Degli zingari si può anche parlare bene

«Il viaggio musicale dei Gitani» al MITO Settembre Musica 2008

A Milano, dal 7 al 12 settembre, la seconda edizione del MITO (Festival Internazionale della musica organizzato dai comuni di Milano e Torino) ha dato risalto alla cultura dei Gitani, con un «viaggio musicale» dal Rajasthan all’Andalusia, passando per Pakistan, Iran, Turchia, Balcani. Un’occasione per superare pregiudizi e stereotipi verso un popolo affascinante per la sua storia e cultura millenaria. 

Non è usuale per una rivista missionaria occuparsi di musica, in particolare di una manifestazione in prevalenza dedicata alla musica «classica». Pur a distanza di tempo, diventa quasi un obbligo farlo quando, nell’ambito di essa, si colgono aspetti che la rendono interessante anche oltre lo specifico valore musicale.
Il riferimento è alla seconda edizione di «MITO Settembre Musica, il Festival Internazionale che, dal 2007, vede l’esperienza trentennale della storica rassegna torinese estendersi al capoluogo lombardo e ad altre importanti città attorno alle due metropoli. Quasi un intero mese di spettacoli che ha proposto oltre 230 eventi di musica – classica, contemporanea, jazz, pop, rock, etnica -, rassegne cinematografiche, incontri di «arte e musica», cicli monografici. È stato appunto uno di questi ultimi, il «Viaggio musicale dei Gitani» a offrirci lo spunto per scriverne su Missioni Consolata.
Pur ponendosi l’obiettivo di coinvolgere un pubblico più ampio rispetto a quello che usualmente frequenta le sale da concerto, il MITO resta un festival di musica colta che, per lo più, si svolge in prestigiosi teatri quali la Scala e gli Arcimboldi di Milano o il Regio e l’Auditorium Rai di Torino; frequenta Conservatori, storici circoli dove si fa cultura, luoghi ricchi di arte e architetture monumentali; e non trascura il sacro di chiese e basiliche che offrono a credenti e non credenti momenti di significativa elevazione spirituale.
Si tratta evidentemente di un contesto che appare quanto di più lontano possa esistere dalla realtà di vicende drammaticamente tragiche e di quotidiana disperazione di vita ai margini delle nostre città, che i media ogni giorno, continuamente, descrivono quando si occupano di coloro che, semplificando, chiamiamo «zingari».
Sia chiaro, nessuno nega i problemi e le difficoltà che il porsi in relazione con queste persone presenta, né in questa sede si vogliono commentare in alcun modo i provvedimenti presi dalle autorità o quelli che si vorrebbe prendessero.
Tuttavia, il fatto che nell’ambito di un festival con le caratteristiche descritte fosse ospitata, non marginalmente ma, anzi, promossa come una rassegna di rilievo, un’intera settimana dedicata a questo particolare viaggio musicale, ci è parsa già di per sé una notizia degna di rilievo.
Un’occasione per parlare dei popoli nomadi anche in positivo. Non per nulla la musica è, forse, il linguaggio umano che più accomuna e commuove; anche nel senso letterale di «muovere con», predisponendo ragione ed emozione al rapporto con l’altro.

Così è stato oltremodo significativo che, nella stessa manifestazione, sui cui palchi si sono avvicendate grandi orchestre inteazionali come la London Symphony e l’Orchestre National de France, ad aprire la sezione del «Viaggio musicale dei Gitani» sia stata, nel salone d’onore della Triennale di Milano, proprio la «Banda del villaggio solidale».
È, quest’ultima, un gruppo musicale costituitosi nell’ambito della milanese Casa della Carità: istituzione voluta dal cardinal Martini, per aiutare le persone in difficoltà a superare la propria condizione di disagio. Don Virginio Colmegna, presidente dell’omonima fondazione che la sostiene, ricordando il migliaio di persone di 80 nazionalità accolte dalla struttura in un triennio, ha presentato l’ensemble definendolo: concreta manifestazione di un operare che vuole promuovere e far crescere l’espressione culturale dei diversi mondi ospitati; nella convinzione che dando visibilità alle rappresentazioni artistiche e musicali delle culture immigrate si possa aumentare il livello di comunicazione positiva e favorire la coesione sociale.

Le foto pubblicate in queste pagine descrivono perciò un viaggio sonoro, cominciato con saltimbanchi, musicisti e danzatrici appartenenti alle ultime caste erranti del Rajasthan (India del nord) e origine stessa del popolo Rom; gente che ha conosciuto lo scintillio delle pietre preziose di antichi palazzi come la ruvidezza delle rocce del deserto.
Un viaggio proseguito con i Gitani che hanno attraversato il Medio Oriente per arrivare fino in Tunisia. Fra questi, quelli dell’Alto Egitto tuttora tramandano nella musica l’epopea del mondo beduino del x secolo; in Turchia, invece, sono maestri di clarinetto e a loro si deve la conservazione del repertorio festivo e virtuosistico delle danze regionali, oltre all’aver posto il loro strumento in posizione preminente in tutti i Balcani.

La terza tappa ha ricondotto il pubblico in Asia, con artisti arrivati dalle montagne di Pakistan e Afghanistan, che hanno portato al MITO la loro tradizione millenaria (risalente al 4.000 a.C.), mostrandone anche le somiglianze con quelle dell’antica Grecia evidenziate, ad esempio, nel comune uso del flauto a due canne.
I contributi dall’Europa sono, invece, venuti in primo luogo da due tradizioni della Romania. Quella dei discendenti delle famiglie di «ursari» (ammaestratori di orsi) superstiti all’olocausto e alle persecuzioni della polizia comunista, che si esibiscono nel canto accompagnato da percussioni rudimentali e dal ballo delle donne che fanno roteare gonne e scialli coloratissimi.
E quella dei «lăutari», i migliori musicisti popolari di Romania. Fino alla metà del xix secolo essi erano schiavi del principe regnante, raccolti in corporazioni professionali fondate nel xvii secolo; oggi vedono rinascere l’interesse del pubblico per la loro musica, i cui stili si adattavano alla realtà storica e ambientale dei gruppi sociali cui era destinata: contadini, operai, intellettuali…
Immancabile è poi stato il passaggio attraverso l’icona della donna gitana nella musica colta occidentale: principalmente identificata nel mito della Carmen di Bizet, ma presente, affascinante e ambigua, anche in Verdi, Brahms, Leoncavallo, Liszt… fino alla grazia del chitarrista Django Reinhardt, che sedusse la Francia degli anni Trenta.
Il «Viaggio musicale dei Gitani» non poteva, infine, che concludersi con la chitarra flamenca e il cante jondo (canto profondo) che, partiti dai locali e dai porti di Siviglia, Cadice e Jerez de la Frontera negli anni ’40 del 1800, e pur restando fedeli alla tradizione, continuano però a evolversi, conservando la capacità, descritta da Federico Garcia Lorca, di trasportare il pubblico sul margine dell’abisso.
Una ricchezza dunque, quella qui tratteggiata, seppur sinteticamente, che merita di essere più conosciuta, perché il nostro giudizio su un popolo e sulla sua cultura, pur non disconoscendo le difficoltà che sono reali, non sia limitato a stereotipi negativi. 

Di Giovanni Guzzi

Giovanni Guzzi




Contaminazione (profonda)

L’acqua, un bene vitale in grave pericolo

Contaminazione da nitrati e fitofarmaci, ma anche da arsenico, cromo, materiali radioattivi: le acque di falda sono in grave pericolo. Esse rappresentano il 50% del totale, ma in Italia il 28% di esse risulta ormai contaminato. Nonostante l’inadeguatezza dei controlli, i casi di inquinamento sono all’ordine del giorno. Per capire la gravità del problema, va ricordato che l’acqua dolce non è una risorsa illimitata. Spetta ai cittadini aprire gli occhi ed agire di conseguenza. 

Nell’articolo precedente (MC, settembre 2008) ci siamo occupati dell’inquinamento, che contamina buona parte dei fiumi della terra. In questa puntata, vedremo invece come anche le falde idriche sotterranee non stiano affatto bene di salute, anzi in certi casi la situazione è oltremodo drammatica. Ricordiamo che, in Italia, le acque di falda rappresentano il 50% del totale (che è di 70 miliardi di m³) delle acque foite annualmente dagli acquedotti nazionali, mentre il 15% proviene dai corsi d’acqua superficiali e il 35% dalle sorgenti.
A livello mondiale, le falde idriche profonde racchiudono circa 45.000 km³ di acqua, proveniente  dalle precipitazioni atmosferiche e a loro è affidata una importante funzione di riserva. 
L’infiltrazione d’acqua nel sottosuolo dipende dalla consistenza del terreno, ma anche dal grado della sua cementificazione, che è senz’altro un fattore limitante. Il tempo per il riciclo delle falde è lunghissimo, circa 1.400 anni, contro i 20 giorni dei fiumi. È evidente che la percolazione di sostanze inquinanti nelle falde può ridurre drasticamente la disponibilità di acqua, oltre che compromettere pericolosamente la salute di milioni di persone. Purtroppo, le capacità autodepuratrici degli ecosistemi acquatici sono diventate spesso insufficienti, a causa della contaminazione sempre maggiore di sostanze poco o per nulla biodegradabili.
In Italia, secondo i dati foiti dall’Apat (Agenzia per la protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici), relativi all’ultimo triennio, il 28% delle acque di falda risulta contaminato. Oltre la metà dei pozzi esaminati ha mostrato segni di compromissione, nelle nove regioni, che hanno aderito alla campagna di monitoraggio chimico. In particolare sono risultate più inquinate le falde del nord Italia, cioè delle regioni più industrializzate e dedite all’agricoltura di tipo intensivo, soprattutto per la presenza di erbicidi come l’atrazina (vietata a partire dagli anni ’80, ma tuttora presente nei terreni, data la sua scarsa biodegradabilità), la terbutilazina, il bentazone, utilizzato specialmente nelle risaie (quindi presente in elevata quantità nelle acque del pavese e del vercellese) e il metolaclor, utilizzato in quantità industriale nelle grandi distese di mais dell’area padano-veneta.

L’invasione dei nitrati

 Il problema dell’inquinamento delle acque di falda con prodotti fitosanitari è duplice, poiché, se da un lato l’uso di tali prodotti è inquinante per le falde, dall’altro si rischia di avere la compromissione della qualità dei prodotti agricoli, come conseguenza dell’irrigazione con acque di falda contaminate.
In Piemonte, l’inquinamento delle falde da fitofarmaci è in costante aumento dal 2000 e attualmente oltre un quarto dei campioni relativi alle falde superficiali risulta contaminato, come il 7% dei campioni relativi alle falde profonde (è stata riscontrata la presenza di 18 principi attivi, su un totale di 60 molecole ricercate); in particolare risulta contaminato il 60% dei campioni esaminati, in provincia di Vercelli e il 10% in provincia di Cuneo.
Questo fatto induce a pensare che non tutti gli agricoltori rispettino la normativa regionale e nazionale circa il divieto di utilizzo di determinate sostanze, come atrazina e bentazone, altamente dannose per la salute umana. Oltre alle sostanze suddette, un gravissimo problema per le acque di falda è rappresentato dalla presenza di nitrati, che in molti casi (talvolta anche nell’acqua potabile) arrivano a superare i limiti di legge, fissati in 50 mg/l. I nitrati derivano dai fertilizzanti azotati, dai reflui dei grandi allevamenti e dagli scarichi civili non opportunamente depurati e in alcune aree, come la pianura padana, caratterizzata da agricoltura e allevamenti intensivi, essi raggiungono livelli record d’inquinamento. Questo problema è molto esteso in Europa, di conseguenza la Commissione europea ha emanato una direttiva in materia (Direttiva nitrati 91/676).
Alla contaminazione da composti azotati contribuiscono anche le piogge acide, che riportano al suolo e alle acque i contaminanti dispersi nell’atmosfera. In Italia si sono avuti gravi casi di contaminazione da nitrati in Piemonte, Lombardia, Toscana, Marche e Campania. Emblematico è il caso di Fano (Ancona), rifoita per anni con acqua potabile, in cui sono stati riscontrati livelli di nitrati fino a 150 mg/l. I danni da nitrati sono conosciuti fino dal 1945, quando è stato riportato, per la prima volta, su Jama un caso letale di intossicazione.
In particolare un’alta concentrazione di nitrati nell’acqua rappresenta un grave problema per i lattanti, soprattutto nei primi tre mesi di vita, poiché i nitrati, a opera della flora batterica intestinale, si trasformano in nitriti, che vengono assimilati e sono in grado di alterare l’emoglobina, con conseguente difficoltà di trasporto dell’ossigeno ai tessuti. I nitrati possono peraltro causare seri danni anche nella popolazione adulta, poiché i nitriti, da essi derivanti, possono formare nitrosamine, specialmente a livello dello stomaco, per reazione con amine secondarie di origine alimentare e alcune di queste sostanze sono dei potenti cancerogeni. In particolare, degli studi condotti in Danimarca, Inghilterra, Ungheria, Italia, Cile, Colombia e Cina hanno associato l’esposizione ai nitrati con una maggiore frequenza dei tumori gastrici.

«Di tutto, di più»…
nelle nostre acque

Oltre ai fitofarmaci e ai nitrati, nelle acque di falda italiane si trovano, spesso in quantità di molto superiori ai limiti di legge, sostanze residue di attività industriali di vario genere. In questi casi, le cause di contaminazione sono legate sia alle acque di processo, che a quelle di raffreddamento degli impianti.
È particolarmente pesante l’impatto ambientale dell’industria chimica, dove gli inquinanti presenti nelle acque di processo variano, a seconda del tipo di produzione; ad esempio, gli effluenti della produzione di detersivi sono contaminati da tensioattivi e da fosfati, quelli delle resine sintetiche da solventi e da sostanze organiche, mentre quelli dell’industria degli inorganici di base contengono metalli pesanti. Altri settori, che vanno dalla siderurgia all’industria alimentare, possono contribuire in diverso modo all’inquinamento delle acque. Ad esempio le sostanze adoperate per la sterilizzazione dei cibi possono agire come inibitori, nei processi di biodegradazione dei sistemi acquatici.
Molto spesso le cause di contaminazione chimica delle falde sono correlate con lo smaltimento sul suolo o nel sottosuolo degli scarichi industriali, effettuato in modo abusivo, o in mancanza di collettori idonei. Negli ultimi anni i casi più gravi d’inquinamento industriale delle falde si sono avuti per perdita di liquidi dagli impianti stessi, o da serbatorni interrati, oppure da rifiuti sepolti nel sottosuolo. Vale la pena di ricordare alcuni casi di gravissimo inquinamento ambientale, che si sono verificati in Italia negli ultimi anni. In Maremma, nella provincia di Grosseto 22 siti, corrispondenti a circa 300 ettari, sono stati contaminati da arsenico e da mercurio, finiti nei pozzi dell’acqua potabile, mentre polveri di pirite, piombo, cadmio e manganese sono stati accumulati nei terreni coltivabili (Corriere della Sera, 12/05/2001).

Le attività dell’Eni:
chi inquina, non paga

Queste sostanze derivano dall’attività di industrie, come l’Eni e la Tioxide, produttrice di biossido di titanio. Oltre ad esse è stata rilevata la diossina proveniente dall’inceneritore di Scarlino (Grosseto), appartenente alla società «Ambiente S.p.A.» dell’Eni, entrato in funzione nel 1999 e sorto sui tre foi, in cui si arrostiva la pirite (minerale impiegato nella produzione dell’acido solforico).
La Iarc (Inteational agency for research on cancer) classifica l’arsenico come «cancerogeno di gruppo 1» e, secondo un suo studio, per valori di tale sostanza compresi tra 0,35 e 1,14 mg /l nell’acqua, è molto elevato il rischio di tumori a vescica, rene, cute, polmone, fegato e colon.
Nell’acqua di un pozzo di Scarlino è stata rilevata una concentrazione di arsenico pari a 3,3 mg/l. Sono stati avvelenati una quindicina di pozzi, che fino al 1997 hanno pescato dalle falde idriche sotterranee. I 3 pozzi, che per 25 anni hanno servito Follonica sono stati chiusi e in uno di loro il mercurio superava di 50 volte i limiti di legge. Arsenico e mercurio penetrati nelle falde della provincia di Grosseto, Argentario compreso, derivano dalla lavorazione della pirite, che prima Montedison e poi Eni hanno accumulato a cielo aperto in vere e proprie colline di rifiuti tossici, poggianti su acquitrini, come quelli del Casone e del Padule di Scarlino, dove l’acqua è ormai di tutti i colori. Qui la pirite è stata accumulata in vecchie vasche di acido solforico, che ha facilitato la cessione all’ambiente di arsenico e di mercurio, come spiega Roberto Barocci di Italia Nostra, docente di Economia e Assetto del territorio e autore di Arsenico (Stampa Alteativa).
Inoltre, la Coldiretti ha accusato l’Eni di avere ceduto gratuitamente agli agricoltori, come materiale sterile e inerte, gli scarti della lavorazione della pirite, da utilizzare nel rifacimento del fondo delle strade interpoderali. L’Eni si è sempre difesa, sostenendo che gli scarti della pirite non hanno ceduto metalli pesanti all’acqua in quantità tossica ed è stata sostenuta in tal senso dall’Arpat, secondo la quale l’arsenico e le altre sostanze in quell’area ci sono da sempre e ne costituirebbero una caratteristica geologica. Tale conclusione avrebbe evitato all’Eni i costi di bonifica.
Di diverso avviso è stato però il Pubblico ministero (Pm) di Grosseto Vincenzo Pedone, che ha decretato il sequestro dell’inceneritore di Scarlino, ha definito il degrado ambientale del comprensorio Follonica-Scarlino come «fatto notorio e addirittura eclatante, per ciò che attiene alla gravissima compromissione delle risorse idriche», ha anche constatato l’assenza di controlli pubblici e ha inviato l’avviso di garanzia al direttore e all’amministratore delegato di Ambiente S.p.A. Nel frattempo, alcune pericolose discariche dell’Eni hanno cambiato proprietà.

Dal Piemonte all’Abruzzo

Altri casi d’inquinamento delle falde sono, ad esempio, quello del rinvenimento nella falda di Aosta, nel giugno 2004, di eccedenze, rispetto ai limiti fissati dal D. Lgs. 152/99, di cromo esavalente, di fluoruri, di nichel, di solventi clorurati come tetracloroetilene e cloroformio e di solventi aromatici. Tali sostanze sono correlabili soprattutto con l’attività della Cogne Acciai Speciali di Aosta e inoltre, specialmente per la presenza in falda di ferro e manganese, con la discarica di Brissogne. Altri casi sono l’inquinamento da cromo esavalente nella falda di Asti, quello recentissimo (maggio 2008) sempre da cromo esavalente a Spinetta Marengo (Alessandria), quello da arsenico a S. Antonino di Susa (Torino).
Il caso più grave in Italia e forse in Europa è però quello dell’inquinamento delle falde di Bussi e della Val Pescara in Abruzzo, un disastro ambientale di proporzioni inimmaginabili per le potenziali conseguenze sulla salute di 500.000 cittadini, che hanno usufruito per anni dell’acqua inquinata prelevata dal campo pozzi S. Angelo di Bussi. I valori degli inquinanti tossici e cancerogeni in falda hanno raggiunto punte di 300.000 volte i limiti di legge per il cloroformio, di 420.000 volte per il tetraclorometano, di migliaia o decine di migliaia di volte per altre sostanze pericolose, tra cui mercurio, cloruro di vinile, tricloroetilene, tetracloruro di carbonio, ecc. Queste sostanze, secondo il Pm Aceto, che ha condotto l’inchiesta, al termine della quale ha inviato 33 avvisi di garanzia, sono state riversate nel fiume Pescara fino al 1963 e successivamente stipate in megadiscariche, lungo i fiumi Tirino e Pescara.
Anche in questo caso si tratta degli scarti di lavorazioni della Montedison. L’inchiesta è nata da una denuncia del WWF, basata sui referti di analisi condotte e pagate privatamente da tale associazione, già nel 1997 (ripetute nel 2007) e seguite da analisi dell’Arta nel 2004, a seguito delle quali i pozzi S. Angelo, che servivano l’area metropolitana di Chieti-Pescara, sono stati chiusi nel 2005 e riaperti parzialmente nel 2007, dopo l’utilizzo di filtri a carbone attivo (tali pozzi, a monte dei quali si trova una grande industria chimica, erano attivi dal 1990).
La vicenda è resa ancora più grave, se possibile, dal fatto che l’Istituto superiore di Sanità aveva espresso un parere, in cui dichiarava le acque emunte da questi pozzi come «non idonee al consumo umano»; ma, secondo il pm Aceto, nessun sindaco o amministratore e nemmeno la Direzione sanitaria dell’Asl hanno reagito con la dovuta fermezza; anzi, quest’ultima ha appoggiato in pieno l’operato del responsabile del Sian (Servizio igiene alimenti e nutrizione) dell’Asl, ora indagato.
Peraltro, secondo il magistrato, i responsabili della Montedison erano a conoscenza dell’inquinamento delle falde e delle conseguenze sui pozzi destinati all’acquedotto già dal 1992. I 33 avvisi di garanzia sono stati emessi nel maggio 2008.

Contaminazione
radioattiva? Presente!

In mezzo a tutti questi veleni, potevamo farci mancare una contaminazione radioattiva delle falde? No, naturalmente; infatti il 17 agosto 2006 l’assessorato all’Ambiente della regione Piemonte ha reso pubblica la contaminazione radioattiva delle falde a Saluggia, dove dall’intercapedine della piscina dell’impianto Eurex, contenente un deposito di materiali radioattivi, c’è stato un rilascio di acqua contaminata dal radionuclide Sr-90.
Peraltro, già nel giugno 2004, la Sogin (esercente dell’impianto Eurex) aveva comunicato che la piscina presentava una fuoriuscita di liquido radioattivo, con una contaminazione della parete estea della sua intercapedine di 1.000 Bq/dm².  A Saluggia gli impianti nucleari e la piscina della Eurex si trovano proprio sopra le falde acquifere, che meno di 2 Km a valle alimentano i pozzi dell’acquedotto del Monferrato, che porta l’acqua a più di cento comuni nelle province di Torino, Asti e Alessandria.
Va detto che, per incidenti di questo tipo, siamo in buona compagnia. In Francia, infatti, nel maggio 2006 è stata rilevata radioattività nelle falde acquifere della Normandia 7 volte superiore al limite imposto da una legge europea di 100 Bq/l. In questa zona è stato costituito un deposito di rifiuti radioattivi provenienti dalle 58 centrali nucleari francesi, ma anche dalla Germania, Olanda, Belgio, dal Giappone, Svizzera e Svezia (nonostante sia illegale per la legge francese stoccare materiali radioattivi provenienti dall’estero).
L’acqua della falda è risultata contaminata da trizio, che è un indicatore di futura contaminazione da altri radionuclidi, come stronzio, cesio e plutonio, sostanze cioè sicuramente cancerogene.
È invece di quest’anno, luglio 2008, l’incidente francese di Tricastin, dove sono stati registrati anomali valori di uranio nell’acqua di falda. Secondo la Criirad (Commissione di ricerca e di informazione indipendente sulla radioattività), tale contaminazione è da attribuire, più che all’incidente occorso all’impianto di Tricastin, alla presenza di materiale radioattivo di una precedente installazione militare, che aveva funzionato in quella zona tra il 1964 e il 1996 per la produzione di armi atomiche, grazie all’arricchimento dell’uranio. I residui della lavorazione vennero interrati, senza particolari precauzioni e l’acqua piovana ha potuto scorrere a contatto delle scorie, disperdendo l’uranio nel terreno. La fuoriuscita di uranio nella falda di Tricastin ammonta a 74 Kg.

Occhio alle acque minerali

A leggere cose come queste, si potrebbe pensare che forse è meglio bere acqua minerale, anziché del rubinetto, ma prima di farlo, è bene considerare il fatto che esiste un decreto legge del 29/12/2003, dell’allora ministro della Salute Sirchia, sulle acque minerali, il quale ha introdotto una soglia di tolleranza per svariate sostanze tossiche ad alto rischio.
Le aziende produttrici di acque minerali possono così immettere sul mercato dei prodotti, che prima sarebbero stati fuorilegge e che contrastano con le normative europee. In pratica, grazie a questo decreto esiste una lunga lista di sostanze, tra cui tensioattivi, oli minerali, antiparassitari, policlorobifenili, idrocarburi, ecc., per le quali, al di sotto della soglia di rilevabilità strumentale, le aziende produttrici possono continuare a dichiarare come esenti da ogni tipo d’inquinamento le acque minerali che producono.
Nel giugno 2003, la procura di Torino avviò un’inchiesta, da cui emerse che 23 delle 28 marche di acqua minerale analizzate non rispettavano l’obbligo di legge di essere completamente prive delle sostanze tossiche suddette; successivamente il numero delle marche non in regola è salito a 86.
La differenza tra le quantità di sostanze ammesse per le acque minerali, rispetto all’acqua potabile, è dovuta al fatto che le minerali vengono considerate «bevande», come il vino ad esempio, e quindi sono soggette a una normativa meno restrittiva, di quella per l’acqua potabile. Se consideriamo la possibile contaminazione da piombo, il valore soglia del vino è molto superiore a quello dell’acqua potabile, perché si ritiene che il consumo quotidiano della bevanda vino debba essere decisamente inferiore a quello dell’acqua. Così vengono messe in vendita acque contaminate «a norma di legge».

Inquinamento naturale
da fluoruri e da arsenico

Esistono, inoltre, in parecchie aree geografiche della terra, dei casi d’inquinamento delle falde, talora anche per cause naturali e non solo antropiche, che hanno portato milioni di persone in condizioni di salute drammatiche. Si tratta delle contaminazioni delle falde da fluoruri e da arsenico.
L’inquinamento da fluoruri ha determinato la comparsa di fluorosi scheletrica, una malattia che danneggia soprattutto gli arti in crescita e che può arrivare a compromettere anche la spina dorsale e il sistema nervoso, in milioni di bambini in India, ma anche in Cina, in Niger, in Etiopia, laddove cioè sono state installate pompe manuali nei villaggi, per fornire alle popolazioni acqua sicura, cioè non contaminata, come le acque superficiali, da coliformi e da altri agenti patogeni responsabili di gravissimi casi di colera, tifo e diarrea.
I fluoruri sono sostanze normalmente presenti nelle rocce granitiche del sottosuolo di gran parte dell’India e di altre aree geografiche e possono sciogliersi lentamente nelle acque di falda, senza peraltro allontanarsi molto dallo strato granitico. Ciò significa che risultano contaminate solo le acque dei pozzi profondi, mentre quelle dei pozzi superficiali risultano pulite.
Purtroppo, però, i continui prelievi d’acqua, alla lunga determinano un abbassamento delle falde e la necessità di scavare pozzi più profondi.
L’inquinamento più grave è però quello da arsenico, che ha provocato quello che dall’Oms viene definito «il più grave avvelenamento della storia dell’umanità», che riguarda soprattutto il Bangladesh e il delta del Gange. A causa di tale avvelenamento, il futuro della popolazione del Bangladesh è gravemente compromesso.
Ma l’arsenico ha colpito anche altre zone del delta del Gange, come il Bengala occidentale in India e parte del sud del Nepal. Questo problema è presente anche nelle falde di Argentina, Cile, Messico, Cina, Vietnam, Taiwan, Nepal, Myanmar, Cambogia, Ungheria, Romania e di parecchie zone del sud-ovest degli Stati Uniti.
In Bangladesh, negli anni ’70, per limitare i casi di dissenteria e di colera, l’Unicef ha promosso la diffusione di pompe manuali a tubo, che nel giro di pochi anni sono diventate sempre più numerose. Negli stessi anni iniziava la cosiddetta rivoluzione verde, cioè un programma di agricoltura intensiva, soprattutto di riso, leguminose e ortaggi vari, che ha comportato l’uso di grandi quantità di fertilizzanti e pesticidi, nonché di acqua. L’acqua estratta dalle pompe, molto spesso contaminata da arsenico, viene utilizzata in grande quantità a scopo irriguo, per cui questo minerale entra nella catena alimentare.
Di solito i primi sintomi dell’avvelenamento cronico da arsenico si avvertono dopo una decina di anni di esposizione e si manifestano soprattutto come ipercheratosi, disturbi cardiovascolari e circolatori, tumori polmonari, renali, epatici, ma soprattutto cutanei. L’avvelenamento acuto si manifesta invece con i sintomi di una forte gastroenterite.
Si calcola che, attualmente, muoiano circa 3.000 persone all’anno, tra coloro che hanno ingerito per anni acqua e cibi contaminati, ma sarebbero almeno 65 milioni le persone esposte a rischio e 200.000 coloro che presentano i sintomi dell’arsenicosi.
Le prime tracce di arsenico nelle falde del Bangladesh sono state rilevate nel 1993, ma solo dal 1995 è iniziata l’analisi sistematica dei pozzi, un ventennio dopo la posa delle prime pompe a tubo. Queste ultime sarebbero fortemente responsabili di questa situazione, perché altererebbero le condizioni redox del terreno, favorendo il rilascio di arsenico. Purtroppo, per anni non vennero effettuate accurate analisi dell’acqua estratta dalle pompe, cioè in pratica l’arsenico non veniva cercato, e ciò ha portato all’avvelenamento silenzioso di milioni di persone.
Attualmente esiste una diatriba tra scienziati, circa l’origine di tale avvelenamento. In pratica ci sono scienziati, che sostengono l’origine esclusivamente naturale dell’arsenico nel terreno: secondo costoro il minerale si sarebbe formato nelle rocce della catena himalayana, da cui nasce il Gange e sarebbe stato trascinato a valle, fino al delta, dove verrebbe estratto dalle pompe. Questa tesi, in qualche modo, assolve l’operato delle multinazionali e dell’Unicef.
Secondo gli scienziati indiani, invece, la quantità eccessiva di arsenico nel terreno sarebbe strettamente correlata all’uso massiccio di fitofarmaci, indispensabili per la coltivazione intensiva del riso, in quanto è stata osservata una correlazione tra arsenico e fertilizzanti organo fosforici.
La prima tesi è il frutto di ricerche condotte dalla British Geological Survey e dalla McDoland Ltd (Regno Unito); tali ricerche sono state finanziate dalle agenzie inteazionali e dalle multinazionali, che hanno una possibile responsabilità nell’avvelenamento da arsenico, per cui il loro risultato potrebbe essere viziato.
È vero che l’arsenico è un elemento naturale, che può trovarsi in discreta quantità, ad esempio sotto forma di arseniopirite, in certe aree geografiche, ma secondo i geologi indiani, nel delta del Gange non esiste una quantità di arseniopirite tale da giustificare un avvelenamento di così vaste proporzioni.
Una certa esperienza nel campo della ricerca ci porta a pensare che sia più corretta la tesi degli scienziati indiani. Tra l’altro uno studio condotto al Massachusetts Institute of Technology (Mit) da Charles F. Harvey, docente di ingegneria civile e ambientale, è giunto alla conclusione che le pompe a tubo alterano in modo drammatico il flusso delle acque sotterranee, modificando la chimica delle falde e determinando il rilascio di arsenico, a seguito della degradazione microbica del carbonio organico, trascinato nelle falde dalle stesse pompe.

Il dovere di «aprire gli occhi»

Dai casi d’inquinamento delle falde appena visti appare chiaro che quasi sempre ci si dimentica che il sistema dell’acqua dolce è un sistema chiuso. L’acqua dolce non è illimitata, quindi non ci si può permettere di renderla in parte inutilizzabile, perché inquinata. Non possiamo lasciare un’eredità così pesante alle generazioni future.
Soprattutto non possiamo dimenticare che l’acqua fa parte di noi, di tutti noi, quindi è inaccettabile che per il profitto di qualcuno, tantissimi si ritrovino a fronteggiare situazioni estreme. E non è accettabile che chi deve controllare chiuda gli occhi, davanti a disastri, come quelli appena visti. O che chi deve fare ricerca non ricerchi la verità, ma un modo per sollevare da ogni responsabilità coloro, a cui ha deciso di asservirsi. 

Di Roberto Topino e Rosanna Novara


GLOSSARIO

Arta: Agenzia Regionale per la Tutela dell’Ambiente.

Atrazina: è un principio attivo usato come erbicida, appartenente alla classe delle cloro tiazine. È adatto al diserbo principalmente di mais, sorgo e canna da zucchero. Presenta elevata persistenza ambientale, con conseguente rinvenimento nelle acque superficiali e di falda. È assai poco biodegradabile. In Italia ed in altri Paesi europei, il suo uso è proibito dal 1992, data la sua possibile azione cancerogena.

Bentazone: è un erbicida, che inibisce la fotosintesi clorofilliana, causando la deplezione delle riserve di carboidrati e la perdita dell’integrità della membrana dei cloroplasti (organuli cellulari deputati alla fotosintesi clorofilliana).

Bequerel: unità di misura dell’attività di una sostanza radioattiva.

Biossido di titanio: per il suo elevato potere coprente e la sua grande inerzia chimica, è attualmente il prodotto più impiegato come pigmento bianco (bianco di titanio) nelle pitture e veici, nella carta, nei laminati plastici, nelle fibre tessili, nella gomma, nei prodotti ceramici, negli inchiostri e nei cosmetici.

Cesio: alcuni suoi isotopi radioattivi si formano nelle reazioni di fissione nucleare e sono probabilmente pericolosi, perché vengono fissati dagli organismi vegetali ed animali. Nell’incidente di Cheobyl del 1986 è stato uno dei principali responsabili della contaminazione radioattiva.

Coliformi: sono un gruppo di microorganismi a forma di bastoncello, gramnegativi, aerobi ed anaerobi facoltativi, non sporigeni, che fermentano il lattosio, con produzione di gas e di acido. I coliformi fecali di origine umana sono delle Enterobatteriacee. Essi rappresentano un indubbio indice di contaminazione delle acque. Tra questi batteri sono comprese le Salmonelle, che sono delle Enterobatteriacee responsabili di malattie infettive di tipo gastroenterico, oltre che, in alcuni casi, di malattie setticemiche a sede extraintestinale.

Cromo esavalente: i composti, da esso derivati, hanno largo impiego nella produzione di veici, vetri, ceramiche ed inoltre nella concia delle pelli, nell’industria tessile, per la colorazione dei tessuti, nella preparazione di diversi prodotti chimici e nei trattamenti di superficie di metalli meno nobili (cromatura) per le sue proprietà antiruggine. La maggior parte dei composti del cromo presenta una tossicità relativamente elevata per tutti gli organismi viventi.

Fluoruri: composti del fluoro con metalli e non-metalli. Nel primo caso si possono considerare sali dell’acido fluoridrico, come il fluoruro d’alluminio, usato nella raffinazione dell’alluminio. I fluoruri con i non-metalli comprendono una serie di composti molto reattivi, che il fluoro forma con gli altri alogeni, con il boro e con il silicio.

Fosfati: sali degli acidi fosforici. Sono degli ottimi concimi, poiché il fosforo costituisce un elemento essenziale per lo sviluppo delle piante.

Ipercheratosi: abnorme aumento dello spessore dello strato coeo dell’epidermide, in alcune zone della cute. Può essere causato da diversi fattori, tra cui l’azione dei raggi ultravioletti. In questo caso si parla di cheratosi attinica, che è una precancerosi.

Metolaclor: principio attivo di protezione del mais, efficace soprattutto contro le infestazioni da graminacee.

Nitrati e nitriti: sali dell’acido nitrico solubili in acqua, ossidanti allo stato fuso, ma non in soluzione acquosa. I nitrati dei metalli alcalini, a temperature elevate perdono ossigeno, trasformandosi in nitriti. Il nitrato di sodio è il componente principale del nitro del Cile, che era l’unica fonte di fertilizzanti azotati prima della diffusione dei concimi chimici sintetici. Il nitrato d’ammonio ed il nitrato di calcio sono impiegati come fertilizzanti azotati. Il nitrato d’argento è impiegato in chimica analitica, per riconoscere e dosare gli alogeni. Il nitrato di potassio o salnitro è usato nella polvere da sparo, nella fabbricazione dei fiammiferi e dei fuochi d’artificio.

Nitrosamine: nitrosoderivati con attività carcinogenetica per l’uomo, in cui agiscono sia per inalazione, che per ingestione. Sembra accertato che i nitrosoderivati si formano nell’organismo, attraverso il metabolismo di nitroderivati e di ammine.

Plutonio: è un metallo notevolmente reattivo, come l’uranio. Il biossido di plutonio è impiegato come combustibile nucleare, in miscela con il biossido di uranio. Allo stato elementare è particolarmente adatto come materiale fissile, per armi nucleari.

Redox: abbreviazione di ossido-riduzione; si tratta di una reazione,in cui avvengono in contemporanea l’ossidazione di un composto e la riduzione di un altro. Il primo composto, cioè, acquisisce elettroni, mentre il secondo li cede.

Solventi aromatici: solventi contenenti nella loro molecola degli anelli aromatici a 6 atomi di carbonio. Hanno un caratteristico odore (da cui il nome) e sono cancerogeni. Tra loro abbiamo il benzene, il toluene e lo xilene, comunemente definiti benzolo, toluolo e xilolo.

Sr-90 o stronzio-90: isotopo radioattivo dello stronzio. Si forma nelle esplosioni nucleari e, attraverso la catena alimentare, può entrare nell’organismo umano, dove tende a fissarsi nelle ossa e nei denti, causando l’insorgenza di gravissime malattie da radiazione. Trova applicazioni come tracciante in medicina ed in biologia.

Tensioattivi: sostanze che, sciolte in piccola quantità in soluzioni acquose, ne diminuiscono la tensione superficiale, aumentandone il potere bagnante. Come conseguenza si ha un aumento delle proprietà schiumogene, detergenti, emulsionanti, disperdenti e della capacità di penetrazione in materiali porosi delle soluzioni acquose contenenti tensioattivi.

Terbutilazina: diserbante utilizzato sul mais. È un «non classificato» per i rischi umani, ma è stata documentata la sua incidenza sui tumori mammari dei topi. È altamente tossico per gli organismi acquatici quindi, a lungo termine, può avere effetti negativi sull’ambiente acquatico.

Trizio: isotopo radioattivo dell’idrogeno, che presenta un nucleo con un protone e due elettroni. Si forma in quantità più o meno rilevanti in tutti gli impianti nucleari, sia durante la fissione dell’uranio, sia nei reattori raffreddati ad acqua pesante, in seguito all’irraggiamento neutronico del deuterio. Può dare origine a diverse reazioni nucleari, sfruttabili per ottenere energia termonucleare, in modo controllato. Può essere usato in chimica, medicina e biologia, come tracciante radioattivo.

 

Roberto Topino e Rosanna Novara




Non solo corano

Cosa succede nelle scuole coraniche

Affidati da piccoli al «Maestro» imparano a memoria il libro sacro. Ma non solo.  La daara è una scuola di vita e di formazione integrale. Si insegnano valori come l’umiltà,  la solidarietà e la convivenza pacifica. Ma quando il Maestro si trasferisce in città i rischi di sfruttamento e di mendicità sono elevati. Non bisogna generalizzare.

Lo studio del «libro santo», il Corano, permette ai fedeli musulmani di orientarsi nel mondo e di conoscere la loro missione terrena, perché: «La parola di Dio è l’architettura del mondo, è il mondo stesso».
Le tre strutture fondamentali nella trasmissione del sapere religioso contenuto nel Corano sono: le moschee, all’interno delle quali secondo la tradizione profetica è sempre prevista una zona dedicata all’educazione dei fedeli; le associazioni religiose (dahira); le scuole coraniche.
Nelle prime due il maestro riunisce attorno a sé i discepoli adulti e celebra e commenta alcuni passaggi dei testi fondamentali della religione islamica: il Corano, la Sunna e i testi delle scienze islamiche.
Le scuole coraniche, invece, hanno lo scopo di formare i giovani allievi (generalmente di età compresa fra i 5 e i 15 anni) sia da un punto di vista morale che conoscitivo, per forgiare uomini e donne al servizio di Dio e delle sue leggi. L’Islam propone un’educazione omogenea del corpo e dello spirito, in coerenza con i dettami della religione. Per questo motivo l’insegnamento islamico è un processo di formazione e di trasformazione intellettuale, morale e spirituale, sulla base dei principi del Corano.
In Senegal, la scuola coranica è la daara, termine che deriva dal nome arabo dâr, che significa dimora, casa. Le famiglie affidano i bambini in tenera età a un maestro, con cui solitamente hanno legami di parentela o di conoscenza, e gli chiedono di adempiere alla formazione dei loro figli.
I maestri religiosi sono considerati tra gli esseri più vicini a Dio, perché sono le guide degli uomini sul cammino della fede. Essi godono di un riconoscimento speciale in seno alle comunità religiose e sono considerati garanti dell’armonia sociale, nel rispetto delle norme coraniche.
L’appellativo marabout (marabutto), attribuito ai maestri coranici, è originario della Mauritania e significa «uomo votato alla vita ascetica» per descrivere l’attitudine alla preghiera, allo studio e all’insegnamento che li contraddistingue.

La lingua sacra

Il bambino soggioa presso il maestro per diversi anni, durante i quali percorre le varie tappe dell’insegnamento islamico, iniziando dalla recitazione mnemonica del Libro, atto di lode a Dio, per proseguire con lo studio di tutte le altre materie religiose, come la teologia, il diritto musulmano e la tradizione profetica. La pratica corretta della religione islamica, a cominciare dall’obbligo della preghiera cinque volte al giorno, presuppone, infatti, la memorizzazione dei versi coranici e la capacità di pronunciarli correttamente in lingua araba (celebrare la parola di Dio in modo scorretto è considerato un grave sacrilegio).
Il Corano è un’opera colossale: è composto da 114 sure, raggruppate in trenta parti, ciascuna suddivisa in due porzioni, le hizb, ripartite in quarti, i rubu, articolati a loro volta in otto parti, i sumun, composte ciascuna da 17 o 18 linee. È evidente quanto sia ardua l’impresa di memorizzare integralmente tutta l’opera (necessario in passato per la rarità delle opere scritte), non solo per la quantità di versi che la compongono, ma soprattutto per la lingua in cui essa è scritta, di difficile accesso per le popolazioni non arabe.
In quanto lingua della rivelazione divina, l’arabo classico è considerato dai popoli musulmani come l’alfabeto santo per eccellenza e come tale deve essere tramandata di generazione in generazione. Essa stessa è considerata uno strumento di accesso al soprannaturale.
La sacralità della scrittura, secondo la percezione dei credenti musulmani, è confermata dalla progressiva sostituzione degli amuleti della tradizione africana con i sacchetti di cuoio contenenti un pezzo di carta con alcuni versi coranici, ma anche dalla tradizione popolare, la quale vuole che un foglio su cui siano scritti versi coranici resista alle fiamme. Il libro non può essere toccato se non dopo aver eseguito le abluzioni minori ed esso stesso viene sovente adoperato come amuleto contro la cattiva sorte.
Per quanto riguarda lo studio dei contenuti, seconda tappa nel percorso formativo, la conoscenza del «libro» permette di scoprire la ricchezza delle indicazioni divine che regolano ogni aspetto della vita dell’individuo. Non solo da un punto di vista spirituale, nel suo rapporto con l’Onnipotente, ma anche per il ruolo che egli deve svolgere all’interno della società. Il libro racchiude tutta la legislazione musulmana rispetto alle questioni religiose, giuridiche, sociali ed economiche. L’educazione coranica, in senso ampio, comprende quindi non solo la nozione di istruzione, ma anche quella di formazione dell’allievo ed è considerata fondamentale nella vita di ogni musulmano.

A scuola di semplicità

La scuola coranica in cui i giovani discepoli vengono formati si trova quasi sempre all’interno della casa del maestro. L’austerità del luogo in cui viene dispensato l’insegnamento ha radici profonde e risponde a una scelta pedagogica ben precisa, che raramente cambia al variare delle possibilità economiche del marabout. Egli educa i propri allievi sotto un semplice riparo, una tettornia o un albero, e i bambini sono seduti a gambe incrociate su stuoie di paglia, le stesse che servono come giaciglio durante la notte.
L’unico strumento di cui dispongono gli allievi, almeno per i primi anni di formazione destinati alla memorizzazione del Corano, è una tavoletta in legno su cui quotidianamente il maestro scrive i versi coranici da memorizzare nel corso della giornata.
La giornata dei taalibe (dall’arabo tâlib, ossia studente) comincia all’alba con la recita della preghiera del mattino e si conclude con la preghiera della sera.
Lo studio dei versi impegna l’allievo per diverse ore al giorno, in alternanza con le faccende domestiche e il lavoro agricolo. La distribuzione dei compiti fra gli studenti è proporzionale all’età di ognuno. Secondo la tradizione, il maestro possiede alcuni terreni coltivabili, fonti di sostegno per la sua famiglia e per tutti i suoi discepoli. Le famiglie degli allievi contribuiscono raramente e in minima parte al mantenimento dei bambini, che spetta invece al maestro stesso. Per definizione, infatti, il marabout beneficia del sostegno divino per adempiere alla sua missione e ciò rappresenta per le famiglie la garanzia più importante della buona sorte dei propri figli.
Oltre a partecipare ai lavori agricoli, i bambini lasciano la daara negli orari dei pasti per percorrere il villaggio più vicino e chiedere del cibo di casa in casa, per necessità materiale, ma al tempo stesso affinché imparino il valore dell’umiltà. L’elemosina concessa ai piccoli costituisce una partecipazione reale della comunità alla formazione religiosa dei suoi giovani membri.

Pareri a confronto

Il modello della daara tradizionale presenta elementi di forza e di debolezza. Da un punto di vista pedagogico è riconosciuta l’efficacia della metodologia adottata riguardo allo sviluppo della memoria. Infatti, gli esercizi di memorizzazione ripetuti per diversi anni sembrano avere effetti prodigiosi sulla capacità di immagazzinare informazioni. È frequente incontrare allievi delle scuole coraniche che, avendo proseguito lo studio delle scienze islamiche, riescono a ricordare migliaia di versetti in lingua araba tra quelli che compongono le opere di teologia, di diritto e di grammatica.
Tuttavia, diversi studiosi avanzano molti dubbi rispetto all’efficacia di questa metodologia educativa, soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo della capacità di rielaborazione dei concetti, inibita dalla predominanza della facoltà mnemonica su quella analitica.
Va evidenziato che molti insegnanti della scuola pubblica elementare non sono dello stesso avviso, poiché la loro esperienza dimostra che, se l’allievo ha frequentato una daara per alcuni anni prima di essere introdotto nell’insegnamento laico, ha più facilità nell’apprendimento e recupera il ritardo sul programma in tempi relativamente brevi.
Nella stessa prospettiva, molti quadri senegalesi, sia del settore pubblico che privato, riconoscono negli anni trascorsi presso il loro maestro la chiave del loro successo sociale ed economico.
Tra gli elementi di forza del sistema va segnalato, infatti, che la scelta della daara da parte delle famiglie è giustificata non solo dal desiderio di rispettare le indicazioni coraniche riguardo all’educazione dei giovani musulmani, ma anche dalla promozione sociale che questi studi assicurano. L’hafitz (colui che ha completato lo studio del Corano), nel sistema tradizionale, gode infatti di un grande prestigio sociale.
Dal punto di vista dell’educazione morale, la permanenza prolungata presso la daara (per diversi anni) vuole creare le naturali condizioni per l’assimilazione dei principi morali e delle norme sociali che il maestro e la realtà comunitaria trasmettono.

Formazione integrale

Contemporaneamente all’istruzione, il sistema educativo coranico si propone di sviluppare la personalità del bambino, stimolando lo spirito comunitario tra i taalibe della stessa daara che per anni condividono momenti di studio, di lavoro e di quotidianità. La solidarietà fra i bambini è una conseguenza naturale della convivenza prolungata in condizioni difficili, che stimolano l’unione, al fine di superare le avversità di tutti i giorni.
A questo riguardo, tuttavia, sono pertinenti le considerazioni di P. Marty sull’autonomia pedagogica del maestro coranico, dalle cui qualità personali dipende interamente l’insegnamento dei principi morali, poiché non sottomesso a controlli estei di strutture superiori.
La lontananza fra bambini e genitori, che si protrae per anni, è in parte voluta dal sistema educativo della daara, che vede in questa separazione un fattore essenziale per il processo di crescita del giovane taalibe. Allo stesso tempo, i genitori si sentono autorizzati in molti casi ad abbandonare i bambini nelle mani del marabout, non facendogli visita per tutta la durata del soggiorno nella scuola e non informandosi del suo stato di salute.
Questo fenomeno può essere in parte giustificato sulla base delle difficoltà economiche, che impediscono alla famiglia di affrontare il viaggio per raggiungere la zona in cui si trova la daara, e della tradizione che prevede l’affidamento totale del bambino a un parente per consolidare i legami tra i membri della famiglia, fenomeno valido a maggior ragione se il congiunto in questione è un maestro spirituale.
Tuttavia, questi elementi di riflessione sulle cause del disimpegno genitoriale non trovano giustificazione nei testi sacri, poiché sia il Corano che la tradizione profetica insistono sulla responsabilità della famiglia, in primo luogo, rispetto all’educazione del bambino. Inoltre, non alleviano il dramma del sentimento di estraneità che si crea fra il bambino, allontanato troppo presto dal nucleo famigliare, e i genitori, che può essere accompagnato da frustrazione e senso di abbandono. Il rapporto affettivo con il maestro coranico può compensare solo in parte il vuoto lasciato dai genitori, poiché questi è responsabile di diverse decine di bambini tra i quali deve dividere le proprie attenzioni.

Studio e lavoro

Riguardo alle prove che il bambino deve superare nel suo percorso di formazione in seno alla daara tradizionale, è fondato il dubbio che possano essere eccessive per la giovane età dell’allievo, poiché il taalibe può raggiungere livelli di sofferenza che rischiano di inibie lo sviluppofisico e intellettuale.
La carenza di riposo, date le poche ore di sonno concesse fra la sessione serale di studio e la sveglia mattutina per pregare (si tratta solitamente di un tempo inferiore alle sei ore), e le rare occasioni di vacanza, possono sul lungo periodo indebolire il fisico del bambino.
Solo una minoranza dei maestri è favorevole all’interruzione delle lezioni e al ritorno presso la famiglia, in occasione delle feste religiose della Korité, la festa della rottura del digiuno del mese di Ramadan (il nono mese dell’anno lunare) e della Tabaski, la festa del sacrificio (celebrata nel dodicesimo mese dell’anno lunare, in ricordo della fede di Abramo, pronto a sacrificare il suo stesso figlio per obbedire a Dio).
Molto più comune è l’usanza di consacrare il riposo settimanale, dal mercoledì pomeriggio al venerdì pomeriggio, e le ricorrenze religiose ai lavori domestici o al ripasso delle lezioni apprese. I maestri coranici ritengono in genere che una pausa possa interferire negativamente sulla concentrazione dei taalibe, che una volta rientrati alla daara dovranno spendere più energie per riprendere il ritmo di studio abituale. Per questa ragione molti allievi non rientrano presso la casa patea, che una volta completato lo studio integrale del Corano.
Riguardo ai metodi correttivi adottati, va rilevato che in alcuni casi è stata constatata una dismisura nel ricorso alle punizioni corporali. Poiché oltre al maestro, anche i taalibe più grandi sono autorizzati a punire il discepolo, gli atti di questi ultimi, a causa dell’immaturità, possono degenerare in gravi incidenti.

Le scuole migranti
 
Le considerazioni fatte riguardano il sistema della daara tradizionale, che, per quanto austero, garantisce le condizioni essenziali di sicurezza e di crescita del bambino. Esse assumono, invece, una connotazione grave se analizzate alla luce dell’evoluzione che ha caratterizzato il sistema delle scuole coraniche nella seconda metà del XX secolo.
Come abbiamo detto, l’insegnamento coranico tradizionale si sviluppa originariamente in ambito rurale, in una dimensione comunitaria di villaggio, dove i piccoli taalibe, anche al di fuori della daara, beneficiano del controllo e della protezione sociale, su cui si basano i rapporti fra le famiglie che abitano lo stesso territorio.
Tuttavia, dopo l’indipendenza, esso non rimane indenne al fenomeno migratorio verso i centri urbani, che colpisce tutta la società senegalese.
Alla fine degli anni ’70, infatti, la situazione economica nazionale si trasforma rapidamente, a causa di lunghi periodi di siccità che colpiscono il paese, obbligando i contadini ad abbandonare i loro villaggi e a spingersi verso i poli economici in cui dominano settori diversi da quello agricolo.
L’esodo rurale, che spinge migliaia di persone verso le città, fa sì che le infrastrutture cittadine, ancora deboli, non riescano a contenere la pressione demografica, con un riversamento in direzione delle periferie dove si sviluppano distese di case abusive, le cosiddette fakk-dekk, costruite con materiali di recupero, sprovviste di tutti i servizi e in cui la gente vive in condizioni igieniche e sanitarie precarie.
In queste circostanze si sviluppa il fenomeno delle scuole coraniche migranti, le noorane kat. Poiché, come tutti gli altri contadini, i marabutti installati nelle campagne hanno grandi difficoltà ad assicurare l’alimentazione delle decine di bambini che hanno in affidamento, sono costretti a trasferirsi verso le zone urbane.
Le scuole coraniche migranti si distinguono in due categorie: le scuole stagionali e quelle stanziali. Le prime si installano nelle periferie delle città solo durante i mesi della stagione secca, per cercare nei centri urbani i mezzi di sostentamento, poiché i terreni aridi non garantiscono più un raccolto sufficiente a coprire i bisogni di tutto l’anno.
Durante la stagione delle piogge, nel periodo che va da giugno a settembre, il marabout e i suoi discepoli tornano nel villaggio originario per praticare l’agricoltura.
Le scuole stanziali, invece, sono quelle in cui il maestro, proveniente da un’altra regione o dalle campagne, si trasferisce definitivamente con i suoi taalibe ai margini della città. Naturalmente il fenomeno migratorio non riguarda solo il nucleo famigliare del maestro, ma anche tutti i suoi discepoli, che egli porta con sé. Le famiglie stesse dei taalibe incitano il marabutto a trasferirsi, identificando nella migrazione l’unica soluzione di sopravvivenza per i loro figli ed, eventualmente, un’occasione di inserimento nel mercato del lavoro, che il villaggio non offre e che potrebbe portare beneficio a tutta la famiglia.

Sfruttamento e mendicità

Le conseguenze della migrazione verso i centri urbani sulle condizioni di vita dei taalibe sono spesso drammatiche, poiché la principale fonte di reddito del marabutto diventa la mendicità degli allievi, che ogni giorno, oltre a occuparsi del proprio nutrimento, devono assicurare una certa cifra che permetta al maestro e alla sua famiglia di sopravvivere.
È evidente che in questo contesto il rischio di sfruttamento del bambino è elevato. Egli si trova in un contesto estraneo, meno protetto rispetto alla realtà comunitaria di villaggio, esposto a nuovi pericoli, legati al traffico automobilistico, al rischio di abuso, alle condizioni igieniche e alimentari penose.
Le violenze subite dei taalibe che praticano la mendicità attirano sempre di più l’attenzione dell’opinione pubblica, che chiede allo stato e agli organismi inteazionali di intervenire per tutelare la salute fisica e mentale del bambino, pur conservando la tradizionale trasmissione del sapere religioso attraverso le scuole coraniche.
Il contesto urbano è inoltre più soggetto al fenomeno di installazione di scuole coraniche create da falsi maestri, che vedono nell’insegnamento una possibile fonte di reddito. In questi casi il bambino trascorre tutta la giornata per strada a raccogliere l’elemosina e, se interrogato sul verso coranico che sta imparando, risponde a stento e con una pronuncia scorretta i primi versi della fâtiha, la prima sura insegnata nelle scuole coraniche. In generale, il traguardo della memorizzazione del libro in questi casi non viene mai raggiunto.
In questi casi estremi, che non devono essere generalizzati a tutto il sistema delle scuole coraniche, il taalibe non beneficia né di un’istruzione in materia religiosa né di un accompagnamento nel suo processo di crescita e di formazione ai valori morali e sociali. Al contrario, le situazioni che vive quotidianamente possono compromettere profondamente il suo sviluppo, creargli traumi fisici e psicologici che lo accompagneranno per tutta la vita. 

Di Giulia Lanzarini


Giulia Lanzarini




È accaduto a Cornuda …

Esperienza esemplare di incontro interreligioso

«Non v’è costrizione in religione»: l’espressione, tratta da una sura del Corano, è stato il tema del sesto incontro-dibattito tra cristiani e musulmani nella diocesi di Treviso. L’originalità dell’esperienza sta nel fatto che tale incontro si è tenuto nella sala del municipio
di Couda (TV), a promuoverlo e dirigerlo sono stati il sindaco e il vicesindaco.

È stato sicuramente eccessivo il mio entusiasmo quando, in occasione dell’incontro interreligioso di sabato 27 settembre 2008, ho paragonato Couda alla Baghdad dei califfi. Ma, ne valeva la pena!
Couda è un comune del trevigiano, di circa 6 mila abitanti, nella cui aula consigliare, il giorno successivo alla «Notte del destino», 27ª di Ramadan, si è svolto un incontro tra cristiani e musulmani sul tema della libertà religiosa. I due relatori principali furono Brunetto Salvarani, per la parte cattolica, e Adel Jabbar, per la parte musulmana. Il parroco di Couda, don Mauro Motterlini, ha presentato il messaggio vaticano di fine Ramadan ai musulmani presenti, consegnandone il testo all’imam della città di Treviso.
Lo cheick Mahamoud Khalil, in qualità di ospite speciale delle comunità islamiche della provincia di Treviso durante tutto il mese di Ramadan 2008, ha esposto la dottrina musulmana circa i rapporti con le altre religioni. Il professor Ometto, un fervente cristiano sposato con una musulmana sciita, ha citato integralmente a memoria in arabo e interpretato filologicamente i versetti coranici che fanno riferimento alla libertà religiosa e da cui era stato tratto il tema della giornata: «Non v’è costrizione in religione».
La città di Treviso sovente finisce nei giornali, soprattutto come prototipo dell’intolleranza e del becero rifiuto della convivenza con la comunità islamica. Il centinaio di persone, cristiani e musulmani in parti quasi uguali, che hanno partecipato durante tutto il pomeriggio a questo evento, costituisce una secca smentita all’omologazione giornalistica avvenuta in questi anni tra la città di Treviso, ma soprattutto i suoi rappresentanti politici, e il resto del territorio provinciale.
Salvate le proporzioni tra ciò che è avvenuto a Couda e ciò che accadeva con frequenza alla corte dei califfi, dove si ripetevano con una certa regolarità incontri e dibattiti tra esponenti di varie religioni, non era infondato il nostro sentimento di sentirci per una sera un po’ anche cittadini di Baghdad.

SESTO INCONTRO
L’esperienza di Couda non è la prima di questo genere nel territorio della diocesi di Treviso. È ormai da sei anni che alcuni cristiani e alcuni musulmani si danno appuntamento verso la fine del Ramadan per passare insieme mezza giornata, confrontandosi sulla base di esperienze religiose vissute dalle due parti e rompendo il digiuno della giornata all’ora stabilita.
I primi quattro incontri, a partire dal Ramadan 2003, si sono svolti nella comunità monastica di Marango. Si pensava allora, e continuiamo a pensarlo anche oggi, che «il monastero» in sé è un luogo di incubazione di civiltà e di tempi nuovi. Esso si pone sui punti terminali di una civiltà in crisi, per aprirla a un nuovo futuro.
La nostra voleva essere una sfida a una società che, pur fondata su un immenso potere scientifico, tecnologico ed economico, non è ancora in grado di affrontare e risolvere i problemi della convivenza.
Noi di parte cristiana in maniera particolare abbiamo la convinzione che «il monastero» era e rimane il supplemento d’anima, il luogo di rigenerazione di energie e atteggiamenti che hanno in sé le potenzialità che occorrono per rendere più umana la nostra convivenza, basandosi su rapporti densi di profonda spiritualità.
Inoltre il fascino indubbio che suscita un luogo di preghiera, nato all’interno di una società opulenta e apparentemente priva di Dio come quella occidentale, ci sembrava il clima più adatto per vivere insieme con i musulmani qualche ora del loro lungo percorso ascetico e spirituale.
Queste furono le ragioni che ci avevano spinti per 4 anni di seguito a domandare ospitalità alla giovane comunità monastica di Marango (Venezia) per realizzare i nostri incontri. Essi si svolgevano con grande discrezione e impegnavano esclusivamente la ricerca e la coscienza delle persone che vi partecipavano.
A partire dall’anno 2007 questi incontri hanno incominciato a svolgersi invece dentro un quadro pubblico, offerto direttamente da due amministrazioni comunali: Giavera e Couda. Ma se l’anno scorso questo significativo spostamento si riduceva a essere poco più di un’intuizione, quest’anno invece esso è frutto di una scelta ormai matura e ragionata.

DAL MONASTERO   ALL’AULA CONSIGLIARE
Il ragionamento che sta alla base di questo spostamento parte dalla semplice constatazione della realtà plurale delle nostre comunità paesane, comprese quelle più piccole.
Sono molti i musulmani, buddisti, sik che ormai si sono radicati all’interno delle nostre comunità tradizionalmente cristiane. La presenza di queste persone di religione e cultura diversa ha acquisito in questi due decenni delle caratteristiche nuove. Non ci sono soltanto musulmani e sik; ci sono ormai delle comunità musulmane e sik, che progressivamente sono venute strutturandosi.
Potremo a tal proposito fare un paragone con la presenza ebraica in Italia. Essa non si limita al fatto che ci siano nel nostro territorio, da sempre, un numero più o meno grande di ebrei, ma essa ha le caratteristiche di una comunità che ha una sua immagine, una sua rappresentanza, una sua struttura e visibilità anche a partire dai luoghi di culto che le sono propri. La stessa cosa potremmo dire di queste altre giovani comunità che si sono affermate tra noi.
L’obiezione più frequente che viene rivolta, soprattutto alla comunità musulmana, è che essa tende ad accorpare nella dimensione religiosa anche quella civile e politica. Ciò è probabilmente vero in molti paesi a larga maggioranza musulmana, anche se non in tutti. Ma questo non è il caso dell’Italia.
Ora è evidente che, nell’attuale panorama inedito offertoci dalla nostra società, occorre che qualcuno prenda l’iniziativa per costruire una piattaforma d’intesa, che si proponga di favorire la pace sociale tra gruppi caratterizzati da religioni e culture diverse e di confermare i valori fondamentali della nostra cultura civile, sociale e politica, in vista di una condivisione di essi da parte di tutti: sia i vecchi che i nuovi cittadini.
Occorre perciò rimettersi all’iniziativa di un «terzo» attore, che non può essere nessuna delle comunità religiose in quanto inevitabilmente esse sarebbero di parte. Un attore che necessariamente abbia l’autorità di convocare tutti e che possa esigere da tutti il rispetto delle regole del gioco.
Ai promotori dell’incontro è sembrato che questo potrebbe e dovrebbe essere il compito di un’amministrazione comunale, ma anche di ogni altro livello dell’amministrazione pubblica. La sua natura, infatti, può favorire un ruolo di «terzietà» che la può costituire moderatrice di un eventuale «tavolo delle religioni» in vista del bene comune e della pace sociale.
A Couda è accaduto proprio questo: al centro del tavolo sedevano il sindaco e il vicesindaco e ai due lati i vari rappresentanti delle due comunità religiose, quella cattolica e quella musulmana.
L’impressione che se ne ricavava era molto forte. La laicità di cui si offriva la prova non era quella dell’indifferenza dell’ente pubblico nei confronti dell’individuale scelta religiosa, ma quella di un’amministrazione comunale laicamente attiva, consapevole del proprio ruolo, senza alcuna invasione di campo.

IL TEMA
Il tema dell’incontro è stato ricavato da una sura del Corano : «Non v’è costrizione in religione», filologicamente tradotto dal prof. Ometto: «Non si può costringere nessuno ad abbracciare una credenza verso la quale si prova un netto rifiuto».
Il tema della libertà religiosa è sicuramente un tema sensibile particolarmente in questi tempi in cui tutte le società, anche le più tradizionalmente omogenee, tendono a diventare pluraliste o a causa del mescolamento di popolazione o per l’incursione dei messaggi e degli stili di vita veicolati dai mass media.
Il prof. Jabbar, rifacendosi al patto di Medina, ha ricordato la capacità che l’islam ha avuto, soprattutto agli inizi e in certi momenti storici, di mettere insieme culture e religioni diverse, facendole convergere verso un patto di cittadinanza che non costringeva all’assimilazione.
Ad ascoltarlo si ricavava l’impressione che ci siano zone e tempi inesplorati dell’islam, che sarebbe utile riportare alla memoria sia per noi sia, a dire del prof. Jabbar, per i musulmani stessi.
Il prof. Salvarani, oltre ad affermare la necessità e la convenienza del dialogo, ha parlato della libertà religiosa come condizione mai totalmente compiuta e che occorre continuamente porre in essere, perché essa non si situa mai in un punto di non ritorno. Più che una condizione già raggiunta è una continua conquista. Per questo sarebbe preferibile parlare, non solo di libertà come valore, ma di liberazione come processo e acquisizione di gradi sempre più elevati di libertà per tutti.
Successivamente il parroco di Couda ha consegnato all’imam il messaggio vaticano, facendone una breve sintesi riguardante la famiglia come valore condiviso da cristiani e musulmani e come luogo «in cui si apprende il rispetto dell’altro, nella sua identità e nella differenza. Il dialogo interreligioso e l’esercizio della cittadinanza non possono dunque che beneficiae».
Alla conclusione dell’incontro ci fu una brevissima preghiera, durante la quale ognuno ha accolto con interiore partecipazione la preghiera dell’altro. Un momento brevissimo, ma efficace quanto un lampo nella notte.
La rottura del digiuno, con i cibi che caratterizzano le varie abitudini alimentari e che erano stati generosamente offerti dalle diverse comunità etniche presenti, ha confermato l’impressione che ci eravamo detti al momento di lasciare l’aula consigliare: «Usciamo da quest’incontro con l’impressione di sentirci un po’ migliori di prima». 

Di Giuliano Vallotto

Giuliano Vallotto




Zappa, kalashnicov e coca-cola

Breve viaggio nel Mozambico di oggi. Reportage.

Una nazione ricca con l’economia in forte crescita.
Un popolo povero che ha sofferto la colonizzazione e 30 anni di guerra.
Uno degli ultimi regimi socialisti del continente, ma al tempo stesso
aperto al neoliberismo. Il Mozambico è costretto ad accettare
le imposizioni dei donatori inteazionali, perché il bilancio dello stato
dipende da loro. Intanto la democrazia fa piccoli passi
in avanti, in attesa di un necessario decentramento
amministrativo e di un migliore sfruttamento delle terre.

Lichinga, Mozambico. Il boeing 737-200 della Lam (Lineas aereas moçambicanas) atterra nella capitale della provincia di Niassa. Sulla pista, ad attenderlo da un paio d’ore, decine di bandiere rosse, donne e uomini in abiti colorati, frenetici suonatori di tamburi e di bidoni di plastica. Sono alcune centinaia, arrivati con i camion dalle diverse zone della provincia, una delle più povere ma più fertili del paese. Sull’aereo c’è una folta delegazione che accompagna Felipe Paunde, segretario generale del Frelimo (Fronte di liberazione del Mozambico), il partito al potere. Decollato la mattina dalla capitale Maputo, ha anticipato l’ora della partenza, lasciando a terra molti passeggeri «normali».
È il penultimo giorno di campagna elettorale per le elezioni municipali, previste per il 19 novembre, in un paese che, a sedici anni dagli accordi di pace, fatica ancora a trovare una via verso lo sviluppo. Il segretario generale viene ad appoggiare il candidato alla presidenza del comune di Lichinga.
Elezioni importanti in un paese enorme (800 mila kmq, due volte e mezza l’Italia, ma con un terzo di abitanti), dove il decentramento amministrativo, essenziale per governare un paese così grande, sta muovendo solo i primi passi. Mentre tutto o quasi, resta centralizzato a Maputo, capitale troppo lontana, situata all’estremo sud del paese (circa 2.300 km da Lichinga), incastrata tra il mare e il vicino ricco di sempre: il Sudafrica.
Nella consultazione elettorale si affrontano soprattutto i due maggiori schieramenti: il Frelimo e la Renamo (Resistenza nazionale del Mozambico). Sono i vecchi nemici di sempre, della feroce guerra civile che ha insanguinato il paese dalla sua indipendenza dal Portogallo, nel 1975, alla firma degli accordi di pace a Roma nel1992. Oggi si affrontano con le ue, in un contesto di grande differenza di mezzi a disposizione. Il Frelimo al potere da 33 anni, ha dalla sua parte una macchina propagandistica ben rodata e mezzi economici a volontà. Non così i concorrenti.
Quest’anno sono 43 i consigli municipali e i presidenti dei comuni (sindaci) che devono essere eletti. Di questi 10 sono nuovi, ovvero è la prima volta che si costituiscono. Segno che qualche piccolo passo avanti nel decentramento si sta facendo.
Il segretario generale è appena sceso dall’aereo e rilascia la prima intervista. Intanto i passeggeri rimasti scendono e attoniti cercano di farsi largo tra la folla per raggiungere l’area recupero bagagli.

La guerra non perdona

Il paese oggi resta segnato da 500 anni di dominazione portoghese, ma anche da quasi tre decadi di guerra che contraddistinguono la sua storia recente. All’inizio degli anni ’60 quando la maggior parte dei paesi africani diventavano indipendenti, le colonie portoghesi si vedevano negato questo fondamentale passaggio.
Nel 1964 l’intellettuale Eduardo Mondlane, in esilio in Tanzania, fonda il Frelimo e dichiara l’inizio della guerra d’indipendenza.
Il conflitto è cruento e i portoghesi non mollano. Il Frelimo riesce a controllare vaste zone nel Nord del paese. È il 1975 i tempi sono maturi. L’anno prima la ribellione militare in Portogallo ha chiuso con i regimi dittatoriali di Salasar e del successore Caetano. Il Mozambico diventa indipendente, il Frelimo si vede consegnato il potere e Samora Machel è il primo presidente della repubblica popolare. Il regime opta per l’ideologia marxista-leninista e una sua applicazione piuttosto rigida. Nazionalizzazioni, emigrazioni forzate per popolare il nord e campi di rieducazione. I beni della chiesa sono confiscati e i missionari costretti a lasciare le missioni sono radunati nelle città.
Negli stessi anni, portoghesi fuoriusciti appoggiati dalla Rhodesia di Jan Smith (l’attuale Zimbabwe) e dal Sudafrica dell’apartheid, organizzano una guerriglia controrivoluzionaria: la Renamo. La guerra fratricida è cruenta, i campi pullulano di mine e diventa difficile per i contadini far rendere la terra. Solo gli accordi di  pace generali di Roma (4 ottobre 1992), con un importante ruolo giocato dalla chiesa, riportano la pace.
Il Mozambico indipendente è devastato, e inizia allora i primi passi verso lo sviluppo. L’intervento dei donatori inteazionali, di Fondo monetario internazionale (Fmi) e di Banca mondiale (Bm) sono massicci.

Economia: macro e micro

Negli ultimi 5 anni il paese ha presentato indicatori macroeconomici che rispecchiano un’economia dinamica: crescita del pil intorno al 7- 8%, inflazione tenuta al 13,2% da un ambizioso piano governativo, buoni scambi commerciali. Ma il mozambicano medio continua ad avere una speranza di vita intorno ai 42 anni, mentre solo il 38,7% dei maggiori di 15 anni risultano alfabetizzati. Una situazione socio-economica complessa che vede il paese al 172simo posto su 177 della classifica Onu basata sull’indice di sviluppo umano. Quanto basta per dire che è «tra i più poveri del mondo».
«L’economia mozambicana, incluso il bilancio dello stato, continua a essere finanziata in larga parte dai donatori esteri. Un gruppo di 19 partner, tra cui Unione europea, Canada, Usa, Giappone, ma anche Fmi e Bm». Chi snocciola l’elenco è Brazão Mazula, professore, già rettore della maggiore università del paese, la Eduardo Mondlane. Membro storico del Frelimo, che nel 1994 gli affidò l’organizzazione delle prime elezioni libere nel paese. Mazula si è formato come missionario della Consolata, diventando anche padre per poi uscire dall’Istituto.
«Se il governo vuole gli aiuti inteazionali, sono i donatori che decidono qual è la direzione che deve prendere il Mozambico per il suo sviluppo. Anche questi indicatori economici rispondono a un loro desiderio. A novembre una missione del Fmi ha valutato positivamente la performance dell’economia mozambicana».
Ma il professore è realista: «Un’altra cosa è dimostrare che questa crescita economica ha un impatto sul benessere della gente. Non ci si può fermare a Maputo per dire che questo è il paese». Maputo è una città modea, con centri commerciali, grosse vie con marciapiedi, palazzi, luci e vecchie case in architettura coloniale. Circolano molte automobili, anche costose. Ma come accade spesso in Africa, la capitale non è specchio della situazione e le condizioni di vita nell’«interno» sono molto diverse.

Poveri in un paese ricco

«La povertà è reale – continua il professore – secondo dati ufficiali il 70% della popolazione è in stato di indigenza e la maggior parte di essa risiede in campagna».
Ma come vive e sopravvive il mozambicano medio, nel mezzo di questa situazione così grave, nel contrasto tra uno sviluppo economico effettivo e una povertà diffusa?
«La popolazione è ancora orientata a un’economia di sussistenza. In particolare è importante la questione della terra per il contadino: se ha terra sufficiente, coltiva il suo mais, la manioca. Il problema sorge quando la legge mette a rischio la sicurezza della terra per il futuro. Togliere la terra al contadino è come togliergli la cittadinanza» insiste il professor Mazula. E continua: «Le politiche macro economiche degli ultimi anni portano alla privatizzazione delle imprese, ma anche della terra. Il contadino un giorno si trova di fronte un connazionale (o uno straniero), che gli presenta dei documenti e gli dice che la terra, suo unico sostentamento, fa parte di un’altra proprietà e non è più sua. «È questo che aggrava la povertà».
«Un esempio concreto sono i bio-combustibili, come quelli ricavati dalla canna da zucchero. Le imprese produttrici hanno bisogno di migliaia di ettari. Se questi progetti non sono ben applicati i sacrificati saranno i contadini».
Le potenzialità agricole del paese sono enormi e variano a seconda della regione e fascia climatica. La terra è fertile (in particolare al nord), bagnata da grandi fiumi e da una stagione delle piogge estesa, in media, da fine novembre a marzo.
Le produzioni principali per uso alimentare sono mais, manioca, sorgo, riso, legumi, patata dolce e banane. Per l’esportazione si produce canna da zucchero, tabacco, tè, cotone e palma da cocco.
Ma la terra in generale non è ben sfruttata: resterebbero almeno 4 milioni di ettari da valorizzare. Inoltre ci sono ancora mine antiuomo nei campi (sono sempre all’opera squadre di «sminamento»). Molto diffusa è l’agricoltura famigliare di sussistenza.
«La minaccia è che nella visione di economia di scala, si vuole trasformare il contadino in un lavoratore per grandi imprese agro-industriali. Un problema è che il nostro contadino è analfabeta. Non è un’operazione che si può fare da un giorno all’altro. C’è la questione dell’educazione».
Gli interessi economici inteazionali sono grandi e quindi ci sono molte pressioni sul governo: «Dipende da noi, dobbiamo accrescere la nostra capacità di negoziazione. Nessun investitore investe per perdere. Le istituzioni inteazionali non vengono a fare la carità, ma affari. Dobbiamo avere capacità tecnica e di negoziazione, in modo che entrambi, noi e loro, possiamo guadagnare da questa situazione».
Si ricorda che metà del bilancio dello stato è appannaggio dei donatori inteazionali, mentre si parla di aiuti per 435 milioni di dollari nel 2008. Una parte dei quali per finanziare l’ambizioso «Piano d’azione per la riduzione della povertà assoluta (Parpa)».
Da qui il ruolo della formazione superiore, per formare risorse umane in quantità e qualità, che conoscano le leggi, l’economia, il commercio internazionale. «È una nostra sfida. La stabilità economica e politica passa dall’educazione e dalla formazione del cittadino. Lo sviluppo, per me, è libertà di scegliere» continua il professore.
Non solo educazione di base quindi, che Bm e Fmi «impongono e limitano», ma una formazione che porti il cittadino a essere meno manipolabile possibile e in grado di scegliere.
«Il governo decide le politiche, ma dovrebbe negoziare con il cittadino. Al contrario, per la crescita economica, il nostro governo rende conto di più ai donatori che ai mozambicani… perché da questi non vengono soldi».
Sul piano dell’educazione il paese si è dato un piano strategico 2006-2011. «Questo mostra buona volontà. La coscienza che c’è qualcosa da cambiare: centrare lo sviluppo sul cittadino e non sui desideri delle istituzioni finanziarie inteazionali.
Non possiamo pretendere che tutte le persone vadano all’università… ma che ogni cittadino, a qualsiasi livello termini la sua formazione, sia in grado di lavorare o dare lavoro e di produrre ricchezza. Il ministero dell’educazione sta facendo uno sforzo, in questo senso».
Il programma prevede la costruzione di 4.100 aule scolastiche in ambito rurale ogni anno e che in ogni distretto ci sia la scuola secondaria.

Verso il Marxismo neoliberale

A partire dalla seconda metà degli anni ’80, il Frelimo ammorbidisce il modello socialista e inizia le riforme per far spazio al mercato. Il cambiamento è favorito da un avvicendamento al vertice: Samora Machel, leader intransigente, muore in un misterioso incidente aereo nell’ottobre del 1986. Disastro in cui sarebbero implicati i servizi segreti sudafricani.
Gli succede Joaquim Chissano, uomo diplomatico, comunicatore, che imposta la transizione e traghetta il paese alla pace. Il nuovo presidente, pragmatico, accetta le condizioni dei partner inteazionali, come una nuova costituzione di fine 1990 che legalizza il multi partitismo (ancora rivista nel 2004). Si procede poi a una serie di privatizzazioni, non prive di scandali. Si forma così una nuova classe borghese legata al Frelimo, che si arricchisce grazie alle vendite dei beni statali. E la corruzione, fenomeno quasi sconosciuto per i dirigenti del partito all’indomani dell’indipendenza, aumenta.
«La corruzione deve essere combattuta, ma occorre anche capire come è iniziato questo fenomeno nel nostro paese – denuncia Felipe Couto, missionario della Consolata, magnifico rettore dell’Università Eduardo Mondlane e persona influente nel Frelimo -. Noi eravamo l’unico partito: ci hanno imposto il multi partitismo. Poi ci hanno detto: dovete entrare nel Fmi, nella Bm, dovete aprirvi al neoliberismo economico. Così sono arrivate le agenzie inteazionali e le Ong. Hanno iniziato a girare molti soldi. La corruzione dipende da noi, ma non solo».
Nel novembre 2000 è assassinato il giornalista Carlos Cardoso, che portava avanti un’inchiesta sulla privatizzazione delle due più grandi banche del paese: il Banco Comercial de Moçambique e il Banco Austral. Ci sono stati alcuni arresti, ma i veri mandanti sono ancora liberi.
Nelle elezioni del 2004 Chissano si ritira e gli succede Armando Guebuza (febbraio 2005), l’allora segretario generale. È un avvicendamento al vertice non privo di cambiamenti. Guebuza, oltre a essere numero uno di un partito comunista è anche uno dei più ricchi uomini d’affari mozambicani. La sua rete di business va dalla birra alle costruzioni, all’export, al traffico nel porto di Beira.
In politica si rivela più tradizionalista. Subito cerca di imporre un maggior rigore: lancia la seconda fase della riforma del settore pubblico (2005-2011), che include un ambizioso programma di lotta alla corruzione.

Donne e integrità al governo

«Il programma del governo prevede quattro punti: riduzione della burocrazia, lotta alla corruzione, alla criminalità e alle malattie endemiche come l’Aids» ci racconta Vitória Diogo, ministro della Funzione pubblica. Testa alta e parlata chiara, quasi da campagna promozionale. Fiera di essere, donna e capo del maggior datore di lavoro del paese, con 167.000 impiegati.
Nel governo mozambicano, ci sono otto donne ministro (incluso il premier) e si arriva a tredici con i viceministri. Anche nel parlamento, forte è la partecipazione femminile, circa il 30%.
La «strategia di lotta alla corruzione» varata dal governo nell’aprile 2006 prevede, dice il ministro di «istituzionalizzare l’integrità» ovvero promuovere l’integrità come valore umano. «Tra il 2006 e il 2007 sono stati identificati 2.414 casi di corruzione, seguiti da processi disciplinari, di cui 813 espulsioni». Sicura, il ministro Diogo, elenca i risultati per quello che riguarda la «piccola corruzione».
Di fatto la corruzione è ancora molto radicata a tutti i livelli e si può avvertire non appena si passa la dogana in aeroporto. C’è però anche una campagna pubblica, con tanto di manifesti, che invita la società civile e la gente in generale, a denunciare casi di pressioni e malversazioni dei funzionari.
Ma il salario minimo legale è ancora molto basso: 1.950 meticais (65 euro) al mese, anche se si stanno studiando sistemi di incentivo. In un paese in cui il costo della vita (almeno in città) è simile a quello europeo. La benzina, madre di tutti i prezzi, in quanto influisce sui trasporti, arriva a costare anche 1,5 euro al litro, il gasolio 1,23. Il regime di stipendi bassi non facilita la riduzione di questa piaga.
La strategia anti corruzione dipende dal Gabinetto centrale di lotta alla corruzione, di competenza del primo ministro, Luisa Diogo, sorella di Vitória.
Secondo la classifica della corruzione, stilata ogni anno dall’Ong Transparency Inteational, il Mozambico è sempre nella fascia dei paesi più corrotti al mondo: nel 2008 occupa il 128simo posto su 180.
La riforma del settore pubblico, prevede inoltre il miglioramento delle prestazioni dei servizi, vuole «mettere il cittadino al centro», incentivare la buona governance e aumentare la professionalizzazione delle risorse umane.
«Il funzionario per servire ogni volta meglio il cittadino» è lo slogan ufficiale della riforma.
Programmi questi molto amati (e sollecitati) dai donatori e che il governo cerca, tra mille difficoltà, di mettere in atto.

Le priorità

Come decano dell’università, il professor Brazão Mazula identifica quattro aree importanti per far uscire il paese dalla povertà e portarlo verso lo sviluppo. Aree che identificano settori prioritari  per la formazione di quadri del paese: educazione integrata, formativa e critica, sanità, agricoltura e pesca (il mare è una ricchezza), turismo. Quest’ultimo, grazie alla posizione geografica e alle bellezze del paese (parchi naturali, spiagge da sogno, isole) è diventata la prima industria del paese. Gli investimenti dei vicini sudafricani in questo settore sono notevoli. Basti pensare che per i mondiali di calcio del 2010 in Sudafrica, i pacchetti turistici prevedono, dopo le partite, alcuni giorni sulle spiagge del Mozambico.
Sul piano della salute l’emergenza maggiore è l’Aids. «I casi sono in costante aumento, non si riesce a frenare – racconta suor Raquel Gil Mas, missionaria dominicana, medico, che si spende ormai da anni sul tema -. In alcune province si parla del 27% di sieropositivi». Mentre i dati ufficiali sono intorno al 17% a livello nazionale. Un programma del governo fornisce farmaci antiretrovirali gratuitamente a tutti coloro che risultano positivi e si affidano alle cure di un centro. «Questo è un aiuto fondamentale perché riusciamo a far vivere tanta gente che altrimenti sarebbe già morta. Il problema è che arrivano da noi quando ormai sono in stato terminale».

Elezioni monocromatiche

Alle elezioni municipali di novembre il Frelimo ha stravinto, togliendo alla Renamo anche i cinque municipi storicamente sotto il suo controllo, e ottenendo la maggioranza nelle assemblee municipali e i sindaci. Tranne a Beira, seconda città del paese, dove succede a se stesso l’indipendente Daviz Simango, già Renamo.
Il leader della Renamo, Alfonso Dhlakama ha da tempo perso in popolarità ma non vuole farsi da parte. Questa sconfitta, però, lo mette in seria difficoltà e si parla di avvicendamento alla testa del partito, il più grande, nonostante tutto, all’opposizione.
«Ci sarà vera opposizione solo quando il Frelimo avrà una scissione al suo interno» sostiene qualche osservatore. Intanto, si attendono le elezioni presidenziali di fine 2009, nel perenne equilibrio tra compiacere ai donatori e autodeterminazione del proprio futuro. 

Di Marco Bello

Marco Bello




Scuola con… battiscopa

Iringa: una giornata con i volontari dell’Allamano Centre

Fondato e diretto dalle suore missionarie della Consolata, l’Allamano Centre comprende asili, scuole, ambulatori e assistenza medica, soprattutto con attività di prevenzione dell’Aids e di attenzione a famiglie e singole persone sieropositive. Oltre a una ventina di persone impiegate a tempo pieno (medici, infermieri, consulenti, addetti ai laboratori, ecc.), il Centro si avvale della collaborazione di 70 volontari che gioalmente assistono i malati a domicilio.

Un odore di cipolla, misto a sudore e urina mi blocca le narici. Joseph è lì che aspetta solo di morire. La malattia è devastante. È devastato! Metastasi di pensieri mi bloccano il cervello. È troppo giovane. È un bravo ragazzo. Non si può morire così. Ma è sereno. Crede in Dio e mi dice che le missionarie della Consolata gli hanno fatto sentire l’amore di Dio e le volontarie dell’Allamano Centre lo aiutano.
La moglie non c’è. È andata a prostituirsi, per una manciata di scellini, contagiando altri o andando con altri contagiati che a sua volta trasmetteranno il virus. Non c’è famiglia che non sia stata colpita dall’Aids. Il pombe, un fermentato alcolico, ubriaca la testa e l’anima. E il virus si propaga. L’amore e il sesso qui sono la stessa cosa. L’amore è libero per natura. Non ci sono preconcetti, non c’è protezione, non c’è contraccettivo mentale. «Siamo tutti malati. Il condom non ha fermato la trasmissione, anzi – mi dice Joseph -, quindi è inutile rinunciare.

Due ore nel bush con Concetta e i volontari dell’Allamano Centre, struttura per la cura e il sostegno a malati sieropositivi, ideata, realizzata e gestita dalle missionarie della Consolata, con l’aiuto di medici, psicologi e personale tanzaniano.
Un caldo che ti scioglie il midollo. Non sento più le labbra arse dal caldo e il corpo. Saltiamo buchi, attraversiamo campi desolati, mangiamo polvere. Concetta, una straordinaria italiana che ha scelto di vivere qui aiutando le missionarie della Consolata e i tanzaniani, tira dritto. Guida decisa nel bush. Ormai lo conosce bene. È da più di un anno che accompagna i volontari dell’Allamano Centre nel giro ai malati terminali, quelli che non hanno più la forza di andare al centro per prendere le medicine.
Ogni giorno è un colpo al cuore. Bambini e giovani che vede morire, o trova già morti. Ma Concetta riesce a strappargli e strapparti un sorriso, sempre. E tutti le vogliono bene. Girare con lei è un divertimento. Con un accento tipicamente campano parla in kiswahili. Dopo ore di sabbia, spine e campi di girasole, imbalsamati dal sole, arriviamo a casa di un altro malato. Anastasia. Cinque figli. Tre morti. Il marito già morto l’ha contagiata, forse senza saperlo.
Una lamiera arrostita a 35°, girasoli a seccare. Un bimbo in lacrime ci viene incontro, spaventato e incuriosito. Vivono talmente distanti dalla città e così inteati nel bush che avrà visto raramente i wazungu. Si avvicina, vuole toccare la mia macchina fotografica, ma si ferma a dieci centimetri dal mio ginocchio e immobile mi fissa. Mi sfiora un ginocchio continuando a fissarmi. Due grandi pupille nere mi sfondano il cuore. Ha solo tre anni e probabilmente è malato.

Toiamo a casa e ci accoglie suor Luisella Benzoni. Una pazzesca suora missionaria che, oltre a prendersi cura di un asilo affollatissimo, insegna e si occupa di altre cento cose, come tradizione per le missionarie della Consolata.
Luisella mi prende subito il cuore. Visito la sua scuola, che gestisce in tipico stile lombardo. Mi fa sorridere la sua precisione, la sua organizzazione in una realtà dove non esiste ordine. Non esiste la parola organizzazione. E lei lo sa bene e ride con me di questo. Due occhi blu e un accento bresciano che mi hanno fatto ridere e divertire per settimane. La sua serietà e organizzazione è direttamente proporzionale alla sua ironia e simpatia.
Ma questa sua ironia, sono convinta, è una protezione contro la disperazione che vive e sente ogni giorno. La sua scuola è un asilo e scuola pre-elementare che ha bisogno di tanto, ma la sua cura e il suo amore lo fanno sembrare bellissimo. Personaggi della Walt Disney disegnati sui muri ci danno il karibu (benvenuto) e 130 bambini, bene ordinati, mi intonano l’inno del Tanzania, mi cantano la Vecchia fattoria, mimando gli animali e mi rendono partecipe in una loro lezione.
Suor Luisella ha fatto una delle cose più difficili ma necessarie: insegnare alle maestre e ai bambini che la scuola è fondamentale ma per essere accessibile a tutti deve essere curata, un senso civico che manca da troppo tempo anche a noi italiani. Ho conosciuto le sue maestre che ridipingevano un battiscopa, una cosa del tutto estranea alla cultura africana. Questo dimostra quello che ho sempre pensato e sostenuto: l’Africa non ha bisogno di una scuola da terzo mondo, dove bisogna accontentarsi, dove la creatività fatta anche da poco, l’ordine, la pulizia sono solo eufemismi.

di Romina Remigio

E non finisce qui

Sono ripartita da Dar Es Salaam il 21 maggio alle 21.20 con un volo della Swiss Air, dopo aver saltato per più di un’ora e mezza per le strade di Mbagala, nel taxi di Goldwin, accompagnata da due amiche speciali che hanno voluto addolcire quello che sarebbe stato il trauma della partenza.
Era già notte, quando ho lasciato Mbagala, il villaggio che mi ha ospitato per mesi; anche la luce elettrica come sempre se n’era andata. Abbiamo caricato la macchina, illuminati solo da un cielo stellato straordinario, che mi ha augurato safari jema (buon viaggio).
Ho salutato velocemente gli amici, le bibi (nonne) e zie con un inevitabile nodo alla gola. Su un sedile di velluto liso, cercavo di fissare nella mente, naso e orecchie immagini, odori e suoni di Mbagala.
Arriviamo in aeroporto che già la gente è in fila per il check-in. Un vento caldo e umido mi attraversa e mi sbatte in faccia. Penso che sto per partire, sto per lasciare il Tanzania. Ogni passo verso il check-in mi tuona dentro come una pugnalata. Devo salutare le mie amiche e penso alle altre missionarie che mi hanno rapito il cuore, ma non riesco a reggere l’affetto dei loro sguardi. Carica di zaini, borse e con una zucca, che sarà motivo di discussione da Dar Es Salaam in Svizzera, perché sembra troppo stravagante girare con una grande zucca, le abbraccio ed entro.

Salita sull’aereo avverto immediatamente la fredda consapevolezza di essere in Europa. Caos, musica e sorrisi africani sono stati prontamente sostituiti da distratti sguardi svizzeri.
Un’italiana, contenta e convinta di aver trovato un’altra italiana, mi vomita tutto il suo risentimento nei confronti dei tanzaniani e del caos del Tanzania; me la cavo con un «sorry, I don’t speach italian» (spiacente, non parlo italiano) e, incollata al finestrino, l’iPod impiantato nelle orecchie, cerco di confondere pensieri e ricordi che affollano la testa. Lascio la pista di Dar Es Salaam con Elton John che canta Your song. Chiudo gli occhi sperando solo di addormentarmi e svegliarmi a Zurigo.
Arrivo alle 6.45 in una Zurigo grigia, umida e fredda. Un aeroporto modeissimo, pulitissimo, fighissimo… tutto issimo. Ordinati e in un silenzio troppo fastidioso seguo i miei compagni di viaggio al controllo bagagli. Ci esaminano come fossimo terroristi. Gli apparecchi elettronici devono seguire un accurato controllo «svizzero».
E io in tipico stile profuga: infradito africane, jeans stra-scoloriti e strappati, felpa ancor più scolorita, abbondavo di apparecchiature elettroniche. Mi sento due occhi addosso. Alzo lo sguardo e mi ritrovo di fronte una «donnona» che esamina attentamente le macchine fotografiche, obbiettivi, computer, come se una fotoreporter fosse un mercante d’armi.
Accendo il telefonino che inizia a squillare all’impazzata per gli sms di amici che mi danno il benvenuto in Europa, tra sguardi urtati compostissimi vicini. Voglio il Tanzania! Voglio il caos, la musica, le grida dei bambini, i clacson delle macchine, la polvere e le buche!

O sservo due africani, cercando nei loro occhi la mia stessa disperazione. Sono una delle ultime a salire sull’aereo. Nemmeno il cioccolatino svizzero, in puro cioccolato al latte finissimo, riuscirà ad addolcire l’ultima ora e mezza di viaggio. Sorvoliamo Roma. La guardo dall’alto. Bella come sempre, ma sono davvero arrivata!
E ora sono qui, divisa tra due mondi, con la certezza che non posso tornare alla mia vita senza aiutare seriamente gli amici che hanno vissuto con me e le straordinarie missionarie capaci di prendere in mano il cuore dei più poveri e disperati tra i poveri, accarezzarlo e dargli la forza e il coraggio di andare avanti, vivendo con loro e cercando di aiutarli con progetti reali, ma fuori moda per le istituzioni inteazionali di cooperazione.
Credenti o meno, atei o non atei, la mia considerazione oggettiva finale, è che aiutando i missionari sicuramente possiamo aiutare questo popolo a liberarsi dal giogo che lo soffoca da decenni.

Romina Remigio




Basta mosche …suglio occhi

Dove gli aiuti… aiutano davvero

INTRODUZIONE

Un giornalista non è solo un rigoroso traduttore di informazioni, ma anche un cantastorie. La voce di chi non ha voce. Gli occhi di chi non può o non vuole vedere. Ha la possibilità e la capacità di potersi fermare. Fermarsi a riflettere, osservare, parlare, ascoltare e ascoltare. E questo ho scelto di fare per sei mesi di vita in Tanzania.
Il mio rapporto con il Tanzania è stato da subito viscerale. Il 15 dicembre 2007 la prima sensazione è stata di soffocamento. Un vento caldo, umido mi ha bloccato le narici e i polmoni, ma il cuore era tornato a casa.
«Inside Tanzania» non è solo un reportage. Ma un esperimento di sei mesi di vita a Mbagala, periferia di Dar Es Salaam, e in altri slum musulmano-integralisti, vivendo la quotidianità e gli effetti della cura antiretrovirale su malati di Aids/Hiv. Insieme. Come loro e con loro. Questo era il mio obiettivo.

Un progetto di reportage nato nel luglio 2007 con la mia collega Alessandra Sinibaldi per indagare come mai nonostante la mole mondiale di fondi stanziati da qualsiasi tipo di associazione, ente o struttura grande e piccola per progetti in Africa, questa terra continuasse a morire inesorabilmente. Un’inchiesta sulla cooperazione internazionale decentrata e non, laica e religiosa.
Avevamo passato un mese a girare fotografando e lavorando senza freni. Interviste, riprese, traduzioni, visite, libri, incontri nei villaggi con musulmani, cristiani, protestanti, malati, dottori e scatti e scatti.

Pur disponendo di enormi risorse le organizzazioni inteazionali non riescono a raggiungere risultati soddisfacenti sia nel campo dello sviluppo che nella lotta all’Aids in Africa. Missionari e missionarie, invece, con scarsissimi aiuti e senza la ribalta mediatica, riescono a fare autentici miracoli a favore della popolazione. Lo evidenzia una giovane giornalista nel suo documentario «Inside Tanzania», elaborato
in sei mesi di vita africana.

S ono tornata in Tanzania il 15 dicembre 2007, stavolta sola. Alessandra ha dovuto subire un intervento al ginocchio.
Il soggetto del reportage era lo stesso: indagare come vengono investiti e impiegati i fondi inteazionali per la cura dell’Aids. Ma per fare ciò dovevo prima di tutto rendere «protagonisti», nel reportage e nella mia vita, la gente dei villaggi. Dovevo diventare una di loro. Rassicurarli e farmi conoscere.
Sono stanchi di essere fotografati da jeep cariche di bianchi, che scattano per riportare a casa la foto del poverissimo africano. Ormai è un rito per molti volontari di onlus o associazioni fare il cosiddetto «giro turistico» per i villaggi, mascherato anche dal termine «eco-turismo» ora estremamente di moda, ma pochi sono gli esempi di eco-turismo nel senso etimologico.
I masai sanno dai loro fratelli impiegati nei villaggi turistici e davanti a resort, rigorosamente vestiti con gli indumenti tradizionali e costretti a scimmiottare la loro cultura per affascinare il turista, che molti bianchi realizzano foto che poi vendono a riviste, quindi vogliono essere pagati.
Per sei mesi con la gente
La maggior umiliazione per un fotoreporter è pagare il suo soggetto. È la via più semplice e veloce per non instaurare nessun tipo di contatto o fiducia, ma dalle foto questa sensazione salta agli occhi.
Ho vissuto nella periferia più degradata, colpita da quella piaga che sta «fucilando» l’Africa da decenni. Senza acqua, senza luce, in «case» con lastre di lamiera infuocate, dove solo delle coraggiosissime missionarie operano la loro evangelizzazione. Nei campi, nelle moschee e madrase, davanti a un piatto di polenta e fagioli e davanti a un piatto vuoto, su stuoie, negli ospedali e nei dispensari.
Ho vissuto sei mesi della mia vita seguendo famiglie che mi hanno accettato come figlia, sorella e amica, nella loro speranza di guerra all’Aids, scoraggiandomi e entusiasmandomi con e per loro. Vivere sei mesi, nella stagione più calda dell’anno, nella zona più calda, e satura di persone non è stato facile! Ma la voglia di raccontare attraverso la mia macchina e la mia stessa pelle questo spaccato di vita vera era più forte di qualsiasi malaria, malattia o paura.
Incontri con realtà… speciali
La curiosità, l’interesse giornalistico e, prima ancora, la voglia di capire e raccontare mi hanno fatto girare gran parte del Tanzania, indagando e scoprendo le realtà molteplici di cooperazione. Ho conosciuto realtà di fede profonda, di ritmi di vita scanditi dalla parola di Dio.
Da un Dio che scuote il corpo e la mente sostenendoti in lavori massacranti di aiuto gratuito.
E ho visto realtà di egoismo e superficialità che sembrano giocare con la vita delle persone e con i soldi dei fondi mondiali. Ho conosciuto anche grandi associazioni come il «Cuamm», «Medici con l’Africa», il cui personale medico è attivo anche in strutture governative.
Uno di questi medici è Mario Battocletti, medico chirurgo, presso l’ospedale governativo di Iringa, a cui fa capo più di un milione di persone. Mario vive a Iringa con sua moglie e i suoi tre bambini. Quando sono andata a casa sua, ho scoperto un grandissimo professionista con il sogno di lavorare in Africa e salvare vite. Ed è quello che fa da mattina a sera, scontrandosi con la realtà confusa e purtroppo corrotta della società e dell’ospedale. Ma non si arrende.
Poi ci sono i laici missionari e singoli volontari che fanno tanto e lo fanno senza rumore, ma con creatività, ingegno e impegno. Più osservavo, giravo, conoscevo, e più sentivo che questo reportage stava diventando una missione. Una missione di informazione non solo sul Tanzania, stato sconosciuto se non per la bellezza dei suoi parchi e delle sue spiagge, ma sul mondo dei missionari che operano in un continente a noi ancora sconosciuto seppure ne siamo assuefatti.
Assuefatti all’idea che i media ci hanno sempre proposto e continuano a propinarci, alla convinzione che come l’Iraq, l’Afghanistan, sono realtà irrisolvibili ma per quali fattori? Perché? Conosciamo solo il bimbo con la mosca nell’occhio e la pancia gonfia, la guerra in Somalia, i bambini soldati, le violenze in Congo, Ruanda, Darfur e le meravigliose spiagge di Zanzibar, Pemba, Sharm e Marsa Alam!
Tra stereotipi e disinformazione
Chi conosce l’Africa (non me ne vogliano i grandi esperti di geopolitica, cultura e tradizioni) è chi legge i giornali missionari che attraverso le voci, le testimonianze di missionarie, missionari, volontari e operatori di pace, che vivono trenta, quaranta, settanta anni la realtà, hanno la voglia e la pazienza di fermarsi ad ascoltare, aiutare e poi raccontare.
Chi vive la quotidianità dei giornali, degli special televisivi ha imparato attraverso esponenti del mondo dello spettacolo, i noti «ambasciatori» a donare un euro attraverso l’sms all’Africa che non va mai avanti… a quell’Africa che muore di fame sempre e comunque. All’Africa fatta di uomini e padri che schiavizzano le mogli e i figli pur di non lavorare, a un popolo che muore di Aids perché superficiale e poligamo.
E poi veniamo a scoprire che tutto il denaro mandato tramite sms, per il Darfur o per le famiglie colpite dallo tsunami non è mai arrivato a destinazione. È bloccato in una banca belga o svizzera, ma è solo questione di tempo, recita la smentita sui giornali, ma come non c’era un’emergenza?
A me verrebbe da dire «tanto ci sono i missionari che, attraverso amici, parenti, benefattori e l’animazione, sono in grado di aiutare la gente, anche senza milioni di dollari!».
Allora due sono le cose o i missionari, avendo la corsia preferenziale di dialogo con Lui, riescono a moltiplicare i soldi, come Qualcuno moltiplicava i pesci, o sono angeli straordinari prestati a noi comuni mortali per insegnarci a vivere.
E l’interrogativo dominante: «Ma come mai, sono decenni che mandiamo, mandiamo e rimandiamo soldi attraverso queste grandi associazioni e la situazione è degenerata in un’emorragia acuta? Il dato certo è che se ne sono sentite tante. E la gente non si fida più o, se si fida, è perché la comunicazione di quella associazione è stata fatta seguendo le teorie e le tecniche migliori della comunicazione di massa.
Una comunicazione che ha screditato e criticato in maniera velata ma fin troppo efficace, per anni, la cooperazione religiosa di congregazioni presenti da decenni che dopo sessanta, settanta, cento anni ora sembrano non essere più in grado di insegnare, curare e aiutare. Io da conoscitrice del mondo giornalistico la spiegherei attraverso due fattori.
Primo fattore: sono religiosi. E in Italia sappiamo che qualsiasi persona sia religiosa o legata alla chiesa, da sempre sinonimo di sfarzo e di eccesso, non va più di moda. Pensateci!
È vero che ci sono tanti laici che hanno una fede profonda, ma se siamo arrivati alla società attuale, sarà colpa dell’economia che non va, dei nostri governanti che non sanno fare il loro lavoro, dei media che attraverso la pubblicità presentano modelli sbagliati…, ma sarà anche colpa nostra, che abbiamo perso di vista i valori fondamentali di dignità, onestà e serietà e li abbiamo sostituiti con la corsa frenetica al raggiungimento del denaro.
Una carissima amica missionaria, di una saggezza stravolgente, mi disse un giorno: «Voi andate avanti seguendo la regola delle tre S: sesso, successo e soldi». Noi giovani, usciti da poco dalle università, non possiamo che confermare che il fine delle lauree è guadagnare, guadagnare per permettersi tutto.
Il secondo fattore per cui attualmente i missionari non hanno più il successo di una volta è che non sono dottori. Sono poche le vocazioni. Poche le missionarie dottoresse e i missionari dottori laureati. In un dispensario in capo al mondo, in una zona dove non c’è luce, acqua, ma solo povertà e malattia ci sono suore missionarie settantenni, solo infermiere, che lavorano 15-18 ore al giorno, insegnando e formando praticamente Clinical Officer, capaci di sostituirle un domani, ma per i nostri dottorini e dottori delle Ong, non vanno più bene. «Non sono preparate. Sono superficiali» mi sono sentita ripetere.
Dove finiscono gli aiuti?
Potrei fare un elenco delle strutture inteazionali e associazioni che operano in Tanzania con metodologie e scopi diversi dai missionari. Ma non è il mio obiettivo.
Con il mio reportage non ho affatto intenzione di osannare solo le missionarie della Consolata, poiché ho incontrato tante congregazioni cattoliche; mi ha molto colpito, per esempio, la realtà delle missionarie della Carità, le suore di Madre Teresa, che accolgono orfani anche con gravi handicap e anziani. Anche i protestanti anglicani e luterani, le associazioni di laici missionari o volontari fanno tanto e bene.
Mi ha lasciato molto perplessa invece, il fatto che in uno stato dove il 10% della popolazione nasce con handicap fisici e mentali, nonostante la massiccia presenza delle Ong e associazioni di aiuto, non ci sia in tutto il Tanzania una struttura di ricovero per bambini, ragazzi e adulti che abbiano forti handicap mentali e fisici, una sorta di Cottolengo.
Anzi le suore del Cottolengo ci sono in Tanzania, ma anziché mantenere il carisma che hanno in Italia, con il lavoro straordinario che portano avanti, in Tanzania si occupano della pastorale… forse anche il carisma oltre oceano subisce un cambiamento climatico, fisico!
Ma non posso, inoltre, non sottolineare la diffidenza motivata delle persone quando si parla di offerte, donazioni e aiuti economici a istituti religiosi che magari sembrano sconosciuti o inaccessibili materialmente, perché talmente impegnati sul campo che sono fuori dalla comunicazione on-line, telefonica satellitare e per principi propri, fuori dalla pubblicità capillare.
Mai nessun missionario della Consolata manderà cartoline, foto di bambini tristi e malati, a tutti gli italiani, augurando loro buon natale, buona pasqua, buona festa della mamma e del papà… per colpire il cuore e le menti degli italiani, popolo statisticamente tra i più sentimentali e sensibili al mondo in materia di aiuto, nonostante il materialismo dominante, direbbe qualcuno! 
Non sarò certo la prima a fare scornop o a dichiarare che istituzioni mondiali come l’Unicef, spendono l’85% delle loro entrate tra pubblicità e stipendi, lo stesso vale per la Croce Rossa e una miriade di associazioni, grandi e piccole, che ci mandano bollettini, cartoline, e-mail… chiedendo offerte.
Con ciò non voglio dire che queste grandi realtà non abbiano fatto nulla di concreto negli anni, anzi! Il punto è però un altro: se si hanno a disposizione dieci, venti, cento milioni di dollari e l’85% viene investito non nell’istruzione, nella lotta all’Aids e alla malaria (che, non dimentichiamo, in Africa provoca la morte di un bambino ogni 5 minuti, ma piuttosto in stipendi, pubblicità, trasporti e tutto ciò che riguarda la gestione dell’istituzione, è evidente che non riusciremo a fermare un bel niente, a cambiare nulla.
Ci saranno solo progetti che partiranno e avranno un iter di due anni, cinque anni, fino al momento in cui ci saranno i soldi decisi e stanziati. Il progetto non sarà rifinanziato e il dottore di tuo a capo, andrà via e tutto toerà come prima. Secondo lo stesso Mario Battocletti: «Il problema è la non cooperazione tra le realtà private in primo luogo tra loro, e poi con quelle statali. Non c’è una programmazione di governo, ma è pur vero che sempre più spesso ogni Ong tende a fare autonomamente e quindi c’è una dispersione di aiuti».
Un approccio diverso
Altra cosa che mi ha fatto riflettere e decidere di farmi portavoce dei missionari e in particolare delle missionarie della Consolata, attraverso un reportage che fosse una missione di sensibilizzazione e informazione sulla realtà troppo scomoda delle grandi strutture di cooperazione, è la vita stessa e le strutture dei missionari rispetto alle altre. A livello igienico, sanitario, lavorativo ho visto e fotografato dispensari e centri gestiti da missionari, in villaggi senza acqua e luce, che non hanno nessuna carenza rispetto alle strutture delle Ong. Certo minor personale, ben pagato, logicamente non come quello delle «grandi», ma di gran lunga superiore alla paga stabilita dal governo.
I ritmi sono diversi. In un dispensario non c’è orario. A Mbagala, periferia di Dar Es Salaam, il dispensario delle missionarie della Consolata visita quotidianamente dalle 500 alle 600 persone. Non ho mai visto suor Franca Lidia Cochis, la suora che lo gestisce, mandar via qualcuno. Ho sentito invece dalle due di notte, passi silenziosi di mamme che si mettevano in fila, dopo aver percorso 20-30 km per far vedere i loro bambini alla sister, perché l’umanità è diversa. L’approccio e la cura sono diversi. Lo staff professionalmente competente visita, prescrive, fa iniezioni e dà le stesse medicine a prezzi inferiori.
Suor Franca Lidia, con un immaginabile sforzo, gira tutta Dar Es Salaam per comprare le medicine a prezzi inferiori dai Medical Store. Perché lo fa? Non ha uno stipendio. Non è più giovanissima. È guidata solo dalla fede e dalla scelta che ha fatto cinquant’anni fa, quando ha deciso di diventare una suora missionaria della Consolata.
Cambiare: si può e si deve
Non ho visto uffici e centri delle Ong nei villaggi di periferia delle grandi città, degradati e difficili per motivi di ordine non solo sociale e sanitario ma anche religioso, fatta eccezione per la zona di Iringa, realtà in cui c’è una maggiore concentrazione di strutture di cooperazione e sviluppo. Una consistente presenza di tali uffici l’ho vista, invece, nella parte ricca di Dar Es Salaam, davanti all’Oceano Indiano, dove la vita è altissima rispetto alla media della popolazione e il mare è un incanto. Ma questa scelta sarà stata solo una coincidenza!
In una delle proiezioni del documentario con il quale sto girando l’Italia, con lo stesso scopo di sensibilizzare sulla realtà anche difficile e traumatica nella quale operano i missionari, perché è giusto non far vedere sempre e solo il bambino con la mosca negli occhi, ma in troppi pensano che la vita del missionario sia affascinante, in posti bellissimi, con ritmi di vita molto più tranquilli dei nostri, con meno preoccupazioni; allora il mio obiettivo è anche scuotere la gente, dicevo che mi ha colpito un commento di un padre. «Siamo tutti missionari. Dal momento del battesimo, siamo tutti missionari».
Io non pretendo e non posso dare risposte e soluzioni ai problemi riguardanti il bisogno di fondi economici per la cura antiretrovirale o per le strutture dei missionari, ma mi chiedo e vi chiedo: nel momento in cui scegliamo di lavorare nell’ambito della cooperazione è perché abbiamo interesse e obiettivi a realizzare qualcosa che sia di aiuto a quello stato e alla sua gente perché in difficoltà.
Quindi possiamo anche declinare l’invito a lavorare seguendo le norme e gli standard mondiali di marketing e pubblicità. Proviamo a fare i missionari! Abbiamo famiglie, figli da mantenere, non possiamo lavorare gratuitamente perché la vita è altissima, è chiaro e noto a tutti. Non dico di fare solo i volontari, ma anziché andare in una parte del mondo per fare carriera o ridurre gli anni che ci avvicinano alla pensione o per guadagnare quattromila, settemila euro al mese, con progetti destinati a salvare la vita di esseri umani, grandi e piccoli, fermiamoci a un guadagno di mille, mille e cinquecento euro e il resto investiamolo nella totalità del progetto.
Per molti sarà un’utopia. La certezza è che continuando così non aiuteremo nessuno ma continueremo solo a riempirci la bocca di Africa, aids, malaria e morte, alimentando il binomio Africa=morte e a disperdere i fondi.
Un esempio…
Ho conosciuto una coppia di italiani a Dar Es Salaam che mi ha colpito particolarmente: un medico italiano, fisioterapista, Augusto Zambaldo, che dirige il reparto di riabilitazione dell’ospedale Ccbrt (Comprehensive Comunity Based Rehabilitation, Centro riabilitativo su base comunitaria del Tanzania) che lavora nell’ospedale specializzato per problemi alle ossa (Ccbrt, Comprehensive Community Based Rehabilitation Tanzania), costruito da una Ong tedesca, ottimo dal profilo medico, e sua moglie Laura, una graziosissima insegnante.
Augusto Zambaldo vive da più di 20 anni in Tanzania con la sua famiglia. Ha lavorato per anni prima in Kenya e poi in Tanzania in strutture ospedaliere anche di missionari, preferendo vivere con uno stipendio molto più basso rispetto alla media dei suoi colleghi, con ritmi di vita altrettanto massacranti, animato solo dalla voglia di aiutare e sapeva di essee in grado.
Le figlie sono nate in Kenya, hanno studiato in Tanzania e ora una frequenta l’università in Italia. Augusto e Laura hanno scelto la strada più difficile. Non sono diventati mai ricchi, materialmente, ma credo che le emozioni che hanno vissuto in questi decenni sono state un’immensa ricchezza. Le difficoltà non sono state e non sono poche soprattutto per l’equilibrio familiare.
Mi raccontavano che una delle figlie voleva tornare in Italia, perché la scelta di vivere in Tanzania aiutando gli altri, non era la sua, ma la loro, gli ripeteva. È normale che una ragazza giovanissima, nata e cresciuta in Africa, una volta arrivata in Italia, dove tutto sembra possibile e realizzabile con minor sforzo, voglia vivere nel bel paese!
Augusto e Laura erano in crisi perché significava separarsi, dopo una vita vissuta sempre l’uno al fianco dell’altro. Augusto non concepiva l’idea di lasciare tutto e tornare, ma non poteva nemmeno dire di no a sua figlia. Il lavoro di un medico in quei posti è una missione. E per Augusto lo è.
Laura aveva deciso di tornare in Italia per stare vicina alla figlia, ma Augusto sapeva che un figlio ha bisogno di entrambi i genitori. Non so cosa ha poi deciso Augusto, ma qualsiasi sia stata la sua scelta credo proprio che non sia stato semplice.

Di Romina Remigio

Romina Remigio




«DIO È AMORE»

la parabola del «figliol prodigo» (24)

Concludiamo il nostro lungo cammino in compagnia dell’evangelista Luca, il quale da par suo ci ha fatto conoscere profondamente cinque personaggi: un padre sconfinato che non esita a dare la vita per i figli; il figlio minore, sognatore e irrequieto, ma senza una propria progettualità tanto da finire subito in fallimento; il figlio «anziano», apparentemente tutto dolce e obbediente, ma nel suo cuore è tragico senza possibilità di redenzione; la persona di Gesù, che non smentisce la sua natura di rivoluzionario delle convenzioni religiose e sociali del suo tempo; e infine noi stessi, noi lettori, che dopo questo viaggio «dentro» la parabola del cosiddetto «figliol prodigo», non possiamo rimanere gli stessi di quando abbiamo cominciato.

Punto di arrivo e di partenza: domande personali
La parabola del figlio prodigo, infatti, penetra nel midollo della nostra anima e ci scaifica fino all’osso come una spada tagliente (cf Eb 12,4). La lettura e il commento che abbiamo fatto ci obbligano a una presa di posizione personale nei confronti di Dio e dei nostri stili di vita. Le domande sono individuali. Chi è Dio «per me?». Il comportamento del padre che perdona senza chiedere in cambio nulla, un perdono gratuito, senza condizione mi scandalizza oppure mi rivela un «volto nuovo» di Dio che prima non immaginavo? Ritengo che il comportamento del padre sia «ingiusto» secondo i miei criteri della giustizia che spesso si avvicina fino a confondersi con la vendetta? A quale dei personaggi della parabola mi trovo più vicino? Per quali motivi? Ha senso la mia pratica religiosa, dopo avere vissuto questa parabola dal punto di vista del padre/Dio?
Tutte queste domande e molte altre ancora tracimano dentro di noi perché la parabola lucana è uno spartiacque tra il «dio-idolo», che a volte ci costruiamo per giocare a fare i religiosi, e il «Dio-Misericordia» che trancia la logica umana, esigendo da noi uno stile di vita divino, in forza del principio evangelico: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,48).
Il cristianesimo è tutto qui: non è una morale, né un sistema di pensiero, né un’organizzazione, né una religione, ma è solo una «imitazione» che si trasforma in simbiosi di vita e prospettiva con una Persona. Se non impariamo nei nostri rapporti, contatti, pensieri, parole, ideali, atteggiamenti, ad agire come Dio, la nostra religiosità è un francobollo da cui è evaporata la colla.
Ripercorriamo brevemente il cammino fatto con Luca e la sua parabola. Siamo partiti da alcune domande poste da un lettore: «Da dove Lc ha attinto questa parabola, non essendo apostolo? Come spunta questa meravigliosa “perla”, visto che è esclusiva di Lc e non compare negli altri evangelisti? L’ha pronunciata veramente Cristo?».
Le domande sono radicali e dimostrano la poca frequenza, oltre la lettura di prassi, con la complessità della formazione dei vangeli e del NT. Un dato è certo: i cattolici conoscono poco, pochissimo, quasi niente le sacre scritture, che dovrebbero essere il fondamento della loro fede. Essi, infatti, sono molto religiosi, ma scarseggiano di fede e di conoscenza. Officiano, senza amare.

Conoscere la scrittura e il suo cammino
Di fronte a tali presupposti abbiamo proposto una carrellata veloce sulla formazione dei vangeli, spiegando che i vangeli non sono nati per tramandare aneddoti su Gesù, ma sono stati «predicati» per fare conoscere Gesù ai propri contemporanei. Da questa predicazione orale, fatta da persone innamorate di Gesù, sono nati i primi scritti come elenchi di miracoli, di parabole, di detti o sentenze ad uso in genere dei catechisti e dei predicatori.
Questi documenti sparsi giravano per le chiese e cominciarono a essere abbinati come «Parola di Dio» alla lettura dell’AT nelle assemblee eucaristiche. A circa 30 anni dalla morte di Gesù, quando ormai Paolo aveva valicato i confini della Palestina e fondava chiese nell’attuale Turchia e in Grecia, l’evangelista Marco, per primo, inventa un genere letterario nuovo che chiama «vangelo», preso più tardi a modello da altri due progetti pensati da Matteo e da Luca. Nascono così i vangeli «sinottici» perché se si mettono in colonne affiancate Marco, Matteo e Luca, si possono leggere simultaneamente o, come si dice in gergo biblico, in «sinossi» che significa «con un colpo d’occhio».
Lo schema dei vangeli «sinottici» è semplice: a) predicazione di Giovanni Battista; b) predicazione e attività di Gesù, prima in Galilea e poi in Giudea/Gerusalemme; c) passione, morte e risurrezione di Gesù. A questo schema, in epoca successiva, Mt e Lc aggiungono i primi due capitoli dei rispettivi vangeli che si chiamano in blocco «vangeli dell’infanzia», perché trattano di Gesù Bambino, ma visto e descritto alla luce della pasqua già avvenuta.
L’evangelista Gv non segue questo schema, ma si pone su un piano più teologico, perché fa emergere una «cristologia» alta: Gesù infatti fa lunghi discorsi che sono inverosimili storicamente, mentre sono essenziali per il progetto di Gv che ci presenta Gesù, l’uomo di Nazaret, come il «Lògos» eterno incarnato nella storia.
Dopo questa premessa essenziale e didascalica, abbiamo parlato del capitolo 15 di Lc, che riporta tre parabole secondo le bibbie ordinarie, mentre abbiamo dimostrato che le parabole sono due, di cui la prima quella del pastore è ripetuta anche in versione femminile (la donna che perde e trova la moneta). Il capitolo 15 di Lc è uno spartiacque, il vertice di tutta la rivelazione del NT, dopo l’affermazione giovannea che «Il Lògos-carne/fragilità fu fatto» (Gv 1,14). Successivamente abbiamo presentato i protagonisti della parabola con una breve scheda storica dei pubblicani, scribi, farisei e sinedrio che fanno da sfondo e da pretesto alla parabola.

Luca 15: una nuova prospettiva
Infine, abbiamo avanzato l’ipotesi, che ci sta a cuore e di cui siamo convinti: il capitolo 15 di Luca, compresa quindi la parabola del figliol prodigo, non è una invenzione di Lc, ma è un «midràsh» del capitolo 31 di Geremia. Abbiamo spiegato che il midràsh è un modo giudaico di esegesi che si basa sul principio che la scrittura si spiega con la scrittura. Lc prende il testo del profeta Geremia che appartiene all’AT e lo commenta non con un altro testo dell’AT, ma con due parabole messe in bocca a Gesù, dicendoci così che la parola di Gesù è sullo stesso piano dell’AT: è Parola di Dio.
Gesù ha parlato ai suoi uditori di pecore, di monete e di figli: ne abbiamo molti esempi nei vangeli; ma nella forma espressa da Lc, l’intero capitolo è una costruzione per tradurre in forma cristiana il capitolo 31 di Geremia che parla di un pastore, di una donna e di due figli.
Il contesto di Geremia è «la nuova alleanza» (Ger 31,31) che è la chiave di comprensione di tutta la vita di Gesù. Egli porta la novità di un Dio che trasforma la vendetta in perdono, l’esclusione in inclusione, l’emarginazione in elezione, il peccato in grazia, il rifiuto in accoglienza. La novità riguarda anche la religione: dagli atti estei di culto pubblico o privato si passa all’adesione del cuore, all’etica dell’intenzione, alla purezza del cuore, al perdono senza condizione.
In MC (Luglio/agosto 2006) scrivemmo: «Lc 15 è dunque un midràsh di Ger 31 o, se si vuole, una omelia che commenta il testo profetico. La comunità cristiana delle origini prima e Lc successivamente hanno riletto il capitolo 31 del profeta Geremia con gli occhi fissi su Gesù, tanto che l’evangelista nel redigere il capitolo, ha mantenuto lo stesso ordine dei personaggi come si trovano nel profeta: un pastore, una donna, un padre con un figlio. Per potersi rendere pienamente conto di quanto profondo e attualizzante sia il rapporto tra Lc 15 e Ger 31, è necessario leggere il testo del profeta Geremia e quello di Lc in sinossi, cioè in modo speculare»: nello stesso numero mettemmo a disposizione dei lettori i due testi a confronto per vedee somiglianze e differenze.
Noi cattolici siamo abituati a leggere il vangelo e il NT in genere con la nostra mentalità occidentale latina, senza alcun riferimento, se non in forme marginali, all’ambiente vitale dove questi scritti sono nati, sono stati pensati e sono stati messi su pergamena.

Il giudaismo, ambiente vitale del vangelo
A questo scopo, abbiamo insistito molto nel dire che corriamo il rischio di non capire il 90% del vangelo se ci limitiamo a leggerlo con le nostre categorie culturali e non ci sforziamo di situarlo nel suo ambiente vitale, culturale e religioso del suo tempo. Gesù è un ebreo, Maria è un’ebrea, Giuseppe è un ebreo della stirpe di Davide, gli apostoli sono ebrei osservanti, i primi cristiani sono ebrei figli di Abramo: non possono non pensare e non esprimersi da ebrei. Essi conoscono non solo la scrittura ebraica, che è Toràh, i Profeti e gli Scritti (corrispondenti ai nostri Sapienziali), essi conoscono anche e specialmente la «bibbia orale», che è tramandata solo oralmente attraverso la predicazione e la sinagoga con i Targum e i Midràsh.
Affinché non andasse perduta, la maggior parte della predicazione orale fu messa per iscritto durante la diaspora tra il sec. II e il sec. VI d.C., ottenendo così i testi che conosciamo con il nome di Mishnàh, Talmud, Tosèphta, Ghemarà, che riportano i commenti alla scrittura di tutti i saggi d’Israele dal sec. III a.C. al sec. VI d.C. È un materiale immenso, certamente tardivo, ma che contiene materiale anche antico da valutare di volta in volta. Noi cattolici non conosciamo quasi nulla di tutto questo e spesso ci scandalizziamo, perché consideriamo il NT un frutto del tutto avulso dal mondo che lo ha generato e partorito. Finché non si ritoerà alla bibbia come libro fondamentale della nostra fede, basato nel contesto giudaico, il nostro cristianesimo sarà molto superficiale e anche falsato.
Abbiamo presentato la parabola, cercando di evidenziae il vocabolario peculiare, mettendo in risalto il comportamento del padre che riflette il modo di essere di Dio nei nostri confronti. S’è scoperto che il figlio maggiore è rappresentativo del mondo farisaico, che rigetta Gesù per difendere il proprio potere, e che il figlio minore ha tutte le caratteristiche dei pubblicani. Come questi, anche il minore non è giustificabile, ma nella logica della parabola non è determinante che egli chieda perdono, come spesso si legge nei commenti e negli usi liturgici di questa parabola, perché il cuore della pagina non è il figlio minore o maggiore, ma è l’accoglienza del padre/Dio, che previene i figli al di là dei loro meriti.
In sostanza abbiamo visto che il significato ultimo della parabola è la tenerezza di Dio, che si commuove fino alle viscere se vede un figliolo che si sta perdendo in «un paese lontano»: egli allora spinto dal suo viscerale amore senza fondo e senza confini, perde se stesso pur di guadagnare il figlio/figli. Alla fine abbiamo scoperto con amarezza che riesce nel caso del figlio minore, ma fallisce nel caso del figlio maggiore.

Lettura scientifica e insegnamento spirituale
Abbiamo impegnato 15 puntate per commentare i singoli versetti della parabola lucana, mettendo in evidenza anche aspetti psicologici, oltre che esegetici, pastorali e spirituali: il nostro commento infatti non voleva essere solo un rendiconto asettico delle questioni letterarie o testuali, ma un momento di valutazione anche della nostra vita alla luce della parola di Dio, più profondamente compresa. Lo studio della bibbia più è scientifico più diventa spirituale, perché dandoci il senso genuino del testo scritto, ci permette di entrare nel messaggio autentico della rivelazione.
All’interno del commento abbiamo imparato il significato del vitello grasso, il cui sacrificio ristabilisce i termini dell’alleanza qui tra figlio e padre e in termini più generali l’alleanza che in Gesù si stipula tra l’umanità e Dio, fermo restando il mestiere per eccellenza di Dio che è la misericordia. «I sandali, la tunica e l’anello» ci hanno svelato il senso nascosto nella tradizione giudaica di reintegro nell’eredità materiale, nella dignità personale e nell’identità filiale; siamo così arrivati a scoprire il capovolgimento delle situazioni di partenza: il figlio che ha chiesto la vita del padre per poterla sperperare nella dissolutezza e nell’impurità (paese lontano) ora si ritrova immerso in quella stessa vita che lo ha salvato dall’inferno della dannazione (porci) e dalla presunzione di se stesso.

La conversione interessata
Troppa retorica si è fatto attorno al figlio prodigo e alla sua conversione, tanto che è diventato un classico, durante la quaresima, imbastire una liturgia penitenziale dove lo si prende a modello di conversione e di pentimento. Il figlio minore invece è motivato dalla «necessità di sopravvivere» e la sua conversione, se c’è, avviene dopo, nel silenzio della parabola, quando il padre lo fa entrare nella sala del banchetto con la veste nuziale che gli cambia l’aspetto e quello che più conta il cuore. Ancora una volta è il padre il peo di ogni movimento.
Abbiamo anche ridimensionato drasticamente il figlio maggiore, verso il quale si è di solito più indulgenti, perché apparentemente non ha mai dato dispiaceri al padre, restando sempre in casa. Il commento ha evidenziato la natura perversa di questo figlio, simbolo del fariseismo e dell’opportunismo, del comportamento cioè di chi trama nell’acqua senza mai esporsi. Egli ha goduto, almeno crediamo di averlo bene chiarito, della partenza del figlio e già faceva i calcoli della «sua roba» alla morte del padre che aspettava con ansia. La sua vita è rovinata dal padre che accoglie il fratello e, come è stato assente per tutta la sua vita dalla vita del padre, così alla fine egli resta fuori del banchetto e non può indossare l’abito delle nozze. Egli che è rimasto sempre in casa, di fatto era partito da un pezzo ed era rimasto lontano, molto più lontano del paese dove è andato a gozzovigliare il fratello; il minore invece, andato fisicamente via da casa, è tornato perché nel suo cuore, anche a sua insaputa, era rimasto legato al padre di cui aveva inconsciamente nostalgia.

Gli ultimi precedono i primi
Abbiamo pure visto concretizzarsi la «legge» biblica del ribaltamento delle posizioni codificato nel Magnificat di Maria e la «legge della sostituzione» che percorre la bibbia dalle origini alla fine: l’ultimo prende il posto del primo e il secondogenito subentra nell’asse ereditario al primogenito. Strano e illogico, secondo i parametri umani, il Dio che è delineato nella parabola del figlio prodigo!
Egli è un Dio senza dignità e senza rispetto per se stesso, perché, travolgendo ogni costume sedimentato e ogni razionalità, si «mette a correre» per venire incontro a chi non ha più speranza, a chi è morto e bandito dalla società e dalla religione. Egli è un Dio senza pudore che abbandona il tempio, le chiese, conventi e monasteri, dove i figli sono al sicuro e corre per le strade del mondo a cercare la pecora smarrita, la moneta perduta e il figlio traviato. A buon diritto il lettore può dire: egli viene per me.
Un’attuazione pratica della parabola si ha nell’eucaristia, che è il commento sacramentale, o «midràsh sacramentale», della parabola della tenerezza del Padre che trasforma la vita del Figlio unigenito in parola, pane e vino perché i figli dispersi e smarriti possano rifocillarsi nell’ascolto, nel cuore e nel corpo per ritrovare il Volto di Dio, che in Gesù si manifesta e rivela a noi come Padre/Madre.
È questo il senso ultimo della parabola della pateità sconfinata che sa rigenerare, perché ama senza scopo e senza interesse. Se dovessimo sintetizzare il capitolo 15 di Lc in una parola, non avremmo dubbi perché c’è una sola parola, come ci suggerisce Paolo in 1Cor 13, e questa parola è «Agàpēē», il nome nuovo del Dio di Gesù Cristo: «Dio è Agàpēē» (Gv 1Gv 4,8) che tradotto alla lettera si può rendere con «Dio è Amore a perdere».

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Chiese vulnerabili a rischio estinzione

«Popoli e chiese dell’oriente cristiano»

Da più parti il cristianesimo è considerato essenzialmente occidentale, dimenticando le antiche comunità cristiane fiorite nel Vicino Oriente, prima dell’espansione islamica. Il volume «Popoli
e chiese dell’oriente cristiano» di Aldo Ferrari* vuole riparare a tale dimenticanza, presentando la loro tradizione storica e spirituale, la difficile situazione attuale di alcune chiese orientali, che rischiano
di scomparire dalle loro sedi millenarie.

Delle tre sedi patriarcali in cui era suddivisa la chiesa delle origini, due si trovavano sulla riva orientale del Mediterraneo, nelle città di Alessandria e Antiochia. Nulla di strano che nei primi secoli della nostra era il cristianesimo fosse vivo soprattutto in prossimità dei luoghi che avevano visto la predicazione di Gesù e da cui era partita l’azione evangelizzatrice degli apostoli. Proprio dalla Palestina il nuovo credo si era irradiato lungo le strade dell’Impero Romano, fino ai suoi estremi confini, e vi aveva trovato rapida diffusione, favorito da un clima culturale ricettivo, dalla tolleranza verso gli «dei stranieri», dall’ordine e dalla convivenza pacifica che la pax romana garantiva.
È, invece, più difficile da capire perché il cristianesimo occidentale abbia finito per oscurare la memoria della chiesa orientale, da cui esso ha tratto le proprie origini. Ben venga, dunque, la nuova monografia curata dal professor Aldo Ferrari, Popoli e chiese dell’oriente cristiano, che dà la possibilità di approfondire le ragioni di quest’oscuramento e riscoprire il patrimonio spirituale e culturale che in duemila anni la cristianità orientale non ha cessato di esprimere.
Pur necessariamente incompleto, per la difficoltà di contenere nello spazio di un volume la storia delle numerose comunità cristiane d’oriente, il panorama che ci è qui offerto si presenta di una sorprendente varietà: comprende le chiese copta ed eritrea in Africa, le chiese melkita, ortodossa e cattolica, e maronita nel vicino Oriente, la chiesa sira occidentale, ortodossa e cattolica, e sira orientale, assira e caldea, in Mesopotamia e Iran, le chiese armena, apostolica e cattolica, e georgiana ortodossa nel Caucaso.

LA FRATTURA DOTTRINALE
Come emerge chiaramente dalle pagine del volume, il quasi oblio in cui sono cadute le chiese orientali nella coscienza dei cristiani d’occidente si può spiegare con due ordini di ragioni: intee ed estee alla chiesa.
I primi secoli videro la chiesa, ancora unica e indivisa, impegnata in un intenso dibattito volto a stabilire i fondamenti del credo cristiano. Nel iv secolo fu affrontata la questione trinitaria e si arrivò a definire la formula della consustanzialità delle tre Persone. Già allora si corse il grave rischio di una spaccatura intea, a causa del consenso suscitato dalle tesi del prete alessandrino Ario, il quale non riconosceva al Figlio una natura uguale a quella del Padre. Questo pericolo fu evitato con la convocazione del primo concilio ecumenico a Nicea nel 325.
Non altrettanto felice fu l’esito delle controversie cristologiche, che nel v secolo contrapposero le scuole teologiche di Antiochia e Alessandria. La definizione dogmatica della duplice natura di Cristo, divina e umana, fu materia dei due concili di Efeso e Calcedonia, dove si scontrarono posizioni teologiche diverse. A Efeso, nel 431, fu condannato il patriarca Nestorio, che aveva portato alle estreme conseguenze la teologia duofisita della scuola di Antiochia e chiamava Maria madre di Cristo, ma non madre di Dio. Il concilio di Calcedonia, 20 anni più tardi, si concluse con la riabilitazione della scuola di Antiochia e la condanna della dottrina professata da quella di Alessandria.
Le diatribe cristologiche ebbero la nefasta conseguenza di aprire una frattura, non solo tra Oriente e Occidente, ma anche nella stessa cristianità orientale, che si divise in efesina e non efesina, calcedonese e non calcedonese. Non efesini sono i cristiani che fanno riferimento alla chiesa sira orientale, non calcedonesi sono i siri occidentali, gli armeni, i copti e gli eritrei. La «grande chiesa», cioè quella di tradizione calcedonese, sia greca che latina, chiamò nestoriani i primi e monofisiti i secondi, termini che, oltre a essere imprecisi, sono percepiti come offensivi dai diretti interessati.
Oggi si è fatta strada la coscienza che quelle controversie nacquero più a causa di fraintendimenti nell’uso e interpretazione dei termini teologici, che di vere e proprie divergenze nel modo di concepire la natura di Cristo. «In realtà, il linguaggio teologico delle due scuole era profondamente diverso e questo impediva una reale comprensione delle reciproche posizioni» leggiamo nel saggio di Paola Pizzi sui cristiani melkiti; mentre Alessandro Mengozzi, autore del saggio sulla chiesa sira, parla di una «frattura linguistica, culturale e politica tra il centro dell’impero bizantino e regioni periferiche, ma culturalmente e socialmente vivaci, come l’Egitto, la Siria, la Mesopotamia o l’Armenia».
E cita un passo di un teologo siro occidentale, che nel xiii secolo scriveva, con una perspicacia davvero sorprendente: «Dopo aver molto ponderato il problema, mi sono convinto che queste dispute dei cristiani fra loro (sulla cristologia) non riguardano nulla di sostanziale, ma piuttosto sono questioni di parole e termini, perché tutti confessano che Cristo nostro Signore è Dio perfetto e uomo perfetto, senza commistione, mescolanza e confusione delle nature».
Dopo sette secoli questa stessa convinzione ha ispirato le dichiarazioni congiunte di fede firmate da Giovanni Paolo ii e dai patriarchi della chiesa sira occidentale e della chiesa d’Oriente. Purtroppo, quelli che noi ora giudichiamo equivoci dovuti a consuetudini linguistiche diverse sono stati fonte di molti mali per i cristiani tutti. La presunzione di eresia ha inquinato i rapporti tra le chiese, aprendo un profondo solco d’incomprensione tra le diverse sponde del Mediterraneo.
Rende bene l’idea di quali siano state le conseguenze di questa divisione il fatto menzionato da A. Camplani e A. Elli nel saggio sulla chiesa copta. Essi ricordano che, dopo aver tolto la Palestina ai musulmani, i crociati confiscarono i beni dei cristiani orientali, che consideravano eretici, e impedirono loro l’accesso ai luoghi santi. Quando nel 1187 i crociati furono sconfitti dal Saladino e costretti ad andarsene, «i copti accolsero con gioia la riconquista di Gerusalemme, perché veniva così loro concesso di riprendere, dopo quasi 90 anni, i pellegrinaggi al Santo Sepolcro».

LA CONQUISTA ISLAMICA
Alla frattura dottrinale, nel vii secolo si aggiunse quella causata dalla conquista araba. Questa volta fu l’intervento di una forza estea a dividere tra loro le comunità cristiane. Il continuo stato di belligeranza tra la nuova potenza araba e l’Europa rese ancora più difficili i contatti tra una parte e l’altra del Mediterraneo, quando non li interruppe del tutto, e finì per isolare l’Oriente dall’Occidente cristiano, se si esclude il breve e controverso intervallo dei regni crociati.
Dalla metà del vii secolo, i cristiani che vivevano nei territori dell’Impero Romano d’Oriente, con l’eccezione della penisola anatolica, si trovarono soggetti a un potere teocratico, quello dei califfi, che assegnava loro una condizione d’inferiorità rispetto ai sudditi musulmani. Anche se ciò, in linea di principio non significava il divieto del culto, essere, o meglio, rimanere cristiani diventava oneroso, e non solo perché si era gravati di maggiori tasse rispetto a coloro che si erano convertiti all’islam.
Il rapporto tra le comunità cristiane e le autorità registrava continui alti e bassi: a periodi di convivenza pacifica si alternavano periodi di discriminazione, se non di vera e propria persecuzione. Ciò spiega la progressiva erosione del numero dei cristiani in terra islamica. Alla vigilia della conquista ottomana essi costituivano ormai meno del 10% della popolazione.
Paradossalmente, fu proprio l’arrivo degli ottomani, che fino alla fine del xvii secolo furono percepiti dalla cristianità occidentale come una minaccia alla sua sopravvivenza, a migliorare la vita dei cristiani in Oriente.
Sulla vita delle comunità cristiane influì positivamente il sistema dei millet istituito dal governo ottomano. Si trattava di una forma di autogoverno, che concedeva alle comunità religiose, ufficialmente riconosciute dalla Sublime Porta, una considerevole autonomia amministrativa. Questa nuova forma di organizzazione sociale diede ai cristiani maggiore stabilità e garanzie nei rapporti con le autorità islamiche e contribuì a una notevole ripresa demografica all’interno delle loro comunità.

RESISTENZA E ISOLAMENTO
Per i siri orientali l’isolamento dal resto dell’ecumene cristiano iniziò molto prima del vii secolo. La chiesa sira ebbe origine a Edessa, nell’alta Mesopotamia. In questa città già nella seconda metà del ii secolo è documentata la presenza di una vivace comunità cristiana, che si contraddistingueva per l’uso liturgico di una variante locale di aramaico.
Edessa si trovava all’estrema periferia dell’Impero Romano e una parte della comunità sira, quella orientale, che prese poi il nome di «Chiesa d’Oriente», si trovò ben presto a svilupparsi all’esterno dei suoi confini, nelle terre dei persiani, arcinemici di Roma. Ciò rese difficili i contatti con gli altri centri cristiani e ostacolò la partecipazione dei rappresentanti di questa comunità ai concili ecumenici. Costretta a contare sulle sue sole forze, la Chiesa d’Oriente si organizzò in totale autonomia, nella fedeltà al legame originario con la scuola di Antiochia e alla sua teologia duofisita.
Nonostante la precarietà in cui visse, seppe produrre uno straordinario slancio missionario, che portò i suoi monaci lungo le strade carovaniere fino in India, in Asia Centrale, in Mongolia e in Cina. Si pensi, ad esempio, che la fondazione della prima chiesa sira a Ch’ang-an, capitale della dinastia cinese dei T’ang, nonché punto di partenza della via della seta, risale al 638. Erano proprio gli anni in cui l’Impero Bizantino, da una parte, e quello persiano, dall’altra, stavano per essere travolti dalle schiere arabe.
Anche nei pochi casi in cui i cristiani in Oriente non si trovarono in condizione di minoranza tra fedeli di altre religioni, il loro destino non è mai stato facile. Le chiese etiope, armena e georgiana hanno rappresentato delle isole di cristianesimo in territori sempre più islamizzati.
Grazie alla sua posizione remota, lontana dal Mediterraneo e dalle grandi vie di passaggio, l’Etiopia riuscì a contenere l’espansione dell’islam, a prezzo, però, di un isolamento durato secoli. In Armenia e in Georgia il cristianesimo si affermò come religione nazionale dal iv secolo e si è mantenuto tale fino ai nostri giorni, ma ha dovuto opporre una strenua resistenza alla pressione dei vicini musulmani, cui gli armeni e, in parte, i georgiani, furono anche soggetti politicamente. La storia del cristianesimo in queste terre presenta un pesante bilancio di violenze e martirio.

RISCHIO ESTINZIONE
Leggendo questo volume, pagina dopo pagina, ci si rende conto di cosa abbia voluto dire essere cristiani in oriente. Rimanere nella chiesa è stata per gli orientali una scelta impegnativa, scomoda e mai scontata, ha spesso voluto dire vivere in condizioni d’inferiorità, con diritti limitati e limitate possibilità di sviluppo. Nonostante questo essi hanno saputo custodire intatta la propria fede e la bellezza delle loro liturgie.
La chiesa occidentale non può ignorare questo prezioso patrimonio di spiritualità, se non a prezzo di un suo enorme impoverimento. Il secolo precedente ha fatto molto per il riavvicinamento tra le chiese, non solo nella ripresa di contatti tra le gerarchie, ma anche in termini di reale conoscenza reciproca, dopo secoli di silenzi. Tuttavia, molto rimane da fare.
L’orizzonte dell’Occidente rimane ancora troppo autoreferenziale, e i cristiani non fanno eccezione, siano essi capi di stato o semplici cittadini. Spesso nelle questioni che riguardano l’Oriente, gli occidentali si muovono senza considerare quali conseguenze i loro interventi possono avere sul difficile equilibrio tra le minoranze cristiane e le società in cui sono inserite.
Quando papa Giovanni Paolo ii chiedeva accoratamente che al popolo iracheno fosse risparmiata l’esperienza di un’altra guerra, pochi capivano che il suo sguardo era rivolto con particolare preoccupazione alle comunità cristiane del Medio Oriente. Egli sapeva bene, infatti, che un conflitto avrebbe avuto su di loro gravi conseguenze, perché i cristiani sono visti come alleati dell’Occidente, con cui condividono la fede. La guerra ha provocato un vero e proprio esodo dei cristiani dall’Iraq e ne ha in pochi anni dimezzato la presenza nel paese.
Anche in condizioni di pace, i cristiani in Oriente rimangono a tutt’oggi un gruppo sociale tra i più vulnerabili. Le tensioni inteazionali e quelle intee ai rispettivi paesi si ripercuotono in modo particolare sulle loro comunità, spingendo molti a emigrare.
L’emigrazione verso l’Occidente, iniziata già a fine Ottocento, ha assunto in questi ultimi decenni proporzioni sempre maggiori ed è difficile prevedere un’inversione di tendenza, finché permangono le condizioni che spingono i cristiani ad andarsene: mancanza di libertà, mancanza di sicurezza personale e precarietà economica.
Il fenomeno è tale da far pensare all’estinzione dei cristiani, almeno in Medio Oriente. Se ciò accadesse sarebbe una perdita incalcolabile, non solo per il cristianesimo, ma anche per la stessa civiltà islamica, cui i cristiani hanno dato un contributo unico, nelle arti, nella letteratura, nel pensiero e nella modeizzazione.
Ci sarà, dunque, un futuro per le chiese in Oriente? È la domanda con cui si concludono alcuni dei saggi. Per i loro autori, come per chiunque abbia conosciuto e incontrato la realtà di queste chiese, pare impossibile che tutto ciò possa sparire. E allora si trova conforto nel loro passato, che le ha condotte fino a noi, pur tra infinite e dolorose prove; si trova conforto nei piccoli segni di cambiamento, che sembrano far intravedere l’avvento di tempi più benigni.
Ma anche questo non sarebbe niente, se non ci fosse la speranza, «forse la più mondana delle virtù teologali, quella intrecciata per natura alle vicende storiche di questo mondo e destinata con la fede a spegnersi a favore della carità nel mondo a venire» (A. Mengozzi). 


Di Biancamaria Balestra

Biancamaria Balestra




Sogni in catene

Vivere a Joaquim Gomes (Alagoas, Brasile)

Quindici giovani del gruppo «Amici di Joaquim Gomes» di Piossasco (To) hanno speso le loro vacanze aiutando le suore di San Giuseppe di Pinerolo a realizzare i loro progetti nella cittadina brasiliana: un’esperienza indimenticabile, a contatto con situazioni disperate e nell’impegno di solidarietà nella lotta silenziosa per rivendicare  diritti umani e dignità.

La BR101, nel tratto in cui attraversa lo stato di Alagoas, si riduce ad appena due corsie di marcia che, nella stagione delle piogge, si tempestano di buche enormi sotto il continuo passaggio dei lunghi camion che, lungo questa strada di 4.551 chilometri, attraversano il Brasile da nord a sud.
Percorriamo questa interminabile pista di curve, che si insinuano tra le colline, e arriviamo al bivio che ci porterà finalmente alla cittadina di Joaquim Gomes. A indicarci l’arrivo è un enorme cartello su cui, anche da lontano, si può leggere a chiare lettere il nome del paese e, appena sotto, la scritta: «Construindo con Ela», ossia «Costruendo con Lei».
Quel «Lei» è l’autocelebrazione di Cristina Brandão, donna senza scrupoli, arrivata all’improvviso nel paese pochi mesi prima delle elezioni amministrative e che ha trasformato il suo bagaglio di denaro in una scontata vittoria. Questa le ha permesso di acquistare, nel vero senso del termine, il titolo di sindaco, che da queste parti è, più che un incarico, un finanziamento con introiti assicurati, tramite un sistema di corruzioni e di deviazione di denaro pubblico conosciuto da tutti ma diffusamente impunito.
Joaquim Gomes sarà la nostra casa per più di un mese e sarà il nostro «campo base» nel viaggio tra le infinite realtà di contrasti, di ingiustizie e di diritti negati in questo Brasile in cui, ogni volta di più, aumenta il divario tra ricco e povero, tra progresso e arretramento, tra tecnologie e possibilità di accedere ad esse.
Le guide che ci accompagneranno nel capire questo mondo saranno un gruppo di donne che in questo paese ci vivono da anni e che da anni lottano per affermare la giustizia, i diritti e la dignità di ogni persona, tramite un’instancabile azione di rivendicazione e di promozione umana e l’annuncio del messaggio di speranza del vangelo. Sono le suore di San Giuseppe di Pinerolo, in parte missionarie italiane e, ormai in maggioranza, giovani e determinate suore brasiliane. Il loro lavoro è quello di cercare di rimediare alle carenze che nel paese colpiscono la parte più debole della popolazione; una popolazione che attualmente risulta composta dalle donne, da qualche anziano e da moltissimi bambini.

Di uomini a Joaquim Gomes se ne vedono davvero pochi; la maggioranza di essi, infatti, è costretta a emigrare in altre regioni dove la manodopera è più richiesta, finendo in uno stato di semi schiavitù, in lontane ed estese piantagioni di canna da zucchero, da cui, in molti casi, non riescono più a tornare, lasciando così alla propria sorte moglie e figli.
Nel solo anno 2007 da Joaquim Gomes sono partiti più di 3 mila uomini, su una popolazione di 22 mila abitanti, in cerca di un lavoro che permettesse loro di far sopravvivere le proprie famiglie; ma quasi sempre sono diventati vittime del meccanismo messo in atto dai fazendeiros, che, tramite esperti intermediari, riescono a incastrare migliaia di uomini rendendoli debitori dei loro datori di lavoro ancora prima di entrare in servizio. La strategia è molto semplice: a ogni lavoratore viene anticipato il denaro per i costi del viaggio, e per pagarsi il vitto, gli attrezzi di lavoro e il proprio sostentamento; a nessuno è permesso lasciare il posto di lavoro fino a quando non avrà ripianato il debito col padrone. Un impegno quasi impossibile, con un lavoro sottopagato. Anche se qualcuno riesce nell’impresa, rimane ancora il problema di acquistare il biglietto del viaggio di ritorno, che permetta loro di percorrere i tre giorni di pullman che separano il Mato Grosso (terra solitamente di destinazione dei lavoratori stagionali) dalle loro famiglie in Alagoas.

In assenza degli uomini, che raramente riescono a inviare denaro alle proprie famiglie, sono le donne che lottano per la sopravvivenza dei loro figli, portando avanti la casa e provvedendo alle loro necessità. Sono donne forti e provate dalla fatica giornaliera.
Fin dalle cinque del mattino le sentiamo passare per le vie, fuori dalla porta della casa che ci ospita; le vediamo scendere al fiume; in testa portano enormi bacinelle con i vestiti da lavare, in mano qualche pentola e attorno i figli più grandi con in braccio quelli più piccoli, pronti per il bagno nell’acqua torbida che scorre lenta tra le colline del paese.
Ancora prima dell’alba, gli uomini rimasti nel paese ci svegliano mentre, seduti in piazza, colpiscono con lunghe e forti strisciate del machete le pietre della pavimentazione, per preparare la lama alla lunga giornata nel taglio della canna. Poco dopo, passano vecchi pullman per caricarli e portarli nelle piantagioni, dalle quali toeranno soltanto quando farà notte. Dopo una giornata di lavoro, chi è più forte riesce a guadagnare di più, portando a casa appena un euro per ogni tonnellata di canna tagliata, sotto il sole cocente e con i vestiti che li coprono da capo a piedi per proteggersi dalle foglie taglienti.
Li si vede scendere dai pullman uno ad uno e diramarsi nei vari quartieri, con passo rapido, machete in mano e borraccia a spalle; raggiungono le loro case di fango dove, consumato un misero pasto, toeranno finalmente a riposarsi per riacquistare le energie da consumare nella dura giornata successiva.
Questa è la vita di un numero infinito di uomini, donne e bambini in centinaia e migliaia di paesi che sono sparsi, come Joaquim Gomes, nelle aree rurali di questa estesa regione del Brasile. E proprio da questa situazione siamo partiti e abbiamo potuto conoscere le altre differenti realtà che impregnano di contrasti questa terra.
Tuttavia abbiamo potuto scorgere, al tempo stesso, barlumi di intensa speranza, a partire dalle favelas della caotica capitale fino agli accampamenti di senza terra, isolati nella sperduta area del sertão.

La capitale dello stato di Alagoas è Maceio, città con circa 800 mila abitanti, che si estende a metà tra l’oceano e la laguna. Verso l’oceano sorgono i quartieri più ricchi, dove si trovano palazzi e alberghi di lusso, boutique di alta moda e design, ristoranti e club, palestre e scuole, dove autisti privati attendono i figli delle famiglie benestanti alla fine delle lezioni.
A pochissimi chilometri di distanza, verso la laguna, inizia invece l’ininterrotta serie di favelas dove migliaia di famiglie vivono in baracche costruite con pannelli di legno, cartoni, cartelli pubblicitari, lamiere e teli di nylon recuperati nelle aree circostanti.
Visitiamo una di queste favelas, quella di Sururù de capote, così chiamata dal nome del mollusco che vive nella laguna lungo la quale sono situate le baracche. Vediamo adulti e bambini che si immergono continuamente in acqua, anche per alcuni metri, e portano in superficie masse di fango putrido, mischiato alle conformazioni di molluschi che, portate a riva, vengono passate alle donne per la pulitura. Piegate sull’acqua, immerse fino alle ginocchia, esse passano giornate intere a scrostare questa specie di cozze, che, una volta ripulite, vengono vendute ai ristoratori di lusso per un prezzo irrisorio: un secchio pieno di tali molluschi, frutto del lavoro giornaliero di un’intera famiglia, viene pagato l’equivalente di un euro circa.
Ci accompagnano due giovani suore brasiliane, che operano in questo ambiente, e Vania, la coraggiosa leader della favela. Senza di lei è impossibile e, soprattutto, rischioso addentrarsi nei vicoli tra le baracche, che, oltre ad essere stretti da permettere il passaggio di una sola persona, sono spesso pieni di rifiuti e degli scoli delle fogne. Grazie a lei possiamo avere un’idea, anche se solo accennata e da osservatori, di cosa significhi nascere e sopravvivere da favelados in tali condizioni.
Presentandosi subito con il suo fare deciso e fiero, Vania ci racconta la sua storia: è nata nella favela; sin da ragazzina è stata coinvolta nei giri della droga, prostituzione e narcotraffico; ha avuto 12 figli, di cui sei morti prima ancora di nascere a causa della denutrizione e delle sostanze stupefacenti da lei assunte in gravidanza. Ma ora Vania è cambiata, il suo carattere e la sua voglia di lottare hanno fatto di lei una leader della favela: ha creato intorno a sé una comunità che si sostiene reciprocamente, forte nelle rivendicazioni per i propri diritti, superando la lotta di tutti contro tutti per la sopravvivenza in un crescente desiderio di rimanere uniti e solidali.
Mentre giriamo nella favela, Vania interrompe i suoi racconti per richiamare i bambini che litigano, per leggere un documento a un uomo analfabeta che chiede il suo aiuto e consiglio, per spiegare alla gente chi siamo; nel frattempo il suo sguardo è sempre attento nell’osservare e vigilare su ogni cosa che succede intorno.
Vania conosce la gente della favela e non ha paura di raccontarcene la vita: ci indica bambine di nove anni che, per un piatto di riso o di fagioli, si prostituiscono con i taxisti che passano nell’avenida, bambini drogati con la colla,  che tornano dal centro della città, dove hanno passato la giornata a vagare e a borseggiare i passanti; ci racconta la storia di una ragazza che, dopo anni di lavoro come domestica in una famiglia benestante, è stata licenziata appena i padroni hanno scoperto che viveva nella favela… E tante altre storie di discriminazione, attuate anche da parte del governo e istituzioni, che non permettono ai bambini di studiare, di essere protetti, di avere un futuro e sperare nelle minime opportunità.
Con fierezza ci racconta come la Caritas tedesca l’abbia mandata a Brasilia in aereo, lei, donna senza istruzione sempre vissuta nella favela, per denunciare davanti al governo le condizioni in cui vive la sua gente e rivendicare i diritti basilari.

Nella nostra visita siamo accolti in un’abitazione dove si consuma un altro dramma di sofferenza e disperazione. Un genitore, rimasto solo con due bambini piccoli, dopo aver perso la moglie e le figlie in morti violente, è costretto a sprangare la porta della baracca per impedie l’entrata alla figlia di 12 anni, poiché la ragazza, che vive in strada, ogni volta che torna a casa cerca di portare via qualcosa, oggetti o alimenti, per scambiarli con una dose di droga*.
Prima di lasciare la favela e salutare le frotte di bambini che ci hanno seguito nella nostra visita, ci aspetta l’incontro più inatteso. Nell’ultima baracca in cui siamo invitati a entrare ci attende infatti l’impatto con il paradosso più grande dell’amore materno, un incontro che, pur passando attraverso i nostri occhi, rimane incredibile per i nostri schemi mentali, sviluppati in un mondo che da qui sembra ancora più distante.
Sdraiato per terra, su un sottile pezzo di gommapiuma, Thiago, un ragazzo di 13 anni, ci accoglie subito con un sorriso di felicità, ma il suo sguardo è perso nei drammi di una vita bruciata da droga e violenza. Un suo polpaccio è avvolto da una grossa catena, chiusa con un lucchetto, che lo tiene legato al tavolo di casa.
La madre è al suo fianco e ci spiega che sono ormai venti giorni da quando ha deciso di tenere il figlio così legato per cercare in qualche modo di salvargli la vita. Thiago aveva solo nove anni quando cominciò a fare uso di crack e a essere coinvolto nei traffici di droga; ora, minacciato di morte a causa di conflitti e lotte tra bande, la sua vita è a rischio.
La madre è sicura che se il figlio uscisse di casa, sarebbe ucciso in brevissimo tempo. Per proteggerlo e per allontanarlo dalla droga, ha chiesto aiuto ai servizi sociali, ma non ha ricevuto alcun aiuto; per cui ha messo in atto una soluzione così drastica, già usata con la sorella e sperimentata da altre madri nella favela verso i propri figli.
Thiago ci racconta col sorriso in faccia la sua vita e, salutandoci, augura a se stesso di poterci vedere ancora; ci confida che vorrebbe andare in giro per il mondo, ma ammette con le sue stesse parole che tutto ciò rimarrà nei suoi sogni, confessando di essere ben consapevole che o a causa della droga o per mano dei suoi nemici la sua vita sarà davvero breve. 

Un ragazzo così giovane, ma con occhi e sogni privi di speranza, richiama alla mente tutti gli altri contrasti e sofferenze incontrate nella breve esperienza in Brasile. Il suo volto rimarrà scolpito in modo indelebile nei nostri ricordi, insieme al senso di impotenza e ingiustizia che si prova di fronte a certi drammi.
Eppure il sorriso di Thiago ricorda anche l’impegno di tante persone, come le suore Giuseppine e la signora Vania, che continuano nel loro servizio per dare vita e speranza a chi rischia di perderla, a chi non ne ha mai potuto godere pienamente, a chi, ancora così giovane, di tutto questo è stato derubato. 

Di Fabrizio Mola


* La ragazza di cui si parla è rimasta uccisa in una rissa fra ragazzi di strada alla fine di novembre 2008.

Come vincere le Elezioni

Il 5 ottobre 2008, Cristina Brandão ha vinto nuovamente le elezioni amministrative, riuscendo così a conquistarsi il secondo mandato da sindaco di Joaquim Gomes. Il successo è frutto di una campagna elettorale in cui la corruzione e l’illegalità hanno vinto ancora una volta. Ogni singola preferenza è stata infatti comprata giocando sulla miseria, sulla necessità e sull’inconsapevolezza della gente, che pur di ricevere una minima quantità di denaro, ha venduto il proprio voto al candidato disposto a offrire la somma maggiore. Tale pratica è molto diffusa nella regione ed è nota a tutti; ma a causa della paura raramente vengono denunciati i reati di corruzione; più raramente ancora alle denunce seguono processi e condanne.
Per avere un’idea dei soldi investiti nella campagna elettorale in un paese come Joaquim Gomes, con poco più di 20 mila abitanti, basta sapere che la signora Cristina Brandão ha venduto una delle fazendas (fattorie agricole) comprate durante il suo precedente mandato.
Tra i costi sostenuti vi sono quelli derivanti dalle numerose manifestazioni celebrative del sindaco stesso, dove, ad esempio, sono stati pagati centinaia di partecipanti per affollare le ripetute sfilate propagandistiche, in cui vigeva un tariffario ben preciso in base al tipo di partecipazione. Se si marciava a piedi, muniti di bandiera si riceveva infatti una certa somma di denaro; le tariffe aumentavano se si sfilava in bicicletta, in moto o in automobile.
Un altro «investimento» effettuato dal sindaco per le nuove elezioni è stato quello di iscrivere nelle liste elettorali di Joaquim Gomes decine di persone che vivono nei quartieri poveri della capitale dello stato. Il giorno delle elezioni, il sindaco ha poi gentilmente messo a loro disposizione un pullman per raggiungere il paese, consegnando a ciascuno una banconota da 50 reali (circa 20 euro) prima di recarsi alle ue. La stessa somma di denaro è stata offerta per comprare il voto delle persone che vivono nel paese. Per evitare, però, che questi elettori accettassero più volte il denaro, la candidata a sindaco ha pensato bene di contrassegnare le tessere elettorali di chi aveva già ottenuto il suo «pagamento», in modo che fossero riconoscibili dalla sua équipe.
Il giorno delle elezioni, però, è venuto alla luce questo fatto del contrassegno e le persone che avevano venduto il proprio voto, non si sono più presentate alle ue per paura di essere denunciate. Nei giorni successivi è stata quindi offerta loro una somma di denaro dieci volte superiore a quella ricevuta per il voto, al fine di comprare il loro silenzio. Il fatto fondamentale è però che, secondo la legislazione brasiliana, il voto è considerato obbligatorio. Per questo motivo attualmente le persone coinvolte in questa faccenda si ritrovano nel dilemma di pagare la sanzione per non essersi presentati alle ue o autodenunciarsi essendo rimasti implicati nell’operazione di acquisto e vendita dei voti.
Le denunce di corruzione sono state presentate al Tribunale elettorale locale, che ha avviato subito il processo, convocando la neoeletta e una trentina di testimoni. Adducendo un certificato medico, l’imputata non si è presentata alla prima udienza né a quelle successive, ma la giustizia ha fatto ugualmente il suo corso: venerdì 29 novembre il giudice della zona elettorale, Gilvan Santana, ha annullato l’elezione della Brandão, con l’interdizione per tre anni da ogni incarico pubblico. Una vittoria significativa e incoraggiante, almeno per il momento. C’è, infatti, il rischio che il ricorso al Tribunale elettorale dello stato di Alagoas possa annullare la sentenza.

Fa.Mol.

Fabrizio Mola