Come nacque la terra dei «gauchos»

Dall’indipendenza ai giorni nostri

Terra schiacciata prima dai colonizzatori portoghesi e spagnoli, poi da Brasile ed Argentina, l’Uruguay si guadagnò l’indipendenza nel 1825. Ospitò i rivoluzionari che scappavano dall’Europa. Uno di loro si chiamava Giuseppe Garibaldi. Durante le guerre mondiali, grazie al commercio della carne, visse periodi di abbondanza. Poi arrivò la crisi e con essa la dittatura. Con il ritorno della democrazia, ai due partiti storici «Blanco» e «Colorado», entrambi  conservatori, si affiancò il «Frente amplio», che oggi governa il paese.


Un tempo l’Uruguay era considerato la Svizzera dell’America Latina. All’inizio del Novecento, unitamente al Brasile e all’Argentina, attirò schiere di emigranti europei, in buona parte italiani. A tutt’oggi si calcola che quasi la metà della sua popolazione sia composta da discendenti del Bel paese. Pur piccolo geograficamente, l’Uruguay nel panorama dell’America Latina si presenta come una nazione per certi versi straordinaria. Dall’indipendenza (1825) ha sempre avuto (salvo alcuni periodi) governi eletti democraticamente e a suffragio universale. Ha introdotto molto tempo prima dell’Inghilterra l’istruzione elementare, gratuita, laica e obbligatoria per tutti i bambini che vivevano sul suo territorio. Ha dato il voto alle donne molto prima (era il 1932) di gran parte dei paesi europei e sin dall’inizio del Novecento la giornata lavorativa era di otto ore, molto prima che negli Stati Uniti e nel resto del mondo. Anche la legge sul divorzio venne promulgata decenni prima che in Spagna e in Italia.

All’inizio del XIX secolo, grazie all’opera di José Gervasio Artigas e ad un gruppo di Libertadores, risoluti, con l’aiuto dell’Inghilterra, l’Uruguay conquistò l’indipendenza e si consolidò come stato sovrano a spese dei due grandi imperi coloniali concorrenti Spagna e Portogallo, e poté affermarsi nel consesso delle nazioni in quanto la potenza coloniale inglese, che stava sostituendosi a quella spagnola, anelava avere il controllo di almeno una delle due sponde del Rio de la Plata per potere più facilmente controllae i commerci sia marittimi che fluviali. Sulle ceneri coloniali dei paesi iberici sorsero due grandi nazioni: Brasile e Argentina, che in una certa qual misura ereditarono lo stile imperiale delle rispettive potenze che le avevano generate. L’Uruguay, pur nella sua piccolezza, riuscì a conservare l’indipendenza diventando per tutto l’Ottocento il paese che dava ospitalità a quanti in Europa lottavano contro l’assolutismo regio imperante nel vecchio continente. Non è certamente un caso che schiere di carbonari italiani come di patrioti ricercati dalle polizie di mezza Europa, trovarono rifugio a Montevideo, mettendo così a disposizione di questa piccola Patria d’adozione il loro ardore rivoluzionario e le ansie di libertà che si portavano dentro.
Tra questi «ribelli», la figura di spicco resta Giuseppe Garibaldi (esiliato in America Latina dal 1835 al 1848), che il governo uruguayano del tempo, a fronte delle minacce d’invasione (per non dire di annessione) delle due potenti nazioni vicine, nominò comandante in capo della sua marina militare. Garibaldi seppe, nonostante l’esiguità dei mezzi vincere alcune battaglie che da quel momento lo consacrarono come l’eroe dei due mondi. Le stesse «camice rosse» che i garibaldini indossarono nel periodo del nostro Risorgimento, erano confezionate con stoffa scarlatta che il governo uruguayano aveva regalato al nostro eroe per i servizi resi e che lui non riuscendo a piazzare sul mercato, trasformò in uniforme da battaglia per la spedizione dei Mille.

Grazie ad un territorio molto esteso (parliamo di circa 180 mila chilometri quadrati), scarsamente  popolato, ben presto l’allevamento del bestiame si trasformò in fonte di ricchezza e il porto di Montevideo diventò lo sbocco naturale per una vasta area di territorio, che comprendeva diversi paesi i quali trovavano in quel porto, marittimo e fluviale allo stesso tempo, l’approdo ideale per i loro commerci. L’Uruguay beneficiò di questa situazione favorevole, soprattutto durante i due conflitti mondiali, in quanto potèrifornire della carne bovina ed ovina prodotta nelle immense praterie del suo territorio parecchie nazioni impegnate sull’una e sull’altra parte dei vari fronti bellici. Questa «pacchia» durò fino agli anni ’50 con la guerra di Corea. Le esportazioni di carne diedero al paese una solida riserva di valuta estera che  permise al «pesos», la moneta nazionale di competere con il dollaro degli Usa.
Purtroppo, la classe politica formata dai due partiti tradizionali – il «Blanco», espressione degli interessi agrari, ed il «Colorado» rappresentante della borghesia legata alle attività del porto di Montevideo – non seppe reinvestire le ingenti somme a disposizione per migliorare mezzi e processi di produzione, preferendo la speculazione finanziaria e favorendo il consumo di beni voluttuari. Tutto ciò portò all’aumento dell’inflazione, al crollo dell’occupazione e ad un inasprimento delle tensioni sociali, la recessione entrò quindi al galoppo nella realtà uruguayana scatenando forti reazioni nei settori più colpiti dalla crisi; sorse pertanto a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, un vasto movimento di massa capeggiato dalla «Convenzione nazionale dei lavoratori» (Cnt), che si oppose tenacemente alle indicazioni del «Fondo monetario internazionale», che cominciava a dare delle direttive che avrebbero pesantemente condizionato la politica finanziaria ed economica dell’Uruguay. Parallelamente sorse il «Movimento di liberazione nazionale tupamaros» (leggere il riquadro alle pagine 30-31), che fu protagonista di azioni eclatanti che ebbero un forte impatto nazionale ed una vasta risonanza mondiale.

Nel 1971 fu fondato il «Frente amplio», coalizione di centrosinistra  formatasi attorno ad un programma progressista che candidò il generale a riposo Liber Seregni alle elezioni presidenziali dello stesso anno. Le elezioni furono però vinte da Juan Maria Bordaberry del partito Colorado. Il partito Blanco denunciò brogli rifiutando di accettare il verdetto elettorale: tra caos politico, crisi economica e malessere sociale, si creò una situazione incandescente che spinse le forze armate ad intervenire con un colpo di stato. Sciolsero parlamento, partiti e sindacati, instaurando quindi un regime dittatoriale basato sulla «dottrina della sicurezza nazionale», appresa dalle alte gerarchie militari, nel campo di addestramento di Panamà (la famigerata Escuela de las Americas), gestito e diretto dagli Stati Uniti.
A livello economico applicarono le teorie neoliberali che portarono alla concentrazione della ricchezza nelle mani di diverse multinazionali straniere, riducendo il salario  a meno della metà del potere d’acquisto precedente. Quello fu uno dei periodi più tristi e bui della recente storia uruguayana, i militari diffusero un clima di paura, attuarono un programma di detenzioni arbitrarie, applicarono con  metodi scientifici la tortura sui prigionieri politici, causando di conseguenza l’abbandono del paese di migliaia di persone che si rifugiarono all’estero. Nel 1980 i militari al potere indissero un referendum attraverso il quale intendevano istituzionalizzare il loro regime autoritario; questo referendum fu sonoramente bocciato ed ebbe il merito di far capire che non si poteva continuare su una strada di totale mancanza di libertà e autoritarismo generalizzato.
Lentamente l’opposizione si riorganizzò e in forza anche di un aumento spropositato del debito estero, i militari aprirono la possibilità di un timido ritorno alla  legalità. Nel frattempo, si moltiplicarono le manifestazioni di disobbedienza civile, pacifiche e nonviolente che offrirono al mondo intero l’immagine di un popolo che voleva riappropriarsi della sua storia. Dopo uno sciopero generale coraggiosamente portato avanti dall’intera popolazione nel gennaio del 1984, si riannodarono i colloqui tra la giunta militare e i partiti politici e si avviò un processo di ritorno alla vita democratica in cui venivano coinvolti tutti coloro che nella notte buia della dittatura erano stati esclusi. Lentamente riprese vita tutto ciò che caratterizza un moderno stato rispettoso della Costituzione e dei diritti dell’uomo anche se la ferita dei desaparecidos, dei torturati e degli esiliati, fu traumatica e lacerante e resta tutt’ora aperta  nel tessuto sociale del paese. Con le elezioni del 1984 i militari uscirono di scena con l’impegno che i governi seguenti non avrebbero portato sul banco degli imputati i responsabili delle efferatezze compiute.

