«Mamma bianca»

Beata Maria Caterina Troiani (1813-1887)

Orfana a 6 anni, monaca a 17, missionaria in Egitto a 46, Caterina Troiani fu definita da Giovanni Paolo ii
«missionaria in clausura, contemplativa in missione». Per la sua carità verso tutte le vittime di sfruttamento, emarginazione e schiavitù, in cui vedeva il volto di «Cristo crocifisso», la chiamavano «mamma bianca» cattolici, ortodossi, musulmani.

Nata il 19 gennaio 1813, a Giuliano di Roma (Frosinone), terza dei quattro figli di Tommaso Troiani e Teresa Panici, Costanza, questo il suo nome di battesimo, a sei anni fu travolta da una tragedia familiare: la madre morta, il padre in prigione per uxoricidio, i fratelli affidati a una zia matea e collocati in differenti istituzioni (vedi riquadro).
Costanza fu messa nel Conservatorio della Carità a Ferentino, un collegio femminile gestito da religiose di diritto diocesano, le Oblate clarisse, popolarmente chiamate «monachelle», per distinguerle dalle omonime claustrali presenti nel paese.

NUOVA FAMIGLIA

La vita al Conservatorio era povera e austera, ritmata dalle attività scolastiche, apprendimento di lavori femminili, iniziazione alla preghiera e alla vita cristiana: la piccola Costanza, intelligente e sensibile, carattere molto vivace, vi si sentiva a proprio agio. Anzi, vi trovò la sua nuova famiglia, composta da sei suore, alcune collegiali sue coetanee e un’anziana maestra pensionante, tanto che, quando alcuni parenti le proposero di ritornare nella società, non ne volle sapere, felice di restare nel suo convento, affascinata dal fervore spirituale che vi si respirava.
Era un’atmosfera permeata, naturalmente, dalla spiritualità francescana, alla quale si aggiungeva la contemplazione dell’umanità sofferente del Cristo. Questa devozione era propagata da due ordini religiosi, fiorenti nel Centro Italia di quegli anni: i passionisti e i missionari del Preziosissimo Sangue, fondati da san Gaspare del Bufalo.
I primi erano di casa al Conservatorio come confessori e direttori spirituali. Il secondo, don Gaspare, nel 1824 percorse palmo palmo la diocesi di Ferentino, predicando le missioni in tutte le parrocchie e gli esercizi spirituali a tutti i religiosi e religiose. Le monachelle furono tanto infiammate nello spirito di penitenza, riparazione e partecipazione alle sofferenze di Cristo, da tradurre la devozione in forme esteriori al limite del parossismo.
È in tale clima di fervore che Costanza, a sedici anni, l’8 dicembre 1829 vestì l’abito delle monachelle, con il nome di suor Maria Caterina di santa Rosa da Viterbo, e l’anno seguente pronunciò i voti religiosi, felice di diventare «sposa dell’Amore Crocifisso per noi». Contemplazione della passione di Cristo, conformità allo «Sposo Crocifisso, nudo e abbandonato sulla croce», ricerca appassionata della volontà di Dio… erano le linee guida del suo cammino spirituale.
Voleva «essere l’ultima nella casa di Dio», ma fin dal noviziato il vescovo le affidò l’insegnamento alle alunne estee e, dopo la professione religiosa fu scelta come segretaria della madre superiora, soprattutto di suor Aloisia Castelli.
Costei, già novizia al Conservatorio nel 1819, ne era uscita per le sue aspirazioni claustrali. Rientrata nel 1823 ed eletta superiora nel 1931, brigò per 10 anni per trasformare il Conservatorio in monastero di clausura. E poiché i vescovi di Ferentino si opponevano, fu deciso di rivolgersi direttamente alle Congregazioni e prelati romani competenti.
Suor Caterina fu incaricata di raccogliere i documenti relativi la storia dell’istituto, redigere memoriali e petizioni e per due volte accompagnò la superiora a Roma, muovendo mari e monti, finché nel 1842 papa Pio ix firmò il decreto che approvava le nuove costituzioni: il Conservatorio veniva dichiarato Monastero, alle monache venivano concesse tutte le indulgenze di cui godevano le clarisse. In realtà, però, la comunità restava sotto la giurisdizione del vescovo e le monache continuavano a fare scuola.
Ma per suor Aloisia fu un successo: riconfermata nella sua carica, poteva finalmente essere chiamata badessa. Suor Caterina, eletta «camerlenga», fu incaricata di curare archivio e biblioteca e redigere la cronaca del monastero dalle origini (1803) fino al 1857. In più, rispolverando un talento paterno e presi i contatti con un medico locale, avviò la spezieria, occupandosi con passione nella confezione di medicinali omeopatici.

