Luci e ombre sul delta del Gange

Viaggio nel paese più popoloso del mondo

Superficie meno della metà di quella dell’Italia e oltre 153 milioni di abitanti, il Bangladesh è afflitto da tanti problemi: spaventose inondazioni e inquinamento, corruzione e instabilità di governo, povertà e sfruttamento dei lavoratori: il 40% della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno. All’economia del paese contribuiscono le rimesse di 5 milioni di emigrati. L’esodo continua anche verso l’India, che cerca con ogni mezzo di respingere chi vuole attraversare i confini.

Partiamo da Calcutta all’alba del 27 dicembre 2008. Sui marciapiedi uomini seminudi si stanno lavando, azionando le prese d’acqua pubbliche, altri sistemano banchi con le mercanzie. Usciti dalla città, villaggi e lembi di campagna si susseguono fino al confine col Bangladesh.
Lasciato l’edificio fatiscente della dogana indiana, ci troviamo in un paese che pare più ordinato e accogliente, anche se densamente popolato. Una fila di autobus ammaccati, ma dipinti a colori vivi, è ferma in attesa, sotto i giganteschi alberi di tamarindo che bordano la strada; gli autisti ci fissano stupiti.
Lungo il percorso che ci condurrà a Khulna incontriamo gruppi di manifestanti: tra due giorni ci saranno le elezioni, le prime dopo l’arresto di Begum Khaleda Zia nel gennaio del 2007 e il successivo governo di transizione militare. La gente inneggia al partito di Sheikh Hasina. 
«Nouka-nouka», «barca-barca» gridano i due principali opposti schieramenti, che hanno come simbolo la barca e il ramo di riso e fanno capo alle due donne che si sono alternate alla guida del paese negli ultimi anni. Khaleda Zia, vedova del generale Zia, ucciso nel 1981, guida il Bangladesh National Party, alleato dei partiti islamici; mentre Hasina è figlia del padre della patria, Muijbur Rahmanan, primo presidente del Bangladesh e fondatore della Awami league, massacrato durante il colpo di stato del 1975 (vedi riquadro).

Tutti al lavoro

Pare sia facile innamorarsi di questo paese. La gente è veramente speciale, gentile e accogliente. È il paese tra i più piccoli al mondo e il più densamente popolato; ma non si vedono sfaccendati in giro, tutti sono al lavoro, un lavoro molto duro perché privo di aiuti meccanici.
Le donne vestono sari colorati; rare quelle con il volto velato. Nelle campagne svolgono i lavori meno pesanti, contrariamente a quello che succede in India. Nelle città si impiegano nelle industrie di abbigliamento, lavorano anche di notte e sono sfruttate.
Molto numerose sono le foaci per mattoni, con le ciminiere e le lunghe file di mattoni fatti a mano, disposti a seccare. Non ci sono pietre in Bangladesh; il terreno è tutto fango, limo lasciato dai grandi fiumi himalaiani, il Gange e il Bramaputra che si uniscono in un enorme delta. Dopo la cottura, si rompono i mattoni per poi utilizzarli come pietre.
Il traffico nel paese è dato da carretti, rikshò e camion con grossi carichi, su cui sovente si arrampicano gruppi di passeggeri. Le prime auto le vedremo solo nella capitale o presso i posti di polizia e dell’esercito. Non riesco a essere indifferente alla fatica che traspare negli occhi allucinati di uomini costretti a trasportare enormi pesi su carretti tirati dalle biciclette. Uomini-cavallo, scalzi, magri, alcuni con la barba bianca, altri giovani, ma logori.
Il contrasto è forte nella capitale, dove questa situazione convive con lo sfarzo di certi edifici pubblici e il lusso dei centri commerciali. La vita intellettuale è vivace: leggo sui quotidiani che alcune donne straniere che si sono trovate a vivere qui per qualche anno, si sono poi attivate per portare aiuto e solidarietà, creando fondazioni per lo sviluppo sociale e culturale del paese che le ha ospitate.

Un missionario leggendario

I missionari cattolici sono presenti e molto attivi, nonostante questo sia un paese all’87% musulmano. Siamo andati a cercarne uno veramente speciale, nella sua missione presso Mongla, nella regione dei Sunderbans, nel delta del Gange.
Attraversiamo il fiume con un barcone, poi un rikshò ci conduce alla missione dove veniamo accolti da padre Marino Rigon, saveriano, originario di Vicenza. Il suo bel viso di ottantenne, incoiciato dalla barba bianca, è comparso ieri sulla prima pagina del  Daily Star di Dakha, in occasione del conferimento, da parte del governo, della cittadinanza onoraria. Si è voluto riconoscere così il prezioso lavoro svolto nel paese sin dal 1954.
La missione comprende la scuola per gli orfani, il laboratorio di cucito dove vengono accolte le ragazze più graziose, che sono più a rischio, il dispensario e la chiesa di San Paolo, trionfo di colore e testimonianza di tolleranza: padre Marino ci indica i simboli delle religioni presenti nel paese, che decorano le pareti e l’altare: la mezzaluna islamica, il fior di loto buddista e la croce cristiana. 
«Mi interessa quello che devo fare, non quello che ho fatto in questi 54 anni – risponde il missionario ai nostri complimenti -. Oggi la situazione è migliorata, ma i poveri restano sempre poveri, con i problemi di sempre».
Poi ricorda: «Nel ’71 ho cornoperato con i patrioti, per la liberazione del paese dal Pakistan. Una guerra cruenta, che fece più di un milione di morti. I pakistani bruciavano i villaggi, uccidevano e violentavano. Sono sceso sulla riva del fiume, sono andato incontro al comandante responsabile dei massacri e gli ho detto: voi non venite più qui a bruciare e uccidere la gente».
Domando come sono i rapporti con i musulmani. «Qui la gente prima è bengalese, poi islamica. Nel delta un tempo vi erano solo indù, poi sono arrivati i commercianti islamici. I fuori casta, che abitano al di là del fiume, si sono convertiti al cristianesimo. Sono poveri pescatori e io mi curo di loro. Li aiuto anche quando devono ricostruire le capanne spazzate via da un tifone».
Alla missione arrivano tutti i giorni le emergenze, come quella donna che ieri è arrivata, col seno che le scoppiava, perdeva sangue e il missionario l’ha fatta ricoverare.
«Stamattina, alla messa delle 6,45, la chiesa era vuota, fuori c’era nebbia fitta. Ho letto il capitolo 1° della Genesi, fondamentale: Dio creò l’uomo e la donna a sua immagine e somiglianza» spiega il padre, fermandosi un istante a meditare, e conclude: «Forse l’uomo vero è la coppia, uomo e donna insieme».
Poi aggiunge:  «Nelle mie omelie non manco di citare i bauls, i menestrelli bengalesi di una setta iniziatica che ha le radici nel tao. Fu un fratello della Holy Cross a farmi conoscere questi cantori dolcissimi, che parlano dei problemi dell’uomo, spirituali e terreni. Sono cantori senza grammatica, che credono nell’amore e cantano una vita semplice».
Vicini al sentire buddista, i bauls formano un gruppo eterogeneo che comprende indù e sufi islamici. Sono mistici, ma legati alle cose terrene e all’amore carnale. Si esprimono attraverso la musica e hanno influenzato tutta la cultura bengalese, in particolare del grande poeta nazionale Rabindranath Tagore. Padre Marino è stato il primo a tradurre le sue opere direttamente dal bengali in italiano. Anche stamattina egli ha terminato la messa con un verso del poeta.
I canti baul sono più di 2.000 e padre Marino ne ha già tradotti 350. Ha pure scritto «La voce del silenzio», un libro di cui riporto il seguente testo: «Marco compone il racconto della crocifissione mettendo in risalto che Cristo morente resta “solo”, sta in “silenzio”. “Solitudine e silenzio” sono l’unico grido di chi ”non ha voce”. Penso che “solitudine e silenzio” del mondo povero siano un grande castigo per coloro che danzano nella massa umana ricca che strilla dentro una musica stonata…
Molti mi domandano se sono stato in Terra Santa. Rispondo semplicemente che non sento il bisogno di andarvi. La verità è che la Terra Santa la ho qui, in questi villaggi di intoccabili; nel loro volto vedo gli sputi e gli schiaffi dati a Cristo; nelle loro vesti stracce vedo il manto regale, da burla di Gesù, sul loro capo vedo la corona di spine e nelle loro mani e nel loro petto vedo le ferite del Crocifisso».

Banca di Villaggio

I due funzionari sono arrivati ieri sera da Dakha, l’appuntamento è nella sede della banca Grameen, in un villaggio presso Bogra, dove sono convenute alcune donne per testimoniare l’efficacia del microcredito creato dal premio nobel per la pace 2006, Muhammed Yunus. Tutte indossano sari colorati e hanno il viso segnato dalla fatica. Due di loro sono anziane vedove senza figli, costrette a mendicare per vivere. Con il piccolo prestito ottenuto una di esse ha potuto comprare una capra e ora vende il latte.
Shahama ha iniziato con un debito di 2.000 taka e ora ne ha fatto uno di 80 mila. Ha costruito una casa dove abita con la famiglia e ne affitta una parte. Con il reddito paga il suo debito. Un’altra donna con il prestito si è comprata una mucca. Poi ne ha comprata un’altra e ora vende il latte a 30 taka il litro. Così riesce a mantenere la figlia all’università. 
Allamein è uno studente, sua madre ha fatto un debito per farlo studiare. Lui dovrà restituirlo un anno dopo aver trovato lavoro.
L’idea vincente è che tutti possono diventare imprenditori di se stessi, anche i poveri contadini di villaggi remoti, perché è la banca che li raggiunge, con i suoi funzionari.
La storia di Yunus è affascinante. Durante la terribile carestia che seguì la guerra di liberazione del ’71, egli era un giovane professore che si trovava a insegnare eleganti teorie economiche all’università di Chittagong, mentre i suoi concittadini morivano di fame. Rendendosi conto dell’inutilità del suo lavoro, volle impegnarsi subito e personalmente per aiutare i poveri a uscire dalla loro miseria.
Scoprì così che nel villaggio accanto al campus erano le donne a doversi indebitare con gli strozzini per poter affrontare le emergenze familiari. Costoro con un prestito di soli 25 centesimi di dollaro potevano avere l’esclusiva dei prodotti della vittima, al prezzo stabilito da loro.
Il primo studio lo fece in tale villaggio, dove 42 donne si erano indebitate per 27 dollari Usa. Se così poco denaro poteva cambiare la vita di tante persone, Yunus pensò di offrire la somma di tasca propria, poi cercò di mettere le donne in contatto con la banca del campus, che si rifiutò di prestare denaro a gente così povera.
Allora Yunus decise di dare personalmente la garanzia e si rese conto che i debiti venivano ripagati puntualmente. Nacque così la Grameen Bank (banca di villaggio), idea geniale che si è propagata in tutto il mondo. 
Durante il mio viaggio mi renderò conto che, comunque, la Grameen è diventata una banca come tutte le altre, elargisce borse di studio, possiede una rete telefonica e altre attività redditizie. La sede è in uno splendido edificio moderno, nella capitale, ma il tasso praticato alla povera gente del Bangladesh è comunque molto alto, raggiunge il 12%. Ho sentito di gente insolvente che ha perso la mucca,  sua unica proprietà e fonte di sostentamento. Oppure è stata costretta a fare altri debiti per pagare i precedenti. In alcuni villaggi, gli agenti della Grameen Bank sono considerati al pari di usurai.

HILL TRIBES

Ranglai Mo è stato eletto per tre volte capo della comunità indigena shnalok di Bandaraban, nella regione collinare di Chittagong, nel sud est del paese. Sofferente di cuore, fu arrestato due anni fa per detenzione di armi e sta scontando una pena di 17 anni incatenato, nel carcere di Chittagong. Cardiopatico, in questi giorni è stato necessario trasportarlo nell’ospedale di Dakha per sottoporlo a cure intensive presso l’unità coronarica, ma i medici hanno riscontrato anche i segni di ferite al dorso e al petto. Le catene complicano le cure e ora pare che un’organizzazione umanitaria si stia interessando al caso.
Le regioni sud orientali sono le terre alte del Bangladesh, che per il resto è pianura alluvionale percorsa da fiumi e non più alta di 10 metri sul livello del mare. Abitate da etnie buddiste, sono visitabili con permessi speciali e scorta armata. Al tempo degli inglesi esse godevano di statuto speciale e una certa autonomia, che fu abolita dai pakistani. Dal 1973 iniziarono le lotte dei tribali contro la politica del governo che consentiva ai bengalesi di espropriare le loro terre.
Sheikh Hasina firmò una pace nel ’97, restituendo ai gruppi etnici parte del territorio. Tuttavia più di 400 mila bengalesi si sono trasferiti nella zona di Rangamati, sul lago Kaptai, abitata dall’etnia chakma. Hanno costruito alberghi e strutture per ricevere i turisti che cercano il fresco delle colline e ora i tribali sono emarginati e continuano a subire soprusi, dopo che più di 100 mila hanno dovuto riparare in India.
Saremo sempre seguiti da una scorta, anche durante la navigazione sul lago, che dopo tanti anni non ha ancora un aspetto naturale. Ci arrampichiamo sulle rive polverose per visitare due poveri villaggi abitati da pescatori. Qualcuno veste ancora consunti abiti tribali, come questo signore scalzo e magro, che si siede accanto a me sotto un pergolato e mi fissa negli occhi, composto e sorridente.
Noto che il militare della nostra scorta si avvicina e lo tiene sotto osservazione col mitra spianato. «Siete italiani? – mi chiede, stupito, poi si presenta -. Mi chiamo Subal e sono buddista. Da ragazzo ho studiato in una missione cattolica, dove c’era un padre italiano, ma non ricordo il suo nome». Subal Chandra Chakma è stato maestro di villaggio per 36 anni; ora che ne ha più di sessanta è rimasto a vivere qui con uno dei tre figli, gli altri si sono trasferiti in città, a Rangamati. «Prima del ’58, quando hanno costruito la diga, la mia gente aveva bestiame e ricchi raccolti di riso. I nostri bei villaggi finirono coperti dalle acque e fummo costretti a spostarci sulle cime dei monti, dalle pendici ripide, dove è impossibile coltivare. Ho tentato di mettere alberi da frutta, inutilmente».
Subal continua a parlare, non teme il militare; vuole che noi sappiamo della sua situazione. «Gli inglesi ci avevano lasciato una certa autonomia, che ora reclamiamo invano, siamo discriminati e impoveriti. Persino con i pakistani stavamo meglio».
Gli alberi secolari, dal legname prezioso furono tutti abbattuti e portati via. Ora hanno piantato alberi del teak, ma l’impressione che si ha, percorrendo in lancia il lago Kaptai tra isolette spelacchiate, è di squallore.
«Le elezioni si sono svolte in modo esemplare – ci dicono durante la cena due danesi ospiti del nostro albergo -. Siamo stati inviati dall’Europa come osservatori in occasione delle elezioni. Quattro settimane che ci hanno fatto conoscere un paese sorprendente, la gente è veramente stupenda. Siamo felici del risultato, che vede sconfitti i partiti islamisti». 

Di Claudia Caramanti

La politica: Le due dame

La signora Begum Khaleda Zia, di 62 anni, è a capo del Bangladesh national party (Bnp) da quando suo marito fu ucciso nel 1981. Nel ’92 vinse le elezioni, ma nel ’96 le perse a favore dell’Awami league della Sheikh Hasina. Ritoò al potere nel 2001. Fu poi  arrestata con i due figli per corruzione e rilasciata dopo un anno di prigione. Il suo partito si basa su valori islamici ed è alleato con partiti islamici.

La Sheikh Hasina, due figli, marito fisico nucleare, ha 61 anni e guida il partito da quando suo padre Mujibur Rahman, fondatore e primo presidente del Bangladesh, fu ucciso con la sua famiglia durante il colpo di stato militare del 1975. La Awami league nacque per promuovere pari diritti alle due popolazioni nel 1948, un anno dopo la divisione del subcontinente.
Hasina ha abbandonato le idee socialiste del padre e si è aperta al mercato. Vinte le elezioni del ’96, superando la Zia, perse le successive nel 2001. Sopravvissuta all’attentato del 2004, in cui morirono 24 persone (attribuito a gruppi islamici), fu arrestata per corruzione nel luglio del 2007. Anche Hasina ha passato un anno in prigione. Nelle ultime elezioni, dicembre 2008, ha vinto in modo netto, sconfiggendo la rivale e i partiti islamisti suoi alleati.

Lo Jatiya party fu fondato nel 1985 dal generale Hossain Moham Ershad, che nel 1982 con un colpo di stato prese il potere dichiarando il paese islamico, permettendo il culto di altre religioni. Nel 1994 fu scalzato da una rivolta popolare guidata dalle due dame, Hasina e Khaleda Zia.
Ershad oggi ha 78 anni e ha perso le ultime elezioni.

Il Jamaat e Islami, è il partito islamico più forte, guidato da Matiur Rahman Nizami, 65 anni. Anche Nizami è stato in prigione, ma contava sul consenso delle masse impoverite.  Fu accusato di aver appoggiato il Pakistan durante la guerra di liberazione del 1971 e messo al bando. Nel 1991 il Bnp lo legalizzò e divenne suo alleato.
Dopo due anni di governo provvisorio militare, con queste elezioni si apre una speranza di democrazia.

Claudia Caramanti

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