Alle elezioni del 1989 il Frente amplio si affermò a Montevideo, dando per la prima volta nella storia del paese un’amministrazione di centrosinistra ad un governo municipale. Logorati da divisioni intee e contrassegnati da atteggiamenti passivi ed ignavi di fronte alla dittatura, i due partiti tradizionali che si erano spartiti il potere tra di loro per quasi due secoli, vennero superati, nel 1999 da una nuova formazione politica denominata «Incontro Progressista», che oltre a recuperare tutte le forze del Frente amplio, seppe integrare al proprio interno anche il movimento dei tupamaros, che accettarono di entrare nell’agone politico con i loro leader più rappresentativi. Il nuovo clima  instauratosi favorì nel 2004 l’elezione di Tabaré Vázquez, primo uomo di sinistra ad accedere alla suprema carica di capo dello stato, ottenendo inoltre la maggioranza assoluta alle Camere.
Sul piano interno il primo atto di Vázquez fu di avviare un piano di emergenza di due anni per rispondere ai bisogni alimentari, sanitari ed educativi della popolazione; in politica estera firmò un accordo con il Venezuela di Hugo Chávez in base al quale il petrolio caraibico veniva acquistato a prezzi contenuti, favorendo nel contempo l’esportazione di prodotti alimentari dall’Uruguay al Venezuela. Riallacciò le relazioni diplomatiche con Cuba (rotte nell’aprile 2002), mentre con l’Argentina firmò accordi su diritti umani ed emigrazione in base ai quali i due paesi, segnati entrambi da devastanti dittature militari nel recente passato, si sarebbero impegnati reciprocamente a fornire informazioni relative ai desaparecidos delle nazioni rioplatensi, al fine di far chiarezza sui numerosi «buchi neri», che hanno costellato la loro storia.

di Mario Bandera


Cronologia storica essenziale
Dai charrua ai giorni nostri

Secolo XVI – La regione è popolata da 3 gruppi autoctoni: i charrúa, i chaná e i guaraní.
1517-1527 – Arrivano i primi esploratori dei popoli colonizzatori: Juan Diaz de Solis e soprattutto Sebastiano Caboto.
Secoli XVI – XIX – Si diffonde l’allevamento del bestiame. Nello stesso tempo, i popoli indigeni vengono cacciati verso nord o sterminati.
1680-1724 – I portoghesi costituiscono la Banda Oriental, un territorio che comprende l’attuale Uruguay e buona parte dello stato brasiliano di Rio Grande do Sul.  Per tutta risposta, gli spagnoli fondano Montevideo (1724).
1810 – 1816 – Rivolta nella Banda Oriental, capeggiata da José Artigas.
1816-1823 –  Il territorio della Banda Oriental viene invaso dai portoghesi. Nel 1823, l’Uruguay diventa una provincia del Brasile, appena resosi indipendente dal Portogallo.
1825-1828 – Gli abitanti della Banda Oriental chiedono l’indipendenza dal Brasile, che viene dichiarata il 25 agosto 1825, ma ottenuta ufficialmente soltanto nel 1828, dopo la mediazione del Regno Unito.
1830 – Viene emanata la Costituzione della nuova «Repubblica orientale dell’Uruguay» (18 luglio).
1839-1851 – La «Grande guerra» con l’Argentina divide il paese tra indipendentisti e fautori della fusione con il vicino stato.
1865 – Il dittatore Venancio Flores inserisce l’Uruguay nella Triplice Alleanza con Brasile ed Argentina contro il Paraguay.
1876-1879 – Il dittatore Lorenzo Latorre fa recintare i latifondi. Scompare la figura del «gaucho», il mandriano libero.
1903-1915 – José Batlle y Ordóñez, durante le sue due presidenze (1903-1907 e 1911-1915), modeizza il paese ed emana leggi all’avanguardia per l’epoca.
1932 – Viene approvata la legge sul suffragio alle donne.
1915-1950 – Durante le due guerre mondiali e la guerra di Corea, aumentano le esportazioni di carne uruguayana, foita agli alleati (in Europa) e agli statunitensi (in Corea).
1964 – Viene fondata la «Convenzione nazionale dei lavoratori» (Cnt).
1965 – Nasce il «Movimiento de liberación nacional tupamaros». Lo capeggia Raúl Sendic.
1971 – Nasce il Frente amplio, coalizione di sinistra che ha l’obiettivo di contrastare il dominio dei 2 partiti conservatori dei Blancos e dei Colorados.
1973-1984 – È il decennio della dittatura militare. Sono vietate associazioni, partiti politici e sindacati. Vengono praticate la detenzione arbitraria e la tortura.
1984-1994 – Julio Maria Sanguinetti, candidato del Partido Colorado, vince le elezioni.  Gli succede (1989) Luis Alberto Lacalle del Partido Blanco. Nel 1994 torna Sanguinetti.
Marzo 1991 – Uruguay, Argentina, Brasile e Paraguay creano il Mercosur.
Novembre 1999 – Partido Blanco e Partido Colorado si alleano per impedire al centrosinistra, riunito nella coalizione del Frente amplio (in forte e continua ascesa), di vincere le elezioni. Viene eletto presidente Jorge Batlle, colorado.
Ottobre 2004-marzo 2005 – Tabaré Vázquez, candidato del Frente amplio, vince le elezioni presidenziali (ottobre). Il 1° marzo 2005 inizia il suo mandato.
Marzo – Aprile 2009 – Il relatore Onu stila un rapporto molto duro sulla situazione delle carceri (marzo). Secondo l’Ocse, l’Uruguay è nella lista nera dei «paradisi fiscali» (2 aprile).
Giugno 2009 – Il Frente amplio, la coalizione attualmente al potere, sceglie il proprio candidato per le elezioni presidenziali.
Ottobre 2009/marzo 2010 – Sono in programma le elezioni presidenziali (ottobre 2009). Il nuovo presidente entrerà in carica qualche mese dopo (marzo 2010).

Fonti principali: Guida del mondo, Il mondo visto dal Sud, 2007-2008, Emi, Bologna 2007 (da segnalare che l’edizione originale di quest’opera viene proprio da Montevideo, per merito dell’Instituto del Tercer Mundo); Atlante Universale, Editorial Sol 90, Barcellona 2002.
(a cura di Paolo Moiola)

 

Mario Bandera




Piccolo e orgoglioso

U come Uruguay

Schiacciato tra Argentina e Brasile, l’Uruguay è un paese semisconosciuto. Eppure ha una storia importante, anche in relazione all’Italia. Lì ha vissuto Giuseppe Garibaldi, lì sono arrivati migliaia di emigrati italiani (quasi il 40 per cento della popolazione è di origine italiana). Ed oggi…

Montevideo. C’è un poliziotto quasi ad ogni incrocio. Eppure la città – la parte vecchia della capitale uruguagia – sembra deserta di persone e di auto. È domenica, uffici e negozi sono chiusi. Spinti da una curiosità che necessita di soddisfazione, domandiamo ad un agente con una pettorina giallo canarino: «Perché c’è un poliziotto ad ogni angolo?». «Perché – ci risponde gentilissimo (probabilmente felice di rompere la noia della mansione) – quando attraccano le navi da crociera la sicurezza nella  zona della città vecchia viene rafforzata per proteggere i turisti che sbarcano a terra». E, infatti, al porto è attraccata una nave da crociera, tanto grande che pare una città galleggiante.
Il porto di Montevideo dista da quello di Buenos Aires poco più di 3 ore, ma è spesso preferito dalle imbarcazioni perché, a differenza del secondo, guarda direttamente sull’Oceano Atlantico, invece che sul Rio de la Plata. Per questo qui attraccano le navi delle grandi compagnie crocieristiche – Princess Cruises, Royal Caribbean, Norwegian Cruise Line, tra le principali -, che sbarcano migliaia di persone al colpo. Sono turisti mordi e fuggi, che scendono a terra intruppati e spesso con la paura di essere scippati, aggrediti, imbrogliati. Si fanno fotografare davanti ad un monumento, non hanno tempo per parlare con la gente del posto a meno che non si tratti del cameriere o del venditore di souvenir.
Peccato, perché l’Uruguay meriterebbe attenzione, nonostante sia schiacciato – fisicamente, politicamente e mediaticamente – dai due grandi paesi confinanti, il Brasile e l’Argentina.

Provenendo da Buenos Aires, metropoli sfavillante e vibrante di vita, una persona potrebbe giudicare Montevideo una città sonnolenta. Ma la prima apparenza non sempre è quella giusta. Come ha scritto, con mirabile autornironia, Eduardo Galeano: «Noi uruguayani, malinconici, poco reattivi, che sulle prime sembriamo argentini col valium» (1). Appunto, sulle prime.
Ricordiamo allora alcuni fatti di sostanza. Lungimiranti ed antisignani – alla luce dell’attuale crisi planetaria – sono stati gli uruguayani quando furono chiamati a decidere su questioni di vitale importanza. Con i referendum del 1992, essi hanno respinto – con una maggioranza del 72% – le proposte che miravano alla privatizzazione delle imprese pubbliche. E nell’ottobre 2004 sono stati straordinari nel dire «no» alla privatizzazione dell’acqua, richiesta dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale (2). In seguito a quel referendum, la costituzione del 1967 è stata integrata. Oggi l’articolo 47 della carta fondamentale dell’Uruguay recita così: «L’acqua è una risorsa naturale essenziale per la vita. L’accesso all’acqua potabile e l’accesso alla bonifica costituiscono diritti umani fondamentali» (3).
Un altro momento che ha evidenziato la maturità del paese riguarda la politica intea. Il movimento guerrigliero dei «tupamaros», che lottò (e perse) contro la dittatura militare, è stato recuperato alla politica ed è riuscito a diventare il secondo partito in parlamento (con il nome di «Movimiento de partecipación popular») ed il primo nella maggioranza di centrosinistra («Encuentro progresista-Frente amplio»). Anticipando di qualche anno quanto poi sarebbe accaduto nel Salvador, dove nel marzo 2009 sono arrivati al governo gli ex guerriglieri del «Frente Farabundo Martí para la liberación nacional» (Fmln).
Dalle fila del Frente amplio è uscito Tabaré Vázquez, attuale presidente del paese latinoamericano.

Nella vita, Ramón Tabaré Vázquez fa il medico oncologo. Dal 2005 è presidente dell’Uruguay, primo capo di stato progressista nella storia del paese latinoamericano, dopo 150 anni di governi conservatori tra Blancos e Colorados (i due partiti egemoni fino al 1971, anno della nascita del Frente amplio) e il decennio della dittatura militare. In questi anni, l’Uruguay è cresciuto, ma il percorso del dottor Tabaré Vázquez non è stato e non è semplice.
Due fatti hanno reso difficili questi anni, uno di natura internazionale e l’altro interno. Il primo riguarda i rapporti con l’Argentina, divenuti tesi da quando – era il 2002 – il governo di Montevideo decise di costruire due grandi cartiere (papeleras, in spagnolo) sulle acque del Rio Uruguay, fiume che funge da confine tra Uruguay ed Argentina. Gli argentini contestano la presenza delle industrie perché produrrebbero un grave inquinamento.  Da allora, ci sono state periodiche proteste delle popolazioni argentine che vivono nei  pressi degli impianti produttivi, mentre i due governi si sono dati battaglia legale negli ambiti inteazionali (Mercosur e Corte internazionale di giustizia), senza riuscire a trovare una soluzione.
Il fatto interno è stato ancora più devastante, perché ha guastato i rapporti del presidente con la sua coalizione. Tabaré Vázquez ha posto il veto presidenziale alla legge di depenalizzazione dell’aborto, votata dal parlamento. La norma mirava a cancellare una vecchia legge del 1938, il cui articolo 325 afferma che «la donna che causa il suo aborto o lo consente sarà punita con la prigione da 3 a 9 mesi» (4).
Intanto, a fine giugno, ci sarà un altro passaggio importante per la coalizione al potere: con elezioni intee il Frente amplio sceglierà il proprio candidato per le elezioni presidenziali dell’ottobre 2009. A contendersi la nomina, ci sono 3 candidati, ma 2 sono quelli forti: il moderato Danilo Astori, economista liberista ed ex ministro dell’economia e delle finanze, e José Mujica detto el Pepe (5), ex guerrigliero tupamaro ed ex ministro dell’allevamento, agricoltura e pesca.

E duardo Galeano ha parlato di «un paese ignorato, un paese quasi segreto, chiamato Uruguay». Forse anche per questo è diventato un paese vitale e capace di sorprendere. Come ci ha confermato l’anonimo artista di strada di Plaza Constitución che, vedendoci andare in direzione del porto, così ci ha salutato: «Buen viaje! Y no se olviden de ser felices!». Ovvero: «Buon viaggio! E non dimenticatevi di essere felici!».

Di Paolo Moiola

(1)  Eduardo Galeano, Duopolio addio. L’Uruguay va ai vinti, il Manifesto 2 novembre 2004 e Latinoamerica n.89/4.2004.
(2) Si legga: Gennaro Carotenuto, La rivincita di Tupacamaru, Latinoamerica n.89/4.2004; Raúl Pierri, No a la privatización del agua, Ips, 31 Octubre 2004.
(3) Testuale: «El agua es un recurso natural esencial para la vida. El acceso al agua potable y el acceso al saneamiento constituyen derechos humanos fundamentales».
(4) Il presidente ha però firmato la nuova legge sul testamento biologico, approvata il 18 marzo 2009.
(4) Si veda il blog: www.pepetalcuales.com.uy.

Paolo Moiola




Un biglietto in prima fila

Fespaco: 40 anni di cinema africano

L’Africa culla di civiltà e di cultura. L’Africa che crea e alimenta registi,
attori, scenografi del cinema … africano. A Nord e a Sud del Sahara.
Non solo genocidio, Darfur, Aids, fame e guerre «tribali». Ma cultura.
Non è facile saperlo perché nelle nostre sale si proiettano film statunitensi, italiani, qualche francese…
Ma al 65esimo Festival di Venezia Teza, film etiope, vince due premi.
Sul continente diversi sono i Festival della settima arte.
Il più importante si tiene a Ouagadougou (Burkina Faso) ogni due anni.
Nel 2009 festeggia i 40 anni dalla prima edizione. Quasi 400 i film proiettati, africani e non. Resoconto e nuove tendenze.

Ouagadougou. Fuochi d’artificio per concludere la grandiosa cerimonia di apertura del XXI Festival del cinema e della televisione di Ouagadougou (Fespaco). La biennale, il più importante appuntamento del suo genere sul continente compie così 40 anni. Nata nel 1969 dall’incontro informale di alcuni cineasti è stato poi ufficializzato nel 1972. Fu per anni una piccola rassegna con pochi titoli.
Oggi il Fespaco presenta 400 film di cui 124 in concorso, raggruppati in 18 categorie, delle quali sei in competizione per premi ufficiali (riservati a registi africani o della diaspora). Diciannove lungometraggi, 20 cortometraggi, 30 documentari, ecc. Ma non solo.

Omaggio al più grande

Oltre i suoi 40 anni il festival celebra il cineasta africano riconosciuto come più grande, il senegalese Ousmane Sembéne, scomparso all’età di 84 anni il 9 giugno del 2007. Regista e scrittore, tra i fondatori del festival, era ospite fisso tant’è che la stanza n. 1 dell’Hotel Indépendance (il centro nevralgico, dove si ritrovano registi, attori, produttori) era ormai sua di diritto. Oggi è diventata una stanza-museo, dove sono raccolti i suoi premi, e sulla scrivania, le inseparabili pipe.
Quest’anno non c’è Sembéne, ma i suoi film animano il festival. Una selezione delle sue opere è proiettata nella sezione «Omaggio a Sembéne Ousmane», e grandi poster con il suo ritratto sono appesi nelle sale più importanti. 
Tra le novità di questa edizione ci sono le sezioni dedicate ai film ibero-americani e quella degli afro brasiliani, che vede anche la partecipazione diretta di una simpatica delegazione, capitanata da Zozimo Bulbul, fondatore del «Centro Afrocarioca di cinema» a Rio de Janeiro.
Decine di conferenze si svolgono parallelamente alle proiezioni. Dal «colloquio» sul tema del festival: «Cinema africano, turismo e patrimonio culturale», all’incontro della Federazione panafricana dei cineasti (Fepaci) sul tema «Produrre film nel XXI secolo», all’assemblea della Federazione africana dei critici cinematografici. Molto attesa anche la conferenza stampa dell’Unione europea, uno dei principali finanziatori della cinematografia africana.

Intasamento di cinefili

Alcune migliaia di stranieri si sono riversati nella capitale del Burkina Faso la prima settimana di marzo, creando anche non pochi problemi di traffico. Molti vengono dalla Francia, ma anche da Spagna, Italia, Germania, Stati Uniti e altri paesi africani. Un indotto notevole per hotel, ristoranti, venditori di artigianato e instancabili taxi verdi (oltre che le onnipresenti compagnie dei telefoni cellulari).
La macchina organizzativa, per questa XXI edizione ha avuto però qualche problema. «Lunghe ore per avere l’accredito» lamentano i professionisti (attori, registi, giornalisti), «disorganizzazione diffusa» denunciano i festivaliers (così si chiamano i cinefili accorsi). Alcuni francesi frequentatori «storici» trovano questa edizione «la peggio organizzata degli ultimi 15 anni».
«Certo è che il Fespaco non è più un festival popolare, come ai tempi del presidente rivoluzionario Thomas Sankara (’83-’87, ndr.), ma neanche come le edizioni degli anni ’90» ci confida Rabankhi Zida, caporedattore del giornale governativo Sidwaya. «Oggi è un festival rivolto ai professionisti e agli stranieri».
Si riferisce soprattutto all’aumento del costo dell’abbonamento per l’accesso diretto a tutte le proiezioni, portato dall’equivalente di 15 euro delle passate edizioni a 38, fatto che ha tagliato fuori una grossa fetta di cittadini del paese ospite.
Michel Ouedraogo, delegato generale (Dg) del Fespaco, ovvero numero uno di tutta la struttura si difende: «Il target dell’abbonamento non sono i funzionari burkinabè, ma gente con più mezzi». E continua: «Non priviamo le popolazioni, perché possono avere accesso con biglietto che è rimasto allo stesso prezzo (1,50 euro per un ingresso). E, malgrado il costo, abbiamo avuto una richiesta molto forte di abbonamenti. La strategia è andare verso un auto-finanziamento del festival».
Le sale, in effetti, sono sempre gremite, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ma il pubblico è in prevalenza straniero. Fanno eccezione i film dei registi burkinabè, ai quali è difficile entrare perché presi d’assalto dalla popolazione.

Cinema africano?

Il festival è costato circa due milioni di euro finanziati in larga parte dall’Ue, ma anche dall’Organizzazione internazionale della francofonia (Oif), dal ministero degli Esteri francese, da radio e televisioni francesi (Rfi, Cfi, Tv5). Non dimentichiamoci che è un appuntamento francofono, anche se partecipano molti titoli anglofoni e alcuni lusofoni.
Secondo Michel Ouedraogo: «Occorre aprirci al settore privato, per avere finanziamenti, permettendo a grandi multinazionali di promuovere la loro immagine. È meglio trovare partner a livello africano, affinché gli africani possano finanziare il proprio festival. Però non siamo chiusi sull’Africa, ma aperti al mondo. Stiamo iniziando partenariati con Svezia, Spagna e paesi ibero-americani». Un concetto un po’ particolare di auto-finanziamento.
Altra novità: per i 40 anni del festival alle sale climatizzate in centro città si aggiungono quelle di quartiere, cinema popolari all’aperto, da sempre uno dei vettori principali, che hanno fatto il Burkina Faso la capitale del cinema africano e il suo popolo gran consumatore di film.
«C’è richiesta di immagini – continua il Dg – il Fespaco vuole diffondere tutti i tipi di film e occuparsi di tutti gli strati sociali. In sette giorni (durata del festival, ndr.) non si permette a tutti di vedere e riflettere.
Ad esempio il mestiere della donna cineasta è qualcosa su cui discutere. L’uso dei bambini nel cinema, le questioni sulla libertà.  Vogliamo toccare tutti i settori e i temi possibili. Stiamo pensando a un’edizione intermedia alla biennale, una rassegna sulle donne e un’altra sui diritti e le libertà».

Chi c’è e chi non c’è

Nei 19 titoli della competizione principale (i lungometraggi fiction) sono rappresentati 13 paesi. Si osserva quest’anno un ritorno in forza del cinema nord africano, in particolare con tre film del Marocco, due dell’Algeria e uno per Tunisia ed Egitto. Anche il Sudafrica continua con una presenza: tre film più lo zimbabweano Triomf girato interamente a Johannesburg.
Grande assente la Nigeria, nelle diverse categorie. Paese che vinse l’edizione 2007 e patria del fenomeno emergente di cinema popolare, chiamato Nollywood, che si sta diffondendo in vari paesi africani.
Poi un grande ritorno: l’Etiopia, con la pellicola Teza di Haile Gérima, che si aggiudica il premio più importante, l’Etalon d’oro di Yennenga (vedi box). Il nome di Gérima (peraltro non presente alla manifestazione in quanto non va in Burkina dall’assassinio di Sankara, nell’ottobre dell’87) circola già prima della premiazione.
È un film che ha già fatto incetta di premi nel 2008. Premiato a Venezia con il premio speciale della giuria e l’Osella per la miglior sceneggiatura, ha poi ottenuto i cinque maggiori premi al Festival di Cartagine, altro importante appuntamento africano, e il gran premio del Festival internazionale di Amiens (Francia). Da fine marzo è proiettato per il grande pubblico anche in Italia.

Senza grandi sorprese

Il Sudafrica arriva secondo con Nothing but the truth di John Kani e il terzo posto se lo aggiudica l’algerino Mascarades di Lyes Salem. Algerini anche il primo e il secondo posto dei corto metraggi, selezione che ha visto ben 14 film nordafricani sui 20 in concorso, a indicare non solo la maggiore produzione di quest’area geografica e culturale ma anche l’origine di molti dei nuovi talenti del cinema africano.
«Noi cineasti africani dobbiamo creare dei film destinati al pubblico africano, nei quali questo pubblico si riconosce, che non sia un prodotto culturale venuto dall’estero, da molto lontano da loro» ci dice Mwézé Ngangura, regista congolese.  Vincitore del Fespaco 1999 con Piéces d’identités (Documenti d’identità), è uno dei pilastri di questo cinema, con una carriera di oltre 30 anni sulle spalle.
Molto sentito al festival il tema della pirateria che vede il diffondersi ogni anno di milioni di copie di dvd e video cd (vcd) contraffatti sul continente (e non solo), mentre le sale cinematografiche stanno chiudendo quasi ovunque.
«Occorre che il cineasta africano si allinei sulla nuova distribuzione. Sono convinto che il miglior modo di apprezzare un film sia in una sala, ma se queste non esistono più, come in Congo (Rdc), bisogna guardare avanti. C’è una rete di distribuzione importante come il dvd, utilizzata da molta gente della diaspora, che è un grosso mercato perché ha nostalgia del paese e il bisogno di vedere immagini.
Non dobbiamo fare un combattimento di retroguardia. C’è poi la distribuzione informale dei vcd. Come strutturarla?».
Il noto documentarista Jean-Marie Teno ha realizzato una pellicola proprio su questo tema: Lieux saints (luoghi santi).

Finanziamenti e
nuovi modelli

«Il terzo polo sono i finanziamenti – sottolinea Ngangura – che devono essere sempre più africani. E il più possibile privati. Lo stato deve aiutare riducendo tasse, diritti di ripresa, ecc. Deve facilitare a livello legislativo tutto quello che è produzione e distribuzione. Ma è difficile per i nostri stati finanziare anche il cinema».
La tecnologia digitale, che – a detta di  molti – è nociva sul piano della distribuzione perché rende molto facile la pirateria, ha aperto nuove frontiere ai giovani che si orientano verso questo mestiere.
«Siamo in un momento di transizione: è un periodo che sta morendo per lasciare spazio a un altro»  sostiene Cheick Fantamady Camara, regista guineano che nel 2007 vinse il premio del pubblico con il suo Il va  pleuvoir sur Conakry (Pioverà su Conakry).
«È tempo che i giovani africani prendano in mano il loro cinema e penso che con l’avvento del video digitale questa rivoluzione stia diventando realtà. Avviene attraverso il cinema popolare prodotto a basso costo in grande quantità; e da questa scaturirà la qualità. Penso alla Nigeria e anche al Burkina con Boubakar Diallo (vedi box).
 Gente che non è nel sistema che abbiamo adottato noi, quello dei finanziamenti dall’estero.
Loro si finanziano i propri film e hanno il pubblico dalla loro parte. Quando proiettano fanno il tutto esaurito. In un continente dove non c’è una reale politica per il cinema, è questo il sistema che si deve adottare, e ora questo è possibile grazie al digitale».
E sulla questione della chiusura dei cinema sul continente: «Anche le sale si chiudono perché c’è un passaggio a un altro sistema. Sono state fatte durante le colonie, poi per un certo tempo sono sopravvissute.
Ora quel sistema è morto. Altre sale si apriranno con proiettori digitali. In maniera privata, professionale e industriale. Oggi il cinema africano è sovvenzionato, non è professionalizzato. Ma non è con gli aiuti che potremo andare avanti. Occorre creare una piccola industria che poi crescerà».
Su questa linea il comune di Torino, in collaborazione con il segretariato sociale Rai assegna il Premio speciale Torino città del cinema, a una nuova leva del cinema popolare. Il giovane burkinabè Serge Armel Sawadogo per il suo Timpoko, cortometraggio nella competizione ufficiale.

Immagini «impegnate»

C’è anche chi, al Fespaco, porta temi sociali e politici non troppo graditi al proprio paese. È il caso della giovane congolese Batou Nadege, che con il suo documentario Ku Nkelo à la recherche de l’eau (Alla ricerca dell’acqua), denuncia le difficoltà  di accesso all’acqua a Brazzaville, capitale del suo paese. «Viviamo un contrasto: siamo in mezzo a grandi fiumi (il Congo), abbiamo piogge tutto il tempo, ma i rubinetti di Brazzaville sono a secco! Nel documentario mostro come un gruppo di bambini, pur essendo nella capitale, devono percorrere due chilometri per andare a cercare l’acqua necessaria».
Il film è stato diffuso dalla televisione congolese e subito le autorità hanno proibito che fosse ritrasmesso. «È la realtà di Brazzaville. Io denuncio questa politica, per cui acqua ed elettricità, che dovrebbero essere i servizi disponibili, ci sono rifiutate e la popolazione beve acqua insalubre, si ammala, muore. Ma le bollette arrivano e bisogna pagare! Voglio far comprendere alla politica che oggi la popolazione accetta, assume, sta zitta. Ma domani continuerà a stare in silenzio?». 
Di Marco Bello

MAROCCO
EBREI IN FUGA,
VERSO LA TERRA PROMESSA

Il film ci porta nel 1960 in Marocco. Qui la comunità ebrea è ancora numerosa e non ci sono particolari problemi di convivenza. Ma un «agente d’immigrazione» inviato da Israele lavora per convincere le famiglie ebree a partire per popolare il neonato stato sionista. Si intrecciano storie di amicizia e di amore, di condivisione tra arabi ed ebrei, che le nuove vicende interrompono bruscamente. Il viaggio avviene in clandestinità perché all’epoca era proibito ai paesi della Lega araba dare il passaporto agli ebrei.  Alcuni viaggi finiscono in tragedia.
«Sono gli anni neri dell’immigrazione» ci racconta il regista Mohammed Ismail, capelli lunghi, Panama e occhiali scuri. «Gli ebrei vivevano in Marocco ancora prima che gli arabi arrivassero. Erano circa il 10% della popolazione.  Adesso sono rarissimi».
L’idea del film arriva nel 2001, ma il tema è delicato, tocca la storia dei rapporti arabo – israeliani. Nonostante il regista non voglia evocare problemi politici, ma fare un film neutro basato sulle relazioni umane, la coabitazione e i rapporti «ma non di forza».
«L’avevo scritto con una sceneggiatrice marocchina di confessione ebrea, che io conosco da oltre 25 anni. Le nostre famiglie erano molto unite. Come una delle vicende del film».

«È una pellicola molto realista – continua il regista -. Sono storie di persone che ho ripresentato come fiction. Le coppie arabe e quelle ebree, la storia d’amore tra i giovani di confessione diversa esistevano e più o meno è stata una parte della mia vita.
L’incaricato dell’immigrazione fa il ruolo del cattivo. Me lo hanno spesso rinfacciato. Ma è un personaggio essenziale. Senza di lui gli ebrei marocchini non sarebbero partiti. Non stavano poi così male e questo tizio vuole convincerli del contrario».
Un film struggente e tragico. Che coinvolge lo spettatore. Racconta anche del naufragio di un battello di fuggiaschi, nel quale perirono 44 persone. Evento realmente accaduto, che mise la pressione internazionale sul Marocco. Il re Hassan II decide allora di lasciare gli ebrei liberi di partire, anche se c’era la proibizione dei paesi arabi.