UNA GRAZIA SPECIALISSIMA

Ma l’evento più sconvolgente nella storia di suor Caterina fu la venuta al Conservatorio, nel 1935, del passionista Domenico Barberi, in partenza per una missione in Inghilterra, dove i tempi sembravano propizi per il ritorno di tutti i cristiani nell’ovile di Pietro: re Giorgio iv aveva restituito ai cattolici inglesi tutti i diritti civili e il Movimento di Oxford propugna il ritorno del clero anglicano alla chiesa cattolica; già si registravano le prime conversioni. Padre Barberi impegnava vari monasteri del Lazio in una crociata di preghiere e sacrifici per la sua missione.
Le parole del passionista rimasero indelebili nell’animo di suor Caterina, come si legge nella biografia del Barberi: «A quella predica essa si sentì venir meno, uscì di chiesa, si ritirò in cella, dove l’assalì un pianto dirotto e un alto singhiozzo che richiamò le sorelle stupite. “Non potei – essa dice – né mangiare, né dormire, e non avrei fatto altro che ruggire come un leone ferito”».
Sempre alla ricerca della volontà di Dio, suor Caterina sentì tale esperienza come una chiamata speciale. «Nel 1835 il Signore mi fece intendere volere da me una cosa alla sua maggior gloria e per la salvezza delle anime – scriverà più tardi -. L’opera alla maggior gloria di Dio era la conversione dei popoli oltre mare».
Chiusa in un istituto claustrale, come poteva lavorare per «la salvezza dei popoli oltre mare»? Suor Caterina provò una crisi di identità: forse avrebbe dovuto cambiare istituto. Ma il confessore, lo stesso Barberi, le disse di restare al suo posto e aspettare che il Signore le avesse indicato come fare. Nel 1844, lo stesso passionista promise di costruire un monastero vicino a Londra; suor Caterina intensificò preghiere e digiuni; ma il progetto non decollava, finché tramontò del tutto con la morte del Barberi (1849).
Un altro spiraglio per le sue speranze missionarie sembrava aprirsi nel 1855, quando un suo cugino, mons. Bovieri, la mise in contatto con una marchesa parigina, Paolina Nicolay, la quale voleva recarsi a Gerusalemme per aprirvi un piccolo ospizio per i poveri e chiudervi i suoi giorni. Iniziò un lungo carteggio e Paolina venne a Ferentino per presentare il suo progetto; ma quando pretese di portare con sé solo suor Caterina, il sogno andò in fumo.

RISCATTO DELLE MORETTE

Alla fine del 1855 si apriva intanto un nuovo orizzonte: il confessore del monastero, padre Giuseppe Modena, che si recava regolarmente a predicare in Egitto, riportò alla comunità che il vicario apostolico, mons. Perpetuo Guasco, desiderava avere delle suore italiane e francescane per l’educazione cristiana della gioventù. Furono subito avviate le necessarie procedure con la congregazione di Propaganda fide per avere l’autorizzazione di aprire una missione in Egitto, con il vicario apostolico per stabilire le condizioni di lavoro, con il vescovo di Ferentino per avere il permesso di lasciare il monastero; furono contattate varie persone e istituzioni per raccogliere i fondi necessari con cui comperare la casa e sostenere l’opera. Mons. Guasco, infatti, aveva detto chiaro che non aveva un soldo: finanze e personale erano a carico del monastero di Ferentino.
Il 4 settembre 1859, un drappello di sei suore, accompagnate da padre Modena e guidate dalla badessa in persona, nel frattempo convertita dalla stretta clausura alla missione, salpava da Civitavecchia. Suor Caterina era nel numero: all’età di 46 anni, poteva finalmente realizzare il sogno coltivato per 24 anni: «Convertire i popoli oltre mare».
Allo scalo di Malta, giunse la notizia della morte del vicario. Era il caso di continuare il viaggio? Suor Caterina rincuorò il piccolo gruppo: «Non ci siamo messe in cammino per corrispondere al desiderio di un prelato, ma alla chiamata di Dio».
Giunsero al Cairo il 14 settembre, festa dell’Esaltazione della croce, e si stabilirono nella casa comperata a Clot Bey, nel Cairo Nuovo. Il 1° ottobre fu loro affida un’orfanella egiziana: nasceva così l’educandato per orfane cristiane e musulmane e veniva avviata la scuola per alunne intee ed estee di ogni nazionalità, condizione sociale e religione, con particolare preferenza alle più povere.
L’accoglienza della nuova scuola fu piuttosto fredda: essendo le suore tutte italiane, «poco gradimento s’incontrava da coloro che erano abituati a trattare col gusto francese» scriverà suor Caterina. Ma, superato il primo anno e visti i risultati, la scuola si guadagnò fama e prestigio, tanto che lo stesso viceré, Ismail Pascià, nel 1863, volle conoscere le suore e, dichiarando di «essere loro padre», chiese di esporgli le loro necessità. «Abbiamo bisogno di pane e casa» rispose suor Caterina. E il pascià promise che «a tutto avrebbe pensato e provveduto». E cominciò a fornire una certa quantità di grano, diede il terreno per ingrandire la seconda casa già aperta nel Cairo Vecchio, vicino alla grotta che, secondo la tradizione, sarebbe stato il luogo di rifugio della Sacra famiglia.
La prima opera che fece sentire suor Caterina veramente missionaria fu la fondazione della «Vigna di san Giuseppe», destinata all’accoglienza e istruzione delle «morette», le fanciulle nere liberate dalla schiavitù; una iniziativa suggerita e sostenuta anche finanziariamente da un prete milanese, don Biagio Verri, impegnato nell’Opera del riscatto.
Per sopperire alla scarsità di personale, fu aperto anche un noviziato nella casa di Clot Bey, che divenne un attivissimo centro di istruzione,  evangelizzazione e, soprattutto, di carità verso i poveri e sofferenti.
Aperta come scuola, la casa nel Cairo Vecchio fu trasformata in orfanotrofio per raccogliere le fanciulle minorate di ogni nazionalità e religione, rifiutate dagli altri istituti.

NUOVA FONDAZIONE

Il 1863 e 1864 furono anni di crescita e benedizioni, seppur condite da difficoltà di vario genere. Una malattia, forse un ictus, aveva colpito la badessa, suor Aloisia, menomando le sue condizioni fisiche e mentali. Il nuovo vicario, mons. Vuicic, le affiancò suor Caterina come superiora locale, spaccando in due la piccola comunità. Poi, il vicario cambiò le costituzioni, non ritenendo adatte quelle portate dall’Italia. Tale cambiamento, le aperture del noviziato e della seconda casa, decise senza le dovute autorizzazioni del vescovo di Ferentino e della casa madre, rovinarono i rapporti con il monastero di provenienza, che ordinò alle missionarie di tornare in Italia. 
Ormai impegnata anima e corpo nell’attività apostolica, suor Caterina decise di continuare la sua missione, convinta che quella era la volontà di Dio. E si diede da fare per uscire dall’incresciosa situazione, invischiata in un groviglio di competenze giuridiche. In quanto monache, avevano giurato sul vangelo totale dipendenza dal monastero e vescovo di Ferentino; come francescane ricevevano ordini dal ministro generale dei frati minori; come missionarie dovevano obbedienza al vicario apostolico d’Egitto.
Dopo vari contatti e accordi tra le autorità competenti, suor Caterina si recò a Roma e a Ferentino, per risolvere il problema nel modo più pacifico possibile. Nel luglio del 1868 fu sanzionato il distacco dal monastero di origine e l’erezione dell’Istituto delle missionarie francescane d’Egitto, sotto la giurisdizione di Propaganda fide e sotto la patea e vigile cura del vicario apostolico. 
Toata al Cairo, Caterina fu accolta festosamente come fondatrice della missione e della nuova famiglia religiosa, anche se padre Modena si credeva il vero fondatore e mons. Vuicic voleva fare della nuova istituzione una sua creatura. Nel capitolo del 1869, suor Caterina fu eletta superiora, carica che ricoprì fino alla morte.
Lo strappo dalla famiglia religiosa, in cui era vissuta fin dall’infanzia, fu per Caterina un autentico Getzemani; ma anche in questo sacrificio vide realizzarsi una nuova dimensione dell’«opera a grande gloria di Dio: la conversione dei popoli oltre mare».

