Un biglietto in prima fila

Fespaco: 40 anni di cinema africano

L’Africa culla di civiltà e di cultura. L’Africa che crea e alimenta registi,
attori, scenografi del cinema … africano. A Nord e a Sud del Sahara.
Non solo genocidio, Darfur, Aids, fame e guerre «tribali». Ma cultura.
Non è facile saperlo perché nelle nostre sale si proiettano film statunitensi, italiani, qualche francese…
Ma al 65esimo Festival di Venezia Teza, film etiope, vince due premi.
Sul continente diversi sono i Festival della settima arte.
Il più importante si tiene a Ouagadougou (Burkina Faso) ogni due anni.
Nel 2009 festeggia i 40 anni dalla prima edizione. Quasi 400 i film proiettati, africani e non. Resoconto e nuove tendenze.

Ouagadougou. Fuochi d’artificio per concludere la grandiosa cerimonia di apertura del XXI Festival del cinema e della televisione di Ouagadougou (Fespaco). La biennale, il più importante appuntamento del suo genere sul continente compie così 40 anni. Nata nel 1969 dall’incontro informale di alcuni cineasti è stato poi ufficializzato nel 1972. Fu per anni una piccola rassegna con pochi titoli.
Oggi il Fespaco presenta 400 film di cui 124 in concorso, raggruppati in 18 categorie, delle quali sei in competizione per premi ufficiali (riservati a registi africani o della diaspora). Diciannove lungometraggi, 20 cortometraggi, 30 documentari, ecc. Ma non solo.

Omaggio al più grande

Oltre i suoi 40 anni il festival celebra il cineasta africano riconosciuto come più grande, il senegalese Ousmane Sembéne, scomparso all’età di 84 anni il 9 giugno del 2007. Regista e scrittore, tra i fondatori del festival, era ospite fisso tant’è che la stanza n. 1 dell’Hotel Indépendance (il centro nevralgico, dove si ritrovano registi, attori, produttori) era ormai sua di diritto. Oggi è diventata una stanza-museo, dove sono raccolti i suoi premi, e sulla scrivania, le inseparabili pipe.
Quest’anno non c’è Sembéne, ma i suoi film animano il festival. Una selezione delle sue opere è proiettata nella sezione «Omaggio a Sembéne Ousmane», e grandi poster con il suo ritratto sono appesi nelle sale più importanti. 
Tra le novità di questa edizione ci sono le sezioni dedicate ai film ibero-americani e quella degli afro brasiliani, che vede anche la partecipazione diretta di una simpatica delegazione, capitanata da Zozimo Bulbul, fondatore del «Centro Afrocarioca di cinema» a Rio de Janeiro.
Decine di conferenze si svolgono parallelamente alle proiezioni. Dal «colloquio» sul tema del festival: «Cinema africano, turismo e patrimonio culturale», all’incontro della Federazione panafricana dei cineasti (Fepaci) sul tema «Produrre film nel XXI secolo», all’assemblea della Federazione africana dei critici cinematografici. Molto attesa anche la conferenza stampa dell’Unione europea, uno dei principali finanziatori della cinematografia africana.

Intasamento di cinefili

Alcune migliaia di stranieri si sono riversati nella capitale del Burkina Faso la prima settimana di marzo, creando anche non pochi problemi di traffico. Molti vengono dalla Francia, ma anche da Spagna, Italia, Germania, Stati Uniti e altri paesi africani. Un indotto notevole per hotel, ristoranti, venditori di artigianato e instancabili taxi verdi (oltre che le onnipresenti compagnie dei telefoni cellulari).
La macchina organizzativa, per questa XXI edizione ha avuto però qualche problema. «Lunghe ore per avere l’accredito» lamentano i professionisti (attori, registi, giornalisti), «disorganizzazione diffusa» denunciano i festivaliers (così si chiamano i cinefili accorsi). Alcuni francesi frequentatori «storici» trovano questa edizione «la peggio organizzata degli ultimi 15 anni».
«Certo è che il Fespaco non è più un festival popolare, come ai tempi del presidente rivoluzionario Thomas Sankara (’83-’87, ndr.), ma neanche come le edizioni degli anni ’90» ci confida Rabankhi Zida, caporedattore del giornale governativo Sidwaya. «Oggi è un festival rivolto ai professionisti e agli stranieri».
Si riferisce soprattutto all’aumento del costo dell’abbonamento per l’accesso diretto a tutte le proiezioni, portato dall’equivalente di 15 euro delle passate edizioni a 38, fatto che ha tagliato fuori una grossa fetta di cittadini del paese ospite.
Michel Ouedraogo, delegato generale (Dg) del Fespaco, ovvero numero uno di tutta la struttura si difende: «Il target dell’abbonamento non sono i funzionari burkinabè, ma gente con più mezzi». E continua: «Non priviamo le popolazioni, perché possono avere accesso con biglietto che è rimasto allo stesso prezzo (1,50 euro per un ingresso). E, malgrado il costo, abbiamo avuto una richiesta molto forte di abbonamenti. La strategia è andare verso un auto-finanziamento del festival».
Le sale, in effetti, sono sempre gremite, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ma il pubblico è in prevalenza straniero. Fanno eccezione i film dei registi burkinabè, ai quali è difficile entrare perché presi d’assalto dalla popolazione.

Cinema africano?

Il festival è costato circa due milioni di euro finanziati in larga parte dall’Ue, ma anche dall’Organizzazione internazionale della francofonia (Oif), dal ministero degli Esteri francese, da radio e televisioni francesi (Rfi, Cfi, Tv5). Non dimentichiamoci che è un appuntamento francofono, anche se partecipano molti titoli anglofoni e alcuni lusofoni.
Secondo Michel Ouedraogo: «Occorre aprirci al settore privato, per avere finanziamenti, permettendo a grandi multinazionali di promuovere la loro immagine. È meglio trovare partner a livello africano, affinché gli africani possano finanziare il proprio festival. Però non siamo chiusi sull’Africa, ma aperti al mondo. Stiamo iniziando partenariati con Svezia, Spagna e paesi ibero-americani». Un concetto un po’ particolare di auto-finanziamento.
Altra novità: per i 40 anni del festival alle sale climatizzate in centro città si aggiungono quelle di quartiere, cinema popolari all’aperto, da sempre uno dei vettori principali, che hanno fatto il Burkina Faso la capitale del cinema africano e il suo popolo gran consumatore di film.
«C’è richiesta di immagini – continua il Dg – il Fespaco vuole diffondere tutti i tipi di film e occuparsi di tutti gli strati sociali. In sette giorni (durata del festival, ndr.) non si permette a tutti di vedere e riflettere.
Ad esempio il mestiere della donna cineasta è qualcosa su cui discutere. L’uso dei bambini nel cinema, le questioni sulla libertà.  Vogliamo toccare tutti i settori e i temi possibili. Stiamo pensando a un’edizione intermedia alla biennale, una rassegna sulle donne e un’altra sui diritti e le libertà».

Chi c’è e chi non c’è

Nei 19 titoli della competizione principale (i lungometraggi fiction) sono rappresentati 13 paesi. Si osserva quest’anno un ritorno in forza del cinema nord africano, in particolare con tre film del Marocco, due dell’Algeria e uno per Tunisia ed Egitto. Anche il Sudafrica continua con una presenza: tre film più lo zimbabweano Triomf girato interamente a Johannesburg.
Grande assente la Nigeria, nelle diverse categorie. Paese che vinse l’edizione 2007 e patria del fenomeno emergente di cinema popolare, chiamato Nollywood, che si sta diffondendo in vari paesi africani.
Poi un grande ritorno: l’Etiopia, con la pellicola Teza di Haile Gérima, che si aggiudica il premio più importante, l’Etalon d’oro di Yennenga (vedi box). Il nome di Gérima (peraltro non presente alla manifestazione in quanto non va in Burkina dall’assassinio di Sankara, nell’ottobre dell’87) circola già prima della premiazione.
È un film che ha già fatto incetta di premi nel 2008. Premiato a Venezia con il premio speciale della giuria e l’Osella per la miglior sceneggiatura, ha poi ottenuto i cinque maggiori premi al Festival di Cartagine, altro importante appuntamento africano, e il gran premio del Festival internazionale di Amiens (Francia). Da fine marzo è proiettato per il grande pubblico anche in Italia.

Senza grandi sorprese

Il Sudafrica arriva secondo con Nothing but the truth di John Kani e il terzo posto se lo aggiudica l’algerino Mascarades di Lyes Salem. Algerini anche il primo e il secondo posto dei corto metraggi, selezione che ha visto ben 14 film nordafricani sui 20 in concorso, a indicare non solo la maggiore produzione di quest’area geografica e culturale ma anche l’origine di molti dei nuovi talenti del cinema africano.
«Noi cineasti africani dobbiamo creare dei film destinati al pubblico africano, nei quali questo pubblico si riconosce, che non sia un prodotto culturale venuto dall’estero, da molto lontano da loro» ci dice Mwézé Ngangura, regista congolese.  Vincitore del Fespaco 1999 con Piéces d’identités (Documenti d’identità), è uno dei pilastri di questo cinema, con una carriera di oltre 30 anni sulle spalle.
Molto sentito al festival il tema della pirateria che vede il diffondersi ogni anno di milioni di copie di dvd e video cd (vcd) contraffatti sul continente (e non solo), mentre le sale cinematografiche stanno chiudendo quasi ovunque.
«Occorre che il cineasta africano si allinei sulla nuova distribuzione. Sono convinto che il miglior modo di apprezzare un film sia in una sala, ma se queste non esistono più, come in Congo (Rdc), bisogna guardare avanti. C’è una rete di distribuzione importante come il dvd, utilizzata da molta gente della diaspora, che è un grosso mercato perché ha nostalgia del paese e il bisogno di vedere immagini.
Non dobbiamo fare un combattimento di retroguardia. C’è poi la distribuzione informale dei vcd. Come strutturarla?».
Il noto documentarista Jean-Marie Teno ha realizzato una pellicola proprio su questo tema: Lieux saints (luoghi santi).

Finanziamenti e
nuovi modelli

«Il terzo polo sono i finanziamenti – sottolinea Ngangura – che devono essere sempre più africani. E il più possibile privati. Lo stato deve aiutare riducendo tasse, diritti di ripresa, ecc. Deve facilitare a livello legislativo tutto quello che è produzione e distribuzione. Ma è difficile per i nostri stati finanziare anche il cinema».
La tecnologia digitale, che – a detta di  molti – è nociva sul piano della distribuzione perché rende molto facile la pirateria, ha aperto nuove frontiere ai giovani che si orientano verso questo mestiere.
«Siamo in un momento di transizione: è un periodo che sta morendo per lasciare spazio a un altro»  sostiene Cheick Fantamady Camara, regista guineano che nel 2007 vinse il premio del pubblico con il suo Il va  pleuvoir sur Conakry (Pioverà su Conakry).
«È tempo che i giovani africani prendano in mano il loro cinema e penso che con l’avvento del video digitale questa rivoluzione stia diventando realtà. Avviene attraverso il cinema popolare prodotto a basso costo in grande quantità; e da questa scaturirà la qualità. Penso alla Nigeria e anche al Burkina con Boubakar Diallo (vedi box).
 Gente che non è nel sistema che abbiamo adottato noi, quello dei finanziamenti dall’estero.
Loro si finanziano i propri film e hanno il pubblico dalla loro parte. Quando proiettano fanno il tutto esaurito. In un continente dove non c’è una reale politica per il cinema, è questo il sistema che si deve adottare, e ora questo è possibile grazie al digitale».
E sulla questione della chiusura dei cinema sul continente: «Anche le sale si chiudono perché c’è un passaggio a un altro sistema. Sono state fatte durante le colonie, poi per un certo tempo sono sopravvissute.
Ora quel sistema è morto. Altre sale si apriranno con proiettori digitali. In maniera privata, professionale e industriale. Oggi il cinema africano è sovvenzionato, non è professionalizzato. Ma non è con gli aiuti che potremo andare avanti. Occorre creare una piccola industria che poi crescerà».
Su questa linea il comune di Torino, in collaborazione con il segretariato sociale Rai assegna il Premio speciale Torino città del cinema, a una nuova leva del cinema popolare. Il giovane burkinabè Serge Armel Sawadogo per il suo Timpoko, cortometraggio nella competizione ufficiale.

Immagini «impegnate»

C’è anche chi, al Fespaco, porta temi sociali e politici non troppo graditi al proprio paese. È il caso della giovane congolese Batou Nadege, che con il suo documentario Ku Nkelo à la recherche de l’eau (Alla ricerca dell’acqua), denuncia le difficoltà  di accesso all’acqua a Brazzaville, capitale del suo paese. «Viviamo un contrasto: siamo in mezzo a grandi fiumi (il Congo), abbiamo piogge tutto il tempo, ma i rubinetti di Brazzaville sono a secco! Nel documentario mostro come un gruppo di bambini, pur essendo nella capitale, devono percorrere due chilometri per andare a cercare l’acqua necessaria».
Il film è stato diffuso dalla televisione congolese e subito le autorità hanno proibito che fosse ritrasmesso. «È la realtà di Brazzaville. Io denuncio questa politica, per cui acqua ed elettricità, che dovrebbero essere i servizi disponibili, ci sono rifiutate e la popolazione beve acqua insalubre, si ammala, muore. Ma le bollette arrivano e bisogna pagare! Voglio far comprendere alla politica che oggi la popolazione accetta, assume, sta zitta. Ma domani continuerà a stare in silenzio?». 
Di Marco Bello

MAROCCO
EBREI IN FUGA,
VERSO LA TERRA PROMESSA

Il film ci porta nel 1960 in Marocco. Qui la comunità ebrea è ancora numerosa e non ci sono particolari problemi di convivenza. Ma un «agente d’immigrazione» inviato da Israele lavora per convincere le famiglie ebree a partire per popolare il neonato stato sionista. Si intrecciano storie di amicizia e di amore, di condivisione tra arabi ed ebrei, che le nuove vicende interrompono bruscamente. Il viaggio avviene in clandestinità perché all’epoca era proibito ai paesi della Lega araba dare il passaporto agli ebrei.  Alcuni viaggi finiscono in tragedia.
«Sono gli anni neri dell’immigrazione» ci racconta il regista Mohammed Ismail, capelli lunghi, Panama e occhiali scuri. «Gli ebrei vivevano in Marocco ancora prima che gli arabi arrivassero. Erano circa il 10% della popolazione.  Adesso sono rarissimi».
L’idea del film arriva nel 2001, ma il tema è delicato, tocca la storia dei rapporti arabo – israeliani. Nonostante il regista non voglia evocare problemi politici, ma fare un film neutro basato sulle relazioni umane, la coabitazione e i rapporti «ma non di forza».
«L’avevo scritto con una sceneggiatrice marocchina di confessione ebrea, che io conosco da oltre 25 anni. Le nostre famiglie erano molto unite. Come una delle vicende del film».

«È una pellicola molto realista – continua il regista -. Sono storie di persone che ho ripresentato come fiction. Le coppie arabe e quelle ebree, la storia d’amore tra i giovani di confessione diversa esistevano e più o meno è stata una parte della mia vita.
L’incaricato dell’immigrazione fa il ruolo del cattivo. Me lo hanno spesso rinfacciato. Ma è un personaggio essenziale. Senza di lui gli ebrei marocchini non sarebbero partiti. Non stavano poi così male e questo tizio vuole convincerli del contrario».
Un film struggente e tragico. Che coinvolge lo spettatore. Racconta anche del naufragio di un battello di fuggiaschi, nel quale perirono 44 persone. Evento realmente accaduto, che mise la pressione internazionale sul Marocco. Il re Hassan II decide allora di lasciare gli ebrei liberi di partire, anche se c’era la proibizione dei paesi arabi.

«Il film è stato visto in Marocco con posizioni molto positive, buona critica. Ha fatto un percorso interessante a livello internazionale, partecipando a molti festival. Molti negli Usa, il che è raro. Ha rappresentato il Marocco per gli Oscar quest’anno».
Particolari anche le proiezioni al senato francese e a quello belga. Ha partecipato in Vaticano al festival Religion today dove è stato premiato. È il solo film marocchino proiettato in Israele, a tre festival. L’ultima guerra di Gaza ha poi bloccato il programma.
«È un messaggio di pace e di frateità» lo definisce l’autore.
«Ho fatto proiezioni in centri ebrei, come il centro sionista Ben Gurion, in Belgio. Hanno accettato il film e poi c’è stato un dibattito, che è stato una testimonianza tra le lacrime. Era la loro storia e i vecchi trasmettevano ai giovani presenti, anche dei musulmani. È stata una festa».                             
Di Marco Bello

BURKINA FASO
IL NUOVO CINEMA POPOLARE
AFRO-AFRICANO

Boubakar Diallo, burkinabè, giornalista, ma soprattutto sperimentatore. Fa parte di quei «giovani cineasti» che hanno inventato un nuovo tipo di cinema. Producono film amati dal loro pubblico e lo fanno a costi bassissimi, tutto in tecnologia digitale.
Diallo è il direttore del celebre giornale satirico Joual du Jeudi, (www.joualdujeudi.com) molto seguito anche all’estero e si è inventato l’immagine del «dromedario» per etichettare i suoi lavori. Così la sua società di produzione è la Film du dromadaire.
Coeur de lion (Cuore di leone) è costato appena 250.000 euro, contro i 3-4 milioni di un film europeo e i 500.000 euro di un film africano in 35 mm. Eppure ci hanno lavorato circa 80 persone.
«Scrivevo sceneggiature per registi, ma nessuno me le prendeva. Così mi sono messo a realizzare io stesso» racconta Diallo.
La prima domanda che si pone è: perché non cercare altre strade di finanziamento che non siano i soldi del Nord? E se un giorno quelli decidessero di chiudere il rubinetto?
«Dal 2004 ho cercato di produrre film con budget locale, partner istituzionali e società commerciali africane, dando loro in cambio visibilità». E il successo è grande: Diallo realizza otto lungometraggi negli ultimi quattro anni, quando, nei casi migliori, a sud del Sahara si produce un film ogni 4-5 anni.

«Il pubblico chiede storie – continua – ma a sua immagine e somiglianza. Così esce di casa e paga il biglietto. È grazie alla gente che Film du dromadaire sta realizzando così tanto».
Sulla stessa scia anche per Le fauteuil (La poltrona) del collega burkinabè Missa Hébiè, che dipinge, in maniera realistica e ironica, la vita, il lavoro e la corruzione quotidiana dei funzionari nella capitale.
Piccolo di statura, occhi vispissimi e spirito commerciale. Una delle idee vincenti di Diallo è il partenariato con la Televisione nazionale. Questa trasmette gratuitamente la pubblicità del film prima e durante la sua uscita nelle sale. Poi, esaurito il circuito classico, in cambio acquisisce i diritti per mandare in onda il film.
Altro ingrediente: per toccare il più grande numero di persone i suoi film sono in francese e non nelle lingue africane, come fanno molti dei suoi colleghi per rispettare il contesto, ma poi sono obbligati a sottotitolare.  Anche se «I saluti nel film sono nelle diverse lingue, per dare il tono».

Cuore di leone è ambientato in un villaggio burkinabè di 200 anni fa, dove le differenti etnie e i loro ruoli erano precisi e rispettati: allevatori, cacciatori, pescatori. Ma un leone terrorizza le vacche di un allevatore, che quindi decide di cacciarlo. Intanto si sviluppa una lotta per il potere, e l’eroe cattivo utilizza la tratta degli schiavi per diventare il capo villaggio. «Occorre guardare indietro, i giovani hanno bisogno di riferimenti. Nel passato c’erano comunità integrate. Ho voluto mostrare come cercavano di risolvere i problemi. È un approccio afro-africano» ama dire Diallo. Ovvero guardare le problematiche africane da un punto di vista africano. E forse è proprio questo che piace al pubblico, che si identifica con attori e storia.
Cinema popolare sì, ma non spazzatura, dunque. Portatore di messaggi e di riflessione. Rivolto a tutti e in particolare ai giovani.
In questo caso un messaggio di integrazione: «Le etnie sapevano essere complementari. È un invito a guardare come le nostre società erano strutturate e a prendere quello di buono che c’è nelle nostre culture».
Ottimista anche sulla pirateria dei dvd: «Complicato prendere provvedimenti contro i pirati. D’altro lato è questo circuito che ha contribuito di più a far circolare i film del dromedario. Per togliere loro il mercato occorrerebbe occupare subito il terreno con dvd e vcd a basso costo».                 
di Marco Bello

MALI-USA-SUDAFRICA
UNA STORIA MISSIONARIA, INEDITA

Cheick Cherif Keita è maliano, ma dal 1977 vive nel Minnesota (Usa), dove insegna letteratura francofona. Ma la sua passione lo porta su una storia dimenticata e diventa regista di documentari.
«Gli antenati possono ispirare un maliano a cercare la storia nascosta di due famiglie lontane, ma che sono state legate da un passato remoto» racconta. Si parla di una famiglia nordamericana e una sudafricana di inizio secolo: «John Dube era uno Zulu. Fondò l’African national congress (Anc) prima della nascita di Mandela, diventandone il primo presidente dal 1912 al 1917». Il regista scopre che John Dube aveva avuto una grande fortuna: una coppia di missionari protestanti,  William e Aida Wilcox lo avevano accolto e fatto studiare negli Usa nel 1887, all’età di 16 anni. «Poi è diventato un pioniere della rivoluzione intellettuale e politica del suo paese». 

«Una storia umana, una storia dimenticata» che coinvolge totalmente il professore-regista. Keita realizza il primo film nel 2005 sulla vita di Dube. Poi nel 2008 fa un passo indietro con un film sugli stessi  Wilcox, i missionari. «È diventata la mia ricerca personale, la mia implicazione in una storia di famiglie molto lontane da me, prima di tutto, e poi tra di loro. Dal 1926 non c’erano più stati incontri. Grazie a me nel 2007 i discendenti dei due rami si sono incontrati. Non sapevano neanche dell’esistenza gli uni degli altri».
Cheick Keita è convinto che sono gli antenati ad avergli affidato questa missione: «Più tardi scoprii che i genitori di Aida Wilcox erano seppelliti a cento metri da casa mia, negli Usa!».
«Questo mostra che abbiamo tutti un dovere comune, come essere umani, di testimonianza. Quando una persona fa del bene per aiutare l’umanità, qualsiasi sia la sua religione o la sua nazionalità, dobbiamo raccontare la sua storia».
Ma.B.

FESPACO 2009
I PREMI

Film lungometraggi
– Etalon d’oro di Yennenga: Teza, Etiopia, di Haile Gérima
– Etalon d’argento: Nothing but the truth, Sudafrica, di John Kani
– Etalon di bronzo: Mascarades, Algeria, di Lyes Salem
– Premio Oumarou Ganda: Le fauteuil, Burkina Faso, Missa Hébié
– Premio dell’Unione europea: Cœur de lion, Burkina Faso, Boubakar Diallo
– Premio del pubblico: Le fauteuil, Burkina Faso, Missa Hébié
– Migliore interpretazione femminile: Sana Mousiane in Les jardins de Samira, Marocco
– Migliore interpretazione maschile: Ropulana Seiphmo in Jerusalema, Sudafrica
– Migliore sceneggiatura: L’absance, Guinea, di Mama Keita
– Migliore immagine: Nic Hofmeyer, in Jerusalema, Sudafrica
– Miglior suono: Mohamed Hassib in Les demons du Caire, Egitto
– Miglior colonna sonora: Kamal Kamal, in Adieu Mères (Wadaan Oummahat), Marocco
– Miglior scenario:  Abdel Karim Akauach, in Adieu Mères, Marocco
– Miglior montaggio: David Helfand in Jerusalema, Sudafrica
– Miglior locandina: Les feux de Mansaré, Mansour Sora Wade, Senegal

Film cortometraggi
– Puledro d’oro: Sektou,  Algeria, di Khaled Beanissa
– Puledro d’argento: C’est dimanche,  Algeria, Samir Guesmi
– Puledro di bronzo: Waramutseho, Camerun, Beard A. K. Yanghu

Film della diaspora
– Premio Paul Robson: Jacques Roumain, la passion d’un pays, Haiti,  Aold Antonin

Film documentari
– Primo premio: Nos lieux interdits, Marocco, Leila Kilani.


Marco Bello