«Il film è stato visto in Marocco con posizioni molto positive, buona critica. Ha fatto un percorso interessante a livello internazionale, partecipando a molti festival. Molti negli Usa, il che è raro. Ha rappresentato il Marocco per gli Oscar quest’anno».
Particolari anche le proiezioni al senato francese e a quello belga. Ha partecipato in Vaticano al festival Religion today dove è stato premiato. È il solo film marocchino proiettato in Israele, a tre festival. L’ultima guerra di Gaza ha poi bloccato il programma.
«È un messaggio di pace e di frateità» lo definisce l’autore.
«Ho fatto proiezioni in centri ebrei, come il centro sionista Ben Gurion, in Belgio. Hanno accettato il film e poi c’è stato un dibattito, che è stato una testimonianza tra le lacrime. Era la loro storia e i vecchi trasmettevano ai giovani presenti, anche dei musulmani. È stata una festa».                             
Di Marco Bello

BURKINA FASO
IL NUOVO CINEMA POPOLARE
AFRO-AFRICANO

Boubakar Diallo, burkinabè, giornalista, ma soprattutto sperimentatore. Fa parte di quei «giovani cineasti» che hanno inventato un nuovo tipo di cinema. Producono film amati dal loro pubblico e lo fanno a costi bassissimi, tutto in tecnologia digitale.
Diallo è il direttore del celebre giornale satirico Joual du Jeudi, (www.joualdujeudi.com) molto seguito anche all’estero e si è inventato l’immagine del «dromedario» per etichettare i suoi lavori. Così la sua società di produzione è la Film du dromadaire.
Coeur de lion (Cuore di leone) è costato appena 250.000 euro, contro i 3-4 milioni di un film europeo e i 500.000 euro di un film africano in 35 mm. Eppure ci hanno lavorato circa 80 persone.
«Scrivevo sceneggiature per registi, ma nessuno me le prendeva. Così mi sono messo a realizzare io stesso» racconta Diallo.
La prima domanda che si pone è: perché non cercare altre strade di finanziamento che non siano i soldi del Nord? E se un giorno quelli decidessero di chiudere il rubinetto?
«Dal 2004 ho cercato di produrre film con budget locale, partner istituzionali e società commerciali africane, dando loro in cambio visibilità». E il successo è grande: Diallo realizza otto lungometraggi negli ultimi quattro anni, quando, nei casi migliori, a sud del Sahara si produce un film ogni 4-5 anni.

«Il pubblico chiede storie – continua – ma a sua immagine e somiglianza. Così esce di casa e paga il biglietto. È grazie alla gente che Film du dromadaire sta realizzando così tanto».
Sulla stessa scia anche per Le fauteuil (La poltrona) del collega burkinabè Missa Hébiè, che dipinge, in maniera realistica e ironica, la vita, il lavoro e la corruzione quotidiana dei funzionari nella capitale.
Piccolo di statura, occhi vispissimi e spirito commerciale. Una delle idee vincenti di Diallo è il partenariato con la Televisione nazionale. Questa trasmette gratuitamente la pubblicità del film prima e durante la sua uscita nelle sale. Poi, esaurito il circuito classico, in cambio acquisisce i diritti per mandare in onda il film.
Altro ingrediente: per toccare il più grande numero di persone i suoi film sono in francese e non nelle lingue africane, come fanno molti dei suoi colleghi per rispettare il contesto, ma poi sono obbligati a sottotitolare.  Anche se «I saluti nel film sono nelle diverse lingue, per dare il tono».

Cuore di leone è ambientato in un villaggio burkinabè di 200 anni fa, dove le differenti etnie e i loro ruoli erano precisi e rispettati: allevatori, cacciatori, pescatori. Ma un leone terrorizza le vacche di un allevatore, che quindi decide di cacciarlo. Intanto si sviluppa una lotta per il potere, e l’eroe cattivo utilizza la tratta degli schiavi per diventare il capo villaggio. «Occorre guardare indietro, i giovani hanno bisogno di riferimenti. Nel passato c’erano comunità integrate. Ho voluto mostrare come cercavano di risolvere i problemi. È un approccio afro-africano» ama dire Diallo. Ovvero guardare le problematiche africane da un punto di vista africano. E forse è proprio questo che piace al pubblico, che si identifica con attori e storia.
Cinema popolare sì, ma non spazzatura, dunque. Portatore di messaggi e di riflessione. Rivolto a tutti e in particolare ai giovani.
In questo caso un messaggio di integrazione: «Le etnie sapevano essere complementari. È un invito a guardare come le nostre società erano strutturate e a prendere quello di buono che c’è nelle nostre culture».
Ottimista anche sulla pirateria dei dvd: «Complicato prendere provvedimenti contro i pirati. D’altro lato è questo circuito che ha contribuito di più a far circolare i film del dromedario. Per togliere loro il mercato occorrerebbe occupare subito il terreno con dvd e vcd a basso costo».                 
di Marco Bello

MALI-USA-SUDAFRICA
UNA STORIA MISSIONARIA, INEDITA

Cheick Cherif Keita è maliano, ma dal 1977 vive nel Minnesota (Usa), dove insegna letteratura francofona. Ma la sua passione lo porta su una storia dimenticata e diventa regista di documentari.
«Gli antenati possono ispirare un maliano a cercare la storia nascosta di due famiglie lontane, ma che sono state legate da un passato remoto» racconta. Si parla di una famiglia nordamericana e una sudafricana di inizio secolo: «John Dube era uno Zulu. Fondò l’African national congress (Anc) prima della nascita di Mandela, diventandone il primo presidente dal 1912 al 1917». Il regista scopre che John Dube aveva avuto una grande fortuna: una coppia di missionari protestanti,  William e Aida Wilcox lo avevano accolto e fatto studiare negli Usa nel 1887, all’età di 16 anni. «Poi è diventato un pioniere della rivoluzione intellettuale e politica del suo paese». 

«Una storia umana, una storia dimenticata» che coinvolge totalmente il professore-regista. Keita realizza il primo film nel 2005 sulla vita di Dube. Poi nel 2008 fa un passo indietro con un film sugli stessi  Wilcox, i missionari. «È diventata la mia ricerca personale, la mia implicazione in una storia di famiglie molto lontane da me, prima di tutto, e poi tra di loro. Dal 1926 non c’erano più stati incontri. Grazie a me nel 2007 i discendenti dei due rami si sono incontrati. Non sapevano neanche dell’esistenza gli uni degli altri».
Cheick Keita è convinto che sono gli antenati ad avergli affidato questa missione: «Più tardi scoprii che i genitori di Aida Wilcox erano seppelliti a cento metri da casa mia, negli Usa!».
«Questo mostra che abbiamo tutti un dovere comune, come essere umani, di testimonianza. Quando una persona fa del bene per aiutare l’umanità, qualsiasi sia la sua religione o la sua nazionalità, dobbiamo raccontare la sua storia».
Ma.B.

FESPACO 2009
I PREMI

Film lungometraggi
– Etalon d’oro di Yennenga: Teza, Etiopia, di Haile Gérima
– Etalon d’argento: Nothing but the truth, Sudafrica, di John Kani
– Etalon di bronzo: Mascarades, Algeria, di Lyes Salem
– Premio Oumarou Ganda: Le fauteuil, Burkina Faso, Missa Hébié
– Premio dell’Unione europea: Cœur de lion, Burkina Faso, Boubakar Diallo
– Premio del pubblico: Le fauteuil, Burkina Faso, Missa Hébié
– Migliore interpretazione femminile: Sana Mousiane in Les jardins de Samira, Marocco
– Migliore interpretazione maschile: Ropulana Seiphmo in Jerusalema, Sudafrica
– Migliore sceneggiatura: L’absance, Guinea, di Mama Keita
– Migliore immagine: Nic Hofmeyer, in Jerusalema, Sudafrica
– Miglior suono: Mohamed Hassib in Les demons du Caire, Egitto
– Miglior colonna sonora: Kamal Kamal, in Adieu Mères (Wadaan Oummahat), Marocco
– Miglior scenario:  Abdel Karim Akauach, in Adieu Mères, Marocco
– Miglior montaggio: David Helfand in Jerusalema, Sudafrica
– Miglior locandina: Les feux de Mansaré, Mansour Sora Wade, Senegal

Film cortometraggi
– Puledro d’oro: Sektou,  Algeria, di Khaled Beanissa
– Puledro d’argento: C’est dimanche,  Algeria, Samir Guesmi
– Puledro di bronzo: Waramutseho, Camerun, Beard A. K. Yanghu

Film della diaspora
– Premio Paul Robson: Jacques Roumain, la passion d’un pays, Haiti,  Aold Antonin

Film documentari
– Primo premio: Nos lieux interdits, Marocco, Leila Kilani.


Marco Bello




Danza dei morti e dei vivi

La «grande isola rossa»: religione tradizionale e cristianesimo (seconda parte)

Dopo un secolo e mezzo di evangelizzazione, metà della popolazione malgascia è cristiana e un quarto appartiene alla chiesa cattolica, la cui vitalità
è caratterizzata dall’abbondanza di vocazioni e si esprime nell’impegno nel promuovere lo sviluppo fino agli angoli più reconditi del paese, diventando così punto di riferimento per la soluzione di numerosi problemi che ancora affliggono la gente.

M età circa della popolazione del Madagascar ha credenze e pratica riti tradizionali, mentre l’altra metà è di religione cristiana, suddivisa più o meno equamente tra cattolici (25 per cento circa) e protestanti (20 per cento); soltanto una piccola minoranza è musulmana. In questi ultimi anni sono però diventati popolari i predicatori carismatici, al punto che un libro, edito nel 2007 e scritto da Adolphe Rahamefy, che insegna all’Università di Antananarivo, è intitolato: Sette e crisi religiose in Madagascar.
religione tradizionale
Forme e credenze della religione tradizionale variano a secondo delle regioni in cui è diviso il Madagascar. Cielo, terra e acqua sono sacri. Così pure, un po’ ovunque, esistono luoghi sacri: laghi, grotte, montagne, foreste, alberi. Su di essi gravano interdetti e tabù (fady). Sono luoghi di preghiera e di sacrifici. Vi si depositano offerte e fiori.
Importanti sono i punti cardinali della terra. La costruzione di una casa deve rispettae l’orientamento. Sono essi che preservano la casa da tabù e la caricano di senso. L’est, dove sorge il sole, è una direzione particolarmente sacra, quella del culto degli antenati; il nord è invece un luogo che esprime e indica onore e stima. Lo spazio viene così ritualizzato. L’est è opposto all’ovest nel senso di puro e impuro, sacro e profano; il nord al sud, ossia il re contrapposto al popolo, il nobile al plebeo.
Non è però facile definire la religiosità dei malgasci, fondata su tutta una serie di riti e tabù, come per esempio il sacrificio dello zebù, i giorni fasti e nefasti, la divinazione, la guarigione dalle malattie, i riti propiziatori, la cerimonia del «bagno delle reliquie regali», quelle per la riproduzione ordinata del ciclo annuale, i riti della circoncisione dei bambini con cui si consacra la loro appartenenza sociale alla famiglia patea. Tutti questi riti hanno la funzione di mettere l’uomo in comunione con la divinità.
Gli antenati, dotati di poteri magici, ne sono per eccellenza gli intermediari. Studi recenti hanno anche messo in evidenza che un dio di nome Zanahary, creatore del cielo e della terra, è superiore a tutte le divinità e a tutti gli idoli. A lui, invisibile, i malgasci si rivolgono attraverso la mediazione degli antenati e di divinità secondarie.
La base della religione e della cultura malgascia consiste però principalmente nel rispetto e nella venerazione degli antenati, fondati su un complesso di riti di sepoltura. Il più noto e costoso di questi riti è il famadihana (letteralmente «rivoltare le ossa»), una cerimonia di esumazione e di nuova sepoltura del cadavere, che normalmente si ripete ogni sette anni e ha lo scopo di riunire tutta la grande famiglia, rinnovare i legami familiari e quelli con gli antenati e, non ultimo anche se spesso inconscio, di esorcizzare la paura della morte.
Le salme vengono estratte dalla tomba, ripulite e avvolte in tappeti di paglia e poi fatte «ballare» sopra la folla in festa. L’orchestrina suona un motivo allegro. I tavoli sono carichi di dolci, di carne di zebù o di porco ben ingrassato, di rhum estratto dalla canna da zucchero e di ciotole di riso fumante. Le salme vengono poi avvolte con fasce di colore bianco, il colore funebre tradizionale, e quindi cosparse di profumo e segnate con i loro nomi.
Segue un momento di silenzio, i cui membri della famiglia tengono in grembo i corpi dei defunti, comunicando con loro senza pronunciare parola e piangendo lacrime di felicità in un’atmosfera carica di emozione. Infine, dopo che i corpi sono fatti nuovamente «ballare» intorno alla tomba di famiglia, la pietra tombale viene murata e chiusa per altri sette anni.
La famadihana o rito di esumazione dei defunti diventa così la festa dei morti e dei vivi.
l’evangelizzazione
Il cristianesimo penetrò nella grande isola rossa, a parte qualche sporadico incontro con i portoghesi, soltanto nei primi decenni del secolo xix. Nel 1817 re Radama I cominciò a intrattenere relazioni diplomatiche con gli inglesi. L’influenza britannica durò fino a gran parte del secolo. Con gli inglesi arrivarono i primi missionari protestanti, gallesi e norvegesi, e la London Missionary Society. Molti di essi morirono di febbre poco dopo il loro arrivo. I sopravvissuti non si diedero per vinti e in breve tempo convertirono al protestantesimo la corte della dinastia Merina.
Già nel 1838 venne stampata la prima Bibbia in lingua malgascia e nel 1869 la regina Ranavalona II, convertita al protestantesimo, fece costruire una chiesa all’interno del rova di Antananarivo.
Il re Radama I morì a soli 36 anni nel 1828. Gli successe la vedova Ranavalona I. La nuova regina, desiderosa di proteggere le tradizioni e la cultura malgasce e contraria alla presenza degli europei, dichiarò illegale il cristianesimo e perseguitò tutti coloro che non ne rinnegavano la fede. Molti furono condannati a morte o subirono vessazioni e tormenti atroci, che solo una regina come Ranavalona I, incline alla violenza, poté escogitare. Alla sua morte il figlio Radama II abbandonò la politica adottata dalla madre e ripristinò la libertà religiosa. Da allora il cristianesimo divenne la religione predominante del Madagascar e l’attività missionaria, protestante e cattolica, si estese a tutta l’isola.
I primi missionari cattolici furono i Lazzaristi, la Congregazione della Missione fondata in Francia da san Vincenzo de’ Paoli. Il 4 dicembre 1648 essi sbarcarono a Fort-Duphin, nel sud dell’isola, inviati dal loro stesso fondatore. Ma la vera diffusione della religione cattolica in Madagascar cominciò intorno al 1841, quando il prefetto apostolico monsignor Dalmond chiamò i gesuiti dalla vicina isola di Réunion a evangelizzare l’isola.
Ad Antananarivo, la capitale, il cattolicesimo si diffuse a partire dal 1861 dopo la morte della regina Ranavalona I. I gesuiti e le suore di San Giuseppe di Cluny vi fondarono le prime scuole e battezzarono parecchi malgasci. Poco dopo, nel 1872, la città divenne sede della prefettura apostolica del Madagascar, poi vicariato durante la prima guerra franco-malgascia (1883-1886) e arcidiocesi nel 1955.
Anche la parte settentrionale del paese fu eretta in prefettura apostolica nel 1848 e in vicariato nel 1898. In questo caso i primi missionari furono i Preti dello Spirito Santo e le suore del Sacro Cuore di Maria, ai quali in seguito si aggiunsero i Redentoristi e i Montfortani.
È questo che abbiamo descritto il normale evolversi dell’organizzazione ecclesiastica cattolica nei territori di missione.
la realtà ecclesiale oggi
Attualmente il Madagascar conta ben 21 diocesi, delle quali quattro arcidiocesi nelle regioni ecclesiastiche in cui è suddiviso: il Centro, il Nord, il Sud-Est e il Sud-Ovest. I vescovi sono tutti malgasci, a eccezione di cinque: un italiano di Gallico Superiore (Reggio Calabria – Bova), un altro italiano di Orta Nova (Foggia), uno spagnolo di San Llorente (Valladolid), uno di origine portoghese e un polacco. Malgascio è pressoché anche tutto il clero.
Le congregazioni religiose maschili, alcune delle quali di origine locale e una anche trappista di stretta osservanza claustrale, sono numerose. Se ne enumerano 33, alcune giunte in Madagascar nei primi tempi dell’evangelizzazione dell’isola, altre più recentemente, negli ultimi decenni del secolo appena trascorso.
La presenza dei gesuiti e dei salesiani con la loro organizzazione scolastica e pastorale è predominante. Gestiscono collegi, licei, centri di spiritualità e di formazione professionale e rurale, dispensari medici e radio locali. I loro scolasticati, dove ci si prepara per diventare religiosi, sono pieni di giovani malgasci. Molti di loro studiano in Europa, nell’America del Nord e in Africa.
Ancora più numerose sono le congregazioni religiose femminili, venute in Madagascar già nei primi anni dell’evangelizzazione dell’isola e soprattutto alla fine del secolo scorso. Il numero è per certi versi impressionante. Se ne contano ben 88, elencate nell’Annuario della chiesa cattolica malgascia e cornordinate dal Centro di formazione della Conferenza delle superiori maggiori. Poche sono di origine malgascia, la maggior parte di esse hanno le loro radici in Francia, in Italia, in Svizzera e Belgio.
Queste congregazioni sono certo venute in Madagascar per dare continuità alla grande tradizione missionaria dei secoli xix e xx, ma anche, non lo si può nascondere, con l’intento di ridare nuova vita alle loro istituzioni in crisi di vocazioni mediante l’inserimento di giovani religiose malgasce.
Buona parte di queste congregazioni, nate in Europa, hanno scoperto il carisma missionario proprio dinanzi al grave problema delle vocazioni in continuo e vertiginoso calo; lo hanno scoperto quasi «improvvisamente», anche se dietro impulso del Concilio Vaticano ii e di altri documenti che definiscono la chiesa «tutta missionaria». Si deve però riconoscere che da questo fenomeno, per alcuni versi pieno di incognite, non ne vanno immuni neppure le congregazioni maschili, anch’esse in crisi di vocazioni.
presenza provvidenziale
La presenza delle congregazioni femminili in Madagascar è stata provvidenziale non solo per il consolidamento e il progresso del cristianesimo nell’isola, ma anche per lo sviluppo economico e sociale della nazione. La maggior parte di esse partecipa attivamente allo sviluppo del paese con una nutrita e preziosa schiera di scuole di vario grado, di ospedali e dispensari, di case per anziani, e con una straordinaria e commovente dedizione ai poveri e agli ammalati. Le suore di origine malgascia si contano ormai a centinaia e dirigono con molta intelligenza e intraprendenza scuole matee, primarie e secondarie, dispensari, lebbrosari, orfanotrofi, librerie, case per studenti, centri di promozione della donna e di sviluppo rurale. Molto apprezzato è il loro impegno nella catechesi e nell’animazione pastorale non solo nelle parrocchie, ma anche nelle prigioni, negli ospedali e in ambienti rurali lontani e dimenticati.
Esistono anche quattro monasteri di carmelitane scalze e alcuni di trappiste e clarisse, che si dedicano esclusivamente alla preghiera. Altre congregazioni hanno religiose malgasce in terra di missione, in Africa e in Asia; altre ancora sostituiscono le suore anziane o malate in Francia o in Italia, impegnandosi nelle attività assistenziali e nell’apostolato parrocchiale.
la danza di Noè
Vi sono anche comunità di suore che dimostrano una vitalità e un impegno non comuni. Le suore Ancelle del Sacro Cuore, fondate a Lecce nel 1929 e giunte in Madagascar nel 1988, hanno per esempio tre comunità: una nell’isola di Nosy-Be al nord, un’altra a Mandrosao-Ivato presso la capitale e un’altra ancora ad Andasibé verso sud.
In appena 20 anni le suore di origine malgascia hanno raggiunto il numero di circa 85 religiose, di cui una cinquantina si trovano in Italia, impegnate in case di riposo, asili e pensionati; solo 33 sono rimaste in Madagascar, dove dirigono sei scuole matee, quattro elementari e due medie superiori. Le novizie sono attualmente 10 e le postulanti 22, mentre le suore di origine italiana sono soltanto 17, quasi tutte anziane e residenti in Italia.
Si tratta perciò di una congregazione in rapida espansione, grazie alle religiose provenienti dal Madagascar, ma anche povera di mezzi. Hanno quindi bisogno di assistenza economica e benefattori, in questo provvidenzialmente aiutate da un missionario italiano, che si prende cura di loro, delle loro attività, delle loro scuole e delle loro abitazioni in alcuni casi fatiscenti.
Non è più giovane questo missionario. È un brianzolo Doc e si chiama padre Noè Cereda, l’unico missionario della Consolata in Madagascar. Ha già compiuto 72 anni di età e, rendendosi conto delle sue condizioni di salute, non ha paura di scrivere: «Ogni giorno mi dico: faresti meglio a rallentare, non danzare così veloce. Il tempo è breve. La musica non durerà».
Malgrado tutto, ha ancora in mente numerosi progetti da attuare. Vorrebbe (e ce la farà) aprire proprio al più presto una scuola tecnica di falegnameria e meccanica, in modo da insegnare ai falegnami a fare letti, sedie, tavoli e armadietti, e ai fabbri porte, griglie e strumenti per lavori agricoli. Alla fine dei corsi assegnerà a ogni giovane malgascio una cassetta con i principali strumenti di lavoro per mettersi in proprio.
La scuola copre una superficie di 700 metri quadrati. A causa dell’inflazione i prezzi dei materiali in un anno sono raddoppiati.
Ma non è finita! I suoi piani prevedono di terminare ad Andasibé una scuola e di costruire un serbatornio per l’acqua alto 12 metri con una capienza di 10 metri cubi di acqua, di costruire altre tre aule nella scuola di Andranoro, uno dei quartieri della capitale, e di sollevare di un piano l’attuale costruzione. A tutto questo si aggiunga quello che già funziona: tre foi a legna che ogni giorno producono 3 mila panini per i bambini delle scuole e un pasto caldo al giorno per gli scolari di Andasibé.
Si è inoltre in attesa della consegna di cento biciclette da distribuire agli scolari meritevoli. Come ha scritto, ringraziando in occasione della pasqua tutti coloro che lo aiutano in Italia e nel Principato di Monaco, l’infaticabile e coraggioso missionario è convinto che «semina, semina, ogni chicco arricchirà un angolo della terra».

I ntanto tutti i malgasci, anche i non cristiani, attendono con trepidazione e orgoglio l’arrivo in Madagascar di papa Benedetto XVI (o almeno lo desiderano), per proclamare santa Vittoria Rasoamanarivo (1848-1894), una malgascia di famiglia reale, nipote del primo ministro che sposò la regina Ranavalona II.
Proclamata beata da Giovanni Paolo II il 30 aprile 1989, è stata definita da papa Benedetto XVI «una vera missionaria» e «un modello per i fedeli laici di oggi». La beata Vittoria, la cui famiglia era protestante, si fece cattolica nel 1863 all’età di quindici anni. Essa è senza dubbio un segno e un’attestazione della vitalità della chiesa cattolica in Madagascar e un onore per tutti i malgasci. 

di Giampiero Casiraghi

Giampiero Casiraghi




Cari Missionari

«Inside Tanzania»
dossier… in concorso

Spettabile Redazione,
a Portopalo di Capo Passero (comune all’estremità sud-est della Sicilia) ogni anno viene assegnato il Premio nazionale giornalistico-letterario «più a sud di Tunisi», così denominato dalla posizione geografica di Portopalo, situata al di sotto del parallelo della capitale tunisina…
Tra i premiati delle passate edizioni si trovano Giulio Albanese, Alfio Caruso, Felice Cavallaro, Nino Milazzo, Vincenzo Grienti…
Le categorie sono due: Gioalismo (reportage, sociale, focus sul territorio) e Letture (saggistica, poesia…). Per l’edizione 2009 del Premio un nostro collaboratore ci ha segnalato il dossier «Inside Tanzania», pubblicato nel numero di gennaio 2009 della rivista Missioni Consolata. Entro il 20 agosto verranno comunicati i vincitori. La cerimonia di consegna del premio è in programma a metà settembre…
Segreteria Organizzativa

Caro Direttore,
sono Marta dell’associazione «Una proposta diversa onlus», cui mandate una copia della vostra interessante rivista, davvero ben fatta. Nel numero di gennaio c’è un dossier sulla Tanzania che ci riguarda da vicino, visto che da vari anni intratteniamo un rapporto di fattiva collaborazione con le suore di Ilamba e Iringa, ultimamente con il progetto «Tunafurahi kwenda shuleni» e con l’adozione a distanza di un gruppo di bambini, il «Tumaini». Al fine di fare ulteriore opera di informazione e sensibilizzazione, vi chiediamo di inviarci alcune copie…
Vi ringraziamo di quanto potrete fare. Cordiali saluti.
Marta
Padova

Congratulazioni con l’autrice del dossier e… in bocca al lupo per il concorso di Portopalo!

Un numero… a ruba
 
Cara Redazione,
sono un’abbonata e desidero chiedere se ci sono ancora due copie del numero monografico dedicato ai «Diritti umani» proclamati 60 anni fa. Tale numero l’ho portato a scuola, dove lavoro, ed è sparito; spero l’abbia preso qualcuno interessato all’argomento, apprezzandone la bellissima impostazione. Poichè lo stavo usando con i ragazzi avrei piacere di avee, se è possibile, un’altra copia o due….
Milva Capoia
Collegno (TO)

Siamo felici di sapere che «Diritti e rovesci», ultimo numero speciale della nostra rivista, vada… a ruba. Abbiamo ancora varie copie a disposizione per chi è interessato ad approfondire e far conoscere meglio l’argomento, tanto più che a 60 anni dalla sua Dichiarazione universale, i diritti umani continuano a subire troppi «rovesci».  
 

Senza… malizia

Caro Direttore,
leggendo la vostra rivista, mi fa piacere vedere lo sforzo che state facendo per diminuire la sofferenza  e la povertà e ammiro senz’altro il vostro apostolato, nel quale cercate di dare soluzioni ai problemi del mondo odierno.
Ma nell’edizione del numero di febbraio 2009 della vostra rivista ho avuto un grande dispiacere nel costatare la mancanza di sensibilità per aver messo in mostra le foto dei ragazzini nudi del Mozambico, nelle pagine 12 e 13 del numero sopraccitato.
È un fatto scontato che voi vi prendete cura dei poveri, ma potete aiutare anche senza annientare la dignità di quei ragazzi innocenti. È moralmente inaccettabile. Pensi un po’ se lei fosse uno di quei ragazzini, cosa avrebbe pensato vedendosi nudo così per tutto il mondo? O se loro fossero i suoi parenti quale sarebbe stata la sua reazione a tal proposito?
Appartengo alla chiesa e conosco bene le diverse imprese che la santa madre chiesa sta intraprendendo nei diversi ambiti della vita per la promozione della dignità dell’uomo, come tale non dobbiamo trascinare questa dignità nel fango comunque stiano le cose. Un bambino è una persona e deve essere rispettato anche quando è impoverito sia dalla natura sia dalla malattia; perché egli è «creatio imago Dei».
In tutto mi piacerebbe sentire la sua risposta a questa osservazione che ho fatto. Mi sono coinvolto perché c’è in gioco la dignità della persona.
In attesa della sua risposta. Grazie.
Vitus Mario C.U.
via e-mail

Scrivendo ai primi missionari della Consolata operanti tra gli africani, il nostro beato fondatore, Giuseppe Allamano, diceva: «Fateli prima uomini e poi cristiani». La promozione umana è sempre stata il primo scopo delle nostre attività e la nostra rivista non fa eccezione. Anche quando parliamo di miseria e degrado, cerchiamo di evitare rappresentazioni che possano dare un’immagine negativa dell’Africa, oltre a offendere la sensibilità e dignità umana.
Le immagini di bambini nudi nelle due pagine citate, non le riteniamo affatto offensive: sono state scattate con il consenso degli anziani e descrivono un momento importante della vita di quei ragazzi, come è di fatto l’iniziazione in tutte le culture subsahariane. Per cui non pensiamo che qualcuno di essi si senta offeso nel vedersi ritratto in quel modo.
Inoltre, bisogna tenere presente che, in generale, gli africani non guardano alla propria e altrui nudità con malizia, come invece avviene nella nostra cultura occidentale.

I TERMOVALORIZZATORI …INQUINANO

C ara redazione di Missioni Consolata                                siamo i collaboratori di MC, che curano la rubrica
«Nostra madre terra» per le tematiche che riguardano l’ambiente, e vi scriviamo per manifestare la nostra preoccupazione per l’atteggiamento generalizzato di media e politici nei confronti degli operatori sanitari, che segnalano i pericoli riguardanti la salute pubblica e la difesa dell’ambiente.
Uno degli argomenti frequentemente dibattuti in questi giorni è quello che riguarda il trattamento dei rifiuti; i dibattiti televisivi e giornalistici presentano come unica soluzione l’incenerimento in impianti con recupero energetico, impropriamente definiti «termovalorizzatori», che in realtà non valorizzano alcunché, perché è noto che si risparmia più petrolio riciclando materia di quanto non se ne risparmi con i rifiuti bruciati nei «termovalorizzatori», essendo necessario produrre nuovamente ciò che è stato bruciato.
La pratica dell’incenerimento è inaccettabile dal punto di vista della salute pubblica e della salvaguardia dell’ambiente e, se paragonato a metodi alternativi, non è vantaggioso né economicamente, né socialmente dal punto di vista della creazione di posti di lavoro. Inoltre, la «soluzione» dell’incenerimento si allontana dall’orientamento preso dalla Commissione europea, che considera le alternative all’incenerimento, come convenienti e pertanto prioritarie.

M algrado queste valutazioni, che trovano riscontri scientifici a livello internazionale, la politica e i media italiani perseverano nella presentazione dell’incenerimento come unica soluzione e censurano tutti i messaggi e le prese di posizione degli studiosi, che quasi mai vengono invitati ai dibattiti su questo argomento. Alcuni fatti recenti ci hanno spinti a scrivere a codesta redazione.
Il 12 marzo 2009, su Rai2 abbiamo assistito a una puntata di Annozero, dedicata principalmente alla presentazione della nuova sinistra rappresentata da Matteo Renzi, 35 anni, attuale presidente della provincia di Firenze, scelto come candidato sindaco del capoluogo. Anche se la puntata non era dedicata al problema dei rifiuti, la parola che abbiamo sentito più spesso durante la trasmissione è stata «termovalorizzatore», che è la ormai ben nota macchina, che brucia i rifiuti e causa gravi danni alla salute di chi abita nei paraggi.
Matteo Renzi (che recentemente ha usato toni ingiuriosi e sprezzanti nei confronti di una seria e stimata oncologa, la dottoressa Patrizia Gentilini) ha continuato a raccontare la solita storia dei termovalorizzatori europei che, a suo dire, non hanno mai causato alcun danno. I fatti sono ben altri e sono parecchi gli studi scientifici, che hanno riscontrato aumenti significativi di tumori nelle aree dove sono attivi questi pericolosi impianti di trattamento dei rifiuti.
Un avvocato, durante la suddetta trasmissione, ha cominciato a parlare del parere dei medici, ma il conduttore Santoro ha trovato il modo di cambiare subito discorso, mentre sarebbe stato giusto, a nostro modo di vedere, dedicare maggiore spazio ai contrasti che vedono medici e biologi da una parte e politici dall’altra, aiutati da giornali e televisione. Nell’edizione di Firenze de La Repubblica del 25 febbraio scorso è riportato l’articolo sull’apertura della causa civile per diffamazione, intentato dalla dottoressa Patrizia Gentilini nei confronti di Matteo Renzi.
Nel corso di una precedente trasmissione televisiva su questo tema, durante la quale è avvenuto il fatto che riguarda Renzi e Gentilini, è emerso tutto il livore dei politici, che, pur di difendere l’attuale gestione del problema rifiuti, poco si curano del notevole incremento di malattie, che potrebbero essere correlate con l’inquinamento ambientale: ci preoccupa, in particolare, il drammatico aumento (del 2% annuo, quindi più del 20% in 10 anni!) dei tumori infantili. La Gentilini ha lavorato nel campo dell’oncologia pubblica per circa 30 anni, a stretto contatto con i malati e i loro familiari, dimostrando una professionalità e una umanità indiscutibili. In ottemperanza all’art. 5 del Codice deontologico dell’Ordine dei medici, cui appartiene e di cui è referente per l’ambiente per l’Ordine di Forlì-Cesena, è da sempre impegnata per la Prevenzione primaria, che trova nella difesa dell’ambiente il punto cruciale della tutela della salute pubblica. Come oncologa, ha rivolto particolare attenzione all’incremento della patologia neoplastica, anche in ragione del fatto che la letteratura specialistica internazionale ha documentato negli ultimi anni un preoccupante incremento di quasi tutte le neoplasie, soprattutto nelle giovani età e nel sesso femminile.
Esistono dati allarmanti che riguardano non solo l’Italia, ma anche la Francia e l’Inghilterra, che dimostrano l’alta incidenza tumorale nelle aree intensamente industrializzate e in particolare anche in quelle prossime ad inceneritori. Su problemi tanto delicati, che riguardano la salute pubblica e l’avvenire di tutti i cittadini e dei nostri figli, si dovrebbe dimostrare sempre e dovunque la stessa attenzione da parte di tutti.

P ur riconoscendo che si possano avere pareri differenti sulle soluzioni da adottare, sarebbe opportuno che chiunque riveste ruoli istituzionali, prima di affrontare simili argomenti, si documentasse e imparasse a discuterne, specie in sedi pubbliche, con educazione, moderazione e senso di responsabilità, senza atteggiamenti arroganti che sembrano voler coprire gravi carenze culturali.
Vogliamo invitare tutte le persone per bene, la classe politica e i giornalisti a ricordare le accorate parole del compianto professor Renzo Tomatis, uno dei maggiori oncologi e ricercatori europei, direttore per oltre un decennio dell’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro di Lione (Iarc) e autore di numerosi saggi, il quale, a proposito della prassi irresponsabile di bruciare i rifiuti, ha dichiarato pubblicamente: «Le generazioni future non ce lo perdoneranno».
Tramite la redazione di MC rivolgiamo un invito a riflettere su questo preoccupante problema non solo ai suoi lettori, ma soprattutto ai politici e agli amministratori del nostro territorio, sempre più devastato da uno sviluppo vorace e inquinante. Crediamo utile porgere questo appello soprattutto a chi ricopre o si candida al ruolo di primo cittadino di una città, ricordandogli che tra i doveri specifici di un sindaco dovrebbe esserci quello di tutelare la salute dei propri concittadini, oltre a quello di ascoltarli sempre con attenzione e rispetto.
Ringraziamo e porgiamo distinti saluti.
Roberto Topino
Rosanna Novara




Acqua delle nostre brame: bisogno, ma non diritto

Si è concluso a Istanbul (Turchia), il 22 marzo scorso, il V Forum mondiale sull’acqua, una settimana di lavori a cui hanno preso parte quasi 30 mila congressisti, delegati da governi e istituzioni inteazionali. La speranza di molti era sintonizzata sulla possibilità che, finalmente, si potesse dare una risposta definitiva a uno dei problemi cruciali che investe oggi la comunità internazionale in materia del cosiddetto «oro blu», ovvero, poter definire una volta per tutte l’accesso all’acqua come un diritto fondamentale e inalienabile di ogni essere umano. Mi permetto di commentare una notizia ormai «di archivio» perché, a nome di una rivista che considera la difesa dell’ambiente e la salvaguardia del creato come parte della sua missione, considero grave il fatto che ciò non sia avvenuto.
Ogni essere umano ha diritto, senza discriminazione alcuna, di accedere a una quantità d’acqua potabile, di buona qualità, che sia facilmente raggiungibile dalla propria abitazione ed economicamente accessibile, per potee fare uso personale e domestico. Questo, in sintesi, potrebbe essere il contenuto del diritto invocato. Si tratta, umanamente parlando, di una pretesa scontata e universalmente condivisibile, che assumerebbe ben altra valenza se le venisse concesso lo status di diritto. Senz’acqua si muore, con poca acqua malsana non si va molto più in là. Purtroppo, invece, l’economico e il politico perdono sovente le tracce dell’umano.

Definendo l’acqua come un bisogno fondamentale dell’umanità, e non come un diritto, si è persa l’occasione di affermare che alla vita ci teniamo sul serio e non solo a parole. Chi difende un bisogno? Chi ne definisce l’oggettività? Chi stabilisce i criteri per cui qualcuno ha più bisogno di altri? Quanto posso o sono disposto a pagare per la soddisfazione di questo bisogno? Eccolo qui, in fin dei conti, il nocciolo del problema: il bisogno determina il prezzo di un bene. Affermare che l’acqua è un bisogno significa dire una verità talmente evidente e scontata di fronte alla quale istintivamente si è tentati di annuire, dimenticandosi che la posta in gioco è la privatizzazione selvaggia in atto di un bene che è di tutti.
Dire che l’acqua è un diritto avrebbe invece messo in chiaro che a tale bene ogni essere umano deve poter accedere senza obbligatoriamente versare un salato obolo alle multinazionali del settore. Non solo, avrebbe contribuito a promuovere altri diritti fondamentali, la cui affermazione verrebbe altrimenti penalizzata dalla mancanza di accesso a fonti di acqua. Alla faccia degli obbiettivi del millennio!

Rimando i lettori a un corposo dossier di Missioni Consolata pubblicato nel numero di giugno 2006, dal significativo titolo «Le mani sull’acqua», nonché ai contributi scientifici pubblicati nella rubrica Nostra madre terra (di Roberto Topino e Rosanna Novara). Sono il segno di un duraturo interesse di Missioni Consolata e della determinazione a continuare dalle nostre pagine la battaglia affinché l’acqua sia finalmente riconosciuta come bene sociale e diritto di tutti.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli