Paure, speranze e rabbia

Storie di immigrati

Questo reportage riguarda una casa occupata da immigrati a Ostia, realtà molto difficile e chiusa, con traffici e attività non sempre legali, e la casa di «Action» a Roma, in via Carlo Felice, a San Giovanni in Laterano. Casa questa, composta da circa 150 persone. Entrambe le case
sono state sgomberate.

Calcinacci, muri affumicati dall’umidità, secchi ovunque per raccoglier l’acqua che gocciola come un lavandino semi chiuso e un odore fortissimo che mi ottura il naso. «Attenzione non aprire a nessuno! Guardate sempre dal buco… attenzione alla polizia!». È la scritta tradotta in arabo, serbo, rumeno, wolof e italiano che ricopre il grosso portone che si chiude immediatamente dietro di noi.
È difficile far finta di nulla, parlare, camminare e pensare mentre un odore opprimente si insinua nel naso, nella mente, nella bocca. La scenografia in cui mi muovo sembra quella di un film ambientato dopo la guerra in Jugoslavia. Invece siamo solo a Roma a pochi metri dalla basilica di San Giovanni in Laterano. In uno dei tanti quartieri più costosi di Roma.
Tantissime porte si aprono e si chiudono, sguardi terrorizzati mi attraversano scrutandomi dall’alto in basso. I pensieri silenziosi e la paura li avverto con la stessa intensità di una fucilata. Lo stesso rumore sordo. Pianti, lamenti, chiacchiericcio occupano l’aria insieme a quell’odore che mi rimarrà dentro. Un melting pot di cucine e culture diverse aumenta man mano che salgo i sei piani dell’edificio.
Cento-centocinquanta persone, 60 nuclei familiari occupano questa grande casa di proprietà della Banca d’Italia in via Carlo Felice. Senza luce perché la Banca d’Italia impedisce all’Acea di Roma di stipulare contratti con gli occupanti per l’erogazione dell’energia elettrica.
Non sono sola. Con me c’è la mia collega Alessandra Sinibaldi. Il nostro contatto è una peruviana, Alexandrina. Colf di una famiglia borghese romana. Alexandrina è una vera e propria istituzione nella casa. Ci racconta come, tramite una regolare elezione fatta dagli inquilini, si vota il rappresentante capo della casa. «Ci sono regole rigide per i nuovi arrivati. Non possiamo rischiare tutti per qualcuno» spiega Alexandrina.
Organizzati come in una fabbrica ci sono tui di pulizia degli spazi comuni, tui di coloro che fanno i muratori, la stragrande maggioranza della manovalanza edilizia romana, che sistemano, bucano, tirano su muri cercando di migliorare la casa.
I bambini come sempre sono i più curiosi. Come in Africa, bastano pochi passi per ritrovarseli attorno a flotte in un riuscitissimo esempio di integrazione. Ma l’integrazione non è solo dei bambini. Non può che stupirci questa straordinaria integrazione tra stranieri e italiani, perché la casa ospita anche italiani del meridione, che lavorano in nero nella capitale e non possono permettersi gli affitti altissimi.
Inutile dire che quella è considerata una bruttura estetica al centro di Roma, vissuta come un pericolo dai vicini chiusi nei loro grandi appartamenti. E come ho sempre sostenuto quando si parla di immigrazione un esempio del quale i nostri stressati ministri potrebbero prendere esempio per una migliore politica d’immigrazione e miglioramento dell’integrazione in spazi di vita comuni.
Musulmani, cattolici, cristiani copti che si capiscono in un italiano mescolato da parole della loro lingua che non hanno traduzione. I bambini corrono su e giù per le scale. Si chiamano, si cercano contenti di avere uno spazio tanto grande per giocare.

U na decina di materassi a terra incastrati come un puzzle in quattro metri per quattro. Un armadio, un tavolino e due sedie per gli ospiti. Ci giriamo come due elefanti in una giornielleria tra i sorrisi di Aisha, una giovane etiope che vive in questa stanza con marito, figli e parenti. Una decina di etiopi che si dividono l’umidità che trasuda dai muri al pavimento.
Due occhi magnetici grandi e scuri ci fissano. Sembra una bambola seduta su uno di quei materassi con la stessa eleganza di una regina d’oriente sul suo trono. È Sara. Per molto tempo sarà la nostra modella, vincendo la timidezza e la paura dei suoi due anni. Un odore di caffè riempie l’aria. È Mohamed che appena dopo le presentazioni è scomparso nell’anticamera di una pseudo-cucina. Sarà il primo dei sei caffè della giornata, dei sei piani. Forte e scuro come la loro terra africana.
Aisha ci racconta la sua storia. Amava Mohamed, ma in Etiopia era dura. Volevano sposarsi, ma nel loro villaggio era iniziata una guerriglia tribale. Appartengono a due tribù rivali da sempre. Un fratello di Mohamed era venuto in Italia e gli scriveva una lettera al mese. Gli mancava la sua terra. La luce e i colori dell’Etiopia, la famiglia, le feste tutti insieme, ma «mi ripeteva sempre, non sai che gioia svegliarsi la mattina senza saltare dal letto, non andare a dormire con il terrore che anche quella notte verranno a fare razzie – ricorda Mohamed -. È vero. Qui è dura. Non si fidano. E quando trovi lavoro ti ricattano con uno stipendio da fame, tanto sanno che non possiamo ribellarci, altrimenti non abbiamo una documentazione per rinnovare il permesso di soggiorno. Menomale abbiamo saputo di questa casa occupata. Siamo in tanti e diversi. La sera succede di tutto, perché c’è sempre chi fa entrare qualcuno che spaccia come amico. Ma almeno abbiamo un tetto. E la maggior parte degli abitanti sono brave persone. Sono riuscito a trovare questi materassi e piano piano compro qualcosa per la mia famiglia. La nostra gioia più grande è la nostra Sara. Non riuscivamo ad avere figli. E per noi che siamo cresciuti con il pensiero fisso di fare dei bambini, non avee di nostri era dura. Ma abbiamo pregato e pregato, e il buon Dio ci ha premiato» continua Mohamed.
Parliamo mentre Sara continuamente si gratta la testa piena di ricci. «È un’allergia del cuoio capelluto, mi hanno detto» dice Aisha. La mia paura, avendo una testa altrettanto piena di ricci, è che fossero pidocchi. Ma che fare. Non posso andar via. Non posso non ascoltarli. Non posso non stargli vicina. Non è stato semplice entrare laddove non entra nessuno. Ci avevano dato fiducia. E io non potevo tradirli.
Guardo Alessandra, capisco lo stesso timore, ma la stessa voglia di documentare come si possa ancora, nel terzo millennio, vivere in queste condizioni, nella Roma multietnica. Alexandrina ci fa capire che ci stanno aspettando. Continuiamo a salire le scale tra i saluti e gli sguardi di chi è intrinsecamente intimorito. Sono clandestini. Clandestini con storie alle spalle allucinanti. Ma tutti insieme vanno a manifestare per il diritto alla casa. La casa di Carlo Felice è nota per le sue manifestazioni. Spesso sono finiti nei telegiornali nazionali.

A lexandrina ci porta a casa sua; vive con il nipote, la sorella e un’altra sudamericana che ha ospitato. L’odore di cibi e l’arredamento tipicamente sudamericani ci avvolge e ci impregnerà i vestiti. Un bellissimo ragazzo vestito come tanti suoi coetanei italiani è steso su un letto fisso a guardare i video di Mtv. Non si gira, non ci guarda, sembra quasi non accorgersene.
Alexandrina dice essere suo nipote. «Diciassette anni e da due anni su quel letto per problemi forti alle articolazioni. È stato in coma per un lungo periodo, quando si è risvegliato doveva seguire una fisioterapia costante per riprendere a camminare. Il primo periodo l’ha fatta in ospedale, ma poi è tornato a casa e io e mia sorella non siamo riuscite a farlo curare».
Le chiedo se in Perù non sarebbe stato più semplice e la sorella mi dice che vivevano in una povertà spaventosa. «Tanti fratelli con tante mogli, figli e genitori troppo anziani. Come tutti abbiamo sognato una vita dignitosa e comunque riusciamo a mantenerci e a mandare anche qualche soldo a casa per i nostri genitori, abbiamo conosciuto un medico volontario che ogni tanto viene a trovarci e ha detto che aiuterà mio figlio, ma Dio ci aiuterà come sempre, conclude Rosaria».

D io, Dio, Dio ci salverà. Ci aiuterà. Come in tante altre situazioni, mi chiedo come riescono in queste situazioni a credere con tanta forza. Ma forse è proprio in queste situazioni drammatiche che devi avere fede. Se non hai un Dio in cui credere, in cui sperare, la vita non ha più senso.
Il loro amico più stretto è il terrore di essere sgomberati da un momento all’altro. Vivono con la valigia sempre pronta a scappare perché, mi ripetono, «sappiamo che prima o poi verranno a sgombrarci» dice Alexandrina.
Nella mente vedo la foto del loro terrore. Incursione della polizia e anziani, donne e bambini buttati sulla strada, rinunciando anche a quei materassi, tavolini che hanno comprato con tanta fatica.
Ci sono interessi enormi per quella casa al centro di Roma. A distanza di due anni mi chiedo spesso dove sono andati. Sara sarà cresciuta ma dove sarà? E Alexandrina? Ho provato a chiamarla, ma non risponde più a quel numero.

N ello stesso periodo visitiamo anche la realtà di un’altra casa occupata che non nominerò per ragioni di sicurezza, perché la situazione all’interno è molto pericolosa, dovuta anche al fatto che non c’è una organizzazione ma c’è di tutto.
È una scuola abbandonata a Ostia. Una realtà molto più seria e complicata della casa a San Giovanni. Non è semplice entrare, ma il nostro contatto è un attivista di diritto alla casa, che spesso viene qui per dare una mano a chi vuol essere aiutato. È lui che ci accompagnerà e ci spiegherà.
Parliamo all’entrata mentre a flotte la gente entra e esce, non prima di averci scrutato e interrogato il nostro amico con lo sguardo, su chi siamo e perché siamo lì. Sembra una casa della periferia degradata di Bucarest. Fredda. Vetri rotti. Muri di cartongesso sfondati. Dalle tracce sono i topi i veri padroni di casa.
Un bimbo di circa sei anni scorrazza con una mini moto da competizioni, senza casco e palesemente troppo piccolo per una moto. Gli immigrati si sono divisi in piani. Al primo piano ci sono marocchini, tunisini, egiziani che lavorano qua e là come muratori; al secondo piano sudamericani e italiani disperati, quasi tutti impiegati come colf nelle case e nel mercato della droga; gli ultimi due piani del tutto incontrollabili e abitati da africani. Nigeriani, senegalesi e africani soprattutto dell’Africa occidentale, che hanno ricreato la loro gerarchia tribale.
Sguardi spauriti e spaventati di altissimi ragazzi africani ci osservano e escono per andare a vendere occhiali e asciugamani. Alcuni mi sorridono, mi danno la mano e si presentano. Altri mi chiedono di fargli una foto per mandarla alle famiglie e alle mamme, preoccupate del destino dei figli spariti da mesi in quell’Europa di bianchi.
Ragazzini rumeni sniffano colla in un sottoscala. Avranno meno di 18 anni, ma occhi da uomini che hanno assaggiato la durezza della vita da immigrato povero. «Hashish, marijuana, erba, coca…» ripetono come un disco incantato da tempo.

D ue bambini si avvicinano curiosi della macchina fotografica, vogliono vederla, toccarla. Esce una donna, la madre, vestita al quanto succintamente: non mi servono spiegazioni per capire il suo lavoro. Mi chiede se i bimbi mi stanno dando fastidio.
Prendo la palla al balzo per dirle che sono carinissimi, dolcissimi e che amo i bimbi africani. «Menomale che c’è ancora qualcuno che ci vuol bene – dice, voltando lo sguardo a quel bianco vicino la porta -. È il padre di Jafety, il più grande dei miei figli e nettamente più chiaro della mamma e del fratellino, viene qui ma non ne vuole sapere. È un operaio di Ostia, razzista, con moglie e figli a casa ma qui viene a comandare e a divertirsi sbandierandomi i suoi soldi» mi dice stizzita Rosa.
Lo guardo fulminandolo per lo sdegno da donna, italiana e bianca, mentre lui, indifferente e con ancora indosso la tuta da lavoro, fa cenno a Rosa che la sta aspettando già da troppo tempo. Mi fa capire che non vuole finire nelle mie foto, chiudendosi la porta dietro non prima di aver fatto entrare Rosa.
Guardo Alessandra impotente: che si fa? Chiamiamo la polizia? Non possiamo, ne andrebbero di mezzo tutti e poi vuoi che non si sappia già cosa succede qui dentro. Continuiamo a giocare con i bambini mentre la mamma si sta prostituendo dentro quella stanza. A pochi metri dai figli che potrebbero spingere la maniglia della porta, entrare e vedere tutto. Vedere cosa mi dico, che non avranno già visto!
Dopo un po’ si riapre la porta, l’italiano esce e se ne va senza nemmeno salutare suo figlio e noi ci avviciniamo. Rosa sta sistemando quell’umida e scrostata camera. Non so che dirle. Che discorso iniziare. Ci invita subito a entrare e ad accomodarci sull’unica cosa che ha: un grande letto matrimoniale con ancora lenzuola disfatte. Cosa dirle? «Non preoccuparti, ne uscirai! Ci sono tante associazioni, ti aiuteremo».

I l brutto e il bello del mio lavoro è proprio questo. Quando ti occupi di reportage sociale, quando racconti la disperazione, le difficoltà di queste persone… è vero che dai loro voce, ma non puoi dirgli esplicitamente ti aiuterò perché non puoi farlo. Non puoi aiutare tutti. Perché anche se conosci tante persone non puoi sempre chiedere e chiedere di darti una mano a sistemare questo e quello. Puoi consigliare delle associazioni di aiuto e sostegno.
Rosa chiarisce subito che se siamo lì per farle una predica o per giudicarla è perché non conosciamo come va il mondo. Le dico che posso provare a capirla. Non voglio giudicarla. Voglio invece ascoltarla.
«Sono venuta qui come tante, con la speranza di un futuro e di un lavoro. Mio fratello in Nigeria mi aveva venduta a un trafficante di droga e donne, molto pericoloso e io non lo sapevo. Sapevo che in Nigeria succedevano queste cose, ma se non ti fidi nemmeno di tuo fratello! Noi in Africa non siamo come voi, crediamo nella famiglia, viviamo tutti insieme senza distinzioni e se un parente ha bisogno siamo pronti a fare sacrifici tutti. Ho capito chi era quel mio tranquillo fratello quando era ormai troppo tardi. E la storia continua come voi giornaliste già sapete. Botte, botte, botte e poi la strada. Aborti continui e strada. Strada, droga e aborti clandestini. Lavoravo dalle 12 alle 15 ore sulla strada senza potermi permettere nulla. Anche i vestiti erano i loro».
Cerco di capirla e iniziare con dei se e dei ma… Rosa tronca il discorso. «Non accetto critiche da te. Che ne sai tu della disperazione, di tuo figlio che ti dice mamma ho freddo, mi fa male la pancia. Ho fame. Allora anche se quel bimbo ha la faccia di quello che ti ha usato è anche parte di me. Jafety ha i miei occhi. Nelson la mia faccia. Allora non pensi al tuo corpo o a te stessa. Pensi che è l’unica cosa che hai che può dare da mangiare a tuo figlio. Sono riuscita a staccarmi da quello che mi ha messa sulla strada. Gli ho pagato il famoso debito con milioni e ora lavoro per conto mio, qui. Ho provato e continuo a cercare un lavoro onesto. Ma sembra non esserci. Sono andata da tante associazioni che stai nominando. Ma la verità è che io sono una prostituta e rimarrò sempre una prostituta. Per giunta nera. Una prostituta nera. Vorrei solo un lavoro di cui i miei figli non dovranno mai vergognarsi, vivere in una casa povera, ma dignitosa e magari un buon compagno. Ma ho perso le speranze. L’amore non esiste. Per quelle come me l’amore non esiste. E gli uomini, mie care, fidatevi: sono tutti uguali.
Qui fa schifo, lo so. Le finestre sono rotte. I bagni sono di tutti e ci trovi anche gente che si spara in vena eroina. E il terrore continuo che possano fare qualcosa ai miei figli. Ma è meglio che stare sotto i ponti. La luce va e viene, quindi d’inverno i termosifoni vanno per un po’. Ogni tanto vengono a chiuderli, perché non paghiamo… Menomale c’è un’associazione di attivisti che ci aiuta. Abbiamo una stanza tutta per noi. Sono cose per voi assurde, ma per me è già un passo avanti» chiude il discorso Rosa.
C ontinuiamo a scattare tra i sorrisi dei bambini che vogliono entrare dentro l’obiettivo. Rosa ci guarda divertita ma non dice più nulla. Ci ha già vomitato la rabbia e il dolore. Non è stata un’intervista la mia, ma solo un suo sfogo. E lo prendo così. Il senso di impotenza torna come il senso di colpa che si fa spazio nel cuore e nella mente ogni volta dopo aver visto e ascoltato queste storie. E ti dici: è il tuo lavoro. Sei la loro voce e così li puoi aiutare.
Dopo qualche settimana leggo nella cronaca locale del Lazio che a Ostia, nella malfamata casa occupata da clandestini «è stata ammazzata una giovane nigeriana. Si faceva chiamare Rosa. Lascia due bambini di cinque e due anni affidati all’assistente sociale».
Riguardo le foto e rivedo quella sagoma nello sfondo del primo piano di Jafety. Ogni foto è un ricordo. Rivivo quel suo sfogo. Ricordo i sorrisi dei bambini così come lo sguardo di quel cliente. Il padre di Jafety che ha abbandonato suo figlio pur di non rovinare quel finto matrimonio che andava avanti da troppi anni. 

Romina Remigio

Romina Remigio

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