TEOLOGHE SFERZANO IL FORUM

B elém, 24 gennaio 2009. Dopo giornate di cielo grigio e pioggia, sulla città amazzonica ieri è tornato il sole, prima timido poi più forte. Belém è tappezzata di cartelloni di benvenuto, scritti in varie lingue. Per il Parà, stato guidato da Ana Julia Carepa, governatrice del Partito dei lavoratori (Pt), ospitare i Forum rappresenta una straordinaria occasione per farsi conoscere. Il Forum di teologia e liberazione, quest’anno incentrato sulle tematiche ecologiche, è stato il primo a partire. Sarà seguito dal Forum amazzonico e dal più conosciuto Forum sociale mondiale.
«Nel nostro breve passaggio su questo pianeta – ha esordito ieri Emilie Townes, professoressa nera della Yale University – abbiamo la responsabilità di preservare l’ambiente, ricordando che ogni nostro atto, sia piccolo che grande, genera una conseguenza». La teologa statunitense, pastore battista, senza enfasi ma con sicurezza, ha ringraziato Dio per l’arrivo del presidente Obama, dopo gli anni di Bush, devastanti anche per l’ambiente. Poi è passata a ricordare alcuni eventi avvenuti nel suo paese, come l’uragano Catrina. Si è detta sicura che le conseguenze (pesantissime) di quel fatto siano da addebitare all’uomo. «Non è stato – ha spiegato – un disastro naturale, ma un disastro costruito dall’uomo, prima e dopo che l’uragano si abbattesse su New Orleans». Che fare, dunque? «Dobbiamo lavorare – ha concluso – in comunione. Dobbiamo enfatizzare l’educazione. Dobbiamo sollecitare i governi. Creati a somiglianza di Dio, dobbiamo vivere in maniera sostenibile. Con l’anima e il cuore».
«Vi porto i saluti dalla terra di Nelson Mandela e Desmond Tutu» ha iniziato Steve De Gruchy, professore sudafricano. Come la relatrice che lo ha preceduto, De Gruchy è partito da un esempio concreto: il problema del colera nei paesi africani, dovuto alla mancanza di acqua e fognature adeguate. Il primo passo è chiaro: «L’acqua va utilizzata meglio e deve rimanere pubblica. La sua privatizzazione è contro la dignità umana». «Non dimentichiamo – ha concluso – che economia ed ecologia hanno la stessa radice etimologica greca, che significa casa. Dobbiamo rispettare e difendere la nostra casa».

O gni giornata del Forum di teologia e liberazione è aperta da una rappresentazione, semplice ma molto coinvolgente. Giovedì la protagonista era stata l’acqua, ieri la terra, oggi tocca al corpo. Il pubblico, sempre numerosissimo nella sala convegni del Centro Tancredo Neves, è chiamato a partecipare e ben volentieri si lascia coinvolgere nei rituali.
Chung Hyun Kyung, sudcoreana, ma da tempo professoressa a New York, affascina il pubblico con la propria coinvolgente vitalità e allegria. Perché dopo 40 anni di Teologia della liberazione, nulla è cambiato, ma anzi il mondo è peggiorato? A questa (impegnativa) domanda la teologa ecofemminista tenta di dare una risposta. «Sarà l’energia femminile a curare questa civiltà umana?» si chiede. «No, noi donne ed ecofemministe non abbiamo intenzione di assumerci questo peso – osserva -. Dobbiamo passare da un mondo di dominazione a un mondo di cooperazione. Soltanto assieme possiamo cambiare».
Secondo Chung, occorre progredire con l’idea di Dio, perché il nostro monoteismo è stata una delle religioni più violente, come ben sanno i popoli indigeni. Occorre che le nozioni di mascolinità (che troppo spesso promuove la cultura della morte e della violenza) e di femminilità siano riformulate. «Sì, un altro mondo è possibile» conclude tra gli applausi la teologa sudcoreana.
Mary Hunt, teologa del Maryland, insegnante a Boston, ringrazia Dio per il miracolo di aver portato Obama alla presidenza degli Stati Uniti. Ma è subito impietosa verso il passato governo Usa: «Le mani degli statunitensi sono sporche del sangue dei bambini e dei genitori di Gaza. I corpi non mentono». Partendo dal concetto che «il corpo non mente», la teologa affronta argomenti ostici, non lesinando le critiche. Chiede la fine della discriminazione in base alla sessualità. Chiede giustizia per le persone omosessuali. «L’amore, anche fisico – spiega – deve potersi esprimere liberamente, quando nei rapporti ci sia sicurezza e libertà di scelta. Non è facile portare alla luce la sessualità. Persone dello stesso sesso che si amano ci sono in tutti i paesi e in tutti gli ambienti, dalle discariche ai seminari».
Mary Hunt conclude il suo intervento ricordando la donna incontrata ieri tra i riciclatori di rifiuti di Belém: è dal suo coraggio che occorre ripartire.

DI Paolo Moiola

Paolo Moiola




Mi faccia il pieno, di jatropha

Nuovi carburanti: sono davvero bio?

I biocarburanti troveranno spazio nel nostro futuro. Ma cosa sono esattamente? Di prima e di seconda generazione. Aiutano davvero l’ambiente riducendo le emissioni? Molti paesi del Sud vi stanno investendo, dedicando centinaia di migliaia di ettari di terra coltivabile. Come si collega questo alla crisi alimentare? I nostri esperti cercano di rispondere.

Bruxelles, dicembre 2008, raggiunta l’intesa tra Consiglio, Parlamento e Commissione europei sulle energie rinnovabili, secondo la quale i 27 Stati Membri dell’UE sono obbligati ad attingere ad energie alternative nella misura del 20% del totale dei loro consumi, entro il 2020.
In particolare, entro tale data si dovrà portare al 10% la quota di biocarburanti usati per i trasporti; inoltre essi dovranno garantire un risparmio di emissioni di gas serra almeno del 35%, rispetto ai combustibili fossili.
Tra i biocarburanti, importanti saranno quelli di seconda generazione, cioè quelli ricavati da rifiuti, da residui della lavorazione del legno, da biomassa cellulosica non alimentare e da coltivazioni alternative a quelle di prodotti alimentari, come ad esempio quelle di alghe o di jatropha curcas, una pianta a semi oleaginosi non commestibili, o di panicum virgatum, una pianta erbacea a crescita rapida.
Tali biocarburanti saranno contati il doppio per il raggiungimento dell’obiettivo del 10%.
Negli Stati Uniti, nell’agosto 2005, il Congresso ha emanato una legge, secondo la quale si dovrà giungere ad una produzione annuale di etanolo di oltre 28 miliardi di litri entro il 2012 (nel 2005 essa è stata di circa 15 miliardi di litri). Il governo americano ha inoltre concesso all’etanolo uno sconto fiscale di 0,13 dollari al litro.
La Cina, dal canto suo, punta a coprire con la produzione di etanolo il 5% della domanda intea di carburanti, entro il 2010, mentre attualmente tale produzione è di un milione di tonnellate, cioè il 2% dei consumi totali.
In Brasile, dove peraltro l’etanolo è usato come combustibile già dagli anni ’20 del secolo scorso, nel 2008 la sua vendita è aumentata del 45%, rispetto all’anno precedente, superando per la prima volta la vendita della benzina, che costa circa il doppio dell’etanolo (quest’ultimo costa 0,5 euro al litro). Oltre all’etanolo, il Brasile è un grande produttore di biodiesel, tratto dalla soia e, grazie a questi due prodotti, questo paese si sta proponendo come uno dei maggiori produttori ed esportatori di biocarburanti.

Biocarburanti?
Nuovo business

Intanto sempre nuovi paesi si affacciano sul fronte dell’agrobusiness dei biocarburanti, come Colombia, Cile, Perù, Argentina, Guatemala, Uruguay in America Latina.  Tant’è che il quotidiano El Mercurio de Chile il 21 febbraio 2007 parlava del Sudamerica come dell’ «Arabia dell’etanolo».
Nel Sudest asiatico invece sono sempre più estese le piantagioni di palma da olio per produrre biodiesel, soprattutto in Indonesia e Malesia, mentre la Cambogia avvia colture sperimentali di jatropha. Inoltre le banche e le corporation giapponesi hanno stabilito una solida cooperazione con l’azienda energetica brasiliana Petrobras.
Non potevano poi mancare investimenti da milioni di euro, da parte di società occidentali interessate alla produzione di biofuel nell’Africa sub-sahariana (vedi box), in particolare in Namibia, Mozambico, Zambia, Malawi, Tanzania.
Quali sono i motivi, che hanno portato a questa folle corsa ai biocarburanti? Sicuramente sono molteplici. Tra i principali c’è la necessità di ridurre l’emissione di gas serra, anidride carbonica in particolare, per contrastare l’innalzamento della temperatura terrestre e le alterazioni climatiche.
Non meno importante è la volontà da parte dei paesi sopra citati di diventare, almeno in parte, indipendenti dai paesi dell’Opec (Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio), cioè Arabia Saudita, Algeria, Angola, Iran, Emirati Arabi Uniti, Ecuador, Indonesia, Iraq, Kuwait, Libia, Nigeria, Qatar e Venezuela.
Inoltre i biocarburanti, poiché prodotti da vegetali, vengono considerati fonti rinnovabili. Sicuramente essi vengono visti come un mezzo per rilanciare l’economia dei paesi produttori.
Del resto, il fatto che sia nato un accordo, denominato Biofrac (Biofuels Research Advisory Council) tra Adm, Cargill e Bunge (multinazionali di prodotti e servizi agroalimentari), Monsanto, Singenta, Bayer e Dupont (alimentari, farmaci e genetica), British Petroleum,  Total e Shell (multinazionali petrolifere) e Peugeot, Renault, Citroen, Volkswagen e Saab (produttrici di automobili) è indicativo di quanto debba essere grande l’affare dei biocarburanti. Si tratta di uno schieramento industriale senza precedenti, per finanziare le ricerche su biotecnologia e combustibili.

A propOsito di generazioni

Ma, in particolare, cosa sono i biocarburanti? Sono anche detti biofuel, in inglese. Essi dovrebbero essere carburanti biosostenibili, poiché non emettono in atmosfera dell’anidride carbonica fossile, cioè quella contenuta nel petrolio o nel carbone, ma solo quella utilizzata dalle piante, per la loro crescita, cioè in pratica quella catturata comunque dall’atmosfera.
È necessario fare, innanzitutto, una distinzione tra biocarburanti di prima e di seconda generazione. A questi ultimi abbiamo già accennato precedentemente e va detto che, allo stato attuale, sono ancora in una fase sperimentale di produzione. Sono stati ottenuti risultati molto incoraggianti con la jatropha curcas, una pianta, che riesce a crescere in terreni aridi (quindi inutilizzabili per l’agricoltura), senza bisogno d’irrigazione (vedi box).
Questo fatto è molto importante, perché con tale pianta si potrebbero ottenere buone quantità di biocarburanti, da terreni altrimenti improduttivi. In Ghana, ad esempio, si potrebbero utilizzare i terreni di quelle, che stanno per diventare ex miniere, in quanto sono in scadenza le concessioni governative e soprattutto si stanno esaurendo molti filoni di minerali pregiati. Come conseguenza, si calcola che circa 50.000 lavoratori delle miniere si troveranno presto disoccupati. Una loro conversione in coltivatori di jatropha potrebbe rappresentare quindi una soluzione.
La stessa cosa vale per altri Paesi, come il Burkina Faso, il Mozambico, il Togo e la Costa d’Avorio, dove tale pianta è endemica.
Biocarburanti di seconda generazione sono stati ottenuti sperimentalmente dai fondi del caffè, dai ricercatori dell’Università del Nevada a Reno, i quali hanno pubblicato i risultati della loro ricerca sul Joual of Agricultural and Food Chemistry, organo della American Chemical Society’s. Secondo questo studio, dai fondi di caffè è possibile ricavare olio e, successivamente, biocombustibile a basso costo più stabile di quelli tradizionali. Inoltre i rifiuti solidi della conversione possono ancora essere lavorati, per ottenere etanolo, oppure essere utilizzati come fertilizzanti.
Per quanto riguarda i profitti, che tale processo potrebbe generare, la stima è di circa 8 milioni di dollari annui solo negli Usa.
In Germania, invece, è stato realizzato a Freiberg, in Sassonia, il primo impianto, che ricava biodiesel dal legno di scarto, mentre in Spagna i ricercatori delle Università di Jaén e di Granada sono riusciti a ricavare etanolo di buona qualità dai noccioli delle olive, che in questo paese rappresentano uno scarto di circa 4 tonnellate derivante dalla produzione annuale dell’olio di oliva.
Una ricerca effettuata nella Montana State University ha portato alla scoperta che un fungo, il gliocladium roseum, tipico della Patagonia cilena, è in grado di produrre un combustibile simile al diesel, a partire dai residui vegetali (cioè dalla cellulosa), in particolare quelli di eucryphia, albero tipico del Cile.
Buoni risultati sono stati ottenuti anche dalla coltivazione di alghe, che crescono in acque reflue o marine e, per prosperare, hanno solo bisogno di luce solare e di biossido di carbonio. Negli Usa esistono già una dozzina di impianti, che ricavano sia etanolo che olio dalle alghe, sebbene in fase ancora sperimentale. In opportune condizioni, le alghe sono capaci di raddoppiare la loro massa nel giro di poche ore, quindi, con coltivazioni di questo tipo, il raccolto sarebbe continuo. È stato stimato che mentre un ettaro di mais produce annualmente circa 2.500 litri di etanolo e uno di soia circa 560 litri di biodiesel, un ettaro di alghe potrebbe arrivare a produrre, in condizioni ottimali, fino a 45.000 litri di biocarburante all’anno (National Geographic, ottobre 2007).

Da tortilla a biodiesel

Attualmente, tuttavia, i biocarburanti più diffusi al mondo sono quelli di prima generazione, cioè quelli ricavati da prodotti agricoli altrimenti utilizzati a scopo alimentare, come i cereali (mais in particolare), gli oli di semi di soia, di girasole, di colza, l’olio di palma.
Si tratta di biocombustibili alternativi al gasolio, al gas metano, al Gpl e al carbone. Possono, inoltre, essere usati come additivi di alcuni combustibili tradizionali, cioè benzina e gasolio per autotrazione.
In particolare si tratta di biodiesel, di bioetanolo, di Etbe (etil-tertio-butil-eteree) di Mtbe (metil-tertio-butil-etere). Il biodiesel viene ricavato da olio di semi di colza, girasole, soia e dall’olio di palma mediante un processo di trasformazione detto
«transesterificazione». Si ottengono così un liquido fluido, con viscosità simile al diesel e, come sottoprodotto, la glicerina, utilizzata come materiale grezzo nell’industria chimica.
I principali vantaggi del biodiesel, rispetto al diesel tradizionale sono rappresentati da un alto numero di cetani (maggiore potere antidetonante dei biodiesel), da una maggiore capacità lubrificante, dall’assenza di emissioni di zolfo (quindi della formazione dell’inquinante anidride solforosa), dall’alta percentuale di ossigeno (quindi maggiore stabilità di combustione, minore produzione di Pm10 e di residui organici volatili o Voc). Per quanto riguarda l’anidride carbonica o CO2, secondo i produttori tedeschi di biodiesel, per ogni litro di questo carburante sono emessi 2,2 Kg di CO2, contro i 3,2 Kg del diesel da petrolio.
Il bioetanolo è attualmente il biocombustibile più usato al mondo e Stati Uniti e Brasile ne sono i maggiori produttori mondiali.
La produzione totale europea di bioetanolo si è attestata, nel 2007, a 1,77 miliardi di litri, con un aumento del 13%, rispetto all’anno precedente. Le più alte produzioni si sono avute in Francia (578 milioni), Germania (394 milioni) e Spagna (348 milioni). Il numero totale dei Paesi europei produttori di bioetanolo è salito a 13. Il consumo europeo di questo biocarburante, sempre nel 2007, è stato di circa 2,7 miliardi di litri, con l’importazione di circa 1 miliardo di litri, cioè il 37% del consumo totale annuo. Il bioetanolo è stato importato principalmente dal Brasile e utilizzato soprattutto in Svezia, Regno Unito, Olanda e in minore misura in Danimarca e Germania.
Questo combustibile viene ottenuto dallo zucchero ricavato dalle coltivazioni di mais o di altri cereali (tra cui il riso), canna da zucchero e barbabietola. Mediante lieviti, lo zucchero viene trasformato in alcol e anidride carbonica, con un processo di fermentazione, dopo di che questo prodotto intermedio viene distillato, riscaldandolo e facendolo condensare separatamente. Il riscaldamento viene ottenuto mediante gas naturale oppure elettricità (prodotta con consumo di carbone). Per quanto riguarda il bilancio energetico dell’etanolo, c’è una bella differenza tra quello prodotto a partire dal mais (come quello statunitense) e quello prodotto a partire dalla canna da zucchero (come quello brasiliano).
Dando indicativamente il valore 1 all’energia da combustibili fossili utilizzata per produrre l’etanolo (input), l’energia sviluppata dall’etanolo da mais è di 1,3 (output), mentre quella dell’etanolo da canna da zucchero è di 8. Questo perché il mais contiene amido, che deve essere successivamente trasformato in zucchero, mentre i fusti di canna sono costituiti al 20% da zucchero, che inizia a fermentare appena tagliata la pianta. La canna, inoltre produce da 5.700 a 7.600 litri di etanolo per ettaro, cioè più del doppio del mais.
Per quanto riguarda invece il confronto tra l’energia sviluppata dall’etanolo, rispetto a quella sviluppata dalla benzina, la resa del primo è solo del 67% circa di quella della seconda, poiché quest’ultima sviluppa 5.275.000 chilojoule al barile, contro i 3.545.000 dell’etanolo. Quindi per percorrere la stessa distanza occorre più etanolo, rispetto alla super senza piombo.
Nei nostri veicoli, l’etanolo può essere aggiunto alla benzina in quantità di non oltre il 5%, mentre in Brasile e negli Usa circolano già parecchie vetture con motore «Totalflex», che può essere alimentato con ogni tipo di miscela o con etanolo puro.
L’Etbe e il Mtbe sono additivi, che vengono miscelati alla benzina senza piombo in percentuale fino al 15%. Il primo viene prodotto dall’etanolo e il secondo dal metanolo (il suo uso è stato sospeso, in quanto potenzialmente cancerogeno e inquinante delle falde acquifere, a seguito delle dispersioni nella rete di distribuzione della benzina negli Usa).

Carburanti ecosostenibili?

I produttori di biocarburanti di prima generazione, per promuovere i loro prodotti, sono acerrimi sostenitori della loro ecosostenibilità. Secondo loro, infatti, l’uso dei biocombustibili comporterebbe una drastica diminuzione della emissione di gas serra. Ma è proprio così? Vediamo innanzitutto quali sono le differenze di emissioni per produzione e uso.
L’etanolo genera il 22% di gas serra in meno della benzina, se proviene dal mais, il 56%, se origina dalla canna da zucchero e il 91%, se prodotto dalla cellulosa (quest’ultimo è però un biocarburante di seconda generazione).
Il biodiesel produce il 68% di gas serra in meno del diesel tradizionale. Questi dati sono dell’Us Department of Energy, dell’Us Environmental Protection Agency, Renewable Fuels Association, Energy Future Coalition e Worldwatch Institute.
Secondo questi dati, tutto bene dunque. In realtà le cose non stanno proprio così, se si considerano anche altri fattori, che possono influenzare il totale delle emissioni. Per quanto riguarda la produzione di etanolo da mais, va considerata l’emissione di gas serra per la produzione e l’uso dell’enorme quantitativo di fertilizzanti usati nei campi. Uno studio condotto dal vincitore del premio Nobel per la chimica Paul Crutzen ha dimostrato che l’innalzamento dell’ossido nitroso N2O, causato dai fertilizzanti impiegati per le colture energetiche, annullerebbe i benefici ambientali derivanti dall’uso dei biocarburanti.
Bisogna considerare che l’ossido di diazoto (o nitroso) ha un effetto serra di circa 296 volte quello dell’anidride carbonica. Nel computo vanno aggiunti i carburanti fossili usati dalle mietitrebbie e il gas naturale usato per la distillazione.
L’etanolo da canna da zucchero presenta un altro tipo di inconveniente e cioè la pratica illegale, ma alquanto diffusa, di incendiare i campi prima del taglio delle canne. Questo viene fatto per eliminare il fogliame in eccesso, facilitare il taglio e uccidere i serpenti, che potrebbero trovarsi nelle piantagioni. Ma libera un’enorme quantità di fuliggine nell’aria, nonché metano e di protossido di azoto.
Il biodiesel invece viene ricavato da piantagioni di palma da olio o di soia, che sempre più spesso vanno a invadere tratti di foresta amazzonica, o le foreste pluviali del Sudest asiatico (palma da olio in Indonesia e Malesia). Dal punto di vista delle emissioni di CO2, questo fatto è gravissimo, perché le piantagioni non sono assolutamente in grado di fissare lo stesso quantitativo di questo gas delle foreste originarie. Inoltre le foreste pluviali del Sudest asiatico crescono nelle torbiere, cioè terreni, che sequestrano circa un terzo in più, rispetto alle piantagioni, del carbonio presente in atmosfera, unitamente alla vegetazione. Poiché anche in queste zone è diffusa la pratica di incendiare i terreni, in questo caso prima di piantare le palme, a scopo fertilizzante, il quantitativo di anidride carbonica rilasciato nell’aria è enorme. Quindi già solo per queste considerazioni, i biocarburanti di prima generazione sono tutt’altro che ecosostenibili.

Dalla pancia al serbatornio

 Ci sono però altri e più gravi aspetti, che fanno bocciare l’uso di questi prodotti. Basta citare la scomparsa della biodiversità, che comportano le enormi monocolture o l’uso sempre più spregiudicato di Ogm (organismi geneticamente modificati) e di pesticidi. Ma l’aspetto più sinistro è sicuramente dato dalla competizione tra le colture energetiche e quelle alimentari. In pratica la trasformazione in biocarburanti dei prodotti agricoli sottrae cibo alle popolazioni e questo fatto ha sicuramente contribuito all’innalzamento dei prezzi dei cereali e degli altri prodotti vegetali, come la soia, nell’ultimo anno, con gravissime ripercussioni soprattutto a carico delle popolazioni più povere.
Ad esempio in Messico ci sono già state manifestazioni di piazza per l’aumento dei prezzi delle tortillas, alimento base della nazione, fatto con il mais. In Africa numerose società occidentali investono nella produzione agro-energetica soprattutto in Namibia, Mozambico, Zambia, Malawi e Tanzania (vedi box). Se consideriamo che un paese come la Tanzania è uno dei più poveri dell’Africa subsahariana e l’agricoltura incide sul 60% del suo Pil e impiega l’80% della forza lavoro, ci rendiamo conto di cosa significhi destinare i terreni alla produzione di biocarburanti, anziché di cibo.
Anche se, allo stato attuale, il totale delle terre utilizzate per i  biocarburanti è solo dello 0,63%, cifra però in costante aumento. Se, da una parte, potrebbero essere creati, in questo modo, nuovi posti di lavoro, dall’altra la produzione di biofuels potrebbe mettere in pericolo l’approvvigionamento di cibo e di acqua per queste popolazioni. A proposito di acqua, la produzione dei biocarburanti può arrivare a consumare fino a 20 volte il quantitativo di acqua necessaria per produrre la stessa quantità di benzina, come dimostra uno studio del Consiglio nazionale di ricerca americano.

Italia: indietro  come sempre

Come si pone l’Italia nei confronti dei biocarburanti? Considerando che l’Europa, nel 2003, si era posta l’obiettivo di sostituire nel 2005 e nel 2010 rispettivamente il 2% ed il 5,75% dei combustibili per autotrazione con biocarburanti, si può dire che l’Italia è ancora piuttosto lontana da questi obiettivi.
Nel 2005 essa aveva raggiunto una media di incorporazione di biocarburanti dello 0,46%. Poiché entro il 2020, secondo l’Unione europea, la percentuale di biocarburanti dovrà essere del 10%, l’Italia dovrà consumare oltre 4 milioni di Tep (tonnellate equivalenti petrolio) di biofuels, di cui 0,6 milioni saranno prodotti sul territorio nazionale, impiegando, con le tecnologie attuali, dai 600 agli 800 mila ettari di terreni seminativi, mentre il resto sarà necessariamente importato.
Negli ultimi dodici mesi la produzione italiana di biocarburanti, sul nostro suolo, è aumentata del 35-40%, ovviamente a scapito della produzione ad uso alimentare. Nel frattempo, negli ultimi anni, l’Italia è diventata il terzo importatore mondiale di olio di palma dal Sudest asiatico, specialmente dall’Indonesia, Malesia e Papua Nuova Guinea. Nel nostro Paese, l’olio di palma viene utilizzato per produzioni agro-alimentari e di biocarburanti nonché per l’alimentazione di centrali elettriche. Nel 2007, solo da gennaio a ottobre, l’Italia aveva importato 395.869 tonnellate di olio di palma (fonte Greenpeace).
Considerando che un ettaro di terreno ricavato dalla torbiera produce circa 3,75 tonnellate di olio di palma, ciò significa che solo nel 2007 il nostro paese ha contribuito a sfruttare più di 105.500 ettari di foresta pluviale. Calcolando che un ettaro di torbiera degradata e bruciata emette circa 100 tonnellate di CO2 all’anno, grazie alle nostre importazioni dall’Asia, sono state rilasciate in atmosfera più di 10.500 tonnellate di anidride carbonica in un anno.
Senza considerare le emissioni delle petroliere, che hanno trasportato l’olio a casa nostra e quelle delle raffinerie, che lo hanno lavorato. Nello stesso anno, la San Marco Petroli di Porto Marghera ha ottenuto il permesso di sfruttare 80.000 ettari di foresta amazzonica in Brasile, sempre per le piantagioni di palma da olio.
Per non parlare dello sfruttamento dei contadini locali, i quali ricevono un pezzo di terra, comprano i semi e si ritrovano, come unico acquirente, la stessa San Marco Petroli, che decide il prezzo del prodotto, sulla base del mercato internazionale.

Le due velocità

Come sempre, il mondo va a due velocità. Da una parte c’è il Nord del mondo, con le sue esigenze energetiche per alimentare legioni di auto sempre più voraci (è già stata corsa persino la prima «500 miglia» di Indianapolis interamente a bioetanolo), aerei low cost e non (la Boeing ha già effettuato il primo volo di un 747, alimentato a biocarburante e ha annunciato che fra tre anni i suoi vettori voleranno con i biofuels), centrali elettriche, treni superveloci e – come potevano mancare ?– aerei e navi militari (Usa e Gran Bretagna), che sono macchine di morte, ma con i biofuels diventano rispettose dell’ambiente.
Dall’altra parte c’è il Sud del mondo, sempre più sfruttato e affamato, per permettere al Nord di correre.
Certamente i biocombustibili possono rappresentare una fonte di energia rinnovabile e anche un’opportunità di sviluppo per le aree disagiate, ma non lo sono certamente quelli di prima generazione, attualmente in uso. Solo i biocarburanti di seconda generazione, ricavati da piante, che crescono in terreni aridi e che non competono per il cibo, oppure da sostanze di scarto, da cui l’importanza di differenziare i rifiuti e di non incenerirli, possono essere vantaggiosi.
Da parte nostra, visto che, per ora, è più probabile che ci ritroviamo nel serbatornio dei biocarburanti di prima generazione, che di seconda, possiamo cercare di porre un freno a questo agrobusiness, limitando al massimo l’uso dell’auto, evitando i treni superveloci e ricorrendo all’aereo solo per reale necessità.

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

AFRICA: LA CONQUISTA DEI BIOCARBURANTI

La situazione degli stati dell’Africa subsahariana, in cui le multinazionali occidentali stanno attivamente operando, per la produzione dei biocarburanti è bene rappresentata da quanto avviene in Tanzania. In questo Paese, finora sono stati destinati alla produzione di biocarburanti circa 600.000 ettari di terreno coltivabile. Le multinazionali operanti in Tanzania provengono da Germania, Paesi Bassi,  Regno Unito, Svezia, Usa,  Giappone e Canada. La più importante di queste società è la tedesca Prokon, che sfrutta 200.000 ettari, con piantagioni di jatropha curcas. L’inglese Sun Biofuels, operante anche in Etiopia e in Mozambico, ha ottenuto la concessione gratuita di 9.000 ettari di terreno per 99 anni, in cambio dell’investimento di 20 milioni di dollari in infrastrutture per il paese.
Anche la svedese Sekab sfrutta 9.000 ettari di terreno, con piantagioni di canna da zucchero, per produrre etanolo e assieme alla Sun Biofuels sta cercando di arrivare a 50.000 ettari di terreno. La società Bio-Shape dei Paesi Bassi gestisce diverse migliaia di ettari per la produzione di etanolo e di biodiesel presso le città di Mabiji, Migeregere, Nainokwe, Liwiti e Kiwawa.

La destinazione dei terreni a un uso diverso da quello per la produzione di cibo ha sicuramente dei pesanti costi sociali e ambientali, che pagano le popolazioni locali. La stessa Banca Mondiale ha rilevato un rapporto di causa-effetto diretto tra la produzione di biocarburanti e l’aumento dei prezzi dei beni alimentari. Dal 2004 ad oggi i prezzi sono cresciuti complessivamente dell’83% ed, in particolare, del 181% per il grano. All’inizio del 2008, la Banca Mondiale ha pubblicato un documento dal titolo «Rising Food Prices: Policy Options and  World Bank Response» (Crescita dei prezzi del cibo: opzioni politiche risposta della Banca Mondiale, ndr), che sostiene che l’aumento dei prezzi degli alimentari è dovuto per il 75% proprio al cambiamento di destinazione dei terreni coltivabili, a favore dei biocarburanti.

Intanto la African Biodiversity Network e Action Aid Ghana hanno denunciato la perdita di biodiversità, la deforestazione e lo scoppio di tumulti, derivanti dalla competizione per la terra e per l’acqua sia in Etiopia, sia in Ghana. In Etiopia, infatti, il governo ha messo a disposizione 24 milioni di ettari per la produzione dei biocarburanti (contro 12,28 milioni di ettari destinati agli alimenti), mentre in Ghana 2.600 ettari di foreste sono stati disboscati e la Bio Fuel Africa, associata alla Bio Fuel Norway (Norvegia) ha già iniziato a sfruttare 38.000 ettari. Intanto in Sudafrica, dove la De Beers, la maggiore multinazionale dei diamanti, ha ottenuto per prima la licenza dal governo a commercializzare biofuels, dopo essersi convertita a questo settore, l’obiettivo è quello di coprire, con questi carburanti, il 75% del fabbisogno nazionale, entro il 2013. La Nigeria ed il Kenya si stanno muovendo nella stessa direzione. Quasi sempre le concessioni governative, per le coltivazioni destinate ai biocarburanti, vengono date alle multinazionali senza la valutazione dell’impatto ambientale.

Roberto Topino e Rosanna Novara

LA JATROPHA CURCAS

È una delle 170 varietà della jatropha, una pianta appartenente alla famiglia delle Euforbiacee, la stessa della manioca, e si presenta come un arbusto, che può raggiungere i 5 metri di altezza. È originaria dei Caraibi e venne importata in Asia e in Africa dai commercianti portoghesi, che la usarono come recinzione, cioè come una siepe. Dai suoi semi non commestibili si ricava un olio, che opportunamente filtrato può essere usato come biodiesel e ha una resa per ettaro quattro volte superiore, rispetto alla soia e dieci volte, rispetto al mais.
Questa pianta ha una vita media di circa 50 anni, può crescere in terreni aridi e sopravvivere a due anni di siccità. Essa inoltre riesce a fertilizzare il terreno, combattendo così la desertificazione. Una piantagione di jatropha, dopo due anni, può produrre 8.000 chili di semi per ettaro, che possono fornire 2.200 litri di olio e 5.000 chili di fertilizzante.

R.To e R.No


Roberto Topino e Rosanna Novara




Cuore di sale

Alla scoperta di … paesi, persone: Mozambico

Un uomo determinato. Un’intelligenza dalle mille risorse. Un sacerdote con un cuore enorme. E la passione per la gente. Una convinzione: il popolo deve essere autosufficiente. Il suo segreto: vivere la propria vita fino in fondo. Vita e miracoli di un missionario innamorato.

«C’è qualcosa di molto importante nella vita di ognuno di noi. Ma bisogna saperlo vivere». Padre Amadio Marchiol, missionario della Consolata, classe 1927, questo qualcosa l’ha trovato in un minuscolo villaggio del Mozambico, nella sua popolazione e in un progetto, ambizioso quanto un sogno. Ma uno di quei sogni che la tenacia e la lotta quotidiana portano alla realizzazione.

Primi passi

Friulano di Val del Torre, Sud della Slovenia, tiene a precisare: «A casa nostra si parlava un dialetto sloveno». Alla fine del gennaio 1953 una nave lo porta in Africa, nel Mozambico colonia portoghese.
Padre Marchiol fa esperienza in alcune missioni del paese: Mapinhane, Maimelane, Matola. Luoghi dove rimarrà poco tempo, che però accresceranno il suo bagaglio di esperienze. «A quell’epoca in missione non avevamo mezzi di trasporto, percorrevamo grandi distanze a piedi o talvolta approfittavamo di passaggi, come quelli delle corriere clandestine che trasportavano i migranti». Impara una lingua locale, il xitsua, e perfeziona il portoghese quando lavora a Matola, enorme parrocchia della capitale, popolata dai discendenti dei coloni.
Ma è l’8 dicembre del 1956 che viene destinato a Mambone, piccola località alla foce del fiume Save, sulla costa 600 km a Nord di Maputo. Qui c’era fratel Silvio Petris. Nella zona c’era stato un ciclone (1948) che aveva distrutto la missione, «ancora costruita in capanne», ricorda. Era necessario costruire qualcosa di più solido, pensò il giovane missionario. Dopo aver edificato la casa della missione, fece una scuola.

Il materiale oltre
allo spirituale

Ma padre Amadio non va avanti navigando a vista. In lui subito si presenta la domanda: quali risorse posso trovare per fare una missione? Necessario era trovare un’attività redditizia, che potesse costituire un’entrata di denaro necessaria per realizzare le opere e far funzionare il tutto. Ma anche per creare un volano di sviluppo per migliorare le condizioni di vita della popolazione nella zona.
«Evangelizzare e promuovere anche materialmente, questa è sempre stata la nostra missione» dichiara padre Marchiol.
«Il commercio era già molto sfruttato, l’agricoltura non rendeva». La zona è caratterizzata da siccità endemiche che si alternano a periodi di forte pioggia e inondazioni. Padre Marchiol notò subito le pianure di terreno argilloso a perdita d’occhio. «A Matola avevo visto delle saline e avevo conversato con dei parrocchiani salinari per curiosità». Da qui l’idea: «Una salina può essere utile per me e anche per il popolo». Chiesto il permesso al governo coloniale portoghese, questo risponde nel 1957 con un no: alla missione basta il (magro) sussidio governativo.
Solo nove anni più tardi, lo stesso governo manda un documento: «Il suo progetto è valido e lo consideriamo un beneficio per la popolazione». La pesca era sviluppata e il sale scarseggiava, anche nell’interno del paese.
«Allora andai dai capi tradizionali e spiegai il mio programma. Questi dissero che non si era mai ricavato il sale da quella zona, ma non avevano niente in contrario sul fatto che io tentassi». Così il missionario italiano iniziò su una piccola area a produrre sale dalle acque della Baia Bartolomeo Diaz.

Lotta contro la fame

L’ottuagenario Marchiol racconta, seduto sulla sedia di paglia nella casa dove vive ormai da 50 anni. La sua voce è vibrante e carica di energia e la sua simpatia dirompente. I racconti sono talmente dettagliati, che sembra di vederlo all’opera nel momento stesso.
Negli anni ‘70 si preoccupa anche dell’alimentazione dei suoi parrocchiani. «Avevo in mente un sistema di irrigazione.  Volevo realizzare una risaia, ma è inutile pensare all’agricoltura senza acqua».
La salina avrebbe potuto finanziare parte di questo progetto per la popolazione. Allo stesso tempo dava già lavoro a 40 – 50 persone, a seconda del periodo dell’anno.
«Il progetto risaia fu appoggiato da Mani Tese (Ong di Milano, ndr) che raccolse i soldi necessari per una macchina livellatrice». L’enorme mezzo arrivò a Beira e il padre andò a recuperarla per portarla a Mambone tra mille peripezie.
Ma i superiori del tempo decisero di trasferire Marchiol. «Tutto era pronto, avevo coinvolto tanta gente e promesso che avrebbero prodotto riso». Il missionario punta i piedi e ottiene «un anno di tempo per far partire il progetto».
«Imparai ad usare la macchina e poi insegnai a un giovane che ne divenne responsabile – racconta il padre –. Con essa abbiamo sistemato 60 ettari di terreno, spianando e costruendo i canali di irrigazione. Anche le famiglie si erano impegnate per ripulire le future parcelle da alberi e rovi». Il primo raccolto è un successo.
Poi il padre parte per Muvamba. Ma la gente non è pronta e, lasciata sola, un anno dopo la produzione di riso crolla. I superiori chiedono a Marchiol di tornare a Mambone. «Per voi non toerei, ma per il popolo che ha sofferto sì» è la sua risposta. È il 1973.

La guerra prende
tutto, o quasi

Due anni dopo il Mozambico diventa indipendente, il Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico) al potere, adotta l’ideologia e il pragmatismo marxista-leninista (cfr. MC gennaio 2009, pp. 46-52). Il partito vuole cancellare tutto ciò che è trascendente, spirituale. Tutto quello che è legato alla chiesa. Così le missioni sono nazionalizzate e i missionari radunati nelle città e resi inoperativi oppure espulsi dal paese.
«Volevano la salina, ma la mia salvezza fu che l’avevo registrata come proprietà dell’Imc (Istituto missioni Consolata) e non come chiesa. Chiesi loro se le saline del Mozambico erano nazionalizzate e risposero di no. Così ci lasciarono in pace». Anzi: «La responsabile mi invitò a diventare membro del partito, ma io ringraziai e risposi che ero già di un “partito” e non avevo intenzione di cambiare».
Sono gli anni della sanguinosa guerra civile. La Renamo (Resistenza nazionale del Mozambico), finanziata dall’estero (dai governi segregazionisti dell’Africa australe: Sudafrica e Rhodesia) attua una strategia di devastazione e massacra la popolazione civile. Il sale e i suoi redditi, facevano gola a tutti.
«Eravamo tollerati, ma costretti all’impotenza rendendoci la vita difficile. “Siete un oggetto di contraddizione per il  nostro programma politico” dicevano».
Il governo fece chiudere le chiese comunitarie, non quelle ufficiali. La chiesa principale di Mambone rimase aperta, ma i miliziani segnavano chi la frequentava e questi venivamo estromessi dalle attività produttive.
«La guerra ci bloccava, non riuscivamo a portare via il sale, si poteva solo via mare. Avevamo un contratto con lo Zimbabwe di 300 tonnellate mensili, ma dovemmo desistere».

Gli anni dell’«esilio»

Anche padre Marchiol è costretto a lasciare la missione, quando nel 1981 i guerriglieri della Renamo invadono la missione. Si stabilisce a Beira, seconda città del paese, a 300 km di strada, per sei anni che chiama dell’«esilio». Con lui lavorava fratel Pietro Bertone, che ripiega su Maputo.
La carta vincente diventano i laici. «Lasciai la gestione della salina in mano a Sebastião, insegnante, e a un altro cristiano».
Il padre tornava periodicamente con un piccolo aereo e Sebastião gli consegnava il ricavato di quel periodo.
«Quando andammo in esilio, i cristiani suddivisero il territorio in comunità. E si organizzarono per amministrare le diverse liturgie come potevano. Quando sono tornato, nell’86 ho trovato la chiesa piena zeppa: era tutta gente che subiva la fame, la violenza.  Trovava nella “parola” un momento di forza. Le cerimonie, le messe erano cantate: una meraviglia».
Le comunità si erano «sparse come un incendio». La gente diceva: «Siamo stufi di parole di odio, vogliamo sentire questo messaggio di amore e pace».
Dice Marchiol del popolo vandau, gli abitanti della zona: «Hanno orgoglio della loro etnia, sono uniti. In Sudafrica difficilmente andavano nelle miniere, erano piuttosto domestici molto apprezzati. Sono duri a cambiare, ma quando cambiano sono tenaci».
Il signor Sebastião Nhamunha Nahanda, ex insegnante, è ancora oggi l’amministratore della salina di Mambone.

La salina di Batanhe

A pochi chilometri dalla missione, sul bordo della Baia Bartolomeo Diaz, ci appare un’estensione di 1.300 metri di acque macchiate di rosa, calme, delimitate da bassi muretti di terra e da stretti passaggi ingombrati da mucchi di sale bianchissimo. Su un lato, lungo la strada di accesso 15 grossi magazzini di legno, ognuno dei quali arriva a contenere 200 tonnellate di sale sfuso. Siamo alla salina Batanhe.
Sei mattine su sette, ogni settimana il trattore parte dalla missione alle 6,30 con il suo carico di lavoratori. Altri salgono via via lungo il cammino. Giunti alla salina, il caposquadra Comódo, uomo di fiducia di padre Marchiol, prepara le squadre di tre persone e dà gli incarichi. Tre giorni di estrazione del sale dall’acqua e tre giorni di trasporto nei magazzini, alternati.
«Oggi la salina impiega 37 operai permanenti e 60 lavoratori occasionali pagati settimanalmente» spiega Sebastião. Il salario minimo è di 1.925 meticais (circa 64 euro mensili). L’ex insegnante ha la gestione diretta del personale e delle altre spese, ma anche delle relazioni con i clienti e delle vendite. Poi passa tutto all’economo della missione, padre Adelino Francisco. C’è anche la revisione contabile mensile di un ufficio di Inhambane.
L’acqua della baia è pompata nel canale principale, spiega padre Amadio, poi la si obbliga a percorrere per gravità un lungo percorso a serpentina, e passare in vasche di concentrazione e decantazione.
Questo è necessario affinché si liberi di diversi composti. Nel mare l’acqua è a 4 gradi Baumé, che sono gradi di salinità. Le vasche fanno in modo che la gradazione aumenti fino a 25 gradi, limite raggiunto il quale cristallizza il cloruro di sodio: il sale da cucina. Prima però si è liberata di solfato di ferro e cloruro di calcio (gesso). Per ultimo, a 30 gradi, si forma il solfato di magnesio, che occorre eliminare a mano.
Gli operai, con grandi rastrelli piatti, tirano in secco il sale ormai formato nell’ultima fila di vasche, raggruppandolo in mucchi bianchi come neve che splendono al sole. Il giorno successivo la stessa squadra, con l’ausilio di carretti, trasporta il sale dei mucchi nel magazzino più vicino.

Venne in una notte

«Nella mia vita non avevo visto cicloni, l’ultimo era stato nel 1948» padre Amadio racconta quel giorno nel febbraio del 2000.
«Erano le nove di sera, il bollettino meternorologico indicava la direzione di Inhambane, pensavamo di essere fuori pericolo. Poi è cominciato a soffiare un vento sempre più forte. L’acqua entrava da tutte le parti, tutta la notte, poi il mattino alle dieci si è calmato. Sembrava di uscire in un cimitero. Era tutto rotto. Alla salina quell’onda del mare aveva portato via i muri, livellando tutto. Il ciclone sull’oceano ha prosciugato le spiagge».
I due guardiani erano saliti sulla casa delle pompe, dopo l’onda si sono trovati a centinaia di metri di distanza. Ancora vivi. Uno però aveva perso per sempre la ragione.
«I 14 magazzini erano pieni di sale (circa 2.800 tonnellate): non è rimasto un grano a scavare nel fango. E le strutture in legno distrutte. I pali li abbiamo ritrovati a 5 km di distanza».
Il progetto è devastato, il sale di un anno se l’era ripreso l’oceano. Il momento è critico: potrebbe essere la fine della salina di Batanhe.
«Dissi agli operai: abbiamo perso tutto il lavoro dell’anno scorso. Adesso sarebbe stato il momento di vendere il sale e poi continuare la raccolta. Quindi non so se potremmo darvi il salario mensile.
“Non importa”, risposero,  “andiamo a lavorare anche senza paga: la salina è nostra e se muore moriamo anche noi”».
Così i lavoratori della salina andarono a ripulire e a ricostruire tutto quello che il ciclone aveva distrutto in una notte.
Nell’emergenza padre Marchiol, assieme all’inossidabile e generoso fratel Pietro Bertone, si trovarono di fronte 4.800 persone alluvionate che si erano rifugiate alla missione. Avevano solo 10 sacchi di mais, e iniziarono a chiedere aiuti con il telefono satellitare della missione.
Nonostante il duro colpo, grazie alla popolazione, che crede nel progetto, la salina riesce a sopravvivere e a rinascere.

Un’impresa «sociale»

La salina di Batanhe è oggi un’impresa «sociale» altamente redditizia. Produce un sale di qualità, riconosciuto a livello nazionale e talvolta esportato all’estero.
«Lo comprano commercianti di Inhambane, Beira, Tete, e altre città del paese, ma anche, in minor misura quelli di zona» racconta Sebastião che oggi continua a gestire la salina in prima persona. «Sale di migliore qualità rispetto alle altre saline della zona; con iodio, e sacchi chiusi a macchina. Pulito. È ottimo per consumo umano».
Il mercato è ancora aperto: «È impossibile soddisfare tutti i clienti. Il bisogno di sale è maggiore della richiesta. Non ci sono più le saline di Matola».
Così la salina diventa un progetto che produce profitti che, oltre ad alimentare le necessità della missione di Mambone, sono raccolti in un fondo al quale possono attingere le altre missioni del Mozambico. Senza dimenticare la ricaduta sulle famiglie dei lavoratori.

Venti anni,
per avere la fiducia

Schietto come un bambino, ma profondo come qualcuno che ha fatto grandi cose, padre Marchiol tenta di svelarci il suo segreto: «Nessuno pensava che si potesse produrre sale a Mambone. La gente mi ha dato fiducia, perché ho promesso una cosa e l’ho fatta. Ci ho messo vent’anni. Prima non è stato possibile. Per vent’anni hanno dubitato, poi mi hanno dato fiducia».
Un progetto costruito insieme con loro e per loro: «Lavorano e sono soddisfatti di portare a casa il frutto del loro lavoro».
È riuscito a creare le condizioni per una crescita materiale, oltre che spirituale, a migliorare le condizioni di vita della gente. Questo aumenta anche la dignità e il benessere generale di un popolo. Ma come ha fatto?
«Vedo la mia vita come quella di qualunque individuo: ognuno nella vita ha un programma, ha una vocazione e deve viverla fino in fondo.
Uno che forma una famiglia lo fa per sempre. Così è per la missione. Non bisogna pensare: chi verrà dopo cosa farà? Io devo fare quello che posso con tutte le mie forze. Con questi fratelli devo condividere il bene e il male con l’obiettivo di far crescere le persone».
Tranne alcuni trasferimenti e gli anni di esilio, padre Amadio, ha sempre vissuto a Mambone la sua missione: «La mia fortuna è essere rimasto qui a Mambone per molto tempo. Non solo per mia volontà, questa c’è sempre stata, ma anche grazie all’intervento di colui che mi ha mandato». 

Di Marco Bello

Marco Bello




Condanna: impara l’italiano

Esperienza: insegnamento della lingua italiana nelle carceri

Le lingue sono strategiche per la pace e lo sviluppo. Lo dice l’Unesco. E per una migliore inclusione sociale. Anche nei luoghi più «speciali». Dal 2000 c’è un’importante esperienza nelle carceri del Perù. Oggi riconosciuta anche dall’Istituto italiano di cultura. Che ha indetto il primo concorso di composizione linguistica in italiano. Viaggio tra i frequentatori del laboratorio linguistico «Papà Cervi».

Nell’epoca della globalizzazione, in cui le distanze si sono ridotte e la terra è diventata più rapidamente percorribile, la comunicazione tende a omologarsi e vari linguaggi rischiano di scomparire, a causa dell’utilizzo massiccio delle lingue dei paesi di maggior sviluppo economico e di predominanza politica.
In relazione a questo, da varie parti si sta sentendo in modo sempre più consapevole l’interesse per le lingue nazionali, regionali e anche locali, come espressione di cultura, manifestazione di saperi, usanze, tradizioni, esperienze e storia. Si ha più viva coscienza che, quando muore una lingua, muore una civiltà.
Perciò, in questi anni, importanti organismi inteazionali hanno affermato l’importanza di ogni lingua, anche delle meno usate, e la necessità di valorizzarle e conservarle.
Le Nazioni Unite infatti hanno proclamato il 2008 «Anno Internazionale delle lingue» e l’Unesco (l’agenzia per l’educazione, le scienze e la cultura), a cui l’Onu ha affidato il cornordinamento delle iniziative, ha celebrato il 21 febbraio 2008 la nona «Giornata mondiale della lingua madre», con lo slogan: «Le lingue contano!».
Il direttore generale dell’Unesco, Koichiro Matsuura, ha dichiarato che le lingue sono «essenziali per l’identità dei gruppi e degli individui e per la coesistenza pacifica, esse costituiscono un fattore strategico per procedere verso uno sviluppo sostenibile e un’articolazione armoniosa tra globale e locale. Le lingue contano per raggiungere i sei “Obiettivi dell’educazione per tutti” e anche gli “Obiettivi del millennio per lo sviluppo”, sui quali le Nazioni Unite si sono trovate concordi nel 2000. Le lingue contano quando si tratta di promuovere la diversità culturale così come nella lotta contro l’analfabetismo e per un’educazione di qualità, che includa l’insegnamento della lingua matea durante i primi anni di scolarizzazione (cfr.  MC febbraio 2009, pp. 10-17).
Contano nella lotta per una migliore inclusione sociale, per la creatività, lo sviluppo economico, la salvaguardia dei saperi autoctoni».

Obiettivi ambiziosi

I sei «Obiettivi dell’educazione per tutti», a cui accenna Matsuura e che sono stati stabiliti nell’anno 2000, riguardano: lo sviluppo maggiore della cura e dell’educazione del bambino nella prima infanzia, l’offerta di un’educazione gratuita e obbligatoria per tutti, la promozione dell’apprendimento e della formazione professionale per giovani e adulti, l’aumento del 50% dell’alfabetizzazione degli adulti, il raggiungimento nel 2005 dell’uguaglianza numerica tra i due sessi a scuola e nel 2015 dell’uguaglianza effettiva nell’educazione, il miglioramento della qualità dell’educazione.
All’interno delle celebrazioni sulle lingue, dal 20 al 26 ottobre 2008 si è tenuta l’ottava edizione della «Settimana della lingua italiana nel mondo», realizzata dalla Direzione Generale per la promozione e cooperazione culturale del ministero degli Affari esteri in collaborazione con l’Accademia della Crusca per la valorizzazione della lingua italiana all’estero, attraverso iniziative delle rappresentanze diplomatico-consolari, degli Istituti di cultura, della Società Dante Alighieri, dei Dipartimenti d’Italianistica delle università straniere e delle Associazioni di italiani.

lima: dentro il
«castro castro»

Anche in un angolo dimenticato di un paese povero, in un carcere di massima sicurezza di Lima, in Perù, alcuni prigionieri, sensibili al miglioramento educativo e sociale dei loro compagni e della loro società, consapevoli del ruolo importante della scolarizzazione per tutti, coscienti della ricchezza culturale costituita dalla originalità e dalla peculiarità delle varie lingue, hanno celebrato l’Anno Internazionale delle lingue e la Settimana della lingua italiana nel mondo in momenti significativi e con diverse ed interessanti attività.
Il 13 dicembre un gruppo di prigionieri politici, su iniziativa del corso di italiano «Papà Cervi» ha preparato una giornata in cui, per stimolae l’interesse, sono state mostrate agli altri interni e ai visitatori le caratteristiche, le particolarità, le usanze dei paesi stranieri la cui lingua è per loro oggetto di studio.
Nel carcere di massima sicurezza Castro Castro di Lima, infatti, da anni si stanno studiando l’inglese, il francese, il cinese, l’italiano e le lingue native jak’aru (aymara) e runa simi (quechua). Fungono da insegnanti i prigionieri medesimi che autonomamente si dedicano a questa attività da soli o con l’apporto di professori che, gratuitamente, con periodicità o saltuariamente vengono dall’esterno.  Ad esempio per l’inglese il professor Michael Shano, che svolge lezioni due volte la settimana, e la signorina Ilse Van Nier, che una volta all’anno viaggia dall’Olanda e si dedica a tale insegnamento per un bimestre.

Italiano per tutti

Per quanto riguarda l’italiano, in questi anni ho prestato la mia opera per un mese o poco più nei periodi estivi nel taller (laboratorio) di lingua italiana «Papà Cervi», fondato e organizzato nel 2000 nel carcere El Milagro di Trujillo, dal prigioniero autodidatta Emilio Villalobos Alva, che, dopo alcuni trasferimenti, continua ora questa attività nel Castro Castro di Lima.
Tale impegno, costante e serio, da due anni circa è stato riconosciuto e valorizzato anche dall’Istituto italiano di cultura, che, attraverso alcuni insegnanti, come Isabella Lorusso, fino allo scorso gennaio, e Carmen Rosa Mendieta, tuttora in servizio, sottopone a esami gli alunni del taller «Papà Cervi» per verificarne e ufficializzae i vari livelli di preparazione.
A dare un significativo supporto all’attività linguistica all’interno del carcere, a novembre si è tenuta anche una lezione di didattica da parte del professor Maurizio Leva, insegnante nell’Università Cattolica «Sedes Sapientiae» di Lima, fondata ed organizzata dal vescovo italiano Lino Panizza, della diocesi di Carabayllo (fa parte dell’arcidiocesi di Lima, ndr), una delle più povere della città.
Il vescovo Panizza, persona affabile e intelligente, impegnato nella cultura, è soprattutto attento ai problemi umani e sociali delle persone che vivono nel territorio a lui assegnato. Si occupa infatti, oltre che dell’università, anche dell’educazione e dell’istruzione dei bambini e dei giovani di famiglie povere, difficili e a rischio.
Lo scorso ottobre, nell’ambito della «Settimana della lingua italiana nel mondo», nella stanza del padiglione 6B utilizzata per le lezioni del taller «Papà Cervi», nel carcere Castro Castro, si sono recati il direttore dell’Istituto italiano di cultura a Lima, Renato Poma, accompagnato dalla professoressa Carmen Rosa Mendieta, dal presidente dell’Istituto Nazionale penitenziario (Inpe), José Caparros Gamarra, e dal direttore del carcere stesso, Jaime Huamaccto Jimenez.
Essi hanno reso omaggio con questa presenza al lavoro svolto in tale attività da parte dei carcerati e hanno consegnato loro materiale didattico e alcuni premi agli studenti del taller vincitori del «Primo Concorso di composizione linguistica in italiano», indetto dall’Istituto italiano di cultura.

Riconosciuto,
 finalmente

Ciò è ancora più importante perché il programma è stato elaborato autonomamente, utilizzando libri usati in Italia dagli italiani. Negli anni passati si è bussato varie volte all’Istituto italiano di cultura di Lima, per chiedere consigli e suggerimenti, ma senza risultato. Ora finalmente si assapora la doverosa gratificazione per il riconoscimento dell’impegno costante di questi anni.
I libri donati servono inoltre ad arricchire la biblioteca creata nel 2004 dal taller di italiano e intitolata al poeta Javier Heraud, per il quale nel luglio scorso è stata organizzata una giornata di commemorazione in occasione dell’anniversario della morte e del recente trasferimento dei resti a Lima, accanto a quelli dei familiari.

la storia di emilio

La nascita e l’attività del taller «Papà Cervi» comunque, non ha sempre avuto vita facile, ma ha in precedenza incontrato numerosi ostacoli posti dalle autorità carcerarie, che hanno aumentato le difficoltà insite nella condizione di detenuto in un paese come il Perù.
Nel 2000, anno in cui l’Onu e l’Unesco organizzarono in modo più esplicito l’attività per la salvaguardia del multilinguismo nel mondo, nel penal El Milagro di Trujillo, Emilio Villalobos Alva, da autodidatta e quasi in sordina, iniziò a dedicarsi allo studio dell’italiano, come risposta alla solidarietà dimostrata da sconosciuti amici, che, in molti, in occasione del Giubileo, avevano inviato lettere e cartoline di solidarietà dall’Italia a lui e a vari altri prigionieri politici peruviani.
L’amicizia solidale e disinteressata dimostrata dai nostri connazionali ha stimolato in tal modo il desiderio di imparare la nostra lingua e ciò ha reso possibile anche l’approccio ad una conoscenza più profonda delle caratteristiche culturali su cui si fonda la nostra storia e la nostra società.
Una grammatica, un piccolo vocabolario, articoli di giornale, qualche libro sono stati i primi doni utilizzati per lo studio dell’italiano, a cui sono seguiti successivamente alcuni film in videocassetta e delle canzoni in nastri corredate da testi scritti.
Purtroppo nel penal Picsi di Chiclayo, dove Emilio Villalobos era stato nel frattempo trasferito, il direttore impediva l’ingresso di libri e materiale di uso didattico, provocando proteste da parte degli interni e degli amici italiani che corrispondevano epistolarmente con loro, fino a sfociare nell’attuazione di uno sciopero della fame.
Quando le autorità accettarono che si ricevesse ciò che era dovuto, Emilio Villalobos con i suoi alunni, per punizione, in quanto rei di sommossa e di insubordinazione, furono trasferiti nel carcere di Yanamayo, situato a 5.000 metri di altezza. Qui ricominciarono a studiare la lingua italiana (cfr. MC, febbraio 2003).
 
l’impegno continua

Questo impegno continua ininterrotto, nonostante non siano mancati anche in seguito ostacoli, intimidazioni, minacce, misure repressive da parte del personale della polizia nazionale che si è occupato di tale carcere dagli anni di Fujimori (ex presidente, ora sotto processo per massacri e violazioni dei diritti umani), fino al 2007. Ora il Castro Castro è sotto la tutela dell’Inpe, ma al primo ingresso la polizia fa ancora un iniziale controllo dei permessi e a volte crea difficoltà, disagi e ritardi anche ai collaboratori di associazioni umanitarie, soprattutto se stranieri.
Nel 2004 ho insegnato in modo ufficiale lingua e letteratura italiana a prigionieri politici e comuni del taller «Papà Cervi», anche nell’orario predisposto per la visita di parenti e conoscenti, attraverso l’associazione Frateidad Carcelaria del Perù, facente parte della Confrateidad Carcelaria Inteacional.
Nelle estati del 2006 e del 2008, invece, con l’appoggio dell’associazione Dignidad humana y solidaridad, diretta da Carlos Alvarez Osorio, ho ottenuto il permesso di tenere un corso di latino e di insegnare italiano affiancando nelle lezioni Emilio Villalobos Alva e Sandro Melendez Leon (quest’ultimo ex alunno del primo e ora insegnante nei corsi di base).
Ogni tipo di intervento e di analisi è stato fatto utilizzando esclusivamente la nostra lingua, non possedendo io la padronanza dello spagnolo, che ho cominciato a conoscere attraverso il rapporto epistolare con i prigionieri. Questi si sono mostrati interessati ad assorbire vocaboli nuovi, migliorare la fonetica e, soprattutto, a conoscere ed approfondire la nostra cultura.
Nelle ore di latino, spontaneamente sorgevano confronti fra questa «lingua morta», l’italiano e lo spagnolo. È stata per me un’esperienza molto più interessante di quelle vissute all’interno della mia attività scolastica con gli alunni italiani, in quanto gran parte dei partecipanti a tali corsi nel penal sono in possesso di un buon livello di studi universitari e, da liberi, ricoprivano ruoli adeguati. Ciò è particolarmente significativo se si considera che nella società peruviana la scuola culturalmente valida è la privata, riservata perciò alle classi benestanti, utile a mantenere vantaggi e privilegi.
All’interno degli argomenti esaminati con gli alunni del taller, particolarmente sentito è stato quello degli istituti di pena in Italia e in particolare del rapporto tra l’università e il carcere di Torino contenuto nel dossier dell’aprile 2008 di Missioni Consolata, che avevo da poco ricevuto e portato con me.
Questi articoli hanno stimolato analisi e riflessioni un po’ amare, ma anche cariche di speranza. Là, tra quelle mura, in quell’ambiente umano e sociale, ho sentito più pregnante il problema della pena acuita dalla solitudine, della sofferenza resa più profonda dagli atteggiamenti repressivi, ho osservato esempi di solidarietà tra compagni e ho anche verificato quanto, per noi, sia utile a superare pregiudizi un’esperienza simile.

Formarsi formando

Ho toccato con mano che, come dice la professoressa Maria Teresa Picchetto: «Questa iniziativa è utile anche per molti docenti che, con il loro bagaglio di inevitabili pregiudizi, si sono recati in carcere e si sono forse sorpresi del mondo che vi hanno trovato. Si impara molto di più a riguardo della pena e della giustizia dall’impatto emotivo che si subisce entrando in un carcere che dalla lettura di tanti libri.
Quanti luoghi comuni sul carcere vengono sfatati appena si faccia esperienza, anche sommaria della realtà materiale di un istituto penitenziario, dei vincoli, condizionamenti, impedimenti, regolamentazione dei tempi. Quelli che l’ex direttore della Casa circondariale Lorusso-Cutugno, Pietro Buffa, ha definito i “supplementi di pena”, cioè i riti, le mortificazioni, le situazioni frustranti a cui sono sottoposti i detenuti».
Nell’esaminare quelle pagine è emersa una sostanziale differenza a proposito dello studio in carcere: mentre l’esperienza di Torino è nata dall’accordo delle due strutture (università e carcere) e si avvale di aiuti economici, oltre che di docenti qualificati, in Perù l’impegno viene messo in pratica dai prigionieri, fra mille difficoltà, e le autorità in seguito prendono atto del loro lavoro.  

Di Franca Pesce

Franca Pesce




Cana (2) Un fatto mille domande

Il racconto delle nozze di Cana (2)

Probabilmente qualche lettore è ansioso di sapere come va a finire il matrimonio di Cana senza sposa e con uno sposo puramente coreografico. Bisogna però rallentare la curiosità perché è necessario porre alcune premesse prima di entrare nel cuore del racconto e nella sua struttura.
Leggere un brano del vangelo non è leggere una favola che inizia e finisce senza particolari problemi. Troppo spesso abbiamo letto la Parola di Dio come raccontino, più vicino alle favole che al «mistero» dell’incontro con Dio. Questa rubrica ha lo scopo di avvicinare i lettori alla Parola di Dio in tutta la sua integrità, utilizzando gli strumenti dell’esegesi, spiegati in modo semplice e comprensibile, ma garantendo la serietà e la profondità. Un solo peccato dobbiamo temere riguardo alla bibbia: la superficialità che diventa inevitabilmente banalità.

Le nozze di Cana
come prospettiva di tutto il vangelo
Il racconto delle nozze di Cana si trova all’inizio del quarto vangelo, esattamente all’inizio del capitolo 2, e comprende i primi 11 versetti per un totale in greco di 185 parole, compresi articoli e particelle (209 parole se si considera anche il v. 12 come parte integrante del testo).
Posto all’inizio del vangelo, il racconto ha una certa importanza, perché potrebbe avere lo scopo d’introdurci in una prospettiva particolare come angolo di visuale di tutto quello che segue. In questo caso, si parlerebbe tecnicamente di «prolessi tematica», cioè di anticipazione (pro-lalèō – parlo/dico prima): le nozze di Cana sarebbero la chiave di lettura di tutto il vangelo.
Se non possediamo la chiave, non possiamo entrare e se non ci mettiamo dalla giusta prospettiva, rischiamo di vedere e leggere il resto del vangelo in modo annebbiato e confuso.
L’esegesi non è un’operazione da obitorio, che lavora su corpi morti, ma un incontro con le singole parole che sono «persone vive», che danzano di significato in significato, fino al cuore del senso ultimo che è (dovrebbe essere) il pensiero di Dio, che parla a noi attraverso le nostre parole.
L’esegesi è un cammino di domanda in domanda, spesso senza risposte, perché dietro una domanda si trova un’altra domanda. Nel cammino di fede, infatti, come in ogni percorso di ricerca, non sono importanti le risposte, ma le domande che aiutano a seguire la pista per allargare sempre più l’orizzonte in cui, nel nostro caso, si colloca la Parola di Dio.
Il racconto delle nozze di Cana è Parola di Dio per i credenti. Dio non parla mai a vuoto, ma a ogni sua «parola» corrisponde un «fatto»: Dio parla agendo e agisce parlando perché in lui parola e fatto sono la stessa cosa, fino al punto che Dio stesso diventa Lògos, cioè Discorso/Parola/Vangelo/Messaggio/Annuncio. Per questo motivo, ogni volta che si apre la bibbia, bisogna prepararsi: non ci accostiamo a un libro qualsiasi, ma entriamo nel «Santo dei Santi» del cuore di Dio.
Gli ebrei, prima di iniziare la preghiera, si preparano per almeno un’ora. Ci vuole un’ora di decantazione, un tempo congruo di ambientazione prima di cominciare a pregare. Nella preghiera i preliminari di preparazione sono più importanti dell’atto stesso della preghiera. Come nell’amore. Lo stesso criterio vale per la bibbia: non si deve mai improvvisare perché chi improvvisa o manipola la Parola di Dio a casaccio, è blasfemo.
Prepararsi a entrare nel significato profondo del racconto delle nozze di Cana, significa camminare in punta di piedi e percorrere lo spazio necessario che precede e che comprende una premessa come introduzione di metodo, di sentimento e di dati necessari per capire e vivere.

Tre contesti per un racconto
Il rispetto della Parola di Dio esige che ci lasciamo avvolgere da alcune premesse che hanno lo scopo di prepararci il terreno e l’ambiente che circonda il racconto. Ogni brano della scrittura, infatti, ogni racconto, ogni miracolo, ogni sentenza, ogni frase del vangelo (di tutti i vangeli) devono essere letti sempre all’interno di tre contesti.
Il primo contesto è quello «immediato», che esamina il brano che si legge in relazione a quanto lo precede e lo segue immediatamente. Questa operazione serve per verificare se il testo interessato è un brano a sé; se è la conclusione di qualcosa che precede oppure se è la premessa di quello che segue, o se invece è un raccordo tra ciò che precede e ciò che segue.
Il secondo contesto è quello «remoto», che riguarda l’intero libro da cui è tratto il brano interessato. A questo livello ci si chiese quale sia lo scopo del racconto nel «contesto» appunto del libro, oppure qual è l’obiettivo che l’autore si propone nel riportare quel fatto.
Nel caso in esame, ci domandiamo: il racconto delle nozze di Cana quale significato o scopo ha per l’autore considerando tutto l’insieme del quarto vangelo?
Il terzo contesto è quello che possiamo definire «globale», perché legge il fatto o il racconto in un contesto ancora più ampio che è la visione unitaria e d’insieme di tutta la scrittura. La bibbia non è una sfilza di eventi, fatti, insegnamenti messi uno accanto all’altro, quasi a casaccio, ma è la «visione d’insieme» del piano di Dio, del suo disegno di alleanza che, per noi cristiani, trova in Gesù Cristo la sua chiave di volta.
Ugo di San Vittore ci offre in modo chiaro questa prospettiva «globale»: «Tutta la divina scrittura è un libro unico, e questo libro unico è Cristo; infatti, tutta la divina scrittura parla di Cristo e in lui trova compimento» (Ugo di San Vittore, De Arca Noe, 2,8: PL 176,642; cf Ibid. 2,9: PL 176, 642-643).
A questo livello, la domanda è: nell’economia della storia della salvezza scritta nella bibbia, quale significato o quale posto occupa il racconto delle nozze di Cana? Se non ci poniamo questa domanda, sarà difficile capire che il racconto delle nozze di Cana non parla di matrimoni, ma è un midràsh della rivelazione al Sinai e della prima piaga che colpisce l’Egitto, l’acqua del Nilo trasformata in sangue (cf Es 19,1-25; 7,14-25).

La Bibbia non è un ricettario
Accanto al contesto l’altra grande domanda è capire l’ambiente dove il vangelo ha trovato forma definitiva. Il testo che abbiamo oggi del quarto vangelo (ciò vale anche per tutta la bibbia, sia Antico che Nuovo Testamento) è il testo del redattore finale, cioè il frutto dell’ultimo autore che lo ha fissato nella forma in cui noi oggi la leggiamo. Noi però sappiamo che esso è il frutto di un lungo processo di trasmissione prima orale, poi anche liturgica, quindi parzialmente scritta e infine il frutto maturo di un testo finale e conclusivo.
Uno dei lavori più impegnativi (e a volte anche più noiosi) è l’analisi critica o «critica testuale» di un testo, attraverso cui, confrontando i codici esistenti, si sceglie il testo tra tutte le varianti possibili e se ne offrono le ragioni mediante un criterio di valutazione ormai attestato nelle università e nei centri di studi biblici.
Come si vede, il vangelo non può essere letto come un ricettario di cucina, dove ognuno estrae o confeziona la ricetta che vuole e come vuole. La bibbia tutto sopporta tranne la superficialità e la banalità, che spesso si trovano abbondanti tra i credenti che abitualmente frequentano la chiesa. Essi ricevono una formazione morale quando va bene, liturgica se va un po’ meglio, ma quasi nessuno riceve a livello istituzionale una formazione biblica sistematica come caratteristica fondamentale della vita del credente. Questo compito è relegato a gruppi spontanei di appassionati che magari sulla loro strada hanno trovato la disponibilità di un biblista.
La catechesi oggi nella chiesa è in funzione della dottrina come è codificata nel Catechismo della chiesa cattolica (Ccc) che, di fatto, ha più rilevanza della bibbia che porta in seno la Parola di Dio. Poiché anche i preti non conoscono la bibbia, ma la leggono come possono, di norma la vita delle comunità ecclesiali ruota attorno all’ortodossia dei contenuti e delle formule che, una volta acquisite, danno maggiori sicurezze e tranquillità tra ciò che «si deve» credere e ciò che non si può credere.
La Parola di Dio per sua natura è interrogativa, cioè stimola al cammino, alla ricerca, allo studio e non si ferma mai sulle conclusioni, ma alimenta la fame e sete di ricerca, perché Dio non si esaurisce mai e una volta raggiunto, vuole essere cercato ancora, come insegna Sant’Agostino: «Signore mio Dio, mia unica speranza, esaudiscimi e fa’ sì che non cessi di cercarti per stanchezza, ma cerchi sempre il tuo volto con ardore. Dammi tu la forza di cercare, tu che hai fatto sì di essere trovato e mi hai dato la speranza di trovarti con una conoscenza sempre più perfetta» (Agostino, Trinità 15,28,51).

Una sola mensa per scrittura ed eucaristia
Lo stesso Ccc, citando la costituzione dogmatica del Vaticano II «Dei Verbum» (Dv), sulla Parola di Dio, espone la necessità che la scrittura sia alla portata di tutti: «È necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla Sacra Scrittura» (Ccc 131; cf Dv 22) e ci invita espressamente «con forza» a conoscere le scritture che non sono altro che la Persona di Gesù, il Lògos incarnato: «La chiesa esorta con forza e insistenza tutti i fedeli (…) ad apprendere “la sublime scienza di Gesù Cristo” (Fil 3,8) con la frequente lettura delle divine scritture. “L’ignoranza delle scritture, infatti, è ignoranza di Cristo”» (cf Dv 25; San Girolamo, Commento di Isaia, Prologo; Ccl 73, 1 [Pl 24, 17]).
Il Concilio ecumenico Vaticano II va ancora oltre e pone sullo stesso piano la scrittura e l’eucaristia: «La chiesa ha sempre venerato le divine scritture come ha fatto per il Corpo stesso del Signore» (Dv 21); e il Ccc continua: «In ambedue le realtà tutta la vita cristiana trova il proprio nutrimento e la propria regola» (cf Ccc 141).
Ne deriva una serie di conseguenze non equivoche, di cui ne sottolineiamo due soltanto. La prima: la celebrazione dell’eucaristia assume la forma di una duplice mensa, sulla quale per primo ascoltiamo la Parola, quella stessa che diventerà Pane/Corpo. La seconda: nell’eucaristia facciamo due volte la comunione; la prima volta attraverso le orecchie, ascoltando la Parola che è il Lògos, cioè Gesù Cristo, il Signore; la seconda facciamo la comunione con la bocca, mangiando la Parola che «carne fu fatta» (Gv 1,14).
Per fare tutto questo sono necessari strumenti adeguati come la conoscenza delle lingue bibliche, l’ambiente vitale dove i testi si sono formati, sviluppati e dove infine sono stati scritti nella forma giunta fino a noi. Occorre conoscere la storia collaterale, la geografia dei luoghi e degli eventi, l’archeologia là dove può essere di aiuto.
Per quanto riguarda l’individuazione della località delle nozze, dal punto di vista dell’archeologia, per esempio, si parla di tre località bibliche col nome di «Cana». Quale delle tre è quella di cui parla il quarto vangelo? Escludiamo la località Qana, che si trova a km 12 a sud-est di Tiro, nel Libano, sulla costa del Mediterraneo e quindi fuori dei confini d’Israele; restano le altre due che si disputano la primogenitura.
I pellegrini che vanno in Terra Santa, non mancano, dopo Nazaret di fare una visita anche a Khirbet Kana (rovine di Cana), dove la tradizione francescana fa memoria delle nozze evangeliche fin dal medioevo. Già nel 570 ne parla l’anonimo Pellegrino di Piacenza, che visita il luogo e lo descrive nel suo diario. L’attuale chiesa è stata costruita dai francescani solo nel 1883 nel luogo dove sorgeva una moschea.
Con ogni probabilità, però, il luogo del racconto evangelico è Kafr Kenna (villaggio di Kenna), distante circa km 7 dalla Cana ufficiale. Le fonti letterarie oggi sono tutte propense per questo secondo sito, anche se i pellegrini continueranno a frequentare la Cana di sempre.  

Chi ha scritto il «vangelo di Giovanni»?
Oltre al luogo, un altro problema gigante riguarda la questione dell’autore del quarto vangelo. Da secoli siamo abituati ad ascoltare «dal vangelo secondo Giovanni» e con questo nome s’intende «quel» Giovanni di cui si parla nello stesso vangelo e che viene identificato con il «discepolo che Gesù amava» (Gv 19,26; 20,2; 21,7.20) e che nell’ultima cena ha posto il suo capo sul petto di Gesù, in segno di familiarità e di predilezione (cf Gv 13,25).
Tutti parlano di «discepolo prediletto», testimone attendibile, perché spettatore oculare di fatti. Noi sappiamo che i vangeli non sono opere scritte a tavolino, in modo asettico, ma sono frutto di un lungo percorso comunitario, quasi mai opera di un singolo individuo. Essi, dopo lunga gestazione nell’uso liturgico e nella predicazione, hanno assunto la forma con cui sono giunti fino a noi.
È probabile che Giovanni, il discepolo della prima ora, abbia influenzato con la sua predicazione il clima entro il quale è nato e si è sviluppato il vangelo che poi la tradizione ha attribuito a lui. È quasi certo ormai che il «discepolo che Gesù amava» non sia l’apostolo Giovanni, ma un suo discepolo che è diventato una figura autorevole di primo piano nella comunità giovannea abitante a Efeso nell’Asia Minore, attuale Turchia.
A questo punto le domande inevitabili sono: chi è l’autore del quarto vangelo? Chi ha potuto lambire vertici simili a quelli descritti in questo libretto di appena dodicimila parole, di cui essenziali non più di due mila? È il problema dell’identità dell’autore dello scritto che è altrettanto «enigmatico» come il vangelo che ci propone, simile ai vangeli sinottici (Mc, Mt e Lc), ma anche completamente diverso da essi.
«Gli interrogativi che lo riguardano sono assai numerosi e alcuni di essi si possono formulare così: chi sarà all’origine della cosiddetta tradizione giovannea? In quali ambienti si è sviluppata? Quali tensioni intee ha dovuto affrontare? Ha forse subito influssi da altri settori del cristianesimo primitivo, quali san Paolo e i sinottici? Come è maturato il suo rapporto con il giudaismo, tenendo conto della cesura segnata dall’anno 70? E come si può delineare più in generale l’innegabile influenza dell’ampio contesto religioso-culturale del tempo?» (R. Penna, Il giovannismo).
Per lungo tempo il vangelo di Giovanni fu considerato così «spirituale» da non considerarlo affidabile dal punto di vista storico, o come dice lo stesso Penna: «In quanto prodotto del mondo ellenistico, lo si considerò talmente privo di valore storico e con pochi rapporti con la Palestina di Gesù di Nazaret» (R. Penna, Il giovannismo).
Il processo che vede la nascita e lo sviluppo del quarto vangelo è molto complesso e articolato e non si è ancora arrivati alla conclusione definitiva. Allo stato attuale, esistono alcune ipotesi, ragionevoli e probabili, fantasiose e inconsistenti. Con la prossima puntata, cominceremo a dipanare la questione dell’autore e della sua comunità, esaminando alcune ipotesi per scegliee una che a noi sembra la più consona.
Nella terza puntata faremo una presentazione succinta di tutto il quarto vangelo, facendone emergere l’unità e la dinamica strepitosa. Infine collocheremo il racconto delle nozze di Cana nel suo contesto prossimo e remoto per passare poi all’esegesi parola per parola, frase per frase per assaporae, con l’aiuto dello Spirito Santo, la profondità e la vertigine.              (continua-2)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Donna delle Ande

Ruolo femminile tradizionale di fronte alla modeità

L’impatto con la modeità ha messo in crisi le comunità indie delle Ande, travolgendo anche il ruolo che la tradizione culturale assegna alla donna indigena nell’organizzazione della vita domestica e sociale. Eppure è possibile aprirsi alle novità conservando i valori umani e spirituali tradizionali.

La celebrazione della Giornata mondiale della donna mi riporta la mente e il cuore a una realtà ai più sconosciuta e al tempo stesso affascinante: la realtà della donna india delle Ande sudamericane. È un ricordo che provoca un sentimento di ammirazione e rispetto per le tante figure femminili che ho incontrato nella mia esperienza pastorale in Ecuador e Colombia.
La saggezza semplice e profonda, il senso del dovere e della responsabilità, l’incredibile forza impiegata nel lavoro duro della terra andina e nel non facile tran tran familiare quotidiano, la fede radicata in molte di loro mi hanno impressionato e, non posso negarlo, sovente aiutato nell’attività pastorale che ho avuto la fortuna di condurre in quei paesi.
Per comprendere la realtà della donna indigena delle Ande, è necessario fare due premesse che mi sembrano importanti. Prima di tutto, quando si parla di cultura indigena andina si fa riferimento, in realtà, a un insieme di culture che si sono sviluppate nelle vallate che intagliano questa lunghissima catena mon-tuosa. Un groviglio di montagne che emerge dai due oceani all’estremo Sud del continente americano, prosegue sinuoso per migliaia di chilometri segnando il confine fra Argentina e Cile, forma la spina dorsale di un immenso paese come il Perù e dell’Ecuador, si triforca in Colombia, andando a morire dolcemente verso le piane del Venezuela. Sembra evidente, quindi, che sarebbe meglio parlare di «culture» andine, piuttosto che di una sola cultura.
Nello stesso tempo, molti autori hanno sottolineato l’esistenza di un’unica radice che accomuna sotto molti aspetti le popolazioni indigene delle Ande; radice che si fonda sul comune ambiente montano, sull’origine comune di molte popolazioni che hanno poi trovato per ragioni storiche una diversa collocazione sullo scacchiere andino e su un pensiero originale che esprime una visione dell’universo, della morale e della società molto simile. A questi elementi comuni cercherò di rifarmi per raccontare la donna andina nel suo contesto.
Una seconda premessa va invece fatta in merito al metodo. Si può parlare dell’indio delle Ande delineandone i tratti che emergono da un libro di antropologia o lo si può fare raccontandone la vita quotidiana sulla base dell’esperienza diretta che si è avuta. Entrambi i metodi hanno pregi e limiti, per cui cercherò, forse sbagliando, di tenerli presente entrambi.
Da una parte c’è la donna india che appartiene alla tradizione, con i suoi caratteri tipici che si fondano sulla storia e nella cultura della gente dei paesi andini; dall’altra c’è la donna reale, oggi, che vive le contraddizioni proprie della persona che vede il suo mondo arcaico messo in discussione dall’avvento prepotente della modeità globalizzata in cui viviamo. È importante, a mio vedere, che entrambi questi elementi vadano tenuti in considerazione.

Innanzitutto cominciamo con il dire che nella maggior parte dei miti dell’origine del mondo delle culture andine la donna è presente. È presente come elemento femminile all’atto della creazione, nel simbolo della Pachamama (terra-madre) e come dimensione femminile dell’essere vivente e, in modo speciale, dell’essere umano.
Nel mito delle origini degli indios Nasa (Ande colombiane), l’universo creato dal Grande Spirito viene ordinato da una coppia di Abuelos (nonni). Maschile e femminile sono alle radici della creazione dando vita a un elemento fondamentale della filosofia india: quello della complementarietà. Gioo e notte, sole e luna, terra e acque… ciascuno di questi elementi ha un carattere maschile o femminile e non può esistere se non in rapporto all’altro.
La terra (per estensione il mondo in cui si vive) è un elemento femminile. Viene vista come madre protettiva e feconda. Per questa ragione, l’azione dell’aratura e della semina hanno un valore molto profondo nella spiritualità andina, quasi sacrale e paragonabile all’atto riproduttivo. Il seme gettato nei solchi della Madre Terra genera nuova vita, capace di garantire la sopravvivenza della gente.
Complementarietà significa dare a ciascun elemento il posto che gli spetta nell’universo, un posto che appartiene a lui solo e sempre in relazione con l’altro. Dove questa relazione di complementarietà viene rispettata si ha l’«armonia», lo stato perfetto delle origini, al quale bisogna ritornare attraverso riti di purificazione ogni qual volta questa viene rovinata da un’azione contraria dell’uomo o della natura.
Il concetto di famiglia, e per estensione quello di società, trova il suo compimento dove questa relazione tra maschio e femmina viene rispettata. A ciascuno il suo ruolo, nel rispetto dello spazio e dei compiti assegnati all’altro. La donna, quindi, gode tradizionalmente di una sua autonomia nella conduzione della casa (che comprende la crescita dei figli, la loro educazione e l’organizzazione della vita domestica e della sua economia), mentre all’uomo sono lasciati i compiti di lavorare la terra e di curare i rapporti con le altre famiglie e con l’organizzazione della comunità. La donna andina è una donna forte, lavoratrice, avvezza a sopportare il dolore, la fatica, la sofferenza.

Tradizionalmente, quando una donna era prossima a prendere marito si trasferiva dalla sua casa a quella del futuro compagno. Passava quindi dall’autorità della madre a quella della suocera, incaricata di insegnarle come essere una buona moglie dell’uomo con il quale si sarebbe accasata. Questo periodo (che in Colombia prende il nome di amaño) era molto importante, in quanto puntava a garantire l’esistenza della complementarietà all’interno del nucleo familiare in via di formazione. Anche l’aspetto spirituale della donna era tenuto molto in considerazione e, anche oggi, non sono poche le donne che rivestono il ruolo di medico tradizionale (sciamano) nella società indigena. Parallelamente, all’interno delle comunità cristiane le donne partecipano fedelmente e offrono la loro sapienza e la loro esperienza alla vita spirituale della propria gente.
Chiaramente, l’impatto con la modeità sta velocemente stravolgendo la concezione classica della donna nella società andina. Oggi, le comunità indigene stanno vivendo un momento di crisi, le cui conseguenze saranno perfettamente identificabili soltanto fra un po’ di tempo. I maggiori contatti con il mondo esterno, le migrazioni da parte della popolazione montana verso le città, una maggior istruzione offerta ai giovani, ecc. stanno provocando cambi immensi e rapidissimi in culture che, fino a pochi anni fa, vivevano ancorate alle loro tradizioni più antiche.
La città, meta di molte donne della cordigliera, stravolge completamente ritmi e tradizioni secolari. Le donne vi accedono nella speranza di trovare lavoro. Ne respirano l’aria e con essa nuove abitudini. La possibilità di acquisire una migliore istruzione apre il campo a nuove possibilità lavorative, dando modo di raggiungere un’indipendenza economica prima impensabile.
Cambiano le relazioni e viene completamente stravolto il criterio di complementarietà. La donna ha meno tempo per la famiglia e, se lavora in altri contesti, la terra ne risente; quella terra che per gli indios di ieri rappresentava la madre oggi diventa matrigna: un peso.
Uno potrebbe pensare: «Tutto già visto, già vissuto; è successo anche da noi in questi ultimi decenni». Vero. Ma in questo caso è la rapidità con cui il cambio avviene a spaventare. Come coniugare l’importanza di mantenere la lingua propria e rimanere così ancorati alle radici culturali del proprio gruppo con l’esigenza di studiare inglese per mettersi al passo con i tempi? Come convivere con le proprie credenze, la propria fede tradizionale, nell’era di internet? Per le nuove generazioni queste sono domande fondamentali che, molte volte, rimangono senza risposta.
E allora subentra la crisi, il vedersi sradicato da un contesto familiare tradizionale senza, nel contempo, sentirsi perfettamente a casa nella modeità in cui volenti o nolenti si è immersi.

In Colombia iniziai a dare ripetizioni di inglese a Jenny Hérica, una ragazza india diciassettenne, all’ultimo anno delle scuole superiori. Una giovane donna che, anche solo dieci anni fa sarebbe stata sposata, allattando il primo se non il secondo figlio. Accettai di seguirla perché mi sembrava molto portata nello studio della lingua. Infatti non aveva bisogno di aiuto per passare l’anno, ma avvertiva fortemente il desiderio di migliorare la preparazione che aveva ricevuto a scuola.
Suo padre era un leader della comunità indigena, mentre la madre, oltre a prendersi cura della famiglia, si prodigava nel raccogliere le memorie storiche della comunità attraverso il racconto degli anziani. Un giorno Jenny venne in parrocchia molto triste, quasi piangendo. Mi disse: «Padrecito, credo che non verrò più a studiare inglese». Di primo acchito pensai che si fosse stufata. Mi disse che lo studio della lingua inglese l’attirava moltissimo, ma che pensava fosse più importante imparare il nasa yuwe, la lingua dei suoi avi, dei suoi nonni, che vivevano in una casetta di fango e bambù in una frazione del paese, in piena montagna. Persone semplici, che conoscevano poco lo spagnolo e con le quali era difficile intavolare una conversazione se non attraverso la lingua propria.
La giovane vedeva chiaramente come quella cultura, che generazione dopo generazione era giunta sino a lei, si stava sgretolando, perdendosi irrimediabilmente. Era sinceramente in crisi. La lasciai andare. Soltanto le ricordai il grande dono che aveva fra le mani. «Grandi talenti, uguale grandi responsabilità. Perché non provare a studiarle entrambe?».
Quando mi toccò lasciare il paese per far ritorno in Italia le lasciai i miei libri di inglese: la grammatica, il dizionario, un paio di testi con esercizi e qualche lettura facilitata che avevo fatto arrivare apposta dall’Italia. Per mesi non ne seppi più nulla. Un bel giorno mi arrivò una e-mail. Era lei. Jenny aveva vinto una borsa di studio di quelle offerte agli appartenenti di minoranze etniche e studiava lingue straniere all’università di Medellin. «Studio, padre, perché amo l’inglese e sento che imparandolo bene posso aiutare la mia comunità, alla quale toerò, alla quale devo tanto e alla quale offrirò questa mia capacità».
Mi ringraziava per la sensibilità che avevo avuto nel valutare importante la sua ansia di rimanere attaccata alle proprie radici, ma nello stesso tempo di averla aiutata a essere consapevole di un dono grande che il Signore le aveva fatto. Il fine di tutto era il benessere della «sua gente» e in ciò si vedeva chiaramente l’attaccamento alla propria cultura, alla propria storia.
Jenny non sarà mai come sua nonna. Probabilmente non vestirà un anaco, la gonna tradizionale delle donne Nasa, e non porterà i suoi bambini avvolti in un chumbe, la striscia di stoffa tessuta a mano che racconta attraverso i suoi disegni la storia millenaria degli indios.
Jenny è una donna diversa, profondamente india, rispettosa della Madre Terra che l’ha generata e che tutti i giorni ringrazierà per il dono della vita. Magari, con un sorriso, dicendole: «Thank you». 

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Giocando si impara

Come prepararsi ad affrontare i disastri naturali

L’Ecuador è un paese colpito spesso dalle calamità naturali, come terremoti e inondazioni. Una Ong italiana ha lanciato una iniziativa originale: insegnare agli alunni delle scuole come affrontare tali disastri. La risposta dei giovani è stata entusiasta: un buon auspicio per il futuro del paese.

C’era una volta una terra sfortunata. Poche risorse e servizi, zero industrie, un unico lavoro (mal) retribuito che va per la maggiore, quello di bananero, coltivatore di banane. E, come se non bastasse, un clima impazzito, che alterna eruzioni vulcaniche, terremoti e terribili inondazioni, le più frequenti di tutte, che si portano via case e, a volte, persone.
Benvenuti nelle province di Los Ríos e Bolívar, Ecuador. Una zona geograficamente, più che altre, depressa, non troppo lontana dalla Cordillera Central delle Ande ecuadoriane, quella dove regna il vulcano attivo più alto del mondo, il Cotopaxi (con i suoi 5.897 metri e le almeno 50 eruzioni negli ultimi 300 anni), ma abbastanza da trovarsi in una zona tanto calda quanto umida, non solo d’estate. Qui la gente, bananeros a parte (che costituiscono un mondo a sé, spesso divisi dal resto della popolazione avendo le loro case e i servizi, come le scuole per i figli, all’interno della hacienda, la piantagione di banane) vive di agricoltura di sussistenza e si arrangia come può, coltivando e rivendendo caffè, cacao, mais e soia.
Ma come in tutti i luoghi in cui la miseria sembra aver messo radici piuttosto salde, la speranza di una vita migliore impregna la popolazione di un ottimismo duro a morire. L’aveva capito anche l’ex vescovo Feando Lugo, noto nel mondo per essere ritornato alla vita laicale per diventare, nell’aprile 2008, presidente del Paraguay: negli anni ’80, Lugo era stato prete missionario a Echeandía, uno dei centri abitati più conosciuti della regione per la durezza delle condizioni di vita e il costante rischio di alluvioni.
Un ottimismo, quello della gente di questa parte dell’entroterra ecuadoriano, fatto di sorrisi, abnegazioni al destino che portano a scelte di vita impensabili per i giovani nostrani (il matrimonio a 15-16 anni, l’arrivo di un figlio subito dopo, poi un altro), e tanta volontà di cambiare le cose.
Ma la cosa più importante è che sono proprio i giovani i principali portatori di questo cambiamento. A Ventanas, Las Naves, la stessa Echeandía, sono loro che stanno prendendo in mano le redini della società, cercando vie per un futuro diverso per il loro paese nonostante l’assenza di modelli precostituiti.

Difficile da credere? Chiedetelo allo staff di Coopi, la storica organizzazione non governativa italiana che proprio in quei luoghi, da qualche anno, sta portando avanti dei progetti di cooperazione allo sviluppo. Attraverso uno di questi progetti, l’Ong ha mobilitato ben 3.500 alunni delle scuole superiori di cinque cittadine delle due province. O meglio, si sono mobilitati da sé, aderendo spontaneamente a un’iniziativa inedita che si è rivelata un grande successo per i risultati ottenuti nel campo dell’informazione e dell’educazione ambientale.
Stiamo parlando di Preparación ante desastres (Preparazione ai disastri); questo il nome del progetto di Coopi, finanziato da fondi dell’Echo (l’Ufficio di aiuti umanitari della Commissione europea) e implementato nei territori comunali di Ventanas, Las Naves, Echeandía, Quinsaloma e nella comunità parrocchiale di Zapotal, a partire dal settembre 2007 fino alla sua conclusione a fine dicembre 2008. In tutto 15 mesi, in cui i 100 mila beneficiari indiretti (la somma degli abitanti dei cinque centri abitati) hanno potuto rendersi conto di quali siano i passi da fare per reagire nel più breve tempo possibile di fronte a una catastrofe naturale, e quindi prepararsi ad affrontarla.
«Ma più ancora, l’obiettivo principale raggiunto riguarda, appunto, l’impegno dei giovani, primi destinatari, come beneficiari diretti, della formazione sulle strategie chiave per affrontare un’emergenza ed essere in grado di dirigere i soccorsi alla popolazione danneggiata» spiega Tiziana Vicario, 30 anni, capoprogetto di Coopi nell’Ecuador centrale e responsabile di Preparación ante desastres. «Ragazze e ragazzi che, per circa un anno, hanno partecipato a seminari, incontri, simulazioni sul tema del pronto soccorso e della capacità di autorganizzazione – prosegue la responsabile – e che, una volta terminata la fase di apprendimento, hanno potuto a loro volta tramandare le loro conoscenze ai loro concittadini».
Un lavoro di insegnamento e pratica che Coopi non ha svolto da sola, ma in congiunto con i principali enti istituzionali e di primo soccorso del paese: i pompieri, la Defensa civil (l’omologa della nostra protezione civile), i Dipartimenti provinciali del ministero di Educazione e salute, le municipalità coinvolte. «Ma in occasione dei disastri naturali, l’intervento degli esperti non basta, per questo serve una forte partecipazione della cittadinanza» continua Vicario.
L’ultima inondazione, datata febbraio 2008, ha travolto decine delle modeste case della zona, la maggior parte costruite in legno alla stregua di palafitte, che noi chiameremmo «baracche», ma che sono comuni in queste zone in cui i terreni, soprattutto nella stagione delle piogge, si trasformano in enormi acquitrini.
«Solo a Echeandía sono 300 le case costruite a lato del fiume e nelle colline circostanti, le prime a franare dopo i primi violenti nubifragi. In tutto, vivono 2 mila persone in costante e altissimo rischio ambientale – racconta la responsabile del progetto di Coopi -. Anche a Las Naves le abitazioni a rischio sono molte, almeno 180, e in tutta l’area un altro problema grave sono le vie di comunicazione: ponti pericolanti, fatti di legno, e strade troppo vicine agli argini dei fiumi». Per questo, oltre alla sensibilizzazione e alla formazione, un’altra parte dell’impegno dell’Ong italiana è dedicata, tramite manodopera locale, alla costruzione di strutture per rafforzare il manto stradale e i ponti cedevoli, alcuni dei quali sono stati invece ricostruiti.
M a torniamo all’impegno giovanile. La loro adesione in massa al progetto di prevenzione ai disastri è stata una grossa sorpresa anche per la stessa Coopi: «Ci aspettavamo una buona risposta, ma non questi numeri – rivela l’ecuadoriano Cristopher Velasco, 24 anni, responsabile tecnico del progetto -. Il loro interesse si è rivelato autentico in ogni fase e fa ben sperare nel futuro, poiché gli adolescenti di oggi sono gli adulti di domani: se dimostrano coscienza ambientale e voglia di lottare per costruire un mondo migliore, possono cambiare la mentalità corrente e realizzare un nuovo Ecuador, più sostenibile e meno disagiato».
Velasco, con uno staff di altri quattro cooperanti locali dell’Ong italiana, ha girato per tutta la durata del progetto le cinque località, organizzando incontri dei giovani delle scuole con gli enti di primo soccorso e gli esperti di educazione ambientale. «Incontri in cui i ragazzi si sono messi molto in gioco: a volte le simulazioni dei disastri risultavano essere momenti molto forti, per la loro capacità di immedesimarsi» spiega il cornoperante ecuadoriano.
Il gioco come strumento didattico ha rappresentato un punto fondamentale della conclusione del progetto: per mettere alla prova le abilità acquisite dai giovani nella formazione, Coopi e gli altri enti coinvolti hanno organizzato un evento inedito per il paese latinoamericano: i primi Juegos de preparaciòn ante desastres, una sorta di olimpiadi di prevenzione alle catastrofi naturali; tali giochi si sono tenuti nella cittadina di Ventanas dal 19 al 21 settembre 2008. «Ai giochi hanno partecipato una trentina di studenti per ognuno dei cinque centri abitati coinvolti nel progetto. Per sceglierli è stata davvero un’impresa, basti pensare che alle selezioni iniziali si sono presentati in 1.500 -riporta Velasco -; è stato difficile lasciar fuori tanti ragazzi motivati, ma quelli che c’erano li hanno davvero ben rappresentati».
Nei tre giorni di Juegos, i partecipanti hanno dovuto superare una serie di prove a tempo in cui dovevano dimostrare la propria capacità organizzativa in caso di inaspettato disastro naturale: hanno dovuto montare tende per gli sfollati, prestare primo soccorso ai feriti, pianificare una strategia per le vie di fuga degli edifici pubblici coinvolti dall’emergenza, gestire un campo base attrezzandolo delle necessità primarie, come servizi igienici, cucina, materassi.
Ogni prova veniva valutata da un’équipe di giudici formati da esperti delle varie istituzioni aderenti al progetto, funzionari ministeriali compresi. Alla fine, i giovani di Quinsaloma sono stati quelli più preparati, vincendo il maggior numero di competizioni. Ma quel che più conta, ogni gruppo ha prevalso in almeno una «specialità»: nessuno, quindi, è rimasto a mani vuote. «Siamo tutti vincitori – dice Maria, 16 anni, di Quinsaloma -; tutto quello che abbiamo fatto in questi tre giorni è merito non di singoli, ma di gruppi compatti e capaci di collaborare alla grande».
Una collaborazione riuscita che era un altro degli obiettivi iniziali del progetto di Coopi: per questo, l’Ong ha aggiunto allo staff organizzativo di queste olimpiadi sui generis due volontari di Paciamoci onlus, associazione italiana che si occupa di rafforzare le dinamiche di gruppo lavorando sulla risoluzione dei conflitti attraverso la nonviolenza.
«Tra una competizione e l’altra, abbiamo cercato il più possibile di rafforzare l’unità dei cinque team, lavorando molto sulla fiducia e sull’ascolto reciproco, sulla valorizzazione di leader positivi e puntando a far prendere le decisioni ai ragazzi attraverso il metodo del consenso» spiega Chiara Perego, 29 anni, volontaria di Paciamoci onlus, organizzazione che in Italia promuove percorsi nelle scuole e all’estero sostiene progetti di nonviolenza attiva. «Attraverso il consenso, una decisione viene presa quando tutti sono convinti che sia quella giusta per il gruppo. È una pratica che unisce molto, difficile da attuare – continua la volontaria italiana -, ma che a sorpresa i giovani ecuadoriani, pur praticandola per la prima volta, hanno fatto propria in breve tempo: i risultati si sono visti nelle attività della competizione, i ragazzi sono rimasti molto uniti e anche le decisioni importanti sono state prese in modo decisamente democratico».

In un paese ancora oggi molto violento come l’Ecuador, dove la violenza familiare è ad altissimi livelli e il numero di delitti è tra i più alti del continente, in particolare i tristemente famosi assalti ai bus pieni di gente, non è facile trovare terreno fertile per la crescita di pratiche nonviolente. «Ma noi ragazzi possiamo essere di esempio – interviene Miguel, 18 anni -; se siamo riusciti a risolvere fra di noi i “piccoli” conflitti di questi giorni senza arrivare agli insulti o alle mani, perché non provarci anche in famiglia, a scuola, e nella società in generale?».
Una domanda il cui impatto sulla società è da non sottovalutare. Ne è convinto anche un personaggio «speciale»: Damiano, cantante assai noto in tutto l’Ecuador per aver composto l’inno ufficiale della nazionale di calcio del paese, e presente nella serata conclusiva dei Juegos, diffusa su varie televisioni ecuadoriane: «Questi ragazzi hanno un messaggio forte da lanciare, vogliono essere protagonisti del cambiamento del nostro paese. Noi dobbiamo ascoltarli – ammette Damiano -, e, perché no, prendere anche lezioni da loro».
Ragazzi e ragazze che ora possono dirsi pronti alle emergenze e, soprattutto, sanno che il proprio paese conta su di loro. Proprio quell’Ecuador che, da qualche anno a questa parte, sembra essere uscito dalla spirale negativa del passato e, con altri paesi dell’America Latina, sta compiendo passi da gigante, da una parte per garantire i diritti fondamentali dei cittadini, dall’altra per interrompere la scia di violenze, abusi di potere, corruzione e clientelarismo del recente passato.
L’approvazione, a larga maggioranza (il 64% ha detto sì al referendum), della nuova costituzione (voluta dal presidente Rafael Correa, eletto nel 2006 con il sostegno dei movimenti sociali), che ha una forte impronta solidaristica e un grosso tentativo di «trasparenza» tra i suoi obiettivi principali, è un primo, ottimo segno. Il fatto che l’età media dei votanti al referendum si sia abbassata a livelli record, vale ancora di più: testimonia che i giovani ecuadoriani desiderano vivere meglio dei loro genitori. E i protagonisti del progetto di prevenzione ai disastri di Coopi lo hanno dimostrato. Eccome. 

Di Daniele Biella

Daniele Biella




Una vita per i giovani

Missione e «martirio» di padre Giuseppe Bertaina

 Il 16 gennaio padre Giuseppe Bertaina, missionario della
 Consolata, veterano del Kenya dove lavorava come
 amministratore dell’Istituto di Filosofia di Langata (Nairobi),  
 è stato ucciso da tre malviventi in un tentativo di rapina.

I FATTI
Il Philosophicum, l’Istituto di Filosofia di Langata, alle porte di Nairobi, era la sua casa. Ci aveva messo tutta la sua intelligenza e le sue energie per tirarlo su, ma soprattutto ci aveva messo il cuore, facendolo diventare un centro d’eccellenza per la formazione dei giovani alla vita sacerdotale.
Padre Giuseppe Bertaina ha dato la sua vita per questo centro e non solo in senso ideale: il suo dono è diventato sacrificio e martirio la mattina del 16 gennaio quando tre banditi, due uomini e una donna, sono penetrati nel suo ufficio di amministratore con l’intento d’impossessarsi dei soldi delle rette degli studenti.
Ma quei soldi non c’erano. Nell’Istituto si paga, infatti, con assegni. Il padre non era tipo da farsi intimorire facilmente e così, di fronte alla sua naturale reazione, l’hanno picchiato e legato con una corda. Poi gli hanno messo un bavaglio tappandogli la bocca con un sacchetto di plastica fissato con scotch da pacchi. I suoi 82 anni e il cuore ammalato non l’hanno aiutato ed è morto soffocato.
Uomo schivo e semplice, padre Bertaina non amava apparire. Era «figlio» della «Provincia granda» (Cuneo), di quella terra che forgia uomini che alle parole preferiscono la concretezza dei fatti. Così, nei suoi 58 anni d’Africa, fatti di «laboriosità silenziosa», ha saputo condensare al meglio l’insegnamento principe di Giuseppe Allamano per il quale era fondamentale non solo l’educazione religiosa, ma anche il miglioramento della qualità della vita delle popolazioni raggiunte dalla sua testimonianza di fede.
Fede sì, ma anche pragmatismo: si sa, infatti, quanto è difficile parlare di Dio a pancia vuota. L’evangelizzazione ad gentes, cioè fra i popoli non ancora raggiunti dal messaggio di Cristo, come primo passo per recuperare una dignità umana a tutti gli effetti, tradotto in pratica, significa scuole, sanità, formazione professionale. Quanto basta e avanza per consacrare a questa missione una vita intera, diventando cittadino del mondo.
Per dirla con il Fondatore: «Uno che lascia la famiglia naturale per dedicarsi alla missione, deve trovare come un’altra famiglia». Padre Bertaina quella famiglia l’ha trovata tra i confratelli e soprattutto nelle migliaia di persone incontrate durante la sua lunga testimonianza.
Ha dedicato tutta la sua vita alla scuola e, grazie al suo lavoro, moltissimi giovani africani hanno potuto formarsi professionalmente e alla vita sacerdotale.
L’anno scorso è stato per l’ultima volta in Italia per un breve periodo di riposo. E, nonostante l’età avanzata e la salute malferma, desiderava ardentemente di poter tornare in Kenya per continuare a lavorare per i suoi giovani. Il Signore l’ha preso in parola e proprio in mezzo a quei giovani che ha educato, istruito e preparato alla vita, ha donato il suo ultimo respiro.

LA RIFLESSIONE
«La sua tragica morte – come scrive padre Stefano Camerlengo, vice superiore generale – ci pone ancora una volta davanti al dono per la nostra missione. La missione autentica è offerta e a volte richiede anche la vita.  Vivere la pienezza della nostra vocazione diventa confronto quotidiano con la miseria e la povertà di tanti. Spesso ci sentiamo impotenti e poca cosa, ma è proprio il nostro esserci, il nostro condividere, il nostro rimanere nel mezzo anche delle contraddizioni, che la rende grande e certamente portatrice di frutti e di speranza per il Regno.
Il sacrificio di padre Giuseppe Bertaina si inserisce in questo cammino di oblatività, si unisce ai tanti che nella storia, sono rimasti fedeli e vigilanti in mezzo al popolo di Dio e sono segno che l’amore e la carità vincono sempre perché sono più forti della violenza e della morte.
La pace che il Signore, certamente dona al suo fedele servo sia il dono che imploriamo per il mondo intero e per la nostra amata Africa. Che questa offerta possa continuare a dare vita, pace, gioia e giustizia alla nostra gente che continuamente si trova a vivere nella violenza e nell’ingiustizia. E a noi missionari doni consolazione e forza per continuare con più zelo ed amore, ad annunciare il Cristo che ha vinto la morte e dà sempre la ricompensa ai suoi operai del vangelo.
Signore, ti ringraziamo perché ce lo hai dato e perché prendendocelo ci hai fatto capire che il sangue dei martiri è semente di vita, è grido di amore che supera ogni male e sofferenza perché diviene segno di risurrezione». 

Di Sergio Frassetto

La vita

Nato a Madonna dell’Olmo (CN) nel 1927, padre Giuseppe Bertaina entrò fra i missionari della Consolata nel 1946 e venne ordinato sacerdote nel 1951. Lo stesso anno partì per il Sudafrica, dove all’università di Cape Town conseguì la laurea in scienze, che lo abilitò all’insegnamento nelle scuole delle allora colonie inglesi.
Così arrivò in Kenya dove si dedicò al lavoro nella scuola secondaria, prima nella missione di Kevote e poi in quella di Shiakago, nella diocesi di Meru. Il suo impegno proseguì nella missione di Sagana dove fondò e resse per 20 anni la «Scuola Tecnica», gloria del lavoro missionario, che ha sfornato centinaia di tecnici, vero motore di sviluppo della giovane nazione del Kenya.
Ma la sua missione non era ancora conclusa. Negli anni ’90, visto l’accresciuto numero di vocazioni, si presentò la necessità di costruire un nuovo centro dove i giovani in cammino verso il sacerdozio potessero svolgere i loro studi di filosofia.
A chi affidare questo compito? Ancora una volta i superiori hanno chiamato padre Giuseppe confidando nella sua esperienza e nella sua indubbia capacità.
E dal suo lavoro è nato il Philosophicum: un’opera maestosa e modea che, con sua grande soddisfazione il 2 febbraio 1998 veniva inaugurata da padre Piero Trabucco, superiore generale.
Da quel giorno padre Bertaina è diventato l’anima dell’Istituto di filosofia, lavorandovi come rettore e insegnante prima e poi come amministratore, affiliandolo alla Pontificia università urbaniana di Roma e arricchendolo di una grande biblioteca e di un salone multiuso.
Qui oltre 300 giovani seminaristi, provenienti da varie famiglie religiose venivano ad abbeverarsi ogni giorno alla fonte del sapere filosofico, ma soprattutto, in padre Bertaina trovavano un maestro e un educatore, esigente nella disciplina, ma capace di formare il loro carattere alla futura missione di sacerdoti.
La sua era una presenza semplice e umile. Le sue parole erano poche, ma da non perdere: sapeva presentare la realtà nuda e cruda e poi lasciava a ciascuno la libertà delle sue decisioni, con grande rispetto; dove c’era lui, c’era ordine, armonia, gioia, amicizia e famiglia.
Amava i giovani e come un buon padre, seguiva anche coloro che cambiavano strada, aiutandoli a inserirsi nella vita. Cosa che faceva anche con i detenuti del carcere di Langata, dove per 20 anni ha servito come cappellano ogni domenica. Ha speso tempo e denaro per coloro che uscivano di prigione, dopo aver scontato la pena, aiutandoli a conseguire un titolo di studio o a inserirsi nel mondo del lavoro e così ricostruire il proprio futuro.
Padre Bertaina non ha mai conservato rancore per nessuno ed anche il giorno dell’assalto nel suo ufficio certamente ha accolto i suoi uccisori con rispetto e, se erano da lui conosciuti, come sembra, ancora li avrà esortati al giusto, morendo senza rancore per le mani di coloro che aveva aiutato in modi diversi.
La sua morte violenta lascia disgustati e amareggiati, ma rimane la grandezza di un uomo e di un missionario completo, sempre allegro e pieno di Dio in mezzo agli uomini che amò fino alla fine e per i quali ha versato il suo sangue.
Una fine umile, la sua, non un atto eclatante di eroismo, ma la conclusione di una vita eroica donata senza risparmio, con intelligenza e bontà, nel totale nascondimento, perché solo il seme che muore produce molto frutto.

Sergio Frassetto




Cari missionari

Altri «chiamati
all’ora 11a»

Gentile Direttore,
certamente si ricorderà di noi, per avere riportato nella rivista, nel numero di settembre 2004, la nostra esperienza in Rwanda con un titolo indovinatissimo: «Chiamati all’ora 11a».
Siamo ritornati un’altra volta in Rwanda e ora la missione per coppie anziane è stata considerata, dalle Pontificie opere missionarie, come «intuizione profetica».
Recentemente due coppie di Torino si sono impegnate ad andare in Rwanda nel 2009 per continuare l’aiuto nella pastorale familiare nella diocesi di Byumba. Le due coppie che stanno per partire hanno una solida base spirituale (sono delle Equipes Notre Dame) ma mancano di esperienza umana per una missione in Africa.
Le scriviamo quindi per chiederle se potreste, dal momento che sono a Torino, dare loro qualche indicazione circa la realtà africana e come rapportarsi con le persone… Se la cosa è possibile vi saremmo molto grati. Dopo tutto anche la vostra relazione del 2004 ha aiutato a far capire che il cristiano non può andare in pensione. Per questo la ringraziamo fin d’ora.
Laura e Giovanni Paracchini
Milano

Abbiamo provveduto con piacere alla richiesta e una delle coppie è partita per il Rwanda nel mese di febbraio. Siamo felici di aver contribuito a dimostrare che l’essere cristiano non va mai in pensione e che la missione… ringiovanisce.

Pallottole invece di… medicine?

Spettabile Redazione,
ho letto e trovato molto interessante l’articolo a pag. 24 su Missioni Consolata 10/11 anno 2008: «Si fa presto a dire terrorista». Il professor Angelo D’Orsi definisce l’11 settembre come «punto più alto raggiunto dal moderno terrorismo».
Sono d’accordo, ma quale terrorismo? Siamo certi che sia andata come ci raccontano? Troppe discrepanze tecniche ci inducono a maturare seri dubbi sulla verità dell’11 settembre. Cosa vi è dietro veramente? Forse lo stesso «incidente» simulato e usato per iniziare la guerra del Vietnam?
Da qualche anno opero un paio di mesi l’anno come volontario autonomo in un paio di villaggi di profughi clandestini birmani in territorio Thai (provincia di Mae Hong Son) e conosco bene tutti i risvolti di tale situazione (cliccando il mio nome su internet e yahoo-immagini troverete articoli e foto).
Mi sto convincendo sempre di più che i fondi che ora impieghiamo come assistenza sanitaria e per un paio di scuole, forse sarebbero più efficaci se spesi per finanziare i partigiani karen che combattono la dittatura militare birmana, che li sta condannando a un lento genocidio. In sostanza, comperare pallottole e non medicinali.
So che questo non è cristiano, ma lo è infinitamente meno quello che fanno i generali birmani.
Andrea Panataro
Sordevolo (BI)

La provocazione del sig. Panataro esprime con chiarezza l’indignazione che egli prova di fronte alle feroci repressioni delle legittime aspirazioni dei karen e delle altre popolazioni birmane; anche noi condividiamo l’indignazione, ma non la proposta, non solo perché non cristiana, ma anche perché sarebbe un rimedio peggiore del male. D’altronde, sono convinto che anche il signor Andrea non crede a tale proposta, ma continua a distribuire medicine, riso e altri aiuti essenziali.
 

Bombe a grappolo
ordigni di Satana

Cari missionari,
se Barack Obama è davvero così diverso dai suoi predecessori, lo dimostri firmando i trattati inteazionali contro le mine, le bombe a grappolo e gli altri ordigni ad azione indiscriminata.
Non ripeta anche lui il rivoltante, odioso ritornello: «Le mine sono essenziali per la sicurezza dei militari americani impegnati in missioni all’estero». Non cada anche lui nell’errore dei Bush, di Reagan dello stesso Clinton, e riconosca che è vero esattamente il contrario, ossia, questi infeali aggeggi, oltre a seminare il terrore tra i civili, a rovinare per sempre la vita a tanti bambini innocenti, a impedire l’agricoltura, a bloccare lo sviluppo di interi paesi, sono stati – e continuano anche oggi a essere – causa di mutilazione e di morte per migliaia di marines…
Mine e bombe a grappolo, o cluster bomb che dir si voglia, sono armi da terroristi, non da soldati leali e coraggiosi che vogliono lottare efficacemente contro il terrorismo per il ripristino della pace, della giustizia, dell’autentica legalità.
Se Washington tiene davvero ad avere un ruolo-guida nella lotta contro il male e contro i vigliacchi, dica «no» alle armi dei vigliacchi, dica finalmente «no» agli ordigni di Satana, perché questo sono le mine e le cluster, nient’altro che questo…
Cordiali saluti.
Francesco Rondina
Fano  
Speriamo che il presidente Obama metta al bando non solo le mine anti-uomo e le cluster bomb, ma ogni tipo di armi, poiché tutti gli strumenti di morte sono diabolici. Il suo discorso inaugurale lascia ben sperare, se d’ora in poi le risorse sprecate in armamenti e guerre per il petrolio saranno usate per «imbrigliare l’energia del sole e dei venti e della terra per alimentare le automobili e fare funzionare le industrie». Ha detto di aver «scelto la speranza invece della paura» e dalla folla si sono levate forti grida di «Amen!». Lo ripetiamo anche noi, sapendo quale forza rivoluzionaria contiene questa parola in bocca a Dio e agli uomini di buona volontà.

Bando al sigaro … di Fidel

«Cuba non è il paradiso ma neppure l’inferno» scrive Paolo Moiola nell’ultimo numero monografico di M.C. dedicato ai diritti. Poi però, riporta la valutazione del WWF che riconosce Cuba come «il solo paese del mondo a soddisfare i criteri dello sviluppo sostenibile» (cfr. MC 10-11/08, p. 84). Verrebbe quindi voglia di dire che, almeno per quel che riguarda il diritto a un ambiente sano e pulito, il rapporto tra risorse naturali consumate e risorse naturali rigenerate, il rapporto tra livello di benessere attuale e prospettive di benessere per le future generazioni, Cuba sia avviata verso il paradiso, non verso l’inferno.
Spero, di cuore, che il WWF abbia ragione, ma qualche dubbio ce l’ho. Il più importante riguarda lo stato delle foreste cubane: se si può prestar fede all’Unione internazionale per la conservazione della natura (I.U.C.N.), «nel 1812 il 90% del territorio cubano era ricoperto dalla foresta; nel 1959 la percentuale era scesa al 14%. La situazione rimase invariata nel corso di tutti gli anni Ottanta in quanto la maggior parte delle foreste rimaste si trovavano nelle montagne. Un tempo, probabilmente, la foresta pluviale ricopriva la parte meridionale dell’isola principale, ma oggi tutto quel che resta sono due appezzamenti di foresta sui pendii e le vette della Sierra Maestra e della Sierra de Imias. Nella Sierra del Escambray sopravvivono ancora dei frammenti di foresta montana, troppo piccoli per comparire sulle carte».

Non sarà male ricordare che Cuba è stata disboscata perché gli alberi erano un ostacolo alle monocolture agrarie, ovvero tabacco e canna da zucchero e che, se è vero che la frittata era già fatta prima della vittoria di Fidel Castro, è altrettanto vero che i comunisti cubani poco o nulla hanno fatto per ridimensionare le piantagioni di tabacco e canna e far riconquistare alle foreste almeno una parte degli spazi ingiustamente perduti.
Al contrario sigari, sigarette e pipe in bocca a Fidel, al Che e agli altri «eroi della rivoluzione», continuano a recitare un ruolo importante nella mitologia comunista, e – la cosa è troppo macroscopica per essere taciuta – alimentano un business globale perché, quando si tratta di far soldi con i diari, i quadei, le agende, le bandiere e magliette recanti l’immagine dei capi rivoluzionari impegnatissimi a fumare, anche i capitalisti più reazionari guardano le cose con un’altra lente.
Non condanno nessuno, ma il WWF e le altre grandi associazioni ecologiste non possono astenersi dal prendere una posizione molto chiara contro una piaga come quella del tabagismo, che oltre a causare tanti guai alla salute (ogni anno oltre 5,5 milioni di persone nel mondo perdono la vita per malattie provocate dal fumo, attivo e passivo, in Italia siamo tra le 80-90 mila) infligge gravissime perdite al patrimonio naturalistico di un gran numero di paesi.

Quindi se da una parte prendo atto degli sforzi fatti in questi ultimi anni da L’Avana contro il vizio del fumo e mi auguro con Moiola e Galeano, che Cuba somigli sempre più al paradiso e sempre meno all’inferno, dall’altra vorrei invitare a non sottovalutare i risvolti che la battaglia antifumo ha nella difesa delle foreste e della biodiversità. Perché se a Cuba le piantagioni di tabacco hanno provocato in passato l’estinzione totale di non poche specie vegetali e animali, oggi in Asia, Africa e America Latina sono corresponsabili della scomparsa delle foreste naturali, oltre che dello sfacelo dell’economia, dell’indebolimento del tessuto sociale, della perdita di tanti diritti e tante prospettive per il futuro.

Domenico di Roberto
Ancona




Buonismo o cattivismo?

Pare non esistere più oggi la consapevolezza di dover adattare il linguaggio che si usa alla carica che si riveste. Le parole hanno una carica semantica enorme. Ogni vocabolo si trasforma nel sottile spazio di una sfumatura da generoso complimento a coltellata in mezzo alle spalle, da leggero flatus vocis a macigno dal peso insostenibile. Anche il tempo, oltre che il luogo, dovrebbe suggerire prudenza nell’uso delle parole che vengono pronunciate, tanto nelle private conversazioni, quanto e soprattutto nella pubblica arena.
Ecco allora che, al sentir dire al nostro ministro degli interni, onorevole Maroni,  che non bisogna essere buonisti, ma cattivi per contrastare l’immigrazione clandestina, viene da pensare che questa consapevolezza non fa ancora parte del bagaglio di tutti. Frasi ad effetto come questa sembrano dettate dalla volontà di strumentalizzare politicamente fatti di cronaca come quelli che ultimamente hanno scosso l’opinione pubblica.
No, non si chiede di essere cattivi con chicchessia, tanto meno allo stato nelle cui mani poniamo il nostro bisogno di sicurezza; si chiede soltanto, semmai, di essere giusti. Giusti nel condannare e garantire la certezza della pena a chiunque risulti essere coinvolto in fatti criminali, venga da dove venga, con o senza permesso di soggiorno. Giusti, però, nel ricordare anche alcuni dati che troppe volte giacciono dimenticati nei cassetti di tante redazioni giornalistiche e di tante scrivanie di Montecitorio.

La percentuale dei crimini commessi da italiani e da stranieri che hanno regolato la loro posizione è pressoché uguale. Il problema riguarda appunto gli immigrati clandestini a cui vanno attribuiti i 4/5 dei crimini commessi da stranieri presenti sul nostro territorio.

Ora, la maggior parte degli stranieri che emigrano clandestinamente o si rendono clandestini una volta arrivati a destinazione non lo fanno generalmente per venire a delinquere, ma per guadagnarsi una possibilità alternativa di vita. Bisognerebbe forse, allora, facilitare burocraticamente la regolarizzazione di persone che sono già in Italia e che avrebbero maggior possibilità di lavorare, produrrebbero reddito e pagherebbero anche volentieri le tasse, se si desse loro la possibilità di dormire tranquilli la sera, senza il timore di essere sbattuti fuori dal paese. Oggi, ci ricorda l’ultima edizione del Dossier Caritas/Migrantes, la stima del gettito fiscale annuale degli immigranti si avvicina ai 4 miliardi di Euro. Gli interventi di assistenza in loro favore non raggiunge invece la quarta parte di quanto versato all’erario. Forse con una legge diversa da quella in vigore, meno «cattiva» e più giusta, si potrebbero mettere basi alternative a un fenomeno che nessuno può arrestare.

Se questo è buonismo, allora meglio il buonismo del «cattivismo». La giustizia e il buon senso, comunque, sono ancora un’altra cosa.

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli