La democrazia non può attendere

Niger: Radio «Alteative»

Sono un gruppo di intellettuali nigerini. All’università fondano un giornale, che diventa uno dei più letti. Poi si accorgono della potenza della radio. Nel 2001 nasce la prima Radio «Alteative», seguita quest’anno dalla seconda. La loro missione è educare alla cittadinanza attiva. E lo fanno ogni giorno, non senza problemi.

Moussa Tchangari è un uomo corpulento, con lo sguardo sincero. È molto indaffarato ma altrettanto disponibile. Entriamo nel suo ufficio senza troppi appuntamenti e lui lascia tutto per accoglierci.
Siamo nella sede di Alteative espaces citoyens (Asc, Alteativa spazi di cittadinanza, www.alternative.ne), un’associazione che lavora nel campo dell’educazione alla cittadinanza, la promozione diritti umani e dell’auto-organizzazione dei gruppi di base.

Quei favolosi anni ‘90

Ma facciamo un passo indietro. Negli anni ’90, dopo il famoso discorso del presidente francese François Mitterand (20 giugno 1990, noto come discorso de la Baule), l’Africa francofona è in fermento. Si respira un vento di cambiamento e di cammino verso la democrazia.
In Niger un gruppo di studenti universitari militanti per i diritti umani e per la svolta democratica, fonda a Niamey una cornoperativa, che definisce «mediatica e culturale». Subito si caratterizza per la scelta dell’utilizzo dei mezzi di comunicazione come strumenti principali.
Nel 1994 il gruppo crea un giornale, che si chiama «Alteative», e ancor oggi è pubblicato due volte al mese. «È un mezzo molto importante di partecipare al dibattito della società su un certo numero di questioni» spiega Moussa Tchangari, uno dei leader di allora, oggi segretario generale di Alteative. «Eravamo studenti e volevamo poterci esprimere e portare il nostro contributo al dibattito. Al tempo stesso l’obiettivo era sostenere le lotte sociali e politiche nel nostro paese nell’ottica di una vera trasformazione».
Per molti anni concentrarono le loro energie sul giornale. Erano volontari e anzi, si auto tassavano per pagare le spese: «Eravamo pronti a subire tutti i sacrifici necessari per poter fare il giornale».

La svolta: arrivano le onde

Qualche anno dopo il gruppo si rende conto che incarna una corrente importante in seno all’opinione pubblica e decide di offrire un quadro diverso, più aperto, a quelli che condividono le loro idee. Nasce così Alteative espaces citoyens, riconosciuta nel 2001 come associazione, e con lei la radio associativa: «Radio Alteative».
Tchangari: «Abbiamo deciso di lanciarci nella radio, con la creazione di una stazione qui a Niamey. Faceva già parte dei nostri progetti». La visione sulla comunicazione sociale è chiara fin dall’inizio: «È importante usare i media perché ci permettono di comunicare direttamente con la gente, suscitare i dibattiti, e una presa di coscienza politica nella popolazione. La radio diventa strumento essenziale per fare lavoro di educazione e di mobilitazione e abbiamo visto negli anni come questo media sia importante».
Lo è anche il giornale, spiega ancora, ma essendo in un contesto di un paese analfabeta, si indirizza a una certa élite: «Allo stesso tempo quello che si scrive è spesso ri-trasmesso a voce o ripreso dalle radio».
Nello scorso mese di giugno una seconda emittente ha iniziato a trasmettere a Zinder, antica città a 900 km ad est della capitale.
Tutto pronto da oltre un anno, è stata dura avere l’autorizzazione e la frequenza. L’associazione ha in progetto di aprire almeno altre due radio associative, ad Agadez, città nel Nord e Diffa all’estremo Est.
«Vorremmo avere 4 o 5 Radio Alteative, sarà una cosa straordinaria. Allo stesso tempo lavoriamo con la rete delle radio comunitarie e associative del Niger e collaboriamo anche con le radio commerciali».
Oltre al giornale e alle radio, l’associazione ha infatti creato un centro di produzione sia di programmi audio, sia di video documentari.
Producono programmi più commerciali e li scambiano o vendono ad altre radio o alle televisioni, compresa la Tv di stato. Realizzano anche video per organismi inteazionali, allo scopo di auto finanziarsi.
Ma le produzioni sono anche fatte per sostenere campagne, come quella, in preparazione, sul diritto all’alimentazione. In questo caso è Alteative che paga per dare la massima diffusione del messaggio su altri media. «Questo riusciamo a farlo grazie a sovvenzioni dei nostri partner».

Campagne di informazione e di educazione

Un’altra campagna in preparazione è quella sulla nutrizione: «Una delle cause della malnutrizione dei bambini è la povertà, ma una parte è legata all’ignoranza, quindi pensiamo che si possano usare i media, in particolare la radio, per ridurre l’impatto della malnutrizione nel paese. Vogliamo fare la promozione dei prodotti locali disponibili, di facile accesso e che possono contribuire a migliorare la situazione nutrizionale dei bambini».
Preparati i programmi sulle campagne di informazione si cercano finanziamenti. Una volta trovati firmano contratti con diverse radio perché ci sia la più larga diffusione. Con la rete delle radio associative si riescono a trattare prezzi abbordabili, in quanto la sensibilizzazione sulle tematiche affrontate rientrano nella vocazione di questi media.
Alteative supera i propri confini, partecipando a progetti per la sensibilizzazione sui diritti umani, con radio dei vicini Mali e del Burkina Faso.
Progetti, questi, finanziati dall’Agenzia internazionale della francofonia (Aif). Attualmente, insieme alle radio associative e comunitarie del Niger, stanno trasmettendo una serie sulla partecipazione politica delle donne  nella prospettiva delle elezioni (previste a novembre).

L’ossessione dei fondi, e dell’indipendenza

«Abbiamo una grande preoccupazione: quella di restare indipendenti, ma l’indipendenza resta qualcosa di molto difficile». Moussa Tchangari continua a raccontare: «Ci provammo già ai tempi del giornale, il quale poteva avere la pubblicità. Ma il contesto era difficile, per cui non riuscivamo più ad auto finanziarci».
Cominciano così altre attività, che potevano portare un po’ di soldi, come la video produzione. Poi partecipano a programmi di sviluppo con partner inteazionali, come Oxfam Movib (Paesi Bassi), Cooperazione svizzera, l’Acdi (Agenzia canadese di cooperazione e sviluppo internazionale), e la fondazione del miliardario Soros. Quest’ultima ha finanziato, ad esempio, la radio di Zinder.
Mentre l’Acdi, nell’ambito di un programma di rinforzo della società civile in Sahel ha permesso l’installazione dell’emittente di Niamey. «L’investimento iniziale per far partire una radio è elevato e da soli non abbiamo abbastanza mezzi».
Alteative espaces citoyens ha oggi circa 550 membri che pagano una quota associativa e vi lavorano una trentina di persone, alcuni salariati altri volontari.

Alteativa sì, ma scomoda

Ma la vita per un’associazione come Alteative non è affatto facile e le battaglie sono sovente «scomode» per il potere.
Ricorda il segretario generale: «Abbiamo conosciuto molte difficoltà nel nostro percorso. Abbiamo vissuto repressioni di tutti i tipi.
Io stesso sono stato arrestato più volte, picchiato, umiliato. Altri membri sono stati perseguitati. Compreso il nostro presidente. Né possiamo dire che oggi queste vicende siano totalmente escluse. Noi esistiamo, prima di tutto, perché siamo un gruppo autonomo che si batte. Questo è legato alla nostra determinazione.
Facciamo parte di quelle organizzazioni che il regime al potere in Niger vorrebbe vedere scomparire».
Fin dall’inizio il gruppo di studenti è stato attivo nella lotta per la democrazia: «Tutti i regimi che si sono succeduti dagli inizi degli anni ‘90 ad oggi hanno accettato difficilmente il lavoro che facciamo: critichiamo, denunciamo, mobilitiamo la gente per battersi e approfondire la democrazia, perché i diritti siano concreti».
Nel 2005 Alteative ha animato l’importante movimento sociale di protesta. Per questo il regime ha chiuso la radio, che faceva uno straordinario lavoro di mobilitazione.
Tchangari è stato rinchiuso nella prigione di alta sicurezza, dove mettono i criminali pericolosi. Il governo aveva preso misure economiche molto gravi con un impatto terribile sulla vita della gente: l’aumento delle imposte fisse (tva) su prodotti di base: riso, acqua, elettricità, farina di grano, latte, zucchero.
I prezzi si sarebbero impennati di colpo, influenzando direttamente la vita della gente. «Abbiamo fatto un gran lavoro attraverso la radio affinché la popolazione comprendesse l’impatto di queste misure. Questo ha generato mobilitazioni straordinarie a Niamey, con più di 100 mila persone nelle strade. E lo sciopero generale: in giro non c’erano neanche le venditrici di frittelle. Il successo delle manifestazioni ha fatto pensare al governo che il nostro obiettivo fosse quello di rovesciarlo. Cosa che non è neanche alla nostra portata».
In seguito al movimento l’Iva è stata tolta su alcuni prodotti e mantenuta su altri. «È stato raggiunto un accordo, che per me è un bidone, perché frange della società civile sono state comprate dal potere. Noi abbiamo rifiutato di partecipare alla negoziazione».

In prima linea ai Forum sociali

Asc partecipa a tutte le lotte della società civile contro le ingiustizie sociali reali, in parte dovute alle politiche neoliberali imposte dalle organizzazioni finanziarie inteazionali.
È parte attiva del movimento altermondialista, della dinamica del Forum sociale mondiale (Fsm) e di quello africano, fin dalla loro creazione.
Assicura, inoltre, il segretariato del Forum sociale nigerino, e ha organizzato il quinto Forum sociale africano a Niamey (novembre 2008).
Nel 2010 vorrebbero (il condizionale è d’obbligo, vista la situazione politica) organizzare il Fsm tematico su migrazione, ambiente e sovranità alimentare.
«Ci hanno ostacolati nel 2006, nell’organizzazione del Forum sociale nigerino. Dicevano che volevamo mobilitare migliaia di contadini con l’obiettivo di prendere il potere. Che avremmo messo nella testa della gente che è possibile avere uno stato che garantisce tutto».
«Nel 2007 il governo ha minacciato di espellere i nostri partner dal paese, in particolare Oxfam, e di sciogliere la nostra organizzazione.
Questo perché avevamo fatto un’inchiesta nella regione di Tillabery sulla situazione alimentare e volevamo organizzare un atelier per presentare i risultati. Le autorità erano state invitate.
Noi abbiamo voluto andare avanti perché siamo nel nostro paese, nessuno può impedirci di fare un incontro. Se vogliono sciogliere le organizzazioni hanno solo daå farlo. Noi ci siamo battuti affinché ci sia la democrazia e il minimo è la possibilità di esistere come entità autonome, e siamo pronti a tutto per questo.
La gente che gestisce il paese ci conosce ed è cosciente della nostra determinazione». 

Di Marco Bello

Marco Bello




Radio Refugees

Ciad: formazione «afro-africana»

Est del Ciad. Nel febbraio 2004 inizia la guerra nel vicino Darfur, Sudan. Oltre 240.000 rifugiati sudanesi invadono un’ampia regione. Un anno dopo iniziano a trasmettere tre radio comunitarie. Ma le redazioni soffrono una cronica carenza di competenze. L’autore, giornalista burundese, nostro collaboratore, è oggi in Ciad, dove lavora come formatore di giovani giornalisti di queste radio.

In Ciad vivono un centinaio di etnie e una popolazione stimata in 10 milioni di abitanti (statistiche governative del 2005). Secondo il World Refugees Survery, pubblicato nel 2007 da un comitato americano per i rifugiati e i migranti, il paese ha sul suo territorio circa 300.000 rifugiati e richiedenti asilo. Tra questi, oltre ai sudanesi, ci sono circa 60.000 profughi della Repubblica Centro africana.
Ma la guerra non è finita in entrambi questi due paesi dell’Africa centrale, così rifugiati, ma anche sfollati interni, continuano ad affluire nei campi. Diventa quindi molto difficile fare delle statistiche per stimare il numero di queste persone.

«Piccole» radio comunitarie

Nell’Est del Ciad si trovano tre radio comunitarie fondate da Inteews (Ong statunitense che si occupa di appoggio ai media come vettore di sviluppo), impiantate nel mezzo dei campi di rifugiati e di sfollati che si sono moltiplicati in questa parte del paese. Si tratta di Radio Sila, Radio Absoun e Radio Voix de Ouadai.
I giornalisti che lavorano in queste strutture sono, per la maggior parte, formati sul campo. Hanno livelli di studi variegati e pochissimi hanno fatto un percorso universitario. Altri hanno ricevuto formazioni per lavorare in questa zona in condizioni di vita molto difficili e sono magari entrati in contatto con diversi formatori.
È strano il panorama mediatico di questa parte del Ciad. La quasi totalità dei giornalisti non ha un vero «carnet d’adresse», ovvero una raccolta di numeri telefonici e indirizzi fondamentali in questo mestiere. Diverso da altri paesi, come il Burundi, dove ogni giornalista dispone di un gran numero di contatti. Si nota nelle riunioni di redazione, dove pochi hanno il numero di telefono di un’autorità locale che si vuole intervistare.

Isolati dal resto del mondo

I giornalisti di questa zona hanno pochissimi contatti con il mondo esterno, il che complica la buona comprensione del mestiere d’informare. Nel loro ambiente non hanno dei punti di riferimento o dei colleghi navigati ai quali si possono identificare.
Ascoltano sulle onde corte le radio inteazionali, come Bbc (British Broadcasting Corporation, radio britannica) e Rfi (Radio France inteationale, radio francese specializzata sull’Africa), ma ignorano ogni processo che porta alla produzione di un giornale o di un programma d’informazione che ascoltano su queste emittenti.
Non è raro sentire qualcuno dire: «Da quando sono giornalista non ho mai ricevuto una formazione». È vero che un manuale dell’Unesco spiega che i giornalisti delle radio comunitarie non hanno bisogno di conoscenze speciali, ma un minimo è necessario.
È ben visibile che l’informazione non si libera dalla pressione della storia, in quanto la predominanza di alcune etnie, che si sono succedute al potere negli ultimi trent’anni, impone la condotta. Si sente ancora dire che una certa informazione è corretta, perché è tale gruppo potente che «l’ha detto».
Diventa allora molto difficile spiegare ai giornalisti che tutte le informazioni senza fonte non sono valide, e che un professionista deve verificare le sue fonti con i propri mezzi. È in gioco la sua credibilità.

Prime difficoltà: la lingua

Questa è la mia seconda consulenza internazionale all’Est del Ciad dopo un’esperienza in Rwanda. Quando si tratta di formazioni occorre prepararsi, organizzare dei moduli formativi.
L’arabo «ciadiano» e il francese sono le lingue ufficiali. Si parlano poi un centinaio di altri idiomi locali. Questi, insieme all’arabo, sono le più utilizzate mentre il francese passa in secondo piano. Molti poi lo conoscono orale, ma quelli che possono leggerlo e scriverlo sono molto rari.
Questo vuol dire che su 10 allievi meno della metà capiscono con facilità la lingua del formatore, il che rende difficile la trasmissione della formazione.
Così, per far passare il messaggio si ricorre ai colleghi che traducono dal francese all’arabo, o in una lingua a grande diffusione come il zagawa e il massalite. Questa traduzione ha il difetto di subire delle trasformazioni durante i vari passaggi.
Ho dovuto quindi organizzare un modulo sulla traduzione stessa per tentare di rendere il passaggio da una lingua all’altra più fedele possibile. Ma questo ha creato dei ritardi sull’avanzamento della stessa formazione.

Mancano i modelli

Questi allievi-giornalisti, con formazione accademica molto diversa, non hanno lo stesso livello di comprensione. Alcuni tra loro hanno bisogno di nozioni di base.
Sono arrivato in radio attive già da due anni, ma ho constatato che  gli operatori hanno ancora bisogno di nozioni basilari di giornalismo. Questo mi ha obbligato a rivedere la formazione che avevo preparato, cercando di uniformarmi al livello di ognuno.
Quando si cercano di spiegare i meandri del mestiere, a dei giornalisti che ascoltano altre radio, si usano spesso degli esempi conosciuti da tutti. Questo non si può fare in Ciad, dove la stampa «indipendente», competitiva è solo agli inizi.
In questo paese, solo a Djamena, la capitale, si capta Rfi sulle Fm, mentre nelle altre località, la popolazione tenta di ascoltare le notizie sulle onde corte, con tutte le difficoltà. Molto spesso per essere informati su cosa succede nel proprio paese, oltre che in Africa e nel resto del mondo, captano solo delle radio straniere: sudanesi in arabo, la Bbc, Deutchewhelle (radio internazionale tedesca), ecc.
Non esiste una copertura radio locale. Da qui la difficoltà a impostare la formazione su esempi di fatti locali coperti da cronache locali.

Deontologia: questa sconosciuta

A osservarli, questi giornalisti, alcuni di loro non hanno ancora l’Abc del mestiere d’informatore. Quest’ultimo si può senz’altro classificare tra quelle professioni che hanno un impatto diretto sulla società. Ha le sue regole, la sua deontologia e la sua etica. Non necessita di molti diplomi, ma della volontà di darsi e, inoltre, occorre avere un po’ di vena giornalistica nel sangue.
A nulla serve installare degli studi radiofonici: senza la volontà degli uomini dei media, niente può fare avanzare o muovere la società.
Ecco qualche esempio che ci fa vedere come la radio comunitaria non sia percepita come un vettore di sviluppo in questa parte dell’Est del Ciad. Ho assistito più volte a presentatori di notizie che al momento della trasmissione hanno detto: «Spiacenti, questa sera non ci sarà il radio giornale», senza capire che un gesto simile è passibile di licenziamento diretto.
Altri giornalisti decidono la fine delle trasmissioni anticipata. In breve, alcuni considerano il mestiere dell’informatore come molto semplice, come quello del venditore di frutta e verdura (senza nulla togliere ai commercianti), che può decidere lui stesso quando andare a vendere e può chiudere ancor prima di aver terminato tutto il prodotto.
Abbiamo più volte sentito giornalisti reclamare delle ore supplementari, altri dire ad alta voce che il giorno di ferie è sacro e sono contenti perché non metteranno piede alla radio.

Intermediario umanitario

Poco a poco i neo-giornalisti trovano il ritmo di lavoro della radio comunitaria. Iniziano a capire che sono gli intermediari tra le fonti d’informazione e il pubblico che è, in questo caso, essenzialmente composto da rifugiati e sfollati. Il lavoro del giornalista rientra, in questo caso, nell’ambito umanitario.
Il reporter è presente dove le Ong distribuiscono viveri o sensibilizzano per l’igiene e la gestione dei rifiuti, ma partecipa anche alle riunioni di cornordinazione o di sicurezza delle Ong inteazionali e delle agenzie delle Nazioni Unite presenti sul posto.
Nonostante i grandi generi giornalistici come l’indagine e l’inchiesta facciano parte della formazione, ci sono delle tematiche che non sono mai affrontate in queste radio. I grandi soggetti come l’appropriazione indebita degli aiuti, soldi o viveri, destinati ai rifugiati, le violenze su minorenni così frequenti e altri crimini, sono assenti dalle trasmissioni.
Questo dimostra che la nozione di stampa come «quarto potere» è ancora lontana in queste radio comunitarie.
Nell’Est del Ciad, i fatti relativi a certe persone dell’amministrazione di base o di certi responsabili di Ong possono invece alimentare la stampa sensazionale per mesi.

L’Informazione utile per il pubblico

Nonostante tutto, per me è una nuova esperienza quella del «giornalismo umanitario». Cerco di mostrare ai giovani giornalisti che la radio è il solo mezzo di cui dispone questo mondo di rifugiati e sfollati per fare sentire la propria voce.
È vero che in un contesto ancora fragile di tensioni politiche e intercomunitarie, occorre evitare soggetti che producono frizioni. L’importante è che i giornalisti possano sapere sempre dove si trova l’informazione utile per il proprio pubblico.
In Burundi è il contrario. Radio private come la mia, Isanganiro, denunciano sistematicamente, ogni giorno, le derive del potere.
Per questo motivo giocano un grande ruolo nello sviluppo della società e sono sempre a fianco del semplice cittadino per fare rispettare i suoi diritti. 

Di Gabriel Nikundana

Gabriel Nikundana




La zappa sulle onde

Burkina Faso: Radio «Voce del contadino»

Nel Sahel il deserto avanza. La vita dipende dalle piogge. Ma i contadini decidono di organizzarsi. E di fondare una radio di «prossimità». Quasi un social network locale, per risolvere i loro problemi. E funziona.

Jean Victor sfreccia con il suo motorino per polverose strade di Ouahigouya. Questa città tipicamente saheliana, nel Nord del Burkina Faso, è il capoluogo della provincia dello Yatenga, storica sede di un re dei mossì, la cui dinastia continua anche oggi.
Regione questa, semiarida, nella quale si sente sempre di più l’«avanzata» del deserto e dove l’acqua e la terra sono due questioni cruciali, per la vita o per la morte.
La popolazione è all’85% rurale e tutto è legato all’unica stagione delle piogge, tra giugno e settembre. Se il raccolto è buono, il granaio sarà pieno e il cibo durerà fino alle prossime piogge, altrimenti si patirà la fame.
In questo contesto difficile i contadini si organizzano, perché capiscono che da soli non ce la possono fare. Alla fine degli anni Sessanta nasce un’organizzazione che si chiamerà più tardi la Federazione nazionale dei gruppi naam (dove naam, in lingua mooré significa potere).
L’intuizione è di Beard Lédéa Ouedraogo, classe 1930, già insegnante, mente finissima e leader carismatico, ancora oggi capo indiscusso della struttura.
A Beard non sfugge l’importanza dei mass media per lo sviluppo della sua regione. Nel 1996 fonda una radio comunitaria, che si vuole di «prossimità», ovvero vicina ai contadini. La radio Voix du paysan (Vdp, voce del contadino) vuole essere uno strumento per migliorare le condizioni di vita della popolazione.

Sensibilizzare, animare,
informare

Jean Victor Ouedraogo è giornalista, lavora per il giornale e la radio di stato, ma crede nella radio comunitaria e dal 1997 collabora alla Voix du paysan mettendo a disposizione le sue competenze come volontario:
«L’importanza di una radio come la Vdp è il contributo che dà per sviluppare la regione. È impegnata su vari fronti.
Fondamentale è la sensibilizzazione sulle tematiche sociali. Con questa radio, ad esempio le donne della zona hanno capito che l’escissione (mutilazione genitale femminile tradizionale presso i mossì, ndr) è una pratica nefasta.
Molte hanno anche capito che quando un bambino è malato bisogna portarlo subito all’ospedale. Inoltre i contadini, tramite le trasmissioni, riescono a discutere tra loro su come migliorare le proprie tecniche e metodi di coltivazione e come proteggere l’ambiente». La radio comunitaria diventa un forum, e anche le donne riescono a discutere tra di loro dei problemi quotidiani, e su come risolvere alcune questioni di casa.
Ci sono emissioni politiche, e la radio fa capire al cittadino come votare, o l’importanza di registrare il figlio allo stato civile, per poter avere accesso ai propri diritti.
È una radio rivolta anche ai giovani, spiegando loro, ad esempio, alcune piste per trovare lavoro.
La Vdp, inoltre, è una delle prime radio che hanno partecipato al programma «Piano integrato di comunicazione» (Pic) sulla lotta contro l’escissione e contro il traffico dei bambini. Programma finanziato dall’Unicef (agenzia dell’Onu per l’infanzia), che tramite 17 radio comunitarie in Burkina Faso ha permesso di toccare direttamente 700.000 persone.

Tutti sotto l’albero

La radio fa molta animazione, e diventa vettore di messaggi tra persone: «In questi anni la radio ha contribuito al cambiamento delle mentalità della gente» ricorda Jean Victor. È anche educativa, ad esempio consiglia su come circolare in strada per non avere incidenti, come gli allievi si devono comportare con gli insegnanti.
Un appuntamento importante è il magazine intitolato: «Sotto l’albero» (per ricordare l’abitudine  di sedersi sotto un grande albero a discutere), che anima il dibattito tra ascoltatori che discutono sulla vita sociale. È una trasmissione molto partecipata. Un ascoltatore presenta il suo problema (normalmente famigliare, di vicinato, ecc.), gli animatori della trasmissione danno il loro punto di vista, e poi intervengono altri del pubblico, con i loro consigli per trovare soluzioni.
«Grazie alla Vdp delle coppie sono state salvate o degli aspiranti suicidi sono tornati sulla loro decisione. Villaggi che erano in conflitto da 15 anni si sono riavvicinati. Sono state resuscitate lingue che erano in via di sparizione» sottolinea Jean Victor.
Ma la Vdp fa anche informazione. Importante è la «Rassegna stampa». In Burkina Faso i quotidiani sono tutti in lingua francese, mentre la maggioranza della gente non sa leggere. Questo programma riprende le notizie più importanti in lingua mooré rendendole fruibili da tutti. In progetto c’è la stessa cosa in lingua dioula.
Uno spazio particolare è poi dedicato alle informazioni locali.
A Ouahigouya oggi ci sono altre sei radio. «Quello che distingue al Vdp è la partecipazione degli ascoltatori – ricorda Jean Victor – Inoltre la priorità è data ai programmi sull’ambiente, salute, educazione, sociale, vita coniugale, ai dibattiti. Addirittura i sacerdoti tradizionali hanno iniziato a telefonare per dare il loro punto di vista sulle questioni.
 Cose che non si trovano sulle radio commerciali, più orientate a produrre benefici. Un’inchiesta recente ha dato la radio Vdp come la più ascoltata nella regione del Nord con il 60% del tasso di ascolto».

Una radio
tanti gruppi

La radio comunitaria dà una tribuna a diversi gruppi sociali. I contadini, ad esempio, hanno un loro programma, animato da essi stessi e sulle loro tematiche. Ci sono tecnici che intervengono anche per dare consigli e risposte. Allo stesso modo i giovani e gli anziani hanno i loro programmi.
La radio è anche strutturata sul territorio attraverso quelli che si chiamano «club degli ascoltatori fedeli» e quasi ogni villaggio ne ha uno. Agiscono come «ripetitori» della radio e ripropongono le campagne sociali: lotta ad escissione, Aids, banditismo, matrimonio forzato, ma anche promozione dei diritti e doveri dei bambini, sensibilizzazione per le vaccinazioni. I volontari di questi gruppi, amici appassionati della radio, continuano la sensibilizzazione casa per casa, con un approccio diretto, ad esempio convincendo i genitori di mandare i figli a scuola.

Per ricevere le onde

Va ricordato che la forza di questa radio sono soprattutto gli ascoltatori nei villaggi, non tanto la città. Avere un ricevitore è abbastanza semplice, ma … non ancora alla portata di tutti in un paese tra i più poveri del mondo.
«Abbiamo discusso questo in redazione – ricorda Jean Victor – e proposto vari progetti.
Il numero è ancora insufficiente. Occorrerebbe che in ogni famiglia ci sia un ricevitore. Stiamo cercando di riflettere, per risolvere questa questione».
La Voce del contadino partecipa da alcuni anni a un progetto finanziato dalla Regione Piemonte e promosso dalla rivista Volontari per lo Sviluppo e dall’Ong Cisv. Progetto di cui fanno parte anche Radio Flash e MC. L’idea di fondo è mettere in relazione giornalisti e media del Sahel (altri paesi interessanti sono Senegal e Mali) e gli omologhi piemontesi.
L’appoggio dato è soprattutto in tecnologie e formazione, oltre la realizzazione di scambi Sud-Sud e Sud-Nord. La Vdp, ad esempio, è passata al digitale grazie al progetto e i suoi operatori sono stati formati per lavorare con queste tecnologie. 

Di Marco Bello

 

Marco Bello




La forza della radio, la vecchia radio

Oggi c’è internet, c’è l’I-pod, c’è Twitter e Facebook, ci sono i cellulari che fanno di tutto, oltre che le telefonate. Ma la radio, la vecchia radio resiste e resiste bene.
In questo dossier, non vogliamo parlare genericamente di questo mezzo di comunicazione, ma di radio particolari: per i loro fondatori, per il loro pubblico, per la funzione che svolgono.
Da parte nostra, nessuna pretesa di completezza. Abbiamo soltanto raccontato alcune storie raccolte in Africa (Ciad, Niger, Malawi, Burkina Faso) e in America Latina (Argentina, Perù, Colombia). Cercando di far comprendere come la vecchia radio rappresenti ancora un insostituibile strumento di comunicazione, soprattutto nei paesi del Sud del mondo.

di Paolo Moiola

AFRICA / Radio per tutti i gusti
Anni Novanta: in Africa si respira aria di democrazia.
Anche l’etere è liberalizzato.
Da allora «fioriscono» centinaia di emittenti, molte delle quali create dalla base.

Dai media monopolio di stato, in Africa, si passa alla liberalizzazione delle onde elettromagnetiche solo agli inizi degli anni Novanta.
Alcune esperienze di radio private si hanno tuttavia già negli anni ‘80, come Horizon Fm in Burkina Faso che, nata nel 1987 è una delle prime radio indipendenti nell’Africa francofona.
Già prima della liberalizzazione erano nate le cosiddette «radio rurali», radio pubbliche che vogliono essere di tipo didattico e orientate al mondo contadino. Trattano i temi come agricoltura, salute, nutrizione, allevamento, igiene, ecc. Utilizzano prevalentemente le lingue africane. Questa tipologia ha però diversi limiti, come la localizzazione nelle capitali, la mancanza di mezzi e di risorse umane competenti e motivate.

Con la liberalizzazione che accompagna i processi di democratizzazione dei paesi, altre tipologie di radio nascono e si diffondono rapidamente: radio confessionali, comunitarie, associative e le radio commerciali.
Sono tutte radio dette di «prossimità» ovvero locali, vicine alla popolazione, ma hanno diversi ruoli e missioni, nonché tipo di gestione.
La radio associativa è l’emanazione di un’associazione, creata e gestita dalla stessa. Ad esempio un’associazione per la difesa dei diritti umani, o una di contadini.
La radio confessionale è invece fondata e gestita da una confessione religiosa, ma orientata sempre al pubblico locale. Tante sono le radio evangeliche e quelle cattoliche nate in Africa nei primi anni ‘90.
La radio comunitaria appartiene invece alla comunità. Può essere una comunità professionale (ad esempio gli agricoltori) o un’entità sociale (le donne o i giovani di una località, le popolazioni di una certa lingua). Deve essere gestita attraverso organi definiti dalla comunità.
Nella pratica c’è una certa confusione tra radio associativa e comunitaria. Alcuni testi definiscono la prima come l’eccezione più ampia, sotto la quale si potrebbero far rientrare sia le radio comunitarie sia quelle confessionali.
La radio privata commerciale invece ha una diversa origine e finalità. Un capitale privato e l’orientamento al profitto il pubblico urbano piuttosto che la popolazione rurale.
 
La radio comunitaria, proprio perché è un’emanazione della comunità diventa strumento di concertazione. Favorisce la comunicazione tra i diversi membri della comunità, prendendo così un ruolo di strumento di regolazione sociale.  È la tipologia più indicata per essere anche uno strumento di sviluppo endogeno. La trasmissione tipo «forum» o «tavola rotonda» è molto utilizzata per permettere a tutte le parti di esprimersi. Attori o parti antagoniste trovano così uno spazio di confronto e spesso di dialogo, e riducono gli ostacoli.
Il «dibattito», la trasmissione pubblica (con la partecipazione degli ascoltatori) servono a instaurare una comunicazione interattiva tra diversi attori e diventano un’espressione democratica e pluralista di opinioni, bisogni e aspirazioni della comunità.
Organizzazioni come Unesco, Unicef, Acct (oggi Agenzia intergovernativa della francofonia, Aif) spingono e investono fondi nelle radio comunitarie in Africa già dalla fine degli anni ‘80.

di Marco Bello

Paolo Moiola e Marco Bello




Cana (7) OTTO PERSONAGGI IN CERCA DI SIMBOLI

Il racconto delle nozze di Cana (7)

Nella puntata precedente abbiamo presentato il testo ufficiale del racconto delle nozze di Cana insieme a una nostra traduzione letterale e abbiamo iniziato a riflettere sul tema del «3° giorno», rimasto in sospeso per ragioni di spazio. Riprendiamo il tema perché è una delle chiavi per capire il racconto.

Il «terzo giorno»
Il terzo giorno è un tema che attraversa tutta la Scrittura1. Citiamo solo tre esempi: nel «terzo giorno» Abramo sacrificò Isacco (Gen 22,4), Giona fu salvato dal pesce (Gn 2,1-2) e la regina Ester si presentò ad Assuero per salvare il suo popolo (Est 4,16; 5,1).
Nel 538/9 a.C., con il ritorno dall’esilio concesso da Ciro il Grande, il sacerdote Esdra e il laico Neemia inaugurano il tempio ricostruito «nel terzo giorno» (Esd 6,16): probabilmente a questo testo si riferisce Gesù, quando scaccia i profanatori del tempio e dichiara: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere», parlando del tempio del suo corpo (Gv 2,19-21).
Per i profeti del sec. VIII a.C. «il terzo giorno» è giorno di risurrezione (Os 6,2), ma anche di condanna (Am 4,4) perché gli atei, che usano la religione per i loro interessi, trasformano il giorno del Signore in giorno di mercato, credendo di potere comprare Dio con offerte e sacrifici (cf Is 1,15.17).
Nel NT «terzo giorno» è espressione tecnica per indicare la risurrezione di Gesù (Mt 16,21; 17,23; 20,19; 27,19; Lc 9,22; 13,32; 18,33; 24,7,21,46; At 10,40; 1Cor 15,4). Secondo Rashì, acronimo di Rabbi Shlomo Yitzhaqi  (1040-1105), uno dei più famosi commentatori ebrei medievali della Bibbia, il «terzo giorno» coincideva con il primo giorno di Pesàh-Pasqua (cf Rav Shlomo Bekhor, Meghillà di Estèr, Milano 1996, 31, commento a 5,1, nota 1). Tale dato conferma anche la tradizione cristiana, che colloca la risurrezione nel «primo giorno della settimana» che è naturalmente la settimana della pasqua ebraica (cf Gv 21,1.19).
Questi riferimenti sono sufficienti per metterci sull’avviso che quando Gv usa l’espressione «il terzo giorno» per collocare lo sposalizio di Cana, è evidente che non si tratta di un dato «storico-cronologico», ma s’inserisce in una dinamica teologica e in una prospettiva biblica che dà la tonalità a tutto il brano: «il terzo giorno» è il giorno degli interventi di Dio, giorno di rivelazione.

Cana: un «midràsh» cristiano dell’esodo
Affermiamo con convinzione che il racconto di Cana è un «midràsh» cristiano del racconto dell’alleanza che inizia in Egitto e si conclude ai piedi del Sinai (Es 19). L’autore del IV vangelo si trova davanti al ciclo della liberazione dalla schiavitù, che va dai nove «segni», più la decima «piaga», inflitti al faraone, fino alla fuga di Israele dall’Egitto e al dono della Toràh. Di tutto questo ciclo l’evangelista assume due fatti e ad essi si riferisce con il racconto di Cana che diventa così un commento cristiano della storia dell’alleanza. I due fatti sono: il 1° «segno/piaga» che tramuta l’acqua del Nilo in sangue (Es 7,14-25); è evidente l’analogia con l’acqua mutata in vino. Il secondo fatto è la manifestazione di Dio sul Sinai che avviene «al terzo giorno» (Es 19,11), quando, dopo la purificazione d’Israele, avviene la consegna delle tavole di pietra (Es 19,1-25). Per confermare questa lettura ci vengono in aiuto ancora due elementi letterari.
Il primo riguarda il termine «segno» che Giovanni usa per definire quanto accade alle nozze di Cana: «Questo fu il principio dei segni compiuti da Gesù» (Gv 2,11); Giovanni infatti, non parla mai di miracolo, ma di «segno – sēmêion», usando il vocabolario della bibbia greca della Lxx che nel libro dell’esodo (cf Es 7,9; 11,1) descrive i primi nove interventi di Dio contro il faraone come «segni» (ebr.: mophèt; gr.: sēmêion).
Purtroppo le traduzioni superficiali volgarmente traducono con «piaghe» (ebr.: nega’; gr.: plēghê), termine che invece la Lxx usa soltanto per il decimo colpo, cioè la morte dei primogeniti. Il secondo motivo è interno al vangelo stesso: bisogna leggere il testo come è stato pensato dall’autore, che lo costruisce secondo un suo disegno, per dirci qual è l’elemento più importante di tutto il brano.

Dietro uno schema, un progetto
Il racconto delle nozze di Cana ha un andamento circolare, tecnicamente detto «a chiasmo» o «circolare» o a incrocio, perché il primo elemento corrisponde all’ultimo, il secondo al penultimo e via via fino al punto centrale di tutta la narrazione. Ecco lo schema.

A    2,1Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di  Galilea e vi era là la madre di Gesù. 2Fu invitato alle nozze sia Gesù che i suoi discepoli.
B    3Essendo venuto a mancare il vino, la madre di Gesù dice a lui: «Non hanno vino».
C    4E Gesù le dice: «Che cosa a te e a me, donna? Non è ancora giunta la mia ora». 5Sua madre dice ai servitori/diaconi: «Fate quello che vi dirà».
D    6Vi erano poi là, collocate (per terra), sei giare di pietra, per la purificazione dei giudei, contenenti ciascuna due o tre barili (=da 80 a 120 litri ciascuna).
C’    7E Gesù dice loro: «Riempite d’acqua le giare»; e le riempirono fino all’orlo. 8E dice (=ordina) loro: «Ora cominciate ad attingere e continuate a portare al maestro di tavola». Ed essi cominciarono a portare. 9E come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove (venisse), ma lo sapevano i servitori/diaconi che avevano attinto l’acqua, chiama lo sposo
B’    10e gli dice: «Tutti servono per primo il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato il vino buono (lett.: bello) fino ad ora».
A’    11Questo principio dei segni Gesù fece in Cana di Galilea e manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cominciarono a credere in lui.
Lo schema aveva prevalentemente lo scopo di facilitare l’apprendimento a memoria, ma è indubitabile che al tempo stesso propone una visione non solo letteraria, ma di contenuto. Se si osserva, infatti, la struttura, si vede che tutta la narrazione converge verso il punto «D» che parla delle sei giare «di pietra collocate per terra» pronte per la «purificazione dei giudei» (Gv 2,6). Il riferimento al libro dell’Esodo è esplicito: le giare sono di pietra come le tavole della legge sono di pietra; servono per la purificazione dei pii giudei, come i loro antenati ai piedi del Sinai dovettero purificarsi per due giorni e «al terzo» ricevere la dignità di popolo attraverso la Toràh, scritta sulla pietra. Da una parte il 1° segno che compie Mosè in terra di Egitto è la trasformazione dell’acqua del Nilo in sangue; il 1° «segno» che Gesù compie all’inizio della sua vita pubblica è la trasformazione dell’acqua delle giare per la purificazione nel vino dell’alleanza.  

Con Mosè e con Gesù
Se l’obiettivo dell’autore è di farci riflettere sulla liberazione d’Egitto e il ripristino dell’alleanza, non lo fa per farci fare un ripasso della storia antica, ma vuole guidarci a una interpretazione nuova della rivelazione del Sinai, attraverso una nuova visione e una chiave interpretativa.
Chi legge il racconto deve capire che si trova di fronte a un fatto straordinario di auto-rivelazione di Dio: Gesù è il nuovo Mosè di cui prende l’eredità, dando compimento alla profezia dello stesso Mosè: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me: lui ascolterete… e gli porrò in bocca le mie parole, ed egli dirà loro quanto io gli comanderò» (Dt 18,15-18). Il tempo di Gesù è il tempo del nuovo profeta che riprende la storia da dove l’aveva lasciata Mosè, per portarla al compimento, al traguardo del regno di Dio.
Se confrontiamo le due figure, Mosè e Gesù, vediamo una corrispondenza straordinaria che ci apre ancora di più una grande finestra sul racconto di Cana, letto alla luce di Es 19-24 che descrive la nascita di Israele come popolo perché riceve la coscienza della propria dignità con  il dono della Toràh sul monte Sinai. Tra la figura di Mosè mediatore di alleanza sul monte Sinai e Gesù, la nuova alleanza (cf Ger 31,31), vi sono almeno otto paralleli che sono sorprendenti:
– Es 19, 3.20: Dio convoca (ekàlesen/chiamò) Mosè montagna;
     + Gv 2,2: Gesù è invitato (eklêthē/fu chiamato) alle nozze.
– Es 19,25: Mosè scese (katèbē) dalla montagna (vv. 10.21.24);
     + Gv 2,12: Gesù, dopo le nozze, scese (katèbē) a Cafaao.
– Es 19,10: Mosè ordina al popolo di purificarsi/santificarsi
  (gr.: aghnìzō; ebr.: kadòsh) per due giorni;
     + Gv 2,6: Gesù fa riempire le sei giare di pietra pronte per
      la purificazione (katharismòn).
– Es 19,8: il popolo farà tutto quello che Yhwh ha detto;
    + Gv 2,5: i servi devono fare tutto quanto Gesù dirà loro3.
– Es 19,9: Dio si manifesta nella densità della nube
     + Gv 2,11: Gesù manifestò la sua gloria.
– Es 24,12: al Sinai Dio scrive la Toràh su tavole di pietre
  (cf anche Es 31,18; 34,1.4);
    + Gv 2,6: a Cana vi sono sei giare di pietre giacenti a terra.
– Es 19,9: scopo della rivelazione di Dio è pure credere a Mosè;
    + Gv 2,11: con la rivelazione della gloria di Gesù,
    i discepoli cominciano a credere in lui.
– Es 19,3.7.25: Mosè media tra Dio e il popolo.
     + Gv 2,1.3.5: La madre-Israele, Maria, media il dono della
     Nuova Alleanza: «Stava lì anche la madre di Gesù…
    la madre di Gesù gli dice… disse la madre ai servi/diaconi».

Toràh di pietra e Legge del Paràclito
Da questo confronto di testi, il parallelo che l’autore fa tra Gesù e Mosè è molto evidente e riguarda due prospettive che non sono in opposizione perché l’alleanza antica non è stata ripudiata. L’alleanza di Mosè è rimasta incompiuta; senza compimento, «giace per terra» come le giare e Gesù, il nuovo profeta del regno, è stato mandato «perché si adempisse» la scrittura o la parola dei profeti (Gv 12,38; 17,12; 19,28.36; cf anche Mt 1,22; 2,15.23; 4,14; 12,17; 13,35; 21,4): egli manifesta i «segni» di una nuova èra. Come si vede il parallelo non è solo esteriore, ma sui comportamenti e anche sul vocabolario, come se da parte dell’autore del vangelo vi fosse una ricerca puntuale per usare il linguaggio della bibbia greca che utilizzavano i primi cristiani, la Lxx.
Il successore di Mosè è anche più grande e prima di lui: «La Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1,17-18); egli, infatti, che è il Lògos, porta non più la Legge scritta sulla pietra, ma la sua presenza stessa come garanzia del «principio dei segni» dei tempi nuovi. La sua umanità è la tavola di carne dove ora è scritta la Toràh dello Spirito, il Paràclito che insegnerà tutto quello che Gesù ha insegnato (Gv 14,26).
Anticipando i tempi, rileviamo che quando giungerà la «sua ora», dal monte Calvario non scenderà più un profeta con due tavole di pietra, ma dal monte della Croce, dove brilla di gloria il fallimento di Dio, scenderà il dono dello Spirito Santo su Maria e il discepolo, novelli Eva e Adam, in rappresentanza della nuova umanità: «E, chinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30).
Le nozze di Cana non possono essere lette come racconto autonomo, perché non hanno senso, ma devono essere proiettate nel contesto dell’«ora» di Gesù: «Donna… non è ancora giunta la mia ora» (Gv 2,4); tale contesto ci obbliga a percorrere tutto il cammino di Gesù fino alla fine: «Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo» (Gv 17,1). Le nozze di Cana sono il «segno» che anticipano «l’ora di Dio»: la morte e la risurrezione. Sono solo un segnale stradale che indicano la direzione di marcia verso «l’ora della gloria», quando tutto si compirà: l’alleanza nella morte e nella risurrezione di Gesù.

Otto invitati eccellenti alle nozze
Dopo tutto quello che abbiamo detto sin qui, acquistano un’importanza capitale i personaggi che popolano il racconto, inserito da Gv all’inizio del suo vangelo, non per parlarci di un banale matrimonio, ma della prospettiva della salvezza della storia. Lo sposalizio è solo un accidente, un espediente, una banale occasione per portarci ad altezze più vertiginose e più ardite. All’interno di questa logica e di questo contesto, vediamo allora chi sono i personaggi che Giovanni evoca per noi e quale è la loro importanza.

a) La sposa e la madre/donna
Il primo personaggio vistosamente assente è la sposa che in un matrimonio è il fulcro della festa: tutto ruota intorno a lei, dalle trattative alla festa nuziale. Sappiamo che c’è uno sposalizio, ma lo vediamo solo come coice esteriore, eppure tutta la tradizione biblica descrive l’alleanza come uno sposalizio tra Dio e il suo popolo Israele descritto come una sposa (Is 1,21; 62,5; 62,5; Ger 2,32; 3.1; Ez 16; 23; Os 1-3, ecc.).
L’assenza della sposa è sostituita, e siamo al secondo personaggio, dalla madre/donna che il testo cita come prima invitata in assoluto fin dal primo versetto: «Vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù» (Gv 2,1). La presenza della madre è importante sia perché sostituendo la sposa assente annuncia che Israele è orfano e abbandonato, sia perché somiglia più a una vedova che simboleggia in senso profetico Rachele che piange i suoi figli dispersi in Egitto (cf Ger 31,15; Mt 2,18), dove sono senza vino, cioè senza alleanza, senza Dio.

b) Gesù e gli apostoli in cerca dell’«ora»
Il terzo personaggio è Gesù, che appare distratto e disinteressato, perché lui non fa miracoli da giocoliere (cf Lc 23,8-9), ma annuncia la volontà del Padre che vuole tutti gli uomini salvi (1Tm 2,4).
Il quarto personaggio sono gli apostoli, presenti pare solo come ospiti di Gesù, che non intervengono affatto: la loro presenza però è importante come simbolismo di tutti i credenti chiamati a scoprire non il Gesù del miracolistico, ma il Gesù della fede, «cominciando a credere» per scoprirlo lentamente.
Anche noi, cominceremo a credere e ad intraprendere il nuovo cammino verso il monte Sion del regno finale.
Gesù sa che la sua presenza alla festa nuziale ha un valore simbolico: egli è lo sposo che viene per «acquistare» (etimologia di Cana) con la sua vita la sposa Israele: l’«ora» che ancora non è giunta (Gv 2,4) è l’ora della sua morte, cioè del dono del suo amore. Nonostante questa coscienza, egli non precipita le cose, ma segue gli eventi leggendoli nell’ottica di Dio e secondo la sua volontà di liberazione.

c) Il vino dell’alleanza e la cantina del Sinai
Il quinto personaggio è il «vino», che è il segno messianico per eccellenza. Il midràsh ebraico (Cantico Rabbà 2,4) equipara la Toràh, cioè la parola di Dio, al vino e il monte Sinai è descritto come la cantina dove Dio, prima ancora della creazione del mondo, ha conservato il vino-Toràh per la festa delle nozze messianiche: «Il Sinai è la cantina dove fin dalla creazione del mondo è stato tenuto in serbo per Israele il vino delizioso della Toràh: Disse l’Assemblea d’Israele: Il Santo – benedetto egli sia – mi ha condotto alla grande cantina del vino, cioè al Sinai» (Ct R 2,12; cf Nm R 2,3; Pr 9,5).
In Gv 2,10 vi è un accenno a questa cantina, quando il maestro di tavola rimprovera lo sposo di avere conservato il vino eccellente fino ad ora («tu hai conservato il vino buono [=bello] fino ad ora – sý tetêrekas tòn kalòn òinon hèōs àrti»).

d) Le giare di pietra e i cieli del futuro
Il sesto personaggio importante, chiave di volta di tutto il racconto, sono le «giare di pietra», simbolo della durezza e freddezza del cuore d’Israele che ha travisato l’alleanza, allontanandosi da Dio, come afferma il profeta: «Toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne» (Ez 36,26).
Anche l’apostolo Paolo è sulla stessa linea: il vangelo della nuova alleanza che genera nuovi figli è «scritta non con inchiostro, ma con lo spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma su tavole di cuori umani [=di carne] (2Cor 3,3).
Il settimo personaggio sono i servi, che l’autore chiama «diaconi», simbolo di un servizio liturgico nel nuovo tempio dell’umanità di Gesù.
L’ottavo personaggio sono lo sposo e il responsabile della festa, «l’arcitriclìno», che hanno confuso il vecchio col nuovo, andando a nozze e preparando la festa senza accorgersi dei «cieli nuovi e delle terre nuove» (Is 65,17; 66,22; 2Cor 5,17).   (continua – 7)

Di Paolo Farinella

Note
1 – LXX: 27x (cf. Gen 22,4; 34,25; 40,20; 42,18; Es 19,16, Lv 7,18; 19,7; Nm 7,24; 19,12.24; 29,20; 31,19; Gdc 20,30; 1Re 30,1; 2Re 1,2; 3Re 3,18; 12,12.24; 3Re 20,5.8; 2 Cr 10,12; Est 5,1; 1Mac 11,18; Os 6,2 parla espressamente di risurrezione e salvezza) e 2x si trova l’altra forma attributiva, più elegante, con un solo articolo: «tēi tritēi hēmerai» (Gen 31,22; 40,20).
2 – Sulla descrizione fantasiosa, ma suggestiva, di Giona nel ventre del pesce, cf. Meir Gentili – Rav Shlomo Bekhor, Il libro di Giona, Milano 1996, 43 (commento a Gn 2,1 nota 1).
3 – In Es 19,8, il popolo si impegna prima a fare e solo dopo ad ascoltare tutto quanto Yhwh ordinerà (pànta hòsa èipen hò theòs poiêsomen kài akousòmetha) esattamente come in Gv 2,5 dove la madre ordina ai servi di «fare quello che vi dirà (hò àn lèghēi hymîn poiêsate) e i servi eseguono prontamente.
Un altro sottofondo biblico può essere illuminante a riguardo perché si inserisce sempre nel tempo della schiavitù come sottofondo e riferimento: Gen 41,55 quando il faraone invia da Giuseppe il popolo affamato, dicendo loro: «Tutto quanto egli vi dirà fate(lo)». Gesù è il nuovo Giuseppe che pone fine alla carestia ricomponendo la famiglia dispersa di Israele.

Paolo Farinella




Nella pelle dei disperati

Tre giorni nei campi degli orrori e della follia

In molti paesi negare l’olocausto è un reato; eppure vari negazionisti
continuano a sostenere le loro teorie, con argomenti assurdi
e chiedono prove inconfutabili. Queste ci sono, afferma l’autrice
di questo articolo: basta andare ad Auschwitz e immergersi nel suo silenzio
di morte, per capire e sperimentare uno dei momenti più orrendi
della nostra storia… da non dimenticare.

H o conosciuto Hans. Il nome è di fantasia, per mantenere l’anonimato di chi mi ha aiutata a ottenere permessi per entrare nei campi e rimanerci giornate intere per il mio reportage. È venuto a cercarmi in albergo a Cracovia, colpito dalle mie richieste; non dimenticherò mai la sua faccia, quando sono scesa nella hall tendendogli la mano. «Mi aspettavo una di quelle giornaliste anziane, austere per una richiesta così stravagante, invece lei… potrebbe essere mia nipote… quanti anni ha? Ma lei è pazza! Come le è venuto in mente di fare un reportage del genere? È impossibile fare quello che lei mi ha chiesto… a meno che… sia una turista semplice… Nessuno è mai riuscito a sopravvivere per più di quattro ore nei campi!» mi ha tuonato nelle orecchie. «Allora adesso ce n’è una» gli ho risposto io.
Davanti a un paio di bicchieri di un meraviglioso rosso polacco, mi ha raccontato il dolore intrinseco e genetico degli ebrei e dei polacchi ogni qualvolta si neghi l’olocausto. Lo rassicuro raccontandogli le ore trascorse a Budapest con sopravvissuti. Ho ascoltato storie drammatiche e storie di amore straordinario, ma non posso realmente raccontarle se non mi immergo nella loro storia e nel loro dolore. Devo provare e gli prometto che resisterò. Due occhi grigi mi analizzano come a dire: questa non è normale!
Il giorno dopo vado a ritirare i miei «visti» e un anziano nonno che mi farà da guida e guardia del corpo, nel caso che, mi fa notare Hans, dovessi svenire, come spesso accade.

P elle. Un odore acre di pelle… stampato per sempre nel naso. Mi sento osservata da decine e decine di occhi. Sguardi finiti che mi avvolgono a destra e sinistra nel corridoio che percorro. Sono le foto che facevano ai deportati. Grandi foto in bianco e nero, nitidissime. Immediatamente penso al fotografo che le ha fatte. Doveva essere molto bravo. Una messa a fuoco disarmante. Ma sapeva che stava fotografando dei cadaveri vivi? Cerco di immedesimarmi nelle sue emozioni, sensazioni… è difficile.
Ho scelto di immergermi fisicamente e psicologicamente nei campi di Auschwitz e Birkenau. Quando dico alla mia guida cosa ho in mente di fare mi guarda perplessa. E solo dopo una scarica di domande decide di accompagnarmi. Per tre giorni interi mi lascerò volontariamente attraversare da quel terrore, dalla disperazione stanca dei deportati, la lunga attesa della morte. Morte come salvezza. Morte come libertà.
Quando arrivo davanti al cancello di Auschwitz la prima cosa che noto è il silenzio di un curatissimo prato inglese. Flotte di turisti discutono, parlano e si allineano con la loro guida, interrogandosi sul perché c’è una fotografa quando è severamente vietato fotografare.
Non sarà semplice immergermi intenzionalmente nei campi, dappertutto mi spuntano fuori cappellini di curiosi. Li lascio andare avanti e inizio dagli ultimi blocchi. La mia guida, un ex-deportato i cui occhi ancora si bagnano quando mi racconta di quegli anni, mi segue in ogni singolo scatto. Iniziamo dai sotterranei dove venivano torturati gli ebrei. Celle di un metro e mezzo di larghezza per due di altezza, in cui venivano obbligate a stare in piedi tre, quattro persone per giorni e notti intere.
Entro in una di queste e mi chiudo dietro la cancellata. È quasi buio, circola poca aria. La fiamma di una candela mi illumina la macchina fotografica. Ho difficoltà a vedere l’esposizione da usare per la foto. Un senso claustrofobico inizia a farsi strada nel mio corpo. L’odore pungente è ancora troppo forte. Sono sola. Zoltan, il mio guardiano, mi osserva a distanza. Gli ho chiesto io di lasciarmi sola. I muri scrostati mi raccontano il loro calvario. Richieste di aiuto, nomi, promesse, raccomandazioni e ricordi, incisi con le unghie su un muro freddo. Mi siedo per terra, lasciandomi illuminare il viso da un buco che funge da finestra. E li vedo. Larve nude, terrorizzate, umiliate, prive di dignità umana. Uno è seduto dove sono io, gli altri tre in piedi e a tuo siedono le loro ossa.
Un senso di nausea mi scuote, ma mi obbligo a restare. Sento gli occhi appannarsi dietro l’obiettivo. Devo asciugarli per poi ricominciare a scattare. Se ero una di loro! Se i miei nonni erano loro. Se mio figlio dopo essermi stato strappato dal grembo era uno di quei quattromila bambini fatti fuori. Come hanno potuto una mente e un corpo umano, menti e corpi uguali a quelli di quasi un milione e mezzo di ebrei uccisi, arrivare a tanta violenza. Una violenza meditata, studiata. Come può esserci nel cuore dell’uomo una brutalità tale.
Esco dalla cella e continuo il mio viaggio in un mondo di ricordi non miei. Zoltan racconta, racconta, scrutandomi. Montagne di capelli, di pettini, di gavette, di scarpe e vestiti dietro un’anticamera di vetro riempiono le stanze. Gigantografie svegliano chi non ha avuto ancora il tempo di immaginare come avveniva l’ispezione. La luce di una fredda mattina di marzo filtra dalle finestre evidenziando le vetrate con i loro tesori. Una luce perfetta… Ma che senso ha fotografare montagne di capelli? mi chiedo.
Mi sento prendere la mano. È Zoltan che legge nei miei movimenti. Lo guardo e nei suoi occhi leggo le mie domande. Ricorda ancora il freddo che scioglieva le ossa durante la notte, con un sacco di tela che copriva quattro persone, il lavoro, le violenze e i soprusi.
Entriamo nella sala dove venivano portati i bambini. Vestitini, ciucci, scarpine sono ancora integre sotto teche di vetro. Il cuore mi balza in gola, un brivido freddo mi attraversa; immagino le scene lette nei libri, penso all’inquadratura ponendo tra me e quei ciucci una barriera, la mia macchina fotografica. Ma il sangue mi bolle nelle vene, rabbia e impotenza mi esplodono dentro. Devo fermarmi non vedo più. Gli occhi inondati si rifiutano di vedere, di fissare attraverso un obiettivo l’immagine che ho di fronte. Esco per respirare aria nuova. Non sento più il mio corpo.

S ono le 16.00. La nausea continua a scuotermi. Zoltan mi consiglia di tornare in hotel e rilassarmi. Ci organizziamo per il giorno seguente. Percorro i 40 chilometri di strada che separano Auschwitz da Cracovia, osservando quei boschi fitti e impervi. Gli stessi attraverso i quali molti sono scappati, sono morti o sono stati fucilati da giovani soldati tedeschi.
Arrivo all’hotel stordita. Mi segue ancora quell’odore acre di pelle. Ce l’ho addosso, sui vestiti, nei capelli. Ancora adesso quando ci penso, eccolo che puntuale m’inonda le narici.
La mattina seguente di buon’ora riparto per Auschwitz. Arrivo che hanno appena aperto. Sono le 8.30 e c’è poca gente. Vado direttamente al blocco delle camere a gas e ai foi. Zoltan, ancora assonnato, mi segue a fatica. Lo saluto davanti alla porta di legno delle docce. Entro. Mi hanno concesso due ore per poter lavorare in solitudine. Le stanze sono illuminate da una piccola lampadina che pende dall’alto. Delle candele illuminano il pavimento dove venivano ammassati i corpi. Entro nella doccia. Prima di entrare, un cartello invita a lasciare l’accappatornio lì.
Mi metto nella stessa loro posizione, alzo lo sguardo e osservo il jat della doccia, pensando all’esplosione di terrore quando hanno capito che da lì usciva gas e non acqua. Gocce di sudore mi freddano la schiena. Il senso di nausea torna e scalpita nello stomaco.
Zoltan, la mia ombra da due giorni, mi accompagna ai bagni. Lo troverò lì, quando uscirò dopo un po’, ancora stordita. Mi chiede perché voglio soffrire così. E già doloroso ascoltare i racconti dei deportati, perché voler entrare nel loro tormento!
Andiamo a pranzo da sua figlia, ormai siamo amici. Mi scorta con la tenerezza di un nonno e io lo interrogo con la curiosità frenetica di una nipote. La moglie è morta dieci anni fa stroncata da un cancro all’utero. Lui l’ha sposata appena usciti da Birkenau. Gli occhi blu ancora si illuminano quando racconta del loro amore. «Un amore povero, ma intenso, vissuto giorno per giorno fino all’ultima notte quando l’ho lasciata andare da Lui» mi dice.
Chiedo a Maria, la figlia di Zoltan, come può vivere al confine di un luogo così straziante. Il suo balcone si affaccia sulle casette avvolte dal filo spinato. Mi spiega che la loro proprietà era lì: «È l’unico panorama! E nella vita bisogna anche sapersi accontentare di quello che si ha».
N el pomeriggio too ai campi. Entro nella camera dei foi. L’odore di morte, di pelle inonda ancora l’aria. Fermi, immobili, lucenti come fossero stati appena spenti. I foi mi fissano. Io li guardo attraverso il mirino: sembrano distanti, invece sono lì a pochi centimetri.
L’odore della ghisa si mischia a quell’odore che brucia dentro e fuori i campi. Ne avrò i polmoni pieni dopo tre giorni. Dopo aver girato per ogni singolo blocco, per ogni singola via, mi fermo a osservare la realtà estea attraverso grandi e luminose finestre. Cosa pensavano? A chi pensavano? Pregavano? Credevano ancora in Dio? Un Dio che sembrava essersi dimenticato. Avevano ancora sogni e speranze? Quali?
Quella sera girerò fino a stancarmi per le viuzze di Cracovia. Accendo il computer per scaricare le foto. Ogni foto è una fucilata. Gli scatti alle docce sono mossi e lì che ho la consapevolezza che ricorderò ogni singolo minuto di questi giorni. La mano ferma di una fotografa, non ha avuto la forza di reggere la macchinetta.
Birkenau, l’ultimo giorno,  sarà il colpo di grazia. Percorro tutta la ferrovia che arriva dritta nei campi. Un silenzio mi grida nelle orecchie. Il cielo è blu. Limpido e terso fa compagnia a un sole che brucia gli occhi. Mi guardo attorno e vedo solo due binari che tagliano in due, chilometri e chilometri di casette recintate da filo elettrico spinato. E loro erano lì. Abitavano lì, vivevano lì, lavoravano e morivano lì.
Sento i passi stanchi di Zoltan dietro di me, continua a bere la sua bottiglietta d’acqua. È stanco. I ricordi pesano più della fatica fisica. Arriviamo alla fine della ferrovia con la testa, il cuore e le gambe straziati. 

Di Romina Remigio

Romina Remigio




A caccia di biodiversità

Ritoo nella foresta nuvolosa, dopo 16 anni

Piccolo dal punto di vista geografico, l’Ecuador è uno dei paesi con la maggiore diversità biologica e climatica del mondo.  Dalla costa del Pacifico alla duplice catena delle Ande, dalla foresta Amazzonica alle isole Galapagos, vi sono ben 46 ecosistemi. Tanti mondi in uno, da difendere dalle speculazioni multinazionali e dal turismo selvaggio.

A 16 anni di distanza è sempre lo stesso fratel Giovanni, l’entusiasta missionario delle foreste. È sera già inoltrata quando arriviamo, una mia amica e io, alla sua missione nella capitale ecuadoriana, e mi accoglie con il solito calore, anche se porto con me tre italiani, padre, madre e figlio, conosciuti in aereo. In soffitta c’è posto anche per loro.
Esauriti i convenevoli, fratel Giovanni indossa il grembiule, si mette in cucina e prepara una buona zuppa per tutti. Ci sono anche altri ospiti, un collega entomologo, il padre spagnolo Josè dei maristi di Leòn, due visitatori italiani e le due ragazze che fratel Giovanni fa studiare e che aiutano in cucina. Sono allegre e affettuose, di famiglia contadina, numerosa, che vive in una zona remota della sierra, dove non ci sono scuole.
Durante la cena, Queti è venuta a incontrarmi: non la riconosco tanto è cambiata. Sono passati 16 anni, da quando la conobbi bambina sui monti di Las Pampas e rimasi per alcuni giorni ospite della sua famiglia, impiegata da fratel Giovanni Onore nella custodia del territorio della Fondazione Otonga.
Era stata un’esperienza indimenticabile, che mi fece scoprire un modo di vita semplice, guidata dalla fede, ricca di valori a noi italiani quasi dimenticati: ospitalità, rispetto e amore in famiglia. Di questo e della natura fantastica del paese scrissi in uno dei miei primi reportages per Missioni Consolata (ndr  luglio agosto 1995, pag. 34).
Ora Queti ha 27 anni ed è una giovane molto attraente, con vestiti attillati e scarpine eleganti con tacchi alti. Dopo aver studiato turismo al college, ha trovato lavoro in un albergo e vive in città. Mamma Carmen e papà Cesare Tapia, sono rimasti lassù, tra le nuvole della foresta, i 9 figli sono in giro per il paese a lavorare. Mario, il maggiore, vive e lavora in Italia come scultore.
Devo ritornare lassù, vedere quello che fratel Giovanni sta facendo in quella zona montagnosa da una ventina di anni, per salvare la preziosa foresta nuvolosa. Ma le notizie da Guayaquil parlano di allagamenti, dovuti alle piogge incessanti. Le strade sono interrotte per frane, le città allagate, quindi per ora non possiamo raggiungere Otonga e cambiamo programma.
NELLA FORESTA DEL NAPO
Un breve volo ci porta a superare il ciglione della sierra orientale, sullo sfondo le cime di ghiaccio dei vulcani. Dai 3 mila metri di Quito scendiamo ai 300 di Coca, sul rio Napo, in Amazzonia. Sorvoliamo una vasta zona dove le piantagioni di palma da olio africana hanno sostituito la foresta pluviale amazzonica. In lontananza ci sono i fuochi dei pozzi petroliferi che hanno portato a uno sviluppo caotico e molta immigrazione. Da qualche giorno è scattato l’allarme per via di una perdita che ha inquinato il grande fiume, la popolazione è stata invitata a fare scorta di acqua, perché tra poco arriverà l’onda nera.
«Le multinazionali che stanno sfruttando il bacino sono americane – mi spiega Emily, una biologa di New York che lavora in Ecuador da qualche anno per monitorare lo stato dell’inquinamento provocato dagli insediamenti industriali -. Ma ora sono attente a non far mancare acqua potabile alla popolazione. Vi è stata una immigrazione da altre regioni del paese perché qui c’è più lavoro ed è meglio pagato».
Un servizio di battelli lungo tutto il rio Napo permette di raggiungere in 8 il confine peruviano, per poi proseguire verso il rio delle Amazzoni e addentrarsi nella foresta brasiliana. Ci imbarchiamo anche noi, ma per raggiungere uno degli «eco-lodge» sorti lungo il fiume per i turisti che visitano il Parco nazionale Yasuní.
Facciamo il viaggio in compagnia di Conceptiòn e della figlia Hilda, che ha appena vinto il concorso di reginetta di bellezza del Parco Yasunì. La mamma è felice, sorride orgogliosa accanto alla ragazza, seria e compresa nel suo ruolo, i lineamenti indi e la fascia di miss sulle spalle. Vivremo insieme questa piccola avventura. «Hilda mi assomiglia molto. Alla sua età avrei potuto sposare un americano, lasciare il mio povero villaggio sulla costa del Pacifico» ricorda con rimpianto.
Invece, con 6 figli da allevare, lei e il marito decisero alcuni anni fa di trasferirsi a Coca, dove aveva trovato un lavoro ben remunerato in una compagnia americana. Ma a contatto con gli occidentali,  l’antica tradizione familiare, cristiana, si sta sgretolando, si lamenta Conceptiòn: la figlia maggiore è già divorziata ed è tornata a vivere coi genitori insieme ai suoi due bambini.
Nel parco sarà Froilan la nostra guida naturalistica. Di etnia yasuní, discendenti dei primi abitanti della foresta, i nativi sono oggi superati in numero dai nuovi arrivati, che vivono nelle città. Depositari della cultura amazzonica, solo loro sono autorizzati a farci conoscere le meraviglie della selva amazzonica, che è più difficile da apprezzare rispetto alla foresta nebulosa della sierra. Qui infatti le dimensioni e l’altezza delle piante e la densità del loro fogliame mantengono nell’oscurità molti aspetti della vita vegetale e animale, impossibili da cogliere e apprezzare in tutta la loro ricchezza, senza l’aiuto di una guida indigena.
Il Parco Yasuní, presentato come «oro verde» nei volantini di propaganda turistica, è stato dichiarato area protetta e «riserva della biosfera», ma la minaccia della corsa all’oro nero è sempre incombente e tiene gli indigeni sul piede di guerra.
LA FORESTA NUVOLOSA
Padre Josè e fratel Giovanni mi accompagnano sul fuoristrada verso la Riserva di Otonga. È un giorno di sole, ma appena lasciamo la vista sublime dei vulcani Pichincha e Cotopaxi e superiamo il ciglio della sierra occidentale, troviamo la nebbia che sale dalla valle. Lunghe colonne di camion attendono che le ruspe liberino le frane che continuano a cadere, a causa delle piogge.
Il traffico è intenso e pesante; arriva da Guayaquil e i carichi maggiori  proseguono per l’Amazzonia, dove ferve l’attività di estrazione del petrolio. Le strade sono asfaltate e sono costeggiate da frequenti edifici bassi e senza finestre, case da gioco e prostituzione per gli autisti. Non ricordo di aver visto cose del genere 16 anni fa: allora le strade erano sterrate e si viaggiava salendo sulla lechera, il camion che trasportava i bidoni di latte e le mucche; o sugli automezzi carichi di forme di panela, lo zucchero fatto col succo di canna.
Otonga è frutto di un sogno del fratello marianista Giovanni Onore, nato a Costigliole d’Asti nel 1941, laureato in agraria presso l’Università di Torino, da più di una ventina di anni missionario in Ecuador, attualmente docente di entomologia all’Università Cattolica di Quito.
Il sogno cominciò a realizzarsi alla fine degli anni ‘80, quando comperò 100 ettari di foresta, a un centinaio di chilometri a sud di Quito, sul versante occidentale della cordigliera delle Ande, dove le particolari condizioni climatiche favoriscono una biodiversità altissima, un prezioso ecosistema minacciato dalla deforestazione per sfruttare il legname e fare spazio a prati, pascoli e strade. Il territorio comperato è stato affidato alla famiglia Taipa: Cesare e i figli Italo, Elicio e Arturo continuano ancora oggi a occuparsi della conservazione della fauna e flora, sviluppando attività guidate per i visitatori.
Da anni fratel Giovanni continua a girare il mondo per illustrare il suo progetto e raccogliere fondi, invitando gli studiosi a visitarlo per conoscere e studiare le meraviglie del «bosque nublado», selva nuvolosa, così chiamata per distinguerla dalle foreste pluviali dei bacini dei fiumi equatoriali. Con i fondi arrivati da varie parti, pezzo per pezzo è stata comperata la foresta integrale di Otonga, che si estende per circa 1.500 ettari, da circa 800 fino a 2.300 metri di altitudine. Essa è proprietà dell’Università cattolica di Quito; con l’arrivo di altri fondi si spera di raggiungere i 3 mila ettari.
Raggiungere la riserva non è cosa semplice, soprattutto se la stagione delle piogge è iniziata. Di fatto vi arriviamo che è già notte, a causa delle frequenti interruzioni stradali causate dagli smottamenti. Saliamo nel buio, lungo il sentirnero che attraversa un lembo di foresta e raggiungiamo la casa del guardiano del centro di Otongachi. Durante la notte la pioggia aumenta di intensità e porta via un ponticello che ci aveva permesso di arrivare, superando un ruscello. Un grosso albero è crollato e la pioggia continua a cadere, più leggera.
A Otongachi è in funzione un Centro di educazione ambientale, che ospita un museo interattivo sulla biodiversità, con strutture per attività didattiche a disposizione di studenti e scienziati. L’edificio è moderno, in cemento armato, per evitare la corrosione dovuta al clima.
Da una decina d’anni il centro è fornito anche di una costruzione che consente l’alloggio a una trentina di persone. Così biologi e naturalisti di diverse parti del mondo, hanno potuto visitare la riserva, come pure diversi gruppi di studenti universitari di Quito hanno fatto esperienza in campo, imparando a conoscere le migliaia e migliaia di specie animali e vegetali della foresta di Otonga, molte delle quali non hanno ancora un nome perché nessuno le ha ancora scoperte: specie diverse di farfalle, di orchidee (3.600 specie) e bromeliacee, fiori e uccelli colorati, insetti e serpenti, con i quali Giovanni Onore ha una dimestichezza sorprendente.
La nostra guida è Jessica, bimba di 11 anni, rimasta orfana con 5 fratelli due anni fa, quando la madre è morta per il morso di un serpente, mentre tagliava la canna. Giovanni si è preso a cuore la famiglia, dà lavoro e fa studiare i ragazzi.
A Otonga fratel Giovanni ha accolto varie famiglie che trovano da vivere nella conservazione della riserva e in varie attività artigianali, costruendo così una comunità grata e solidale verso il missionario italiano, come dimostra quanto è accaduto pochi giorni dopo la mia visita: alcuni banditi sono entrati nel centro di Otongachi, armi in pugno, terrorizzando e depredando gli ospitati, un gruppo di studiosi e appassionati della natura canadesi.
Ma i contadini che abitano nei dintorni si sono insospettiti, sono accorsi armati di machete, hanno circondato la foresta, chiamando rinforzi e la polizia della caserma più vicina, e insieme hanno catturato i banditi, eccetto uno, trovato poi ferito e annegato due giorni dopo.
Galapagos
«Non andare alle Galapagos – mi dice fratel Giovanni Onore -; hanno scarsa biodiversità e poi, sono molto costose…». Ma come si fa, una volta arrivati in Ecuador, a ignorare quel posto meraviglioso, quel mondo a sé stante, dallo sviluppo botanico zoologico fuori dall’ordinario, sperduto nell’oceano a mille chilometri dalla costa ecuadoriana? Disobbedisco e, la mia amica e io, partiamo con un volo da Guayaquil.
In aereo, siede accanto a me un giovane danese, che fa parte di un gruppo di 17 studenti che vivono in Ecuador grazie ai programmi di scambi interculturali. «La famiglia che mi ospita è meravigliosa e molto numerosa – mi confida -. La città dove abito è al confine col Perù, le scuole sono di livello molto basso e i ragazzi che vanno all’Università di Guayaquil devono pagare per entrare e c’è il numero chiuso».
Questi ragazzi hanno la fortuna di visitare solo qualche isola dell’arcipelago. Noi decidiamo di fermarci più a lungo, ne vale la pena. Alcune isole sono abitate da coloni, inviati nel dopoguerra dal governo. Ma poi, a partire dal 1964 il governo ecuadoriano si è reso conto dell’importanza delle isole e ha cominciato a impegnarsi per riparare i danni subiti dall’ambiente per l’introduzione di animali e piante estranee all’ecosistema.
Puerto Ayora è la cittadina più grande; alle 10 di sera il parco giochi è ancora pieno di bambini. L’atmosfera è molto diversa da quella, così tesa, che si respira nelle piazze delle città del continente.
Al parco incontro Julio e Inés, una coppia di anziani che ha ricevuto dai figli il dono di un viaggio per l’anniversario di nozze. «Siamo insieme da 50 anni – spiega Julio -. Abitiamo a nord di Quito, nella casa che ci siamo costruita, circondata da un giardino con alberi da frutta e verdura». Ora che è in pensione, da impiegato del ministero delle finanze, Julio si è comprato un’auto e, quando se la sente, fa il tassista. Con i 6 figli tutti sistemati e 11 nipoti, Inés si dà ancora da fare nel commercio di frutta e verdura, che compera ad Ambato e rifornisce i supermercati della capitale.
Pare che vi sia molta richiesta di trasferirsi sulle isole, per la vita tranquilla e l’assenza di criminalità, così diffusa nelle città ecuadoriane. Si pone così il problema di non stravolgere l’ecosistema già a rischio a causa del turismo, che quest’anno ha avuto un rallentamento a causa della crisi internazionale, dopo anni di crescita forte.
Pato, la nostra guida, vive con la famiglia a San Cristòbal, una delle isole più belle, tra quelle abitate, dove è nato da una famiglia di contadini della sierra, immigrati negli anni ‘50, inviati dal governo per colonizzare le isole. Dopo aver seguito un corso presso il centro di ricerche di Puerto Ayora, egli si è impiegato come guida naturalistica, a bordo delle navi che trasportano i visitatori nell’arcipelago. Senza una seria preparazione scientifica, Pato trova difficoltà a esprimersi e rendere interessanti le visite.
Mi rendo conto che la qualità delle guide si è abbassata, da quando visitai i luoghi 16 anni fa. Allora erano studiosi, anche stranieri, che curavano le visite delle isole. Nello stesso tempo ho notato che in alcuni casi la situazione è migliorata, gli straordinari animali endemici per cui le isole sono famose (uccelli, iguane, pinguini e otarie… ) sono aumentati. La lotta per eliminare animali estranei come le capre, sta dando i primi frutti. 

di Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




Le nazioni cammineranno alla sua luce

Messaggio di Benedetto XVI per la Giornata Missionaria Mondiale

«Scopo della missione della Chiesa è di illuminare
con la luce del vangelo tutti i popoli nel loro
cammino storico verso Dio, perché in Lui
abbiano la loro piena realizzazione ed il
loro compimento. Dobbiamo sentire l’ansia
e la passione di illuminare tutti i popoli, con la
luce di Cristo, che risplende sul volto della Chiesa,
perché tutti si raccolgano nell’unica famiglia umana, sotto
la pateità amorevole di Dio». Rivolgendosi ai «Fratelli nel ministero episcopale e sacerdotale» e ai «fratelli e sorelle dell’intero Popolo di Dio», nel suo Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2009,
che si celebrerà domenica 18 ottobre, il Santo Padre Benedetto XVI esorta «a ravvivare in sé la consapevolezza del mandato missionario di Cristo di fare “discepoli tutti i popoli”, sulle orme di san Paolo,
l’Apostolo delle Genti».

Nel Messaggio, intitolato «Le nazioni cammineranno alla sua luce» (Ap 21, 24), il Santo Padre ribadisce ancora una volta che «la Chiesa non agisce per estendere il suo potere o affermare il suo dominio, ma per portare a tutti Cristo, salvezza del mondo. Noi non chiediamo altro che di metterci al servizio dell’umanità, specialmente di quella più sofferente ed emarginata, perché crediamo che l’impegno di annunziare il vangelo agli uomini del nostro tempo… è senza alcun dubbio un servizio reso non solo alla comunità cristiana, ma anche a tutta l’umanità».

1. Tutti i Popoli chiamati
alla salvezza
«L’umanità intera, in verità, ha la vocazione radicale di ritornare alla sua sorgente, che è Dio, nel Quale solo troverà il suo compimento finale mediante la restaurazione di tutte le cose in Cristo. La dispersione, la molteplicità, il conflitto, l’inimicizia saranno rappacificate e riconciliate mediante il sangue della Croce, e ricondotte all’unità.
L’inizio nuovo è già cominciato con la risurrezione e l’esaltazione di Cristo, che attrae tutte le cose a sé, le rinnova, le rende partecipi dell’eterna gioia di Dio. Già oggi, nelle contraddizioni e nelle sofferenze del mondo contemporaneo, si accendono le luci della speranza di una vita nuova», pertanto il Pontefice sottolinea che «la missione della Chiesa è quella di “contagiare” di speranza tutti i popoli. Per questo Cristo chiama, giustifica, santifica e invia i suoi discepoli ad annunciare il Regno di Dio, perché tutte le nazioni diventino Popolo di Dio… La missione universale deve divenire una costante fondamentale della vita della Chiesa. Annunciare il vangelo deve essere per noi, come già per l’apostolo Paolo, impegno impreteribile e primario».

2. Chiesa pellegrina

Il Santo Padre ricorda poi che la Chiesa universale «si sente responsabile dell’annuncio del vangelo di fronte a popoli interi» e «deve continuare il servizio di Cristo al mondo», in quanto la sua missione e il suo servizio non sono «a misura dei bisogni materiali o anche spirituali che si esauriscono nel quadro dell’esistenza temporale, ma di una salvezza trascendente, che si attua nel Regno di Dio. Questo Regno, pur essendo nella sua completezza escatologico e non di questo mondo (cfr Gv 18,36), è anche in questo mondo e nella sua storia forza di giustizia, di pace, di vera libertà e di rispetto della dignità di ogni uomo. La Chiesa mira a trasformare il mondo con la proclamazione del vangelo dell’amore» ribadisce ancora il Papa, chiamando a «partecipare a questa missione tutti i membri e le istituzioni della Chiesa».

3. Missio ad gentes

Soffermandosi in particolare sulla missione ad gentes, Benedetto XVI ricorda che la missione della Chiesa, è quella di chiamare tutti i popoli alla salvezza e sottolinea la necessità di «rinnovare l’impegno di annunciare il Vangelo, che è fermento di libertà e di progresso, di frateità, di unità e di pace», impegno particolarmente urgente considerando «i vasti e profondi mutamenti della società attuale. Animati e ispirati dall’Apostolo delle genti, dobbiamo essere coscienti che Dio ha un popolo numeroso in tutte le città percorse anche dagli apostoli di oggi… La Chiesa intera deve impegnarsi nella missio ad gentes, fino a che la sovranità salvifica di Cristo non sia pienamente realizzata».

4. Chiamati ad evangelizzare
anche mediante il martirio

La giornata dedicata alle missioni è anche occasione per ricordare le Chiese locali e i missionari e le missionarie «che si trovano a testimoniare e diffondere il Regno di Dio in situazioni di persecuzione che vanno dalla discriminazione sociale fino al carcere, alla tortura e alla morte. Non sono pochi quelli che attualmente sono messi a morte a causa del suo “Nome”…
La partecipazione alla missione di Cristo, infatti, contrassegna anche il vivere degli annunciatori del vangelo, cui è riservato lo stesso destino del loro Maestro. “Ricordatevi della parola che vi ho detto: Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (Gv 15,20). La Chiesa si pone sulla stessa via e subisce la stessa sorte di Cristo, perché non agisce in base ad una logica umana o contando sulle ragioni della forza, ma seguendo la via della Croce e facendosi, in obbedienza filiale al Padre, testimone e compagna di viaggio di questa umanità».
Quindi il Pontefice ricorda alle Chiese antiche come a quelle di recente fondazione, che «sono poste dal Signore come sale della terra e luce del mondo, chiamate a diffondere Cristo, Luce delle genti, fino agli estremi confini della terra», pertanto «la missio ad gentes deve costituire la priorità dei loro piani pastorali».
Ringraziando e incoraggiando le Pontificie Opere Missionarie «per l’indispensabile lavoro che assicurano di animazione, formazione missionaria e aiuto economico alle giovani Chiese», il Pontefice ricorda che «attraverso queste istituzioni si realizza in maniera mirabile la comunione tra le Chiese, con lo scambio di doni, nella sollecitudine vicendevole e nella comune progettualità missionaria».

5. Conclusione

Nella conclusione il Papa riafferma che «l’evangelizzazione è opera dello Spirito e che prima ancora di essere azione è testimonianza e irradiazione della luce di Cristo da parte della Chiesa locale, la quale invia i suoi missionari e missionarie per spingersi oltre le sue frontiere». Perciò chiede a tutti i cattolici «di pregare lo Spirito Santo perché accresca nella Chiesa la passione per la missione di diffondere il Regno di Dio e di sostenere i missionari, le missionarie e le comunità cristiane impegnate in prima linea in questa missione, talvolta in ambienti ostili di persecuzione.
Invito, allo stesso tempo, tutti a dare un segno credibile di comunione tra le Chiese, con un aiuto economico, specialmente nella fase di crisi che sta attraversando l’umanità, per mettere le giovani Chiese locali in condizione di illuminare le genti con il vangelo della carità.
Ci guidi nella nostra azione missionaria la Vergine Maria, stella della Nuova Evangelizzazione, che ha dato al mondo il Cristo, posto come luce delle genti, perché porti la salvezza “sino all’estremità della terra” (At 13,47)». 

A cura di Sergio Frassetto

Sergio Frassetto




Cari missionari

Scrittori
Cari missionari,
ho letto con stupore sul numero di aprile di MC la nota a pié di pagina dell’articolo di Paolo Farinella «Il racconto delle nozze di Cana» (pag. 27). Resto sbalordito a leggere che praticamente l’autore della nota dice chiaro e tondo che non terrà conto di quanto scrive il papa nel suo libro «Gesù di Nazaret». Non sapevo che Benedetto XVI fosse una persona di cui si può tenere poco conto quando scrive; non sarà un esegeta ma è il successore di Pietro come vescovo di Roma, e questo senz’altro conta moltissimo per tutti noi cristiani. O no? (…)
Non entro nel merito delle tesi di Bultmann o di Martin Hengel che non conosco (anzi il nome di quest’ultimo, lo ammetto, mi è del tutto nuovo!), ma penso, conoscendo come tutti il successore di Giovanni Paolo II ormai da quattro anni, che sia un uomo di grande cultura filosofica, oltre a essere stato un noto teologo, apprezzato fin dai tempi del Concilio.
Che importanza ha stabilire se «Gesù di Nazaret» è stato scritto dal teologo tedesco o dal vescovo di Roma? Forse che il cardinale Ratzinger non è stato eletto papa proprio perché ben conosciuto per la sua attività per 25 anni alla Congregazione della Dottrina della fede, a fianco di papa Wojtila, e per la sua preparazione appunto filosofica e teologica? Si rende conto Paolo Farinella che, al di là di tutto, dire che il papa sostiene tesi ormai superate, come minimo lascia nello stupore e rischia di dividere il mondo cattolico, considerato che ben pochi tra i fedeli sono in grado di conoscere quanto sostengono gli studiosi sull’origine del quarto vangelo e l’identità dell’autore?
E, visto che gli studiosi sarebbero unanimi sull’esistenza di due diversi Giovanni, un apostolo e un evangelista, non sarebbe il caso di dirci chi sono questi illustri studiosi? Avrei piacere di conoscere le loro affermazioni; non si può dire praticamente che Ratzinger è un ignorante, senza fornire le prove del perché dovrebbe stare zitto, non essendo un esegeta di professione (ma solo un modesto papa!), e farci capire dove avrebbero ragione gli studiosi, considerato a detta di Farinella, che il vescovo di Roma è l’autore di un libro di «meditazione spirituale edificante» e che nel suo libro ci sarebbero «inesattezze e anche errori».
È possibile conoscere queste inesattezze e questi errori o deve conoscerli solo Paolo Farinella? Noi fedeli chi siamo, ancora una volta solo il popolo bue che è meglio che non legga direttamente la bibbia, come si diceva fino a 50 anni fa, per poi farcela spiegare dagli altri che hanno capito tutto?
Franco E. Malaspina
 Milano
Ce la aspettavamo una simile reazione e non è l’unica. Inviando l’articolo in questione, don Farinella scriveva: «… Verrà un giorno in cui la rivista MC verrà citata per questo articolo che per la prima volta e in maniera scientifica e serena pone l’enorme problema teologico degli scritti dei papi. Quello che dico qui, l’ho detto alla Università Lateranense lo scorso anno (e dove ritorno invitato anche quest’anno) e sono le cose che tutti dicono, ma nessuno ha il coraggio di dirlo per timori inconsistenti o per piaggeria».
La domanda del sig. Malaspina se l’è posta anche il cardinal Martini nella sua recensione: «È il libro di un professore tedesco e cristiano convinto, oppure il libro di un papa, con il conseguente rilievo del suo magistero?». La risposta viene dal papa stesso: «Questo libro non è in alcun modo un atto magisteriale, ma unicamente espressione della mia ricerca personale del “volto del Signore”. Perciò, ciascuno è libero di contraddirmi».
È ancora il card. Martini a dire che «l’autore non è esegeta, ma teologo… non ha fatto studi di prima mano per esempio sul testo critico del Nuovo Testamento», per cui il libro del papa è «una meditazione sulla figura storica di Gesù e sulle conseguenze del suo avvento per il tempo presente… una grande e ardente testimonianza su Gesù di Nazaret» e in quanto testimonianza fa certamente del bene a chi lo legge. Ma per quanto riguarda la questione giovannea e l’autore del quarto vangelo, il card. Martini afferma: «Penso che non tutti si riconosceranno nella descrizione» fatta dal papa.
Il precedente Codice di diritto canonico (1917), prevedeva espressamente il divieto ai papi di scrivere libri, perché essi parlano solo per «magistero». Nel nuovo codice la norma è scomparsa.

Follereau e Damiano
Caro Direttore,
le invio alcuni documenti sul rapporto tra Raoul Follereau e padre Damiano. Come lei sa, il prossimo 11 ottobre il santo padre canonizzerà padre Damiano de Veuster.
Follereau si adoperò moltissimo per favorire il processo di beatificazione di padre Damiano. Egli creò infatti il «Movimento internazionale per la glorificazione di padre Damiano», che raccolse firme di malati di lebbra da tutto il mondo, in un periodo dove non esisteva ancora internet, ma solo la posta normale.
Lunedì 17 aprile 1967, come riporta l’Osservatore Romano, Raoul Follereau, meglio conosciuto come il «Vagabondo della carità», varca il Portone di bronzo in Vaticano. Si reca all’udienza privata che sua santità Paolo VI gli ha accordato. Insieme a lui, gli altri membri del Movimento internazionale per la glorificazione di padre Damiano.
Stringendo le mani dei rappresentanti della delegazione internazionale, il santo padre saluta i firmatari di una petizione che unisce cristiani e non cristiani in una ammirazione unanime per l’apostolo dei lebbrosi. Da 52 paesi del mondo, 32.864 malati di lebbra di ogni confessione e 302 vescovi cattolici testimoniano così la loro riconoscenza e il loro rispetto per padre Damiano e chiedono la sua Glorificazione. Portavoce del gruppo, Raoul Follereau dice al santo padre: «Ciò di cui il mondo ha bisogno è un diluvio di carità, e io vorrei che la festa di padre Damiano venisse un giorno a illuminare la Giornata dei lebbrosi nel calendario della chiesa universale per insegnare agli uomini ad amarsi ancora di più. Poiché l’arma per vincere questa guerra contro la fame, la miseria, le malattie, l’ignoranza, è proprio quella di padre Damiano: è la carità!». Dieci anni più tardi, il 7 luglio 1977, Paolo VI promulga il decreto che riconosce le virtù eroiche del servitore di Dio, padre Damiano de Veuster. Il 4 giugno 1995 padre Damiano viene beatificato da Giovanni Paolo II a Bruxelles.
Spero che Missioni Consolata possa ricordare padre Damiano, ma anche questa straordinaria iniziativa di Raoul Follereau, che nella sua vita si adoperò tanto per gli altri, con le sue iniziative, conferenze in Europa e oltre-oceano fece conoscere al mondo la santità di padre Damiano, come pure quella di Charles de Foucauld.
Con i più sinceri saluti.
Paola Pagani
Fondation Follereau, Italia

Dossier Uruguay:
una lettera dell’ambasciatore

Egregio Direttore,
con grande gioia ho letto su «Missioni Consolata» (maggio 2009) il dossier dedicato all’Uruguay. È raro trovare informazioni su questo paese «invisibile» che, nonostante sia poco conosciuto, ha una storia tanto ricca quanto originale. Senza contare che l’Uruguay è una nazione che può vantare forti vincoli che la legano all’Italia. Mi congratulo quindi con gli autori, Mario Bandera e Paolo Moiola, che hanno saputo fare informazione  offrendo una lettura piacevole e interessante.
Nel momento stesso in cui però mi rallegro con essi, sento il dovere di fornire alcuni chiarimenti.
Il primo di essi riguarda l’informazione che si trova a pag. 40 della vostra rivista secondo la quale l’«Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico» (Ocse) ha dichiarato l’Uruguay un paradiso fiscale.  Il giorno stesso in cui è stata rilasciata tale dichiarazione, il ministero dell’Economia uruguaiano ha inviato una nota in cui si dichiarava l’erroneità di tale dichiarazione; la Ocse ha pertanto immediatamente provveduto al ritiro dell’erronea qualifica attribuita al mio paese, come evidenziato dalla nota inviata dal segretario della Ocse al ministero dell’Economia, nota di cui per altro sono in possesso. L’attuale governo uruguaiano ha condotto un esemplare risanamento del settore finanziario e, come ne danno testimonianza tutti gli organismi inteazionali, è riuscito a consolidare e rafforzare la sua economia, senza penalizzare le politiche sociali che per la prima volta sono state lanciate in Uruguay.
La seconda precisazione si riferisce al veto espresso dal presidente della Repubblica alla legge sull’aborto. L’articolo in questione, a pag. 26, afferma che tale legge avrebbe avuto un effetto «devastante» nell’aver guastato i rapporti del presidente Vazquez con la sua «coalizione politica». Occorre precisare che sin dall’anno 1999 e quindi prima di diventare presidente,  il dr. Tabarez Vazquez aveva più volte annunciato la sua intenzione di porre il veto a un progetto con tali caratteristiche se mai fosse stato approvato. Il suo comportamento non ha rappresentato una sorpresa neppure per chi lo aveva votato. Dopo il veto è stata consultata l’opinione pubblica, constatando che l’appoggio al presidente non solo non era diminuito, ma addirittura aumentato. Oggi, il dottor Vazquez dispone di una maggioranza del 70%, appoggio che nessun presidente ha mai avuto al termine del suo mandato. Né lo possono vantare oggi i nuovi candidati del Frente Amplio, coalizione politica di cui Vazquez continua ad essere il principale riferimento politico.
D’altra parte occorre precisare che il veto è stato posto ad una legge che obbligava a praticare l’aborto anche alle istituzioni cattoliche. A sua volta, per abortire non si esigeva alcuna prova medica circa l’età dell’embrione o del feto. A questi aspetti si aggiungeva tutta una serie di considerazioni filosofiche e altri errori giuridici, che la rendevano un autentico sproposito. Non solo l’aborto veniva ampiamente depenalizzato, ma si consacrava il diritto ad abortire in un contesto giuridico sommamente confuso.
Per il resto, sempre in riferimento all’aborto in Uruguay, occorre chiarire che, secondo la legge attualmente vigente nel paese, l’aborto – in determinate circostanze – risulta essere esente da pena, come nel caso del cosiddetto aborto «terapeutico» – che si esegue per «ragioni di onore» o, anche, quando la madre si trova in condizioni di particolare ristrettezza economica – sempre che, naturalmente risponda ai vari requisiti giudiziari. Sicuramente le fonti a cui si ha avuto accesso non sono state capaci di fornire un’informazione corretta, cosa che crea contrasto con l’altrimenti buona qualità del contenuto del dossier.
Infine, per evitare qualsiasi fraintendimento, desidero chiarire che il sottoscritto non tanto per esser importante, quando per essere ormai vecchio, è stato uno dei fondatori del Fronte ampio, storico con vari libri pubblicati, docente universitario (per trent’anni ho persino insegnato nella facoltà di teologia) e allo stesso tempo amico e ammiratore dei religiosi che tanto lavorano nel paese, in modo particolare con i più poveri ed emarginati.
Vi ringrazio fin d’ora se vorrete pubblicare queste poche righe di chiarimento. Vi saluto cordialmente in Cristo Gesù, con tanti auguri di pace e bene.

Mario Cayota
Ambasciatore dell’Uruguay
presso la Santa sede




Bandiere

Sono un inguaribile scettico. Non riesco a credere, ad esempio, che il contingente militare internazionale che si trova oggi in Afghanistan sia lì esclusivamente per aiutare il governo locale ad essere sovrano sul proprio territorio, garantendo sicurezza ed autonomia a quella parte del paese che vuole combattere il terrorismo. Vorrei, ma non ci riesco. Non soltanto perché continuo ad avere dei problemi con l’uso (e l’abuso) del termine «terrorista», ma soprattutto perché non ce la faccio proprio ad immaginarmi un’attenzione occidentale tutta rivolta al governo afgano e al suo presidente eletto (mentre scrivo non si sono ancora svolte le elezioni presidenziali previste per il 20 agosto). Un grillo parlante continua a ripetermi che gas, petrolio e alleanze strategiche hanno a che vedere con il nostro intervento molto più del buon cuore.
La guerra ha una sua logica perversa che purtroppo la distanza dagli eventi non aiuta a comprendere. Si corre il rischio di rimanere affettivamente e intellettualmente indifferenti di fronte al quotidiano svolgersi di un conflitto armato se non ci si è immersi o non si ha un figlio, un fratello, un marito che pattugliano armati le strade di qualche remota vallata o sconosciuta città. Eppure la contemplazione di questi genitori, fratelli o coniugi in divisa dovrebbe, al di là di ogni sentimentalismo, tener sempre viva una domanda che trascenda le ragioni di ogni singolo conflitto: perché la guerra?
Ogni feretro che tra mille onori e squilli di tromba rientra in patria avvolto in una bandiera ci impone una sosta e un interrogativo: perché, da sempre e quasi ineludibilmente, l’essere umano costringe il suo simile alla celebrazione di tali riti? In Inghilterra la chiamano «the visit», la visita, il momento più temuto da migliaia di famiglie britanniche: l’arrivo di un ufficiale in borghese con la notizia che mai e poi mai si sarebbe voluto ascoltare.
Nel mese di luglio ho trascorso un brevissimo periodo a Londra. Un paio di giorni prima del mio arrivo il contingente inglese di stanza in Afghanistan era andato incontro al più sanguinoso episodio bellico di questi ultimi decenni: otto militari di Sua Maestà erano stati uccisi in tre diversi episodi nell’arco di sole 24 ore. Tre di questi soldati erano diciottenni e uno di loro aveva perso la vita cercando di portare in salvo un suo commilitone di appena due anni più anziano. Quel giorno le crude statistiche dei quotidiani d’oltre manica recitavano impietosamente: 184 soldati morti in Afghanistan contro i 179 caduti in Iraq. Politicamente, già le prime reazioni indicavano la volontà di proseguire l’impegno armato al fianco degli alleati, cercando di capire come vincere una guerra che si ha ora paura di perdere. Per la strada, in metropolitana e nella posta dei lettori di molti quotidiani la gente comune si chiedeva invece: «Che ci stiamo a fare lì? Dobbiamo uscire da quel pantano; ogni volta preghiamo che questo morto sia l’ultimo, sapendo che non sarà così».
La nostra domanda di significato deve andare al di là delle fredde analisi politiche come delle emozioni dettate dal singolo episodio, cogliendo e facendosi carico delle ragioni di «tutte» le vittime di un conflitto. A conti fatti, dopo tanto ragionare non dubito che si arriverà alla stessa conclusione a cui ci conduce la follia del vangelo: nessuna guerra ha un senso. Tocca ai cristiani gridarlo a gran voce, più di quanto si stia facendo.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli