
Tutte queste domande e molte altre ancora tracimano dentro di noi perché la parabola lucana è uno spartiacque tra il «dio-idolo», che a volte ci costruiamo per giocare a fare i religiosi, e il «Dio-Misericordia» che trancia la logica umana, esigendo da noi uno stile di vita divino, in forza del principio evangelico: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,48).
Il cristianesimo è tutto qui: non è una morale, né un sistema di pensiero, né un’organizzazione, né una religione, ma è solo una «imitazione» che si trasforma in simbiosi di vita e prospettiva con una Persona. Se non impariamo nei nostri rapporti, contatti, pensieri, parole, ideali, atteggiamenti, ad agire come Dio, la nostra religiosità è un francobollo da cui è evaporata la colla.
Ripercorriamo brevemente il cammino fatto con Luca e la sua parabola. Siamo partiti da alcune domande poste da un lettore: «Da dove Lc ha attinto questa parabola, non essendo apostolo? Come spunta questa meravigliosa “perla”, visto che è esclusiva di Lc e non compare negli altri evangelisti? L’ha pronunciata veramente Cristo?».
Le domande sono radicali e dimostrano la poca frequenza, oltre la lettura di prassi, con la complessità della formazione dei vangeli e del NT. Un dato è certo: i cattolici conoscono poco, pochissimo, quasi niente le sacre scritture, che dovrebbero essere il fondamento della loro fede. Essi, infatti, sono molto religiosi, ma scarseggiano di fede e di conoscenza. Officiano, senza amare.

Conoscere la scrittura e il suo cammino
Di fronte a tali presupposti abbiamo proposto una carrellata veloce sulla formazione dei vangeli, spiegando che i vangeli non sono nati per tramandare aneddoti su Gesù, ma sono stati «predicati» per fare conoscere Gesù ai propri contemporanei. Da questa predicazione orale, fatta da persone innamorate di Gesù, sono nati i primi scritti come elenchi di miracoli, di parabole, di detti o sentenze ad uso in genere dei catechisti e dei predicatori.
Questi documenti sparsi giravano per le chiese e cominciarono a essere abbinati come «Parola di Dio» alla lettura dell’AT nelle assemblee eucaristiche. A circa 30 anni dalla morte di Gesù, quando ormai Paolo aveva valicato i confini della Palestina e fondava chiese nell’attuale Turchia e in Grecia, l’evangelista Marco, per primo, inventa un genere letterario nuovo che chiama «vangelo», preso più tardi a modello da altri due progetti pensati da Matteo e da Luca. Nascono così i vangeli «sinottici» perché se si mettono in colonne affiancate Marco, Matteo e Luca, si possono leggere simultaneamente o, come si dice in gergo biblico, in «sinossi» che significa «con un colpo d’occhio».
Lo schema dei vangeli «sinottici» è semplice: a) predicazione di Giovanni Battista; b) predicazione e attività di Gesù, prima in Galilea e poi in Giudea/Gerusalemme; c) passione, morte e risurrezione di Gesù. A questo schema, in epoca successiva, Mt e Lc aggiungono i primi due capitoli dei rispettivi vangeli che si chiamano in blocco «vangeli dell’infanzia», perché trattano di Gesù Bambino, ma visto e descritto alla luce della pasqua già avvenuta.
L’evangelista Gv non segue questo schema, ma si pone su un piano più teologico, perché fa emergere una «cristologia» alta: Gesù infatti fa lunghi discorsi che sono inverosimili storicamente, mentre sono essenziali per il progetto di Gv che ci presenta Gesù, l’uomo di Nazaret, come il «Lògos» eterno incarnato nella storia.
Dopo questa premessa essenziale e didascalica, abbiamo parlato del capitolo 15 di Lc, che riporta tre parabole secondo le bibbie ordinarie, mentre abbiamo dimostrato che le parabole sono due, di cui la prima quella del pastore è ripetuta anche in versione femminile (la donna che perde e trova la moneta). Il capitolo 15 di Lc è uno spartiacque, il vertice di tutta la rivelazione del NT, dopo l’affermazione giovannea che «Il Lògos-carne/fragilità fu fatto» (Gv 1,14). Successivamente abbiamo presentato i protagonisti della parabola con una breve scheda storica dei pubblicani, scribi, farisei e sinedrio che fanno da sfondo e da pretesto alla parabola.

Luca 15: una nuova prospettiva
Infine, abbiamo avanzato l’ipotesi, che ci sta a cuore e di cui siamo convinti: il capitolo 15 di Luca, compresa quindi la parabola del figliol prodigo, non è una invenzione di Lc, ma è un «midràsh» del capitolo 31 di Geremia. Abbiamo spiegato che il midràsh è un modo giudaico di esegesi che si basa sul principio che la scrittura si spiega con la scrittura. Lc prende il testo del profeta Geremia che appartiene all’AT e lo commenta non con un altro testo dell’AT, ma con due parabole messe in bocca a Gesù, dicendoci così che la parola di Gesù è sullo stesso piano dell’AT: è Parola di Dio.
Gesù ha parlato ai suoi uditori di pecore, di monete e di figli: ne abbiamo molti esempi nei vangeli; ma nella forma espressa da Lc, l’intero capitolo è una costruzione per tradurre in forma cristiana il capitolo 31 di Geremia che parla di un pastore, di una donna e di due figli.
Il contesto di Geremia è «la nuova alleanza» (Ger 31,31) che è la chiave di comprensione di tutta la vita di Gesù. Egli porta la novità di un Dio che trasforma la vendetta in perdono, l’esclusione in inclusione, l’emarginazione in elezione, il peccato in grazia, il rifiuto in accoglienza. La novità riguarda anche la religione: dagli atti estei di culto pubblico o privato si passa all’adesione del cuore, all’etica dell’intenzione, alla purezza del cuore, al perdono senza condizione.
In MC (Luglio/agosto 2006) scrivemmo: «Lc 15 è dunque un midràsh di Ger 31 o, se si vuole, una omelia che commenta il testo profetico. La comunità cristiana delle origini prima e Lc successivamente hanno riletto il capitolo 31 del profeta Geremia con gli occhi fissi su Gesù, tanto che l’evangelista nel redigere il capitolo, ha mantenuto lo stesso ordine dei personaggi come si trovano nel profeta: un pastore, una donna, un padre con un figlio. Per potersi rendere pienamente conto di quanto profondo e attualizzante sia il rapporto tra Lc 15 e Ger 31, è necessario leggere il testo del profeta Geremia e quello di Lc in sinossi, cioè in modo speculare»: nello stesso numero mettemmo a disposizione dei lettori i due testi a confronto per vedee somiglianze e differenze.
Noi cattolici siamo abituati a leggere il vangelo e il NT in genere con la nostra mentalità occidentale latina, senza alcun riferimento, se non in forme marginali, all’ambiente vitale dove questi scritti sono nati, sono stati pensati e sono stati messi su pergamena.

Il giudaismo, ambiente vitale del vangelo
A questo scopo, abbiamo insistito molto nel dire che corriamo il rischio di non capire il 90% del vangelo se ci limitiamo a leggerlo con le nostre categorie culturali e non ci sforziamo di situarlo nel suo ambiente vitale, culturale e religioso del suo tempo. Gesù è un ebreo, Maria è un’ebrea, Giuseppe è un ebreo della stirpe di Davide, gli apostoli sono ebrei osservanti, i primi cristiani sono ebrei figli di Abramo: non possono non pensare e non esprimersi da ebrei. Essi conoscono non solo la scrittura ebraica, che è Toràh, i Profeti e gli Scritti (corrispondenti ai nostri Sapienziali), essi conoscono anche e specialmente la «bibbia orale», che è tramandata solo oralmente attraverso la predicazione e la sinagoga con i Targum e i Midràsh.
Affinché non andasse perduta, la maggior parte della predicazione orale fu messa per iscritto durante la diaspora tra il sec. II e il sec. VI d.C., ottenendo così i testi che conosciamo con il nome di Mishnàh, Talmud, Tosèphta, Ghemarà, che riportano i commenti alla scrittura di tutti i saggi d’Israele dal sec. III a.C. al sec. VI d.C. È un materiale immenso, certamente tardivo, ma che contiene materiale anche antico da valutare di volta in volta. Noi cattolici non conosciamo quasi nulla di tutto questo e spesso ci scandalizziamo, perché consideriamo il NT un frutto del tutto avulso dal mondo che lo ha generato e partorito. Finché non si ritoerà alla bibbia come libro fondamentale della nostra fede, basato nel contesto giudaico, il nostro cristianesimo sarà molto superficiale e anche falsato.
Abbiamo presentato la parabola, cercando di evidenziae il vocabolario peculiare, mettendo in risalto il comportamento del padre che riflette il modo di essere di Dio nei nostri confronti. S’è scoperto che il figlio maggiore è rappresentativo del mondo farisaico, che rigetta Gesù per difendere il proprio potere, e che il figlio minore ha tutte le caratteristiche dei pubblicani. Come questi, anche il minore non è giustificabile, ma nella logica della parabola non è determinante che egli chieda perdono, come spesso si legge nei commenti e negli usi liturgici di questa parabola, perché il cuore della pagina non è il figlio minore o maggiore, ma è l’accoglienza del padre/Dio, che previene i figli al di là dei loro meriti.
In sostanza abbiamo visto che il significato ultimo della parabola è la tenerezza di Dio, che si commuove fino alle viscere se vede un figliolo che si sta perdendo in «un paese lontano»: egli allora spinto dal suo viscerale amore senza fondo e senza confini, perde se stesso pur di guadagnare il figlio/figli. Alla fine abbiamo scoperto con amarezza che riesce nel caso del figlio minore, ma fallisce nel caso del figlio maggiore.

Lettura scientifica e insegnamento spirituale
Abbiamo impegnato 15 puntate per commentare i singoli versetti della parabola lucana, mettendo in evidenza anche aspetti psicologici, oltre che esegetici, pastorali e spirituali: il nostro commento infatti non voleva essere solo un rendiconto asettico delle questioni letterarie o testuali, ma un momento di valutazione anche della nostra vita alla luce della parola di Dio, più profondamente compresa. Lo studio della bibbia più è scientifico più diventa spirituale, perché dandoci il senso genuino del testo scritto, ci permette di entrare nel messaggio autentico della rivelazione.
All’interno del commento abbiamo imparato il significato del vitello grasso, il cui sacrificio ristabilisce i termini dell’alleanza qui tra figlio e padre e in termini più generali l’alleanza che in Gesù si stipula tra l’umanità e Dio, fermo restando il mestiere per eccellenza di Dio che è la misericordia. «I sandali, la tunica e l’anello» ci hanno svelato il senso nascosto nella tradizione giudaica di reintegro nell’eredità materiale, nella dignità personale e nell’identità filiale; siamo così arrivati a scoprire il capovolgimento delle situazioni di partenza: il figlio che ha chiesto la vita del padre per poterla sperperare nella dissolutezza e nell’impurità (paese lontano) ora si ritrova immerso in quella stessa vita che lo ha salvato dall’inferno della dannazione (porci) e dalla presunzione di se stesso.

La conversione interessata
Troppa retorica si è fatto attorno al figlio prodigo e alla sua conversione, tanto che è diventato un classico, durante la quaresima, imbastire una liturgia penitenziale dove lo si prende a modello di conversione e di pentimento. Il figlio minore invece è motivato dalla «necessità di sopravvivere» e la sua conversione, se c’è, avviene dopo, nel silenzio della parabola, quando il padre lo fa entrare nella sala del banchetto con la veste nuziale che gli cambia l’aspetto e quello che più conta il cuore. Ancora una volta è il padre il peo di ogni movimento.
Abbiamo anche ridimensionato drasticamente il figlio maggiore, verso il quale si è di solito più indulgenti, perché apparentemente non ha mai dato dispiaceri al padre, restando sempre in casa. Il commento ha evidenziato la natura perversa di questo figlio, simbolo del fariseismo e dell’opportunismo, del comportamento cioè di chi trama nell’acqua senza mai esporsi. Egli ha goduto, almeno crediamo di averlo bene chiarito, della partenza del figlio e già faceva i calcoli della «sua roba» alla morte del padre che aspettava con ansia. La sua vita è rovinata dal padre che accoglie il fratello e, come è stato assente per tutta la sua vita dalla vita del padre, così alla fine egli resta fuori del banchetto e non può indossare l’abito delle nozze. Egli che è rimasto sempre in casa, di fatto era partito da un pezzo ed era rimasto lontano, molto più lontano del paese dove è andato a gozzovigliare il fratello; il minore invece, andato fisicamente via da casa, è tornato perché nel suo cuore, anche a sua insaputa, era rimasto legato al padre di cui aveva inconsciamente nostalgia.

Gli ultimi precedono i primi
Abbiamo pure visto concretizzarsi la «legge» biblica del ribaltamento delle posizioni codificato nel Magnificat di Maria e la «legge della sostituzione» che percorre la bibbia dalle origini alla fine: l’ultimo prende il posto del primo e il secondogenito subentra nell’asse ereditario al primogenito. Strano e illogico, secondo i parametri umani, il Dio che è delineato nella parabola del figlio prodigo!
Egli è un Dio senza dignità e senza rispetto per se stesso, perché, travolgendo ogni costume sedimentato e ogni razionalità, si «mette a correre» per venire incontro a chi non ha più speranza, a chi è morto e bandito dalla società e dalla religione. Egli è un Dio senza pudore che abbandona il tempio, le chiese, conventi e monasteri, dove i figli sono al sicuro e corre per le strade del mondo a cercare la pecora smarrita, la moneta perduta e il figlio traviato. A buon diritto il lettore può dire: egli viene per me.
Un’attuazione pratica della parabola si ha nell’eucaristia, che è il commento sacramentale, o «midràsh sacramentale», della parabola della tenerezza del Padre che trasforma la vita del Figlio unigenito in parola, pane e vino perché i figli dispersi e smarriti possano rifocillarsi nell’ascolto, nel cuore e nel corpo per ritrovare il Volto di Dio, che in Gesù si manifesta e rivela a noi come Padre/Madre.
È questo il senso ultimo della parabola della pateità sconfinata che sa rigenerare, perché ama senza scopo e senza interesse. Se dovessimo sintetizzare il capitolo 15 di Lc in una parola, non avremmo dubbi perché c’è una sola parola, come ci suggerisce Paolo in 1Cor 13, e questa parola è «Agàpēē», il nome nuovo del Dio di Gesù Cristo: «Dio è Agàpēē» (Gv 1Gv 4,8) che tradotto alla lettera si può rendere con «Dio è Amore a perdere».

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Chiese vulnerabili a rischio estinzione

«Popoli e chiese dell’oriente cristiano»

Da più parti il cristianesimo è considerato essenzialmente occidentale, dimenticando le antiche comunità cristiane fiorite nel Vicino Oriente, prima dell’espansione islamica. Il volume «Popoli
e chiese dell’oriente cristiano» di Aldo Ferrari* vuole riparare a tale dimenticanza, presentando la loro tradizione storica e spirituale, la difficile situazione attuale di alcune chiese orientali, che rischiano
di scomparire dalle loro sedi millenarie.

Delle tre sedi patriarcali in cui era suddivisa la chiesa delle origini, due si trovavano sulla riva orientale del Mediterraneo, nelle città di Alessandria e Antiochia. Nulla di strano che nei primi secoli della nostra era il cristianesimo fosse vivo soprattutto in prossimità dei luoghi che avevano visto la predicazione di Gesù e da cui era partita l’azione evangelizzatrice degli apostoli. Proprio dalla Palestina il nuovo credo si era irradiato lungo le strade dell’Impero Romano, fino ai suoi estremi confini, e vi aveva trovato rapida diffusione, favorito da un clima culturale ricettivo, dalla tolleranza verso gli «dei stranieri», dall’ordine e dalla convivenza pacifica che la pax romana garantiva.
È, invece, più difficile da capire perché il cristianesimo occidentale abbia finito per oscurare la memoria della chiesa orientale, da cui esso ha tratto le proprie origini. Ben venga, dunque, la nuova monografia curata dal professor Aldo Ferrari, Popoli e chiese dell’oriente cristiano, che dà la possibilità di approfondire le ragioni di quest’oscuramento e riscoprire il patrimonio spirituale e culturale che in duemila anni la cristianità orientale non ha cessato di esprimere.
Pur necessariamente incompleto, per la difficoltà di contenere nello spazio di un volume la storia delle numerose comunità cristiane d’oriente, il panorama che ci è qui offerto si presenta di una sorprendente varietà: comprende le chiese copta ed eritrea in Africa, le chiese melkita, ortodossa e cattolica, e maronita nel vicino Oriente, la chiesa sira occidentale, ortodossa e cattolica, e sira orientale, assira e caldea, in Mesopotamia e Iran, le chiese armena, apostolica e cattolica, e georgiana ortodossa nel Caucaso.

LA FRATTURA DOTTRINALE
Come emerge chiaramente dalle pagine del volume, il quasi oblio in cui sono cadute le chiese orientali nella coscienza dei cristiani d’occidente si può spiegare con due ordini di ragioni: intee ed estee alla chiesa.
I primi secoli videro la chiesa, ancora unica e indivisa, impegnata in un intenso dibattito volto a stabilire i fondamenti del credo cristiano. Nel iv secolo fu affrontata la questione trinitaria e si arrivò a definire la formula della consustanzialità delle tre Persone. Già allora si corse il grave rischio di una spaccatura intea, a causa del consenso suscitato dalle tesi del prete alessandrino Ario, il quale non riconosceva al Figlio una natura uguale a quella del Padre. Questo pericolo fu evitato con la convocazione del primo concilio ecumenico a Nicea nel 325.
Non altrettanto felice fu l’esito delle controversie cristologiche, che nel v secolo contrapposero le scuole teologiche di Antiochia e Alessandria. La definizione dogmatica della duplice natura di Cristo, divina e umana, fu materia dei due concili di Efeso e Calcedonia, dove si scontrarono posizioni teologiche diverse. A Efeso, nel 431, fu condannato il patriarca Nestorio, che aveva portato alle estreme conseguenze la teologia duofisita della scuola di Antiochia e chiamava Maria madre di Cristo, ma non madre di Dio. Il concilio di Calcedonia, 20 anni più tardi, si concluse con la riabilitazione della scuola di Antiochia e la condanna della dottrina professata da quella di Alessandria.
Le diatribe cristologiche ebbero la nefasta conseguenza di aprire una frattura, non solo tra Oriente e Occidente, ma anche nella stessa cristianità orientale, che si divise in efesina e non efesina, calcedonese e non calcedonese. Non efesini sono i cristiani che fanno riferimento alla chiesa sira orientale, non calcedonesi sono i siri occidentali, gli armeni, i copti e gli eritrei. La «grande chiesa», cioè quella di tradizione calcedonese, sia greca che latina, chiamò nestoriani i primi e monofisiti i secondi, termini che, oltre a essere imprecisi, sono percepiti come offensivi dai diretti interessati.
Oggi si è fatta strada la coscienza che quelle controversie nacquero più a causa di fraintendimenti nell’uso e interpretazione dei termini teologici, che di vere e proprie divergenze nel modo di concepire la natura di Cristo. «In realtà, il linguaggio teologico delle due scuole era profondamente diverso e questo impediva una reale comprensione delle reciproche posizioni» leggiamo nel saggio di Paola Pizzi sui cristiani melkiti; mentre Alessandro Mengozzi, autore del saggio sulla chiesa sira, parla di una «frattura linguistica, culturale e politica tra il centro dell’impero bizantino e regioni periferiche, ma culturalmente e socialmente vivaci, come l’Egitto, la Siria, la Mesopotamia o l’Armenia».
E cita un passo di un teologo siro occidentale, che nel xiii secolo scriveva, con una perspicacia davvero sorprendente: «Dopo aver molto ponderato il problema, mi sono convinto che queste dispute dei cristiani fra loro (sulla cristologia) non riguardano nulla di sostanziale, ma piuttosto sono questioni di parole e termini, perché tutti confessano che Cristo nostro Signore è Dio perfetto e uomo perfetto, senza commistione, mescolanza e confusione delle nature».
Dopo sette secoli questa stessa convinzione ha ispirato le dichiarazioni congiunte di fede firmate da Giovanni Paolo ii e dai patriarchi della chiesa sira occidentale e della chiesa d’Oriente. Purtroppo, quelli che noi ora giudichiamo equivoci dovuti a consuetudini linguistiche diverse sono stati fonte di molti mali per i cristiani tutti. La presunzione di eresia ha inquinato i rapporti tra le chiese, aprendo un profondo solco d’incomprensione tra le diverse sponde del Mediterraneo.
Rende bene l’idea di quali siano state le conseguenze di questa divisione il fatto menzionato da A. Camplani e A. Elli nel saggio sulla chiesa copta. Essi ricordano che, dopo aver tolto la Palestina ai musulmani, i crociati confiscarono i beni dei cristiani orientali, che consideravano eretici, e impedirono loro l’accesso ai luoghi santi. Quando nel 1187 i crociati furono sconfitti dal Saladino e costretti ad andarsene, «i copti accolsero con gioia la riconquista di Gerusalemme, perché veniva così loro concesso di riprendere, dopo quasi 90 anni, i pellegrinaggi al Santo Sepolcro».

LA CONQUISTA ISLAMICA
Alla frattura dottrinale, nel vii secolo si aggiunse quella causata dalla conquista araba. Questa volta fu l’intervento di una forza estea a dividere tra loro le comunità cristiane. Il continuo stato di belligeranza tra la nuova potenza araba e l’Europa rese ancora più difficili i contatti tra una parte e l’altra del Mediterraneo, quando non li interruppe del tutto, e finì per isolare l’Oriente dall’Occidente cristiano, se si esclude il breve e controverso intervallo dei regni crociati.
Dalla metà del vii secolo, i cristiani che vivevano nei territori dell’Impero Romano d’Oriente, con l’eccezione della penisola anatolica, si trovarono soggetti a un potere teocratico, quello dei califfi, che assegnava loro una condizione d’inferiorità rispetto ai sudditi musulmani. Anche se ciò, in linea di principio non significava il divieto del culto, essere, o meglio, rimanere cristiani diventava oneroso, e non solo perché si era gravati di maggiori tasse rispetto a coloro che si erano convertiti all’islam.
Il rapporto tra le comunità cristiane e le autorità registrava continui alti e bassi: a periodi di convivenza pacifica si alternavano periodi di discriminazione, se non di vera e propria persecuzione. Ciò spiega la progressiva erosione del numero dei cristiani in terra islamica. Alla vigilia della conquista ottomana essi costituivano ormai meno del 10% della popolazione.
Paradossalmente, fu proprio l’arrivo degli ottomani, che fino alla fine del xvii secolo furono percepiti dalla cristianità occidentale come una minaccia alla sua sopravvivenza, a migliorare la vita dei cristiani in Oriente.
Sulla vita delle comunità cristiane influì positivamente il sistema dei millet istituito dal governo ottomano. Si trattava di una forma di autogoverno, che concedeva alle comunità religiose, ufficialmente riconosciute dalla Sublime Porta, una considerevole autonomia amministrativa. Questa nuova forma di organizzazione sociale diede ai cristiani maggiore stabilità e garanzie nei rapporti con le autorità islamiche e contribuì a una notevole ripresa demografica all’interno delle loro comunità.

RESISTENZA E ISOLAMENTO
Per i siri orientali l’isolamento dal resto dell’ecumene cristiano iniziò molto prima del vii secolo. La chiesa sira ebbe origine a Edessa, nell’alta Mesopotamia. In questa città già nella seconda metà del ii secolo è documentata la presenza di una vivace comunità cristiana, che si contraddistingueva per l’uso liturgico di una variante locale di aramaico.
Edessa si trovava all’estrema periferia dell’Impero Romano e una parte della comunità sira, quella orientale, che prese poi il nome di «Chiesa d’Oriente», si trovò ben presto a svilupparsi all’esterno dei suoi confini, nelle terre dei persiani, arcinemici di Roma. Ciò rese difficili i contatti con gli altri centri cristiani e ostacolò la partecipazione dei rappresentanti di questa comunità ai concili ecumenici. Costretta a contare sulle sue sole forze, la Chiesa d’Oriente si organizzò in totale autonomia, nella fedeltà al legame originario con la scuola di Antiochia e alla sua teologia duofisita.
Nonostante la precarietà in cui visse, seppe produrre uno straordinario slancio missionario, che portò i suoi monaci lungo le strade carovaniere fino in India, in Asia Centrale, in Mongolia e in Cina. Si pensi, ad esempio, che la fondazione della prima chiesa sira a Ch’ang-an, capitale della dinastia cinese dei T’ang, nonché punto di partenza della via della seta, risale al 638. Erano proprio gli anni in cui l’Impero Bizantino, da una parte, e quello persiano, dall’altra, stavano per essere travolti dalle schiere arabe.
Anche nei pochi casi in cui i cristiani in Oriente non si trovarono in condizione di minoranza tra fedeli di altre religioni, il loro destino non è mai stato facile. Le chiese etiope, armena e georgiana hanno rappresentato delle isole di cristianesimo in territori sempre più islamizzati.
Grazie alla sua posizione remota, lontana dal Mediterraneo e dalle grandi vie di passaggio, l’Etiopia riuscì a contenere l’espansione dell’islam, a prezzo, però, di un isolamento durato secoli. In Armenia e in Georgia il cristianesimo si affermò come religione nazionale dal iv secolo e si è mantenuto tale fino ai nostri giorni, ma ha dovuto opporre una strenua resistenza alla pressione dei vicini musulmani, cui gli armeni e, in parte, i georgiani, furono anche soggetti politicamente. La storia del cristianesimo in queste terre presenta un pesante bilancio di violenze e martirio.

RISCHIO ESTINZIONE
Leggendo questo volume, pagina dopo pagina, ci si rende conto di cosa abbia voluto dire essere cristiani in oriente. Rimanere nella chiesa è stata per gli orientali una scelta impegnativa, scomoda e mai scontata, ha spesso voluto dire vivere in condizioni d’inferiorità, con diritti limitati e limitate possibilità di sviluppo. Nonostante questo essi hanno saputo custodire intatta la propria fede e la bellezza delle loro liturgie.
La chiesa occidentale non può ignorare questo prezioso patrimonio di spiritualità, se non a prezzo di un suo enorme impoverimento. Il secolo precedente ha fatto molto per il riavvicinamento tra le chiese, non solo nella ripresa di contatti tra le gerarchie, ma anche in termini di reale conoscenza reciproca, dopo secoli di silenzi. Tuttavia, molto rimane da fare.
L’orizzonte dell’Occidente rimane ancora troppo autoreferenziale, e i cristiani non fanno eccezione, siano essi capi di stato o semplici cittadini. Spesso nelle questioni che riguardano l’Oriente, gli occidentali si muovono senza considerare quali conseguenze i loro interventi possono avere sul difficile equilibrio tra le minoranze cristiane e le società in cui sono inserite.
Quando papa Giovanni Paolo ii chiedeva accoratamente che al popolo iracheno fosse risparmiata l’esperienza di un’altra guerra, pochi capivano che il suo sguardo era rivolto con particolare preoccupazione alle comunità cristiane del Medio Oriente. Egli sapeva bene, infatti, che un conflitto avrebbe avuto su di loro gravi conseguenze, perché i cristiani sono visti come alleati dell’Occidente, con cui condividono la fede. La guerra ha provocato un vero e proprio esodo dei cristiani dall’Iraq e ne ha in pochi anni dimezzato la presenza nel paese.
Anche in condizioni di pace, i cristiani in Oriente rimangono a tutt’oggi un gruppo sociale tra i più vulnerabili. Le tensioni inteazionali e quelle intee ai rispettivi paesi si ripercuotono in modo particolare sulle loro comunità, spingendo molti a emigrare.
L’emigrazione verso l’Occidente, iniziata già a fine Ottocento, ha assunto in questi ultimi decenni proporzioni sempre maggiori ed è difficile prevedere un’inversione di tendenza, finché permangono le condizioni che spingono i cristiani ad andarsene: mancanza di libertà, mancanza di sicurezza personale e precarietà economica.
Il fenomeno è tale da far pensare all’estinzione dei cristiani, almeno in Medio Oriente. Se ciò accadesse sarebbe una perdita incalcolabile, non solo per il cristianesimo, ma anche per la stessa civiltà islamica, cui i cristiani hanno dato un contributo unico, nelle arti, nella letteratura, nel pensiero e nella modeizzazione.
Ci sarà, dunque, un futuro per le chiese in Oriente? È la domanda con cui si concludono alcuni dei saggi. Per i loro autori, come per chiunque abbia conosciuto e incontrato la realtà di queste chiese, pare impossibile che tutto ciò possa sparire. E allora si trova conforto nel loro passato, che le ha condotte fino a noi, pur tra infinite e dolorose prove; si trova conforto nei piccoli segni di cambiamento, che sembrano far intravedere l’avvento di tempi più benigni.
Ma anche questo non sarebbe niente, se non ci fosse la speranza, «forse la più mondana delle virtù teologali, quella intrecciata per natura alle vicende storiche di questo mondo e destinata con la fede a spegnersi a favore della carità nel mondo a venire» (A. Mengozzi). 


Di Biancamaria Balestra

Biancamaria Balestra




Sogni in catene

Vivere a Joaquim Gomes (Alagoas, Brasile)

Quindici giovani del gruppo «Amici di Joaquim Gomes» di Piossasco (To) hanno speso le loro vacanze aiutando le suore di San Giuseppe di Pinerolo a realizzare i loro progetti nella cittadina brasiliana: un’esperienza indimenticabile, a contatto con situazioni disperate e nell’impegno di solidarietà nella lotta silenziosa per rivendicare  diritti umani e dignità.

La BR101, nel tratto in cui attraversa lo stato di Alagoas, si riduce ad appena due corsie di marcia che, nella stagione delle piogge, si tempestano di buche enormi sotto il continuo passaggio dei lunghi camion che, lungo questa strada di 4.551 chilometri, attraversano il Brasile da nord a sud.
Percorriamo questa interminabile pista di curve, che si insinuano tra le colline, e arriviamo al bivio che ci porterà finalmente alla cittadina di Joaquim Gomes. A indicarci l’arrivo è un enorme cartello su cui, anche da lontano, si può leggere a chiare lettere il nome del paese e, appena sotto, la scritta: «Construindo con Ela», ossia «Costruendo con Lei».
Quel «Lei» è l’autocelebrazione di Cristina Brandão, donna senza scrupoli, arrivata all’improvviso nel paese pochi mesi prima delle elezioni amministrative e che ha trasformato il suo bagaglio di denaro in una scontata vittoria. Questa le ha permesso di acquistare, nel vero senso del termine, il titolo di sindaco, che da queste parti è, più che un incarico, un finanziamento con introiti assicurati, tramite un sistema di corruzioni e di deviazione di denaro pubblico conosciuto da tutti ma diffusamente impunito.
Joaquim Gomes sarà la nostra casa per più di un mese e sarà il nostro «campo base» nel viaggio tra le infinite realtà di contrasti, di ingiustizie e di diritti negati in questo Brasile in cui, ogni volta di più, aumenta il divario tra ricco e povero, tra progresso e arretramento, tra tecnologie e possibilità di accedere ad esse.
Le guide che ci accompagneranno nel capire questo mondo saranno un gruppo di donne che in questo paese ci vivono da anni e che da anni lottano per affermare la giustizia, i diritti e la dignità di ogni persona, tramite un’instancabile azione di rivendicazione e di promozione umana e l’annuncio del messaggio di speranza del vangelo. Sono le suore di San Giuseppe di Pinerolo, in parte missionarie italiane e, ormai in maggioranza, giovani e determinate suore brasiliane. Il loro lavoro è quello di cercare di rimediare alle carenze che nel paese colpiscono la parte più debole della popolazione; una popolazione che attualmente risulta composta dalle donne, da qualche anziano e da moltissimi bambini.

Di uomini a Joaquim Gomes se ne vedono davvero pochi; la maggioranza di essi, infatti, è costretta a emigrare in altre regioni dove la manodopera è più richiesta, finendo in uno stato di semi schiavitù, in lontane ed estese piantagioni di canna da zucchero, da cui, in molti casi, non riescono più a tornare, lasciando così alla propria sorte moglie e figli.
Nel solo anno 2007 da Joaquim Gomes sono partiti più di 3 mila uomini, su una popolazione di 22 mila abitanti, in cerca di un lavoro che permettesse loro di far sopravvivere le proprie famiglie; ma quasi sempre sono diventati vittime del meccanismo messo in atto dai fazendeiros, che, tramite esperti intermediari, riescono a incastrare migliaia di uomini rendendoli debitori dei loro datori di lavoro ancora prima di entrare in servizio. La strategia è molto semplice: a ogni lavoratore viene anticipato il denaro per i costi del viaggio, e per pagarsi il vitto, gli attrezzi di lavoro e il proprio sostentamento; a nessuno è permesso lasciare il posto di lavoro fino a quando non avrà ripianato il debito col padrone. Un impegno quasi impossibile, con un lavoro sottopagato. Anche se qualcuno riesce nell’impresa, rimane ancora il problema di acquistare il biglietto del viaggio di ritorno, che permetta loro di percorrere i tre giorni di pullman che separano il Mato Grosso (terra solitamente di destinazione dei lavoratori stagionali) dalle loro famiglie in Alagoas.

In assenza degli uomini, che raramente riescono a inviare denaro alle proprie famiglie, sono le donne che lottano per la sopravvivenza dei loro figli, portando avanti la casa e provvedendo alle loro necessità. Sono donne forti e provate dalla fatica giornaliera.
Fin dalle cinque del mattino le sentiamo passare per le vie, fuori dalla porta della casa che ci ospita; le vediamo scendere al fiume; in testa portano enormi bacinelle con i vestiti da lavare, in mano qualche pentola e attorno i figli più grandi con in braccio quelli più piccoli, pronti per il bagno nell’acqua torbida che scorre lenta tra le colline del paese.
Ancora prima dell’alba, gli uomini rimasti nel paese ci svegliano mentre, seduti in piazza, colpiscono con lunghe e forti strisciate del machete le pietre della pavimentazione, per preparare la lama alla lunga giornata nel taglio della canna. Poco dopo, passano vecchi pullman per caricarli e portarli nelle piantagioni, dalle quali toeranno soltanto quando farà notte. Dopo una giornata di lavoro, chi è più forte riesce a guadagnare di più, portando a casa appena un euro per ogni tonnellata di canna tagliata, sotto il sole cocente e con i vestiti che li coprono da capo a piedi per proteggersi dalle foglie taglienti.
Li si vede scendere dai pullman uno ad uno e diramarsi nei vari quartieri, con passo rapido, machete in mano e borraccia a spalle; raggiungono le loro case di fango dove, consumato un misero pasto, toeranno finalmente a riposarsi per riacquistare le energie da consumare nella dura giornata successiva.
Questa è la vita di un numero infinito di uomini, donne e bambini in centinaia e migliaia di paesi che sono sparsi, come Joaquim Gomes, nelle aree rurali di questa estesa regione del Brasile. E proprio da questa situazione siamo partiti e abbiamo potuto conoscere le altre differenti realtà che impregnano di contrasti questa terra.
Tuttavia abbiamo potuto scorgere, al tempo stesso, barlumi di intensa speranza, a partire dalle favelas della caotica capitale fino agli accampamenti di senza terra, isolati nella sperduta area del sertão.

La capitale dello stato di Alagoas è Maceio, città con circa 800 mila abitanti, che si estende a metà tra l’oceano e la laguna. Verso l’oceano sorgono i quartieri più ricchi, dove si trovano palazzi e alberghi di lusso, boutique di alta moda e design, ristoranti e club, palestre e scuole, dove autisti privati attendono i figli delle famiglie benestanti alla fine delle lezioni.
A pochissimi chilometri di distanza, verso la laguna, inizia invece l’ininterrotta serie di favelas dove migliaia di famiglie vivono in baracche costruite con pannelli di legno, cartoni, cartelli pubblicitari, lamiere e teli di nylon recuperati nelle aree circostanti.
Visitiamo una di queste favelas, quella di Sururù de capote, così chiamata dal nome del mollusco che vive nella laguna lungo la quale sono situate le baracche. Vediamo adulti e bambini che si immergono continuamente in acqua, anche per alcuni metri, e portano in superficie masse di fango putrido, mischiato alle conformazioni di molluschi che, portate a riva, vengono passate alle donne per la pulitura. Piegate sull’acqua, immerse fino alle ginocchia, esse passano giornate intere a scrostare questa specie di cozze, che, una volta ripulite, vengono vendute ai ristoratori di lusso per un prezzo irrisorio: un secchio pieno di tali molluschi, frutto del lavoro giornaliero di un’intera famiglia, viene pagato l’equivalente di un euro circa.
Ci accompagnano due giovani suore brasiliane, che operano in questo ambiente, e Vania, la coraggiosa leader della favela. Senza di lei è impossibile e, soprattutto, rischioso addentrarsi nei vicoli tra le baracche, che, oltre ad essere stretti da permettere il passaggio di una sola persona, sono spesso pieni di rifiuti e degli scoli delle fogne. Grazie a lei possiamo avere un’idea, anche se solo accennata e da osservatori, di cosa significhi nascere e sopravvivere da favelados in tali condizioni.
Presentandosi subito con il suo fare deciso e fiero, Vania ci racconta la sua storia: è nata nella favela; sin da ragazzina è stata coinvolta nei giri della droga, prostituzione e narcotraffico; ha avuto 12 figli, di cui sei morti prima ancora di nascere a causa della denutrizione e delle sostanze stupefacenti da lei assunte in gravidanza. Ma ora Vania è cambiata, il suo carattere e la sua voglia di lottare hanno fatto di lei una leader della favela: ha creato intorno a sé una comunità che si sostiene reciprocamente, forte nelle rivendicazioni per i propri diritti, superando la lotta di tutti contro tutti per la sopravvivenza in un crescente desiderio di rimanere uniti e solidali.
Mentre giriamo nella favela, Vania interrompe i suoi racconti per richiamare i bambini che litigano, per leggere un documento a un uomo analfabeta che chiede il suo aiuto e consiglio, per spiegare alla gente chi siamo; nel frattempo il suo sguardo è sempre attento nell’osservare e vigilare su ogni cosa che succede intorno.
Vania conosce la gente della favela e non ha paura di raccontarcene la vita: ci indica bambine di nove anni che, per un piatto di riso o di fagioli, si prostituiscono con i taxisti che passano nell’avenida, bambini drogati con la colla,  che tornano dal centro della città, dove hanno passato la giornata a vagare e a borseggiare i passanti; ci racconta la storia di una ragazza che, dopo anni di lavoro come domestica in una famiglia benestante, è stata licenziata appena i padroni hanno scoperto che viveva nella favela… E tante altre storie di discriminazione, attuate anche da parte del governo e istituzioni, che non permettono ai bambini di studiare, di essere protetti, di avere un futuro e sperare nelle minime opportunità.
Con fierezza ci racconta come la Caritas tedesca l’abbia mandata a Brasilia in aereo, lei, donna senza istruzione sempre vissuta nella favela, per denunciare davanti al governo le condizioni in cui vive la sua gente e rivendicare i diritti basilari.

Nella nostra visita siamo accolti in un’abitazione dove si consuma un altro dramma di sofferenza e disperazione. Un genitore, rimasto solo con due bambini piccoli, dopo aver perso la moglie e le figlie in morti violente, è costretto a sprangare la porta della baracca per impedie l’entrata alla figlia di 12 anni, poiché la ragazza, che vive in strada, ogni volta che torna a casa cerca di portare via qualcosa, oggetti o alimenti, per scambiarli con una dose di droga*.
Prima di lasciare la favela e salutare le frotte di bambini che ci hanno seguito nella nostra visita, ci aspetta l’incontro più inatteso. Nell’ultima baracca in cui siamo invitati a entrare ci attende infatti l’impatto con il paradosso più grande dell’amore materno, un incontro che, pur passando attraverso i nostri occhi, rimane incredibile per i nostri schemi mentali, sviluppati in un mondo che da qui sembra ancora più distante.
Sdraiato per terra, su un sottile pezzo di gommapiuma, Thiago, un ragazzo di 13 anni, ci accoglie subito con un sorriso di felicità, ma il suo sguardo è perso nei drammi di una vita bruciata da droga e violenza. Un suo polpaccio è avvolto da una grossa catena, chiusa con un lucchetto, che lo tiene legato al tavolo di casa.
La madre è al suo fianco e ci spiega che sono ormai venti giorni da quando ha deciso di tenere il figlio così legato per cercare in qualche modo di salvargli la vita. Thiago aveva solo nove anni quando cominciò a fare uso di crack e a essere coinvolto nei traffici di droga; ora, minacciato di morte a causa di conflitti e lotte tra bande, la sua vita è a rischio.
La madre è sicura che se il figlio uscisse di casa, sarebbe ucciso in brevissimo tempo. Per proteggerlo e per allontanarlo dalla droga, ha chiesto aiuto ai servizi sociali, ma non ha ricevuto alcun aiuto; per cui ha messo in atto una soluzione così drastica, già usata con la sorella e sperimentata da altre madri nella favela verso i propri figli.
Thiago ci racconta col sorriso in faccia la sua vita e, salutandoci, augura a se stesso di poterci vedere ancora; ci confida che vorrebbe andare in giro per il mondo, ma ammette con le sue stesse parole che tutto ciò rimarrà nei suoi sogni, confessando di essere ben consapevole che o a causa della droga o per mano dei suoi nemici la sua vita sarà davvero breve. 

Un ragazzo così giovane, ma con occhi e sogni privi di speranza, richiama alla mente tutti gli altri contrasti e sofferenze incontrate nella breve esperienza in Brasile. Il suo volto rimarrà scolpito in modo indelebile nei nostri ricordi, insieme al senso di impotenza e ingiustizia che si prova di fronte a certi drammi.
Eppure il sorriso di Thiago ricorda anche l’impegno di tante persone, come le suore Giuseppine e la signora Vania, che continuano nel loro servizio per dare vita e speranza a chi rischia di perderla, a chi non ne ha mai potuto godere pienamente, a chi, ancora così giovane, di tutto questo è stato derubato. 

Di Fabrizio Mola


* La ragazza di cui si parla è rimasta uccisa in una rissa fra ragazzi di strada alla fine di novembre 2008.

Come vincere le Elezioni

Il 5 ottobre 2008, Cristina Brandão ha vinto nuovamente le elezioni amministrative, riuscendo così a conquistarsi il secondo mandato da sindaco di Joaquim Gomes. Il successo è frutto di una campagna elettorale in cui la corruzione e l’illegalità hanno vinto ancora una volta. Ogni singola preferenza è stata infatti comprata giocando sulla miseria, sulla necessità e sull’inconsapevolezza della gente, che pur di ricevere una minima quantità di denaro, ha venduto il proprio voto al candidato disposto a offrire la somma maggiore. Tale pratica è molto diffusa nella regione ed è nota a tutti; ma a causa della paura raramente vengono denunciati i reati di corruzione; più raramente ancora alle denunce seguono processi e condanne.
Per avere un’idea dei soldi investiti nella campagna elettorale in un paese come Joaquim Gomes, con poco più di 20 mila abitanti, basta sapere che la signora Cristina Brandão ha venduto una delle fazendas (fattorie agricole) comprate durante il suo precedente mandato.
Tra i costi sostenuti vi sono quelli derivanti dalle numerose manifestazioni celebrative del sindaco stesso, dove, ad esempio, sono stati pagati centinaia di partecipanti per affollare le ripetute sfilate propagandistiche, in cui vigeva un tariffario ben preciso in base al tipo di partecipazione. Se si marciava a piedi, muniti di bandiera si riceveva infatti una certa somma di denaro; le tariffe aumentavano se si sfilava in bicicletta, in moto o in automobile.
Un altro «investimento» effettuato dal sindaco per le nuove elezioni è stato quello di iscrivere nelle liste elettorali di Joaquim Gomes decine di persone che vivono nei quartieri poveri della capitale dello stato. Il giorno delle elezioni, il sindaco ha poi gentilmente messo a loro disposizione un pullman per raggiungere il paese, consegnando a ciascuno una banconota da 50 reali (circa 20 euro) prima di recarsi alle ue. La stessa somma di denaro è stata offerta per comprare il voto delle persone che vivono nel paese. Per evitare, però, che questi elettori accettassero più volte il denaro, la candidata a sindaco ha pensato bene di contrassegnare le tessere elettorali di chi aveva già ottenuto il suo «pagamento», in modo che fossero riconoscibili dalla sua équipe.
Il giorno delle elezioni, però, è venuto alla luce questo fatto del contrassegno e le persone che avevano venduto il proprio voto, non si sono più presentate alle ue per paura di essere denunciate. Nei giorni successivi è stata quindi offerta loro una somma di denaro dieci volte superiore a quella ricevuta per il voto, al fine di comprare il loro silenzio. Il fatto fondamentale è però che, secondo la legislazione brasiliana, il voto è considerato obbligatorio. Per questo motivo attualmente le persone coinvolte in questa faccenda si ritrovano nel dilemma di pagare la sanzione per non essersi presentati alle ue o autodenunciarsi essendo rimasti implicati nell’operazione di acquisto e vendita dei voti.
Le denunce di corruzione sono state presentate al Tribunale elettorale locale, che ha avviato subito il processo, convocando la neoeletta e una trentina di testimoni. Adducendo un certificato medico, l’imputata non si è presentata alla prima udienza né a quelle successive, ma la giustizia ha fatto ugualmente il suo corso: venerdì 29 novembre il giudice della zona elettorale, Gilvan Santana, ha annullato l’elezione della Brandão, con l’interdizione per tre anni da ogni incarico pubblico. Una vittoria significativa e incoraggiante, almeno per il momento. C’è, infatti, il rischio che il ricorso al Tribunale elettorale dello stato di Alagoas possa annullare la sentenza.

Fa.Mol.

Fabrizio Mola




MISSIONE DIRITTI

Parlando ancora di diritti umani

Sulla scia di «Diritti e Rovesci», monografia sui diritti umani pubblicata
dalla nostra rivista lo scorso ottobre, due interviste per tener vivo l’argomento e illustrare due modi in cui i missionari della Consolata mettono questo tema nell’agenda delle loro attività di animazione e formazione.

Oggi:  lezione di diritti umani

Conversazione con Luca Lorusso, cornordinatore del «settore scuola» del Centro di Animazione missionaria di Torino.

Luca, facci un esempio del tuo lavoro di animazione e formazione ai diritti umani nelle scuole.
È da alcuni anni che propongo nelle scuole secondarie di primo e di secondo grado (le vecchie scuole medie inferiori e superiori) un percorso formativo dal titolo «I diritti dei minori», incentrato sulla «Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza» (1989). Insieme agli insegnanti, propongo ai ragazzi la lettura e l’elaborazione personale e di gruppo del testo del documento, offro un approfondimento su alcune violazioni di diritti e le loro cause e stimolo l’auto riflessione della classe su tale argomento. Ecco questo è un piccolo esempio di ciò che faccio.

Come è nato questo tuo interesse? Perché lo fai?
Sono un laico missionario della Consolata e mi occupo a tempo pieno di animazione missionaria. Benché già sporadicamente presenti nelle scuole attraverso testimonianze missionarie e incontri su popoli o paesi del cosiddetto Sud del Mondo, da qualche anno alcuni laici, tra cui il sottoscritto, hanno ricevuto il compito di pensare, progettare e attuare interventi di educazione alla mondialità didatticamente qualificati e metodologicamente innovativi che sfruttino le testimonianze di chi vive direttamente l’incontro con altre culture e i contributi dell’«esperto» in materia. Tutto ciò al fine di poter permettere un accesso ancora più ampio della missionarietà alle scuole.

Più concretamente, a chi ti rivolgi?
Da ormai quattro anni incontro bambini, ragazzi, adolescenti di ogni zona di Torino e della provincia, dalle zone «bene» a quelle più periferiche, dalla prima cintura cittadina, ai piccoli comuni della provincia, di ogni estrazione sociale e provenienza geografica.
I percorsi di educazione alla mondialità sviluppati in questi anni ci hanno permesso di approfondire molti degli aspetti sociali, culturali, ambientali che caratterizzano il mondo globalizzato in cui viviamo.
Avendo presente questo contesto proponiamo nuovi stili di vita ai bambini delle elementari attraverso fiabe e giochi che aiutano a entrare nelle storie dei prodotti di consumo. Per esempio, riflettiamo coi ragazzi sulla difficoltà di stabilire a priori se sia migliore la qualità di vita di un ragazzo italiano o di un ragazzo africano attraverso il confronto tra le loro due giornate tipo. Oppure, offriamo loro strumenti ed elementi critici per comprendere i meccanismi della comunicazione massmediatica e dei condizionamenti che ne derivano; approfondiamo con i ragazzi le cause storiche e attuali dell’impoverimento di gran parte della popolazione mondiale o della diffusione di epidemie.
Infine, condividiamo conoscenze e analisi sull’impatto ambientale del nostro stile di vita e sulle alternative possibili. Tutto per creare coscienza, allargare gli orizzonti, vivere in maniera libera e consapevole la nostra vita di tutti i giorni. Sono spazi importanti di comunicazione, condivisione e crescita nell’alterità, per molti ragazzi possibili soltanto in ambiente scolastico. Spero che chi sta pensando alla riforma della nostra scuola ne tenga conto.

E come parli dei diritti umani?
Direttamente o indirettamente, questo tema risulta presente in modo costante in tutti gli interventi: in qualsiasi incontro io faccia nelle scuole inevitabilmente arrivo a riflettere con i ragazzi sull’essere umano e sui diritti che, in ogni parte del mondo, vengono negati attraverso i vari tipi di violenza strutturale, economica, interpersonale, comunicativa.
I miei interventi cercano di far emergere quanto i ragazzi già sanno e l’esperienza che possono aver personalmente maturato di un determinato diritto.
Per educare ai diritti umani, quindi, non credo sia sempre necessario parlarne esplicitamente. L’umanità è lo sfondo, la passione e l’amore per essa, la voglia e la gioia di conoscerla in tutte le sue espressioni, l’impegno per sentirsene parte e per prendersene cura sono gli obiettivi a lungo e lunghissimo termine del mio lavoro nelle scuole.

E i giovani come rispondono alle tue provocazioni? Vedi il maturare di frutti nel tuo lavoro?
Come sempre accade in campo educativo, è molto difficile, se non impossibile, valutare a breve termine il raggiungimento di un obiettivo. Tanto più se la possibilità di relazione con i ragazzi si riduce a 6 o 8 ore distribuite su tre o quattro settimane.
Certamente però ci sono vari «segni» che aiutano a comprendere se un intervento abbia o meno qualche possibilità di lasciare un’impronta significativa nell’immaginario dei ragazzi oppure no. Innanzitutto, è di fondamentale importanza il coinvolgimento dell’insegnante e, possibilmente, la sua condivisione delle idee proposte nel percorso.
Occorre quindi la sua partecipazione attiva durante gli incontri, ma anche l’approfondimento che può offrire durante le ore di lezione della sua materia, in modo da aiutare la classe ad avere un approccio interdisciplinare a quanto riflettuto e a far sedimentare gli imput ricevuti durante il mio intervento in classe.
Altri segni sono, ovviamente, l’empatia e la partecipazione degli studenti stessi, oltre alla qualità dei dibattiti, delle riflessioni, la passione con cui a volte nascono confronti tra di loro e con me.
Spesso mi trovo stupefatto nel constatare quanto gli studenti siano sensibili e permeabili ai temi sociali, spesso mi trovo confermato nel pensiero che, nonostante la mancanza di informazione adeguata, o addirittura la presenza di informazione parziale, distorta, stereotipa e ideologica, i ragazzi desiderano profondamente un mondo migliore, non solo per se stessi, ma per tutti. Desiderano vivere una vita più umana, più sobria di quella proposta dai modelli dominanti, desiderano autenticità in un mondo che non fa altro che proporre amori, felicità, promesse, soddisfazioni inautentiche.
Se nei ragazzi non ci fossero questi semi di amore per la vita e per il mondo, anche quando sconosciuti a loro stessi, il mio lavoro di animazione missionaria nelle scuole sarebbe vano. Proprio perché questi semi ci sono il mio lavoro si incardina con qualche speranza nel più ampio lavoro che la chiesa e la società devono fare con i più giovani: educare, cioè tirare fuori l’umanità grande che si dibatte dentro di loro e aiutarli a darle forma.
A parte qualche caso isolato ho sempre avuto la fortuna di trovarmi di fronte bambini, ragazzi, giovani, insegnanti pieni di umanità e pieni di voglia di imparare qualche trucchetto nuovo per approfondirla, al contrario di ciò che i mass media vogliono farci credere sulla scuola e sulle giovani generazioni, e per fortuna ho sempre trovato persone che non avevano bisogno di un maestro che, in quanto «esperto», arrivasse a dispensare sapienza e buone maniere da acquisire a scatola chiusa e seduta stante, ma di una persona semplicemente capace di mettersi in ascolto e di proporre condivisione.

C’è un argomento fra quelli che presenti che va per la maggiore?
Uno dei temi che certamente suscita maggiore partecipazione e passione è il tema degli immigrati, soprattutto nei periodi in cui l’informazione nazionale spinge molto sui tasti dell’emergenza e della sicurezza. In questi casi, i condizionamenti della comunicazione di massa diventano particolarmente evidenti e le polarizzazioni rischiano spesso di assumere i connotati dei dibattiti televisivi in cui parlare non significa necessariamente essere ascoltato e ascoltare. Questo permette di stimolare dinamiche utili ad educare i ragazzi alla gestione di una discussione sempre, aperta alla modifica delle proprie opinioni, piuttosto che alla chiusa contrapposizione.
Ad ogni buon conto, il grande tema dei  diritti umani trova sempre terreno fertile, un terreno in continua mutazione, un terreno «liquido» che richiede sempre nuovi metodi di semina, ma pur sempre terreno adatto a far crescere piante (forse diverse da quelle che ci aspettavamo) che poi daranno frutti (forse diversi, forse migliori di quelli che avremmo voluto gustare).

Ci vogliono visione e metodo

Conversazione con padre Giovanni Scudiero, membro del direttivo internazionale di Pax Christi, e cornordinatore della Commissione Giustizia e Pace della Regione italiana dei missionari della Consolata.

Diritti umani violati, diritti umani promossi. Da sempre te ne sei occupato nel corso della tua esperienza missionaria, spiccatamente orientata alla promozione della giustizia e della pace. Dove nasce l’interesse alla pace nel vostro istituto, oltre che dal vangelo, ovviamente?
Secondo le sensibilità proprie di ciascuno, si possono dare mille risposte a questa domanda, dalla più spiritualista a quella più marcatamente orientata allo sviluppo. Credo, però, che anche su questo tema meriti in qualche modo rifarsi al nostro fondatore e all’eredità spirituale che ci ha lasciato.
Mi riferisco in modo particolare a una visione iniziale e quindi a un senso della missione che nel beato Allamano porta a universalizzare il senso di frateità, ad allargae i confini, non limitandolo esclusivamente alla città di Torino dove ha esercitato praticamente tutto il suo ministero sacerdotale, ma esportandolo all’Africa, al mondo.
C’è in questo sguardo ampio una premessa fondamentale per un discorso sui diritti umani: di uguaglianza, di comunione, di solidarietà, di frateità universale. E questo discorso si radica nel suo essere cristiano, un cristiano impegnato in modo specifico, ministeriale, nel servizio agli altri, a tutti gli altri, e quindi aperto alla missione. La sua espressione di solidarietà universale è, secondo me, una versione ante-tempus di quello che diventerà poi nel nostro istituto il discorso sui diritti umani. Abbiamo tutti diritto alla vita e fondamentalmente questo diritto nasce dal nostro essere uguali, di pari dignità; tutto ciò a prescindere da ogni differenza di tipo etnico, geografico o culturale.
Il diritto alla pari dignità è un concetto che diventa totalmente insignificante se rimane un concetto astratto e non è vissuto nella reciprocità… senza trasformarsi in una maniera concreta di relazionarsi. Direi che nell’Allamano è importante questa visione iniziale, ma ancor più significativo è il metodo che ne deriva.

A cosa fai riferimento quando parli di metodo?
Il fondatore risponde da cristiano a questa esigenza di solidarietà: si organizza e soprattutto si cerca un collaboratore, nella persona del canonico Camisassa, che sembra avere doti straordinarie in certi aspetti più pratici, su un piano più umano e di sviluppo. L’Allamano non si va a scegliere un filosofo, un teologo, o un padre spirituale: va a cercare quello che lui sa in qualche modo di non essere, o di non essere a sufficienza.
Si completa, scegliendosi una persona capace di interagire con la realtà concreta, dedicando tempo e cura al dettaglio dell’opera che l’Allamano aveva in testa. Questo sodalizio è stato in grado di compiere un’operazione fondamentale: leggere la realtà, i fatti, intuire e poi capire che tipo di struttura organizzativa fosse necessaria per svolgere l’azione pastorale ed evangelizzatrice, tanto in Italia quanto in missione.

Questo metodo consisterebbe dunque soltanto nella scelta, diciamo così, del «personale»?
Certamente no. Il fatto che lui si scelga questo tipo di collaboratore, riconduce secondo me a un’idea centrale nell’Allamano, che  ancor prima di inviare gente in missione aveva ben chiara in mente: l’importanza di formare la persona prima di fare e formare il cristiano.
Ci sono tanti aspetti della vita del fondatore, tante scelte da lui fatte, che sottolineano questa sensibilità che lui ebbe. Pensiamo, per esempio, alI’affetto speciale che ebbe per i fratelli coadiutori, quei religiosi che dedicano la loro vita in modo particolare al lavoro e quindi all’edificazione dell’ambiente. O ricordiamo anche soltanto l’enfasi che pose sul lavoro, e soprattutto il lavoro manuale, come criterio formativo per i suoi missionari e le sue missionarie. Il «prima uomini e poi cristiani» non è assolutamente un concetto periferale nel fondatore.
Fondamentale, ripeto, è la sua capacità di leggere la realtà, tanto qui in Italia come in Africa, in modo da orientare le proprie risposte verso obbiettivi mirati.
È interessante notare come, mediante i corsi del convitto ecclesiastico, forma i giovani preti diocesani attraverso, anche, l’organizzazione di corsi di morale, sociologia, politica, per prepararli a rispondere alle esigenze più svariate in modo coerente ai bisogni espressi dal territorio. Per non parlare dell’attenzione data al mondo della comunicazione, dei media diremmo oggi.
Questo stile lo applica a maggior ragione per i suoi missionari, che dovranno guardare la realtà con delle prospettive più ampie.
Con loro instaura un rapporto formativo basato sul dialogo. Non soltanto si sente maestro nei confronti dei missionari che invia, ma egli stesso vuole imparare, vedere, conoscere. Vuole capire come una visione possa diventare realtà attraverso delle scelte concrete. Sa di non aver sempre la risposta pronta di fronte a una determinata esigenza o a una certa sfida e la consapevolezza della giustezza o meno di un criterio da applicare gli viene  proprio dalla comunicazione costante con i missionari che lavorano sul campo, attraverso i loro diari e la loro corrispondenza: lettere dove lui viene a riflettere, pregare, disceere le scelte che verranno fatte, dando a una visione di missione una storia concreta.
Voleva sapere tutto di tutti, si informava sull’andamento degli incontri, sulla situazione delle persone, voleva conoscere i nomi. Questo radicarsi profondamente nella storia locale, nella fattualità e nelle problematiche della gente dà vita a un annuncio incarnato in un contesto storico, rispondente in primis alla situazione di vita della gente.

Una missione, quindi, improntata tantissimo sull’ascolto dell’altro…
Sì. Del resto tantissimi testimoni ricordano la capacità di ascolto del nostro fondatore. Questa dell’ascoltare era una prassi che lui esercitava e che  pretendeva nel limite del possibile che fosse praticata anche dai suoi missionari. Purtroppo, noi missionari non siamo così capaci di coltivare sempre questa mentalità di ascolto. Non sempre riusciamo a inserirci in un contesto storico concreto con gli «occhi vergini», ovvero senza pregiudizi, con la pazienza di inserirsi, ascoltare chi ne sa più di noi: gli anziani del posto, il confratello più esperto, ecc.
Anzi, penso che questa nostra poca attenzione dedicata all’ascolto è quello che ci sta bloccando soprattutto nel nostro ad gentes oggi in Italia, nel nostro fare missione qui, da dove siamo partiti. Chi sono le persone in Italia che noi siamo pronti ad ascoltare? 
Oggi poi, sentiamo l’esigenza di «aguzzare l’orecchio» e dare al nostro ascolto una dimensione più ampia, che ci permetta di andare oltre la metodologia usata finora: quella della lettura concreta di una realtà al fine di rispondere a bisogni concreti e localizzati. Con il tempo siamo arrivati a capire i profondi legami che legano il locale con il globale, a cercare le radici di un problema che sembra riguardare una singola comunità in un contesto ben più ampio.
Di fronte a un problema di mancanza di risorse in un determinato posto è giusto intervenire offrendo una mano tesa e un aiuto immediato pratico. Ma è anche fondamentale farsi, e fare anche in giro, qualche domanda sul perché di un servizio e o di un bene negati a una comunità che ne avrebbe diritto.
E questo lo si fa?
Non sempre. Del resto, ciò che più o meno da tutti si tende a fare è dare risposte semplici e immediate ai problemi concui dobbiamo quotidianamente confrontarci nella vita di missione. Manca l’ospedale, facciamo l’ospedale… Sono risposte semplici anche se, non nego, richiedono risorse e fatica. Sono semplici nella loro analisi e nella loro conclusione.
Nella nostra storia missionaria non sempre abbiamo sottolineato l’importanza di una riflessione e un’analisi che penetrassero più in profondità, toccando non soltanto gli effetti di un problema, ma sfidandone le cause. Molte volte, la fretta e l’urgenza di risolvere un bisogno pratico (o quello che  noi percepivamo come tale) ci ha distolto dal dovere di andare alla radice del nostro agire, alla ricerca delle vere cause, magari per il timore di imbarcarsi in percorsi verso i quali non ci sentivamo sufficientemente attrezzati e preparati. 
Oggi, invece, ci rendiamo conto che quelle risposte superficiali, isolate da un contesto culturale o non rispondenti alla sfida sociale che mette in pericolo o ferisce una comunità,  rischiano di essere semplici cerotti su ferite che diventano sempre più grandi e profonde.
Una promozione umana, seria, radicata in un contesto, che si pone prospettive di futuro alternativo non può, oggi come oggi, prescindere da un lavoro di coscientizzazione e formazione sui diritti fondamentali della persona; lavoro che in alcuni casi può anche assumere il ruolo di grido profetico e di denuncia. Significa dare alle nostre risposte uno sguardo più ampio, che non si fermi allo specifico problema locale, ma guardi più in là, alle radici del problema.
Senza questo sguardo e alla domanda di giustizia che ne deriva le nostre opere ci renderanno necessariamente eterni. La gente continuerà a dipendere dal missionario capace di trovare soluzioni ai loro problemi più immediati, problemi che si rigenereranno in continuazione e avranno bisogno di sempre nuovi interventi, aggiustamenti, perfezionamenti e manutenzioni. 

a cura della redazione




Cari missionari

Diritti di tutti e per tutti…

Egregio Direttore,
ho letto la dichiarazione dei diritti umani. Ritengo che a detta dichiarazione manchi qualcosa, una specie di principio, come filo conduttore di tutto quello che è possibile enunciare sui diritti umani. Ad esempio: «Ogni individuo nasce come titolare di tutti i diritti di questo mondo, ma ha pure il sacrosanto dovere di acquisire la capacità a esercitare un qualsiasi diritto ed esercitarli anche nel pieno rispetto dei diritti di ogni altro individuo».
Il discorso sarebbe alquanto lungo, ma mi fermo a questo piccolo principio. Cosa ne dite ?
Lucio Di Martino
Aosta

La Dichiarazione universale dei diritti umani ha sempre bisogno di essere completata con nuovi principi e proposte, ma soprattutto di essere implementata da tutti e per tutti gli esseri umani.

«Monti sacri» e alpinismo estremo

Cari missionari,
dopo un’estate funestata da una sequenza tragica di incidenti in alta montagna (Himalaya, M. Bianco…) c’era proprio bisogno di un articolo come «Monti sacri» (M.C. 9/2008 pag. 10-14).
C’è bisogno che qualcuno ci ricordi che le montagne, tutte le montagne, sono opera di Dio, create per unire e riappacificare, non per dividere o esasperare rivalità, tensioni, conflitti, guerre.
È ora di finirla con certa letteratura, che si ostina a parlare di «Montagne del diavolo», con l’alpinismo estremo, dove vince chi arriva prima o più in alto, con maggior frequenza o consumando la minor quantità di ossigeno delle bombole, sfidando le condizioni atmosferiche più avverse e l’anagrafe.
A questo alpinismo, che mi rifiuto di considerare come attività sportiva gradita a Dio e conforme al vangelo, preferisco di gran lunga l’alpinismo non competitivo, dove contano poco o nulla arrivare primi, il cronometro, il termometro e l’altimetro, mentre contano molto arrivare insieme, arrivare tutti e in buone condizioni di salute; arrivare senza aver deturpato l’ambiente montano con escrementi, plastica, scatolame e rifiuti vari.
Alle scalate dell’Everest, del K2 e altri «ottomila» che tanto fan parlare (e litigare…) scalatori, commentatori, scienziati, sponsor e governi nazionali, preferisco le iniziative di alpinismo sostenibile, come quelle intraprese da Carlo Alberto Pinelli, con la sua Mountain Wildeess in Afghanistan, martoriato da decenni di guerra.
Con lo slogan «dal kalashnikov alla picozza», Pinelli e i suoi amici, italiani e afghani, stanno offrendo un’opportunità di riscatto a giovani e meno giovani, indicando una via d’uscita a chi fino a ieri non vedeva altra possibilità di affermazione al di fuori delle armi e dell’oppio; e stanno dando anche una lezione di stile a chi, sclerotizzato nell’adorazione degli «ottomila», sembra incapace di accorgersi di ciò che accade un po’ più giù…
Apriamo occhi e orecchie e ascoltiamo i richiami di naturalisti e alpinisti poco famosi, ma che con tanta umiltà e pazienza stanno costruendo una speranza per le nuove generazioni e rimediando ai danni pedagogici ed ecologici fatti dai loro già celebrati colleghi.
Luciano Montenigri
Fano

«Monti sacri» settimane bianche

Cari missionari,
spero vivamente che l’articolo di G. Casiraghi sul significato religioso della montagna (M.C. 9/2008 pag. 10-14) arrivi in tante scuole e venga letto da docenti, alunni e genitori.
Sappiamo tutti che nelle scuole, specie alle superiori, montagna è uguale a settimana bianca: tanti la bramano, la raccomandano, la esaltano; ma sono tanti anche quelli che invece la boicottano… Questi partono dal principio che nella scuola non deve esserci alcuna discriminazione, mentre la settimana bianca le discriminazioni le crea, perché è un lusso che molti non possono permettersi: più di 500 euro per 7 giorni, senza contare il costo degli sci, vestiario ecc… Per cui la settimana bianca non è certo fattore di unione tra gli alunni, tra i genitori, gli stessi docenti.
Secondo me, però, ci sono altri due motivi per dire «no» alle settimane bianche, o almeno rivedee la modalità di approccio.
Il primo riguarda l’impatto ambientale. Negli ultimi anni turismo sulla neve e sport invernali sono aumentati in maniera esponenziale, diventando un fenomeno di massa. Da tempo i naturalisti ammoniscono che le montagne non sono in grado di reggere l’impatto di tale invasione: contrariamente a ciò che molti pensano, quelli montani sono ecosistemi assai fragili; per esempio, riflettiamo mai sul fatto che rifiuti e immondizie abbandonate a 2-3-6 mila metri di altitudine hanno dei tempi di decomposizione e riciclo incomparabilmente più lunghi di quelli rilevabili in pianura?
Il secondo motivo riguarda l’incolumità personale, sempre più a rischio su certe piste. Tutti vogliono cimentarsi nelle discese libere, fare snowboard, andare in motoslitta, alla ricerca di emozioni sempre più forti, col risultato che ogni anno si contano decine di morti e migliaia di incidenti e infortuni che pregiudicano la possibilità di riprendere una vita normale.
In Svizzera – dove nel 2007 ci sono stati ben 70 mila incidenti e nel solo mese di dicembre le squadre di soccorso con elicotteri hanno compiuto 300 missioni, con un costo di 150 milioni di euro – è stato introdotto lo skivelox. In Italia, dall’1-1-05, c’è l’obbligo del casco per gli under 14 (pena la multa da 30 a 150 euro) e di strumenti elettronici per i fuoripista.
Chiaramente però questi sono palliativi o poco più: la cosa più importante è educare le persone, in particolare i giovani, al rispetto di se stessi, degli altri, della natura. Voglio dare un consiglio alle autorità scolastiche, a cominciare dal ministro dell’Istruzione: prima di organizzare altre settimane bianche, le scuole invitino i volontari di Mountain Wildeess, si facciano dire da loro i rischi che il pianeta corre per colpa dell’accanimento sciistico, sia invernale che estivo.
Si facciano anche spiegare i motivi per i quali, negli ultimi 150 anni le nostre «madri delle acque» (così Mountain Wildeess chiama i ghiacciai) hanno visto la loro superficie ridursi del 33% e il loro volume diminuire di quasi il 50%, «trafitte da tralicci metallici, costellate di grandi rifugi-alberghi, solcate da cavi metallici e mezzi battipista che ne sconvolgono gli equilibri, spostando ingenti masse nevose in una triste gara per assicurarsi gli ultimi profitti prima della definitiva scomparsa delle nevi perenni…».
Francesco Rondina
Fano

«CHE SULUKULE VIVA!»

La Sulukule Platform, una vasta associazione composta da Ong, professori, volontari, giornalisti, commercianti e residenti del quartiere, ha aperto recentemente un Centro per bambini a Sulukule. In mezzo a tutte le macerie, detriti e sporcizie lasciate dalle ruspe e sfidando tutte le voci e gli annunci sulla fine di Sulukule, la Piattaforma continua a lavorare per la gente e i bambini del quartiere.
Al motto «che Sulukule viva», la Piattaforma vuole con ogni mezzo mostrare al mondo e al comune di Fatih che, nonostante le tante case demolite e le tante persone costrette a sgombrare, Sulukule rimarrà finché ci sarà l’ultima persona e arderà l’ultima lampada. L’apertura del Centro ha voluto dimostrare che ci sono bambini a Sulukule!
Lo scopo principale del Centro è aiutare i ragazzi a liberarsi dal trauma subito fin dall’inizio della cosiddetta riqualificazione del quartiere. Non sapendo quando le loro case saranno demolite, il rumore di ogni macchinario è un allarme spaventoso per le loro tenere orecchie. Molti hanno smesso di andare a scuola: hanno paura che, al ritorno, non troveranno più la loro casa, come se fosse in loro potere arrestare il processo di distruzione.
Nel Centro hanno luogo ogni attività, senza alcuna obbligazione: i bambini possono scegliere ciò che piace loro. Arti plastiche, dramma, giochi all’aperto, con giocattoli Lego e puzzle, lezioni di lettura e scrittura… sono alcune delle attività guidate dai volontari. Lo scorso agosto, guidati da un attore professionale, i ragazzi hanno rappresentato per ben 5 volte il dramma di Giulietta e Romeo, ambientato a Sulukule; ed è stato vero successo.
Nel Centro opera anche un ufficio di consulenza per i residenti di Sulukule per trattare relazioni e problemi con la municipalità di Fatih. I volontari redigono petizioni o danno consigli e assistenza legale, provocando anche cause giudiziarie contro la municipalità per le violazioni dei diritti umani. Grazie alla Piattaforma, Sulukule vive e speriamo che possa vivere e che lo lascino vivere.

Speriamo che si riesca a fermare anche le altre ruspe che  stanno facendo milioni di senza tetto in tutta Istanbul. A Kucukcekmece-Ayazma circa 2.500 famiglie sono state sfrattate e rilocate a Bezirganbahce; espropriate senza compenso, si sono indebitate e ridotte in miseria; 18 famiglie, senza denaro e senza un luogo dove andare, sono vissute in tende tutto l’anno.
La costruzione dello stadio olimpico proprio vicino ad Ayazma, ha avviato l’esodo dei residenti del quartiere, prevalentemente famiglie provenienti dall’est e sud-est della Turchia, di origine kurda; le abitazioni saranno ristrutturate per fae prestigiose ville per gli eventi olimpici.
La stessa sorte incombe sulla popolazione rom di Sulukule, perché il terreno è cresciuto molto di prezzo negli ultimi anni. Così i residenti di Sulukule, ivi presenti fin dai tempi di Bisanzio, devono dire addio non solo alle loro case, ma anche alla loro cultura e modi di vita. Anche Tarlabasi, altro distretto condannato al processo di trasformazione, attende la stessa sorte. Sembra tuttavia che la gente di Tarlabasi, guidata da una Ong locale, non lascerà la scena tanto facilmente: i residenti di questo quartiere hanno imparato bene la lezione da Ayazma e Sulukule e hanno cominciato a fare causa in tribunale con l’aiuto di bravi avvocati.
In tutta la Turchia e specialmente a Istanbul, i distretti di riqualificazione urbanistica, uno per uno si stanno organizzando e lottano con ogni mezzo contro tale processo, con la disobbedienza civile e citazioni giudiziarie, visite al parlamento e ai deputati, con qualsiasi altro mezzo utile.
I distretti di Istanbul si sono organizzati in un’unica grande coalizione (Istanbul Districts Platform) e hanno cominciato ad agire insieme. Turchi, rom, kurdi, siriani… differenti per etnicità, religione, affiliazioni politiche… ora sotto tutti mano nella mano contro le ruspe! Speriamo che abbiano successo e che trionfi «il diritto alla casa e residenza».
Cihan Baysal

Con questa lettera la signora Cihan Baysal, ricercatrice nel campo dei diritti umani per la Istanbul Bilgi University, ci offre un aggioamento sulla situazione della gente di alcuni quartieri di Istanbul, di cui Missioni Consolata ha raccontato nei numeri di maggio e giugno 2008.




L’utopia continua …

Ai lettori

Il titolo della storica Agenda Latinoamericana per l’anno 2009 è sicuramente curioso e stimolante: «Verso un socialismo nuovo – l’utopia continua». Il pubblico che da anni segue fedelmente questa pubblicazione sa bene che l’Agenda è in realtà ben più che uno strumento per segnare e ricordare appuntamenti, ma una vera e propria antologia di articoli (strutturati da sempre sul classico schema vedere-giudicare-agire), uno strumento ecumenico di analisi, riflessione e denuncia evangelica al servizio delle vittime della storia. Titolo stimolante, si diceva, per i due termini, volutamente associati, che lo compongono.
Innanzi tutto socialismo. Fa una certa impressione ritrovarlo nuovamente sdoganato in forma esplicita, dopo esser stato screditato a più non posso in questi ultimi anni. Gli interventi parlano di «nuovo» socialismo, di rinnovato immaginario socialista, di socialismo alternativo. Che cosa sia questo socialismo e la sua valenza politica saranno da verificare a vari livelli, iniziando proprio dall’applicabilità di tale concetto allo stesso contesto del continente sudamericano. Resta infatti da dimostrare quanto l’apertura a sinistra di quasi tutti i suoi paesi più importanti (ad eccezione della Colombia) sia rappresentativa di o possa dialogare con questa nuova visione di socialismo che nasce dal basso, dai movimenti, dalle minoranze etniche e sociali e che non si lega in prima istanza a partiti politici tradizionali.

C’è da stare curiosamente in attesa. Il Sudamerica, oggi, è ansioso di proporre una nuova narrazione del mondo, quasi volesse offrire ai cinque continenti un piccolo assaggio di speranza latinoamericana, un «Yes, we can» che non sia soltanto uno slogan elettorale, ma un tentativo di risposta concreta ai grandi problemi che affliggono oggi l’umanità, in tutto il pianeta, non solo a Sud della Califoia.
È l’«utopia che continua». Quella utopia che, come scriveva a suo tempo Est Bloch, «non è fuga nell’irreale; è scavo per la messa in luce delle possibilità oggettive insite nel reale e lotta per la loro realizzazione». È speranza, tensione dell’umano verso un mondo altro, migliore, una forza che manterrà la sua attrattiva e la sua vera carica rivoluzionaria nel momento in cui non si asservirà ai poteri forti, ma continuerà ad essere la lotta dei piccoli, dei poveri, delle vittime e di coloro che ad essi dedicano la vita: nient’altro che la logica del Regno di Dio.
Anche di ciò si parlerà senz’altro nel Forum Sociale Mondiale e, soprattutto, nel Forum Mondiale di teologia e Liberazione che si terranno a Belem, nel Nord del Brasile, alla fine di questo mese. Speriamo che dagli stimoli amazzonici arrivi, magari con qualche corrente atlantica, una ventata di freschezza per la nostra stanca Europa e la sua ancor più stanca chiesa, entrambe, mi sembra, con molti problemi e ben pochi sogni nel cassetto. Chissà che, tenendo occhi, orecchi e cuore ben aperti ai segni dei tempi, non si possa trovare anche noi la nostra «agenda», etimologicamente: «Ciò che c’è da fare» per dare alla speranza anche un minimo di direzione.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Antiochia: dove Paolo impara a fare il missionario

2000 anni dalla nascita di san Paolo

«Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani» scrisse un grande oratore africano dei primi secoli cristiani, Tertulliano, osservando quanto succedeva ai suoi tempi. Questo è ben visibile anche negli Atti degli Apostoli. Dopo la lapidazione di Stefano e conseguente persecuzione contro i discepoli di Cristo, alcuni di essi, per evitare il peggio, fuggirono fino ad Antiochia di Siria (At 11,19), terza città dell’impero romano, dopo Roma e Alessandria, sede del governatore romano, con circa mezzo milione di abitanti greci, siriani, ebrei; incrocio di razze, culture, religioni.
La persecuzione di Gerusalemme è come un vento che investe un giardino di fiori e dissemina il polline lontano. Questi cristiani profughi da Gerusalemme erano così entusiasti della loro fede che anche ad Antiochia continuarono non solo a praticarla, ma anche a diffonderla attorno a sé. Dapprima solo tra ebrei là residenti. Alcuni che erano di Cipro e di Cirene in nord Africa, però, cominciarono a parlare di Gesù anche ai non-ebrei, ai pagani. «Si misero a predicare anche ai pagani, annunziando loro il Signore Gesù. La potenza del Signore era con loro, così che un gran numero di persone credette e si convertì al Signore» (At 11,20-21).
La predicazione del vangelo ai pagani è un passo molto importante nella crescita del cristianesimo: apre una nuova strada. Infatti agli inizi i cristiani di Gerusalemme erano tutti di origine ebraica e sembra pensassero che Gesù era venuto solo per gli ebrei. Fu l’entusiasmo di questi cristiani originari di Cipro e Cirene (abituati cioè a vivere la loro fede ebraica in un contesto più internazionale, a contatto coi pagani) ad aprire l’evangelizzazione verso i non-ebrei (greci o pagani).
In seguito sarà soprattutto Paolo a continuare tale missione; ma è bene notare che l’inizio della missione tra i pagani fu opera di cristiani semplici, senza alcun mandato speciale degli apostoli, ma solo in forza della loro fede; così pure non si sa chi per primo abbia portato la fede cristiana a Roma: con tutta probabilità furono marinai, commercianti, schiavi, che venendo dall’Oriente per primi condivisero la loro fede nella capitale dell’impero; Pietro e Paolo arriveranno più tardi e consacrarono la chiesa con il loro martirio.
Non occorre alcun titolo speciale per essere missionario. La chiesa è sana soltanto se i suoi laici sono evangelizzatori, nella famiglia, nel posto di lavoro, nella vita sociale. I primi e più efficaci missionari sono i genitori cristiani, i quali trasmettono la loro fede ai propri figli con parole e con l’esempio. La chiesa cattolica in Corea fu iniziata da un gruppo di laici che avevano conosciuto la fede cattolica da contatti con studiosi cinesi. In Giappone decine di migliaia di cattolici conservarono e trasmisero la fede ai loro figli, pur essendo rimasti senza sacerdoti per 200 anni.

Frattanto la comunità di Gerusalemme viene a conoscenza che ad Antiochia vi sono alcuni credenti in Gesù. Per raccogliere informazioni di prima mano su quanto sta avvenendo, viene mandato Baaba, un cristiano di ampie vedute e grande empatia. Contento di quanto vede, egli incoraggia la giovane comunità a restar fedele al Signore e si ferma per aiutare nell’evangelizzazione. Vedendo il grande lavoro, ha un colpo di genio e pensa di chiamare un aiutante, Saulo di Tarso col quale per un anno e mezzo lavorerà ad istruire la comunità. La risposta dei pagani è così entusiasta che il gruppo di credenti in Gesù si impone all’attenzione dell’ambiente circostante: «Proprio ad Antiochia, per la prima volta, i discepoli furono chiamati cristiani» (At 11,26).  
In seguito giungono ad Antiochia informazioni sulla carestia che ha colpito la Giudea e quindi i cristiani di Gerusalemme. Con generosa solidarietà la comunità di Antiochia manda aiuti ai fratelli di Gerusalemme: «I discepoli allora decisero di mandare soccorsi ai fratelli che abitavano in Giudea, ciascuno secondo le sue possibilità. Così fecero: per mezzo di Baaba e Saulo mandarono i soccorsi ai responsabili di quella comunità» (Atti 11,30-31).
Questo quadretto della nascita della chiesa di Antiochia è un giorniello nel rappresentare cos’è la chiesa. La comunità nasce su iniziativa di credenti perseguitati che hanno il coraggio di andare oltre gli usuali confini geografici e culturali: parlano di Gesù ai pagani. La chiesa di Gerusalemme viene in soccorso a questa giovane comunità, mandando Baaba segno di comunione con Gerusalemme e missionario capace di comprendere e istruire. Baaba a sua volta cerca l’aiuto di un altro potenziale grande missionario, Saulo. Conseguenza di tale azione comune è la crescita della comunità che viene ora notata e chiamata per nome anche dall’ambiente esterno, «essi sono i cristiani». Conoscendo la difficoltà di Gerusalemme, la comunità di Antiochia manda aiuti: solidarietà, scambio di doni. Da Gerusalemme è arrivata la fede, a Gerusalemme arriva l’aiuto finanziario in tempo di difficoltà. Comunione di fede vuol dire anche comunione di beni.

È anche notevole che Saulo, qui ad Antiochia, per la prima volta fa il missionario in team con Baaba. Come non vedere in questo la sua preparazione, il suo tirocinio per la missione universale cui sarà inviato proprio dalla chiesa di Antiochia?
«Mettetemi da parte Baaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati» (Atti 13,1-4). Sarà la comunità di Antiochia che manda Baaba e Paolo in missione e tutti i viaggi missionari di Paolo inizieranno e si concluderanno in questa città, in questa chiesa che, essendo nata tra i pagani, sente più forte l’urgenza di evangelizzare i pagani nel mondo.

di Mario Barbero

Mario Barbero