CROCI E DELIZIE

Grazie al nuovo assetto canonico, suor Caterina si sentiva più libera nella sua azione missionaria. Le vocazioni affluivano in gran numero, permettendo di estendere le opere già esistenti e avviae di nuove: nel 1879, oltre le due case al Cairo, le missionarie francescane avevano aperto altre cinque opere in varie parti dell’Egitto. Per sostenerle ricorreva alla questua francescana presso amici, istituzioni ecclesiastiche, autorità civili, come l’imperatore Francesco Giuseppe d’Austria, ai potenti della zona, anche musulmani, come il vice re del Cairo e il sultano di Costantinopoli.
Fiore all’occhiello del cuore materno di suor Caterina fu soprattutto l’Opera dei trovatelli, per raccogliere i bimbi abbandonati. Le stesse suore andavano a cercarli a dorso d’asino; altri venivano lasciati davanti alla porta delle loro case. Spesso i neonati arrivavano in fin di vita ed erano subito battezzati e spediti in Paradiso. Per quelli in buona salute veniva trovata una balia e, una volta cresciuti, erano sistemati presso famiglie che potessero assicurare loro un futuro dignitoso. 
«Il fine primario che ci condusse in Egitto fu di faticare onde guadagnare anime a Dio» ricordava suor Caterina quando qualche consorella si sentiva stanca o sfiduciata. Ma le fatiche più gravose non erano quelle fisiche, ma le difficoltà, opposizioni, complicazioni provenienti dall’esterno, in campo civile e religioso.
Già i rapporti con mons. Vuicic, per esempio, non erano stati sempre idilliaci: tra l’altro, aveva deviato a un istituto di suore francesi una grossa somma che suor Caterina aveva ottenuto per le sue opere dall’imperatore d’Austria. Altrettanto tesi, almeno inizialmente, erano i rapporti con il successore, mons. Ciurcia, per le calunnie che gli venivano riportate.
«Oggigiorno in qualsiasi modo si agisca sempre si incontrano critiche – scriveva suor caterina -. Tutte queste cose non le dicono i secolari, ma i religiosi». Tra i religiosi c’erano soprattutto i cappellani. Padre Giuseppe Modena, per esempio, aveva diviso la comunità: allontanato dal Cairo per ordine di mons. Vuicic, sparlava e scriveva contro le suore, ritenendole colpevoli del suo allontanamento.
Il suo successore faceva di peggio: con i suoi ordini e consigli «allontanava dall’osservanza delle costituzioni» si lamentava la madre in una lettera indirizzata al ministro generale dei francescani; per cui lo pregava di mandare «uno zelante confessore… uno secondo il cuore di Dio».

ESODO E RITORNO

Nel 1882, mentre madre Caterina stava programmando tre nuove fondazioni, il nazionalismo arabo provocò varie ribellioni contro l’ingerenza straniera nel paese. E quando le navi inglesi e francesi bombardarono Alessandria, la rivolta si trasformò in autentica caccia allo straniero.
Il console italiano chiese alle suore del Cairo di prepararsi a partire, poiché non era più in grado di assicurare la loro incolumità. Dopo aver sistemato qualche bambina presso famiglie amiche, la fondatrice, le suore e varie bambine lasciarono Il Cairo. Salirono su un treno merci e, dopo mille paure, si imbarcano alla volta di Gerusalemme, Marsiglia, Napoli. Sul battello esse non avevano neppure di che ristorarsi. Per incoraggiare le sue suore, la madre diceva loro con dolcezza: «A Gesù crocifisso, venne rifiutata una goccia d’acqua. Vorreste che a noi ci fosse accordato tutto quel che desideriamo?».
Toata la calma (in pochi mesi le truppe inglesi avevano occupato l’Egitto militarmente), madre Caterina mandò al Cairo tre suore in avanscoperta e, visto che tutto era rimasto intatto, organizzò il ritorno delle altre. Da ultima arrivò anche lei. «Piangeva di contentezza nel vedersi intorno giubilanti e festose tutte le sue figlie». Soprattutto le morette erano felici di riabbracciare la loro «mamma bianca».
Nel 1883, fu aperta una scuola ad Alessandria, in un quartiere di povera gente, specie italiani e maltesi. Fu l’opera più grande costruita da madre Caterina, che divenne un centro propulsore per tutte le opere caritative della città.
Quello stesso anno, nel mese di aprile si celebrò il secondo capitolo dell’Istituto e madre Caterina fu riconfermata all’unanimità. Tutti se ne rallegrarono, ma non lei, che accettò l’incarico piangendo, seppur con «perfetta rassegnazione alla santissima divina volontà». Ma le lacrime non erano finite: nel mese di luglio il colera le strappò due giovani suore, due grandi promesse per l’Istituto. Alla fine di ottobre moriva don Biagio Verri e la «Vigna di san Giuseppe» dovette chiudere i battenti.

TRAMONTO

Nel 1886 fu celebrata una consulta, a tre anni dal capitolo generale, per fare il punto della situazione. Il consuntivo era più che positivo. A 27 anni dall’arrivo al Cairo, l’Istituto contava sette case in Egitto, due in Italia, una a Gerusalemme e una stava per aprirsi a Malta; ben 102 suore avevano fatto la professione come missionarie francescane; 1.574 morette erano state riscattate; incalcolabile il numero di alunne formate nelle varie scuole, di orfani e trovatelli cui era stato assicurato un futuro dignitoso; innumerevoli i poveri che a vario titolo avevano ricevuto amore e assistenza.
Il 10 aprile 1887, la sera di pasqua, madre Caterina fu costretta a mettersi a letto: il suo organismo era sfinito. Il 6 maggio, dopo aver ricevuto un’ultima volta l’eucaristia, piegò placidamente il capo e rese lo spirito. Aveva 74 anni. Il giorno seguente, i funerali si trasformarono in trionfo. Erano presenti le autorità civili egiziane, diplomatici e governanti europei in alta uniforme; la gente comune, soprattutto, cristiani e musulmani era accorsa a render l’ultimo omaggio alla loro «madre bianca».
La voce del popolo ne riconobbe la santità in vita e in morte, finché Giovanni Paolo ii la dichiarò beata il 14 aprile 1985.

Ben presto le Missionarie francescane d’Egitto, prima congregazione missionaria femminile italiana, si sparsero in altre nazioni e continenti; per questo hanno cambiato la loro denominazione di origine: dal 1950 si chiamano Francescane missionarie del Cuore Immacolato di Maria.
Oggi circa 700 figlie della beata Caterina Troiani continuano l’opera di evangelizzazione e promozione umana in 88 case, sparse in Europa, Asia, Africa, Nord e Sud America, seguendo l’ideale della fondatrice: missionarie in contemplazione, contemplative in missione. 

Di Benedetto Bellesi

SENZA FAMIGLIA

L’unico riferimento di Caterina Troiani alla sua famiglia è in una lettera del 1881, quando apprese la notizia della morte del fratello don Francesco. «Lo raccomando alle sue preghiere – scriveva a don Verri -. Egli era l’unico mio fratello di padre e madre; ne ho altri di altra madre e stesso padre… anche questi raccomando alle sue orazioni».
Il padre si chiamava Tommaso, sposato nel 1805 con Teresa Panici. «Speziale» di professione, ma instabile per indole, Tommaso aveva dilapidato il patrimonio paterno e offriva i suoi servigi al migliore offerente. Proprio per ragioni di lavoro, all’inizio del 1816, si trasferì con la moglie e i quattro figli da Giuliano di Roma al paese limitrofo di Santo Stefano. Qui s’invaghì di un’altra donna. La relazione gli procurò anche qualche giorno di prigione; ne uscì con la promessa di emendarsi.
Ma fu inutile: una notte del giugno 1819 la moglie Teresa lo sorprese in fragrante e «ne ricevé delle briscole», come narrano le cronache del tempo. Da quel momento Tommaso decise di disfarsi della moglie. Alla fine dello stesso mese Teresa era nella tomba per un probabile avvelenamento.
Processato e condannato all’ergastolo per uxoricidio premeditato, Tommaso fu scarcerato dopo 12 anni per buona condotta. Tornato in libertà, non trovò nessuno ad aspettarlo. Dei quattro figli, tornati a Giuliano e affidati alla zia matea, due erano morti tre anni dopo la scomparsa della madre; Costanza era diventata suora con il nome di Caterina; Francesco era in seminario, dove sarà ordinato prete nel 1836.
Vivendo da buon cristiano, il Troiani cercò di rifarsi una vita e a 60 anni, nel 1842, si risposò; ebbe altri quattro figli, che lascerà in tenera età nel 1853, colpito da ictus cerebrale.

Benedetto Bellesi




«AMATEVI GLI UNI GLI ALTRI  CON AFFETTO FRATERNO»

la parabola del «figliol prodigo» (20)

«25… Ed essendo appena giunto, si avvicinò alla casa, ascoltò musiche e danze; 26e avendo chiamato (a sé) uno dei servi, s’informava di cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello, quello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo» (trad. letterale).

Il figlio anziano della parabola, come abbiamo già visto, prefigura non solo «gli anziani», che con gli scribi e i sacerdoti costituiscono l’autorità istituzionale, rappresentata nel Sinedrio, ma anche il mondo «religioso» nel suo insieme che professa la religione del dovere e dell’adempimento.
Luca 15 si era aperto con la scena dell’avvicinamento dei «pubblicani e peccatori per ascoltarlo (= Gesù)», in contrapposizione a scribi e farisei che invece «mormoravano» (Lc 15,1.2), quasi di soppiatto, ma in modo che il mormorio fosse percepito. Il figlio anziano nella penna di Lc sviluppa un comportamento che riflette e rinnova il mormorio dei farisei, che sono emblema del perbenismo di facciata di ogni epoca, la cui regola d’oro è: avere la coscienza a posto con il minimo di disagio.

Sei verbi per un assente?
Per descrivere la personalità irrisolta del figlio «anziano», uomo religioso e pio, che entra in scena in modo bizzarro, l’evangelista nei vv. 25-26 usa sei verbi in sequenza, senza respiro: quattro verbi sono secondari (due participi e due imperfetti) e due verbi principali, cioè narrativi.
– «Era/si trovava nel campo» (verbo all’imperfetto che serve per dare al lettore una informazione supplementare, circostanziale che aiuti a inquadrare il personaggio): il figlio è sempre da un’altra parte, sempre altrove. Era assente nella prima parte, quando si consumò la tragedia del fratello, è assente anche nel momento del ritorno. È stato «in», ma mai «nella» casa. Da questo accenno ci rendiamo conto che la sua personalità è avvitata nella grettezza e isolamento. Nei momenti della vita, egli semplicemente non c’è. Se il fratello si è perso in «un paese lontano» (v. 13), egli, pur stando fisicamente vicino, è sempre stato smarrito «nel campo». 
– «Ed essendo appena giunto» (participio presente medio, costruito secondo la sintassi ebraico-aramaica, che serve da introduzione ai due verbi principali che seguono): questa notizia conferma e rafforza, aggravandola, quella del verbo precedente, perché mette in evidenza stridente che il figlio resta sempre fuori e, come vedremo, sceglie di restare fuori.
– «Si avvicinò alla casa» (verbo narrativo di primo piano, come il seguente, che l’evangelista vuole mettere in evidenza). La notizia principale è questa: appena giunto, si avvicina, ma non si precipita, come farebbe qualsiasi persona normale. Avanza circospetto e dubbioso e ancora una volta resta sulla soglia, in forma anonima. Si avvicina soltanto, sospettoso e forse irritato.
– «Ascoltò musiche e danze» (verbo narrativo, come il precedente, sulla linea principale della narrazione che l’evangelista vuole mettere in evidenza). È la seconda notizia che l’autore vuole dare come importante. Ascoltare è entrare in relazione con il clima di festa che danze e musiche (lett. «sinfonia») fanno presagire. Per il figlio la festa è una novità assoluta, che non capisce: o il padre è impazzito o è successo qualcosa di straordinario. Il figlio anziano «ascolta» e si sente profondamente estraneo. L’osservazione dell’evangelista esprime bene il disorientamento di questo disadattato normale che non ammette né la festa per sé (v. puntata seguente) né tanto meno può accettare che altri facciano festa. Lui e solo lui è la misura del mondo che lo circonda.
– «E avendo chiamato (a sé) uno dei servi» (participio medio che serve da complemento al seguente imperfetto, anch’esso secondario): il figlio anziano è talmente sospettoso che va alla ricerca di un intermediario per non esporsi in prima persona. Non si butta in mezzo alla novità, ma resta ancorato alla «sua tradizione» di uomo diffidente e fiero avversario di ogni innovazione. Ha sempre bisogno di schermi, che per lui sono scuse: potrà sempre dire che lui non c’era e non sapeva. Il verbo «proskalèomai – io chiamo a me/faccio venire a me (avvicinare)» nel NT ricorre (sempre nella forma media) 29 volte, di cui 10 nelle opere di Luca (Lc 7,18; 15,26; 16,5; 18,16; At 2,39; 5,40; 6,2; 13,7; 23,17.18.23). Di norma si applica a Gesù che chiama i discepoli (Mt 10,1), il popolo (Mt 15,10), i bambini (Lc 18,16), ma anche ad altri personaggi (Mt 18,32; Mc 15,44, ecc.). L’espressione «uno dei servi» è forma indeterminativa ed esprime l’ansia e la fretta di sapere: egli chiama uno «qualsiasi» dei dipendenti. Al v. 22 il padre aveva chiamato «i servi» (gr.: doûloi) cioè quelli che facevano parte della famiglia abitualmente; ora il figlio anziano chiama «uno qualsiasi» (gr.: hena tôn pàidōn, che letteralmente significa «uno dei ragazzi»), forse uno che lavorava a giornata e quindi un estraneo.
– «S’informava di cosa fosse tutto questo» (imperfetto medio, serve per descrivere al lettore l’atteggiamento del figlio). Il verbo greco «pynthànomai» esprime l’idea dell’investigare, quasi spiare: se ne stava a indagare. Nel NT ricorre 12 volte (Mt 2,4; Lc 15,26: 18,36: Gv 4,52: 13,24: At 4,7; 10.18.29: 21,33: 23,19.20), di cui, come si vede, ben 8 in Lc. Si può dire che è un verbo proprio del terzo evangelista. Il verbo a sua volta è seguito da una interrogativa indiretta e significa «domandare/indagare con curiosità/chiedere con attenzione». Luca con un paio di verbi dipinge il quadro completo della personalità del figlio anziano: è curioso, ma senza esporsi a fare la domanda diretta: indaga, confabula per sapere perché, in caso di necessità, vuole essere sicuro di non rimetterci e avere sempre una via di fuga o una spiegazione pronta.

Essere fuori stando dentro
Luca è un narratore straordinario perché con poche parole mette il lettore sull’avviso che il nuovo personaggio non ha una chiara personalità ben stagliata e definita, ma è un individuo indistinto, quasi senza volto; un uomo che si aggira, non si presenta; che spia, non affronta. Il suo ingresso in scena fa da contrasto stridente con la presenza del fratello minore, che era presente anche quando era assente: la casa senza di lui era un mortorio. Ora invece, solo sentire la musica allarma così tanto il figlio, fariseo-anziano, che si avvicina circospetto e s’informa attraverso il servo, restando però sempre «fuori».
Essere fuori è tipico delle persone religiose che sono talmente piene di pratiche e doveri e obblighi da non accorgersi che nel loro cuore non c’è posto per Dio: praticano molto, ma amano poco o nulla e non si accorgono che Dio passa inutilmente accanto a loro, preoccupati come sono di «soddisfare i precetti» per tranquillizzare la propria coscienza. Dio per loro è solo un pretesto, essi adorano soltanto il loro narcisismo solipsistico: sono schiacciati dai doveri religiosi da non essere più abituati a sapere ricevere gratuitamente il senso liberante dell’atto religioso.
Don Primo Mazzolari nel 1934 pubblicò un commento alla parabola lucana dal titolo La più bella avventura e pur non essendo un esegeta, ma un uomo letteralmente posseduto dallo Spirito, seppe cogliere le sfumature e l’anima dei protagonisti. Mettendo a confronto i due fratelli scrive: «Tanto colui che rimane come colui che va, non ha capito l’amore del Padre: perciò le tenebre sono dentro e fuori. Anche la Casa ha resistenze opache. L’amore del Padre non è negato, ma sospettato… L’anti-chiesa può essere nella chiesa stessa: come l’anticristo può essere accantonato nel mio animo di credente e cristiano. Siamo tutti fuori e tutti dentro, perché ognuno, nella propria inadempienza, è mancante; come nella propria insufficienza, ha la possibilità di rientrare» (P. Mazzolari, La più bella avventura. Sulla traccia del «prodigo», Ed. Dehoniane 2001, pp. 40.43).

Si avvicinò alla casa, ascoltando musiche e danze
Il figlio anziano procede circospetto e non giunge libero e disinvolto, ma si limita ad avvicinarsi: ancora lontano, sente qualcosa di strano, un suono che aumenta mano a mano che si avvicina. Preoccupazione e curiosità alimentano il suo terrore. Dove c’è festa di solito c’è gioia e lui vive nella tristezza che è il vestito diuo della sua anima. S’insospettisce, diventa guardingo, comincia a domandarsi cosa stia succedendo; la preoccupazione e l’affanno lo prendono nell’anima e vuole vederci chiaro.
Emblema del «tipo» religioso osservante (fariseo) che si sente sempre in credito verso Dio e verso gli altri, di cui non ha alcuna stima, non ritorna a casa ma, «appena giunto», si avvicina come un ladro per origliare e pronto a giudicare e a condannare. Uomini di chiesa e laici clericali hanno la condanna facile, perché trasformano il vangelo in un codice penale per comminare pene a chi non è e non pensa come loro.
Egli sa che suo fratello è andato via e che in casa il padre vive in perenne lutto, piangendo il «figlio perduto» e domandandosi dove abbia potuto sbagliare nell’educarlo. Chiunque sarebbe corso immediatamente in casa a vedere di persona cosa stesse accadendo, ma «questo» figlio, no: lui non corre dentro casa, dal padre, ma comincia ad avere paura, perché ogni novità o variazione nel grigiore della sua giornata è un attentato all’ordine costituito.
È un uomo triste e lugubre che diffida di tutti e tutti considera inferiori a sé, perché solo lui è «il giusto». Probabilmente intuisce che possa essere tornato il fratello e va nel panico: non vuole ammetterlo nemmeno a se stesso, perché sarebbe il crollo di ogni suo sogno e cupidigia. Non pensa che la musica e le danze possano essere espressione di esplosione di vita e segno di felicità partecipata; al contrario, pensa che danza e musica siano segnali di tragedia, segni cupi di un imminente cataclisma, perché non annunciano nulla di buono.
La tragedia di quest’uomo è che, pur non essendosi mai allontanato da casa, non vi è mai entrato, perché ne è sempre rimasto «fuori», avendo paura di essere coinvolto in una rete di relazioni affettive a cui si sente estraneo. Deve chiamare un servo per sapere cosa accade (v. 26), quasi per mettere tra sé e l’evento un diaframma, uno schermo che al tempo stesso è riparo ed esclusione. Egli sente che tutto attorno gli è ostile e cerca una via di fuga, una forma di esorcismo, perché la novità della musica e danza gli sconvolge la vita.

Paradigma etico: Giuseppe e i suoi fratelli
Il versetto nella sua semplicità dice anche un altro elemento che spesso viene sottaciuto: nessuno ha avvertito il figlio «anziano» del ritorno del fratello. Egli era estraneo, «nel campo», e tale resta: nessuno si accorge della sua assenza, perché nessuno si è mai accorto della sua presenza. È tragica la figura di questo figlio che vive, come sapremo presto, nell’attesa della morte del padre per ereditare «la roba» e che è indiffe-rente sia quando c’è che quando non c’è.
Nel libro della Genesi (37,12-18) si narra che Giacobbe aveva i suoi figli «anziani» al pascolo in una regione lontana e, volendo avere notizie di loro e del gregge, mandò Giuseppe a cercare i fratelli: «Va’ a vedere come stanno i tuoi fratelli». Giuseppe, il fratello minore, si mette in viaggio verso i suoi fratelli e non conoscendo la strada, chiede a un passante: «Cerco i miei fratelli. Indicami dove si trovano a pascolare». Alla fine «Giuseppe andò in cerca dei suoi fratelli e li trovò a Dotan». I fratelli «maggiori», gelosi del fratello minore «lo videro da lontano e, prima che giungesse vicino a loro, complottarono di farlo morire».
Sappiamo come andò a finire: dopo non molti anni sarà Giuseppe, il figlio minore, che salverà la vita dei fratelli omicidi e di tutta la sua stirpe. Anche per lui valgono le parole del salmo che la liturgia pasquale applica al Cristo Messia: «La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo» (Sal 118/117,22).
Anche nella parabola lucana, avviene qualcosa di simile: il ritorno del figlio minore può essere l’occasione di salvezza per il fratello anziano, la svolta della sua vita e la riscoperta dell’amore di quel padre che egli non ha mai amato e da cui non si è mai lasciato amare. Il ritorno del fratello minore, al contrario, sancisce la sua condanna definitiva, perché egli non vuole un fratello e di conseguenza non vuole nemmeno un padre: «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).
Nella parabola lucana nulla può escludere la possibilità che il minore sia scappato da casa per le vessazioni del fratello «anziano», ma è facile dedurlo dalla reazione del maggiore che si stupisce della musica, e forse teme che il fratello sia davvero ritornato. Egli sperava di essersene liberato per sempre, mentre adesso rischia di ritrovarselo di nuovo, ma come è suo costume non vuole esporsi.
Ormai siamo certi che egli non si è mai informato del fratello e né mai ne ha parlato con il padre, che probabilmente ha trasformato la casa in luogo di lutto perenne, dove la vita scorreva anonima e greve, perché quella casa era vuota e muta senza il «figlio più giovane».
Il figlio «anziano» non ha partecipato al lutto e non intende partecipae ora la gioia: ha messo gli altri nel ghetto, alzando una siepe di egoismo ed esclusione, e considera gli altri come suoi nemici, padre compreso, con i quali non vuole sporcarsi. Chiamare il servo per conoscere gli avvenimenti, significa impedirsi di vivere gli stessi avvenimenti e condannarsi alla morte. Invece di sprofondarsi nel cuore della festa per diventae parte e fae parte agli altri, «chiamò un servo».
L’evangelista in questo modo mette in contrasto l’atteggiamento del padre con quello del figlio «anziano». Il padre si accorge del figlio giovane prima di vederlo e lo percepisce «quando ancora era lontano» (v. 20) e gli corre incontro, perdendo la sua stessa dignità. Il «figlio anziano» non solo è nel campo, cioè lontano da casa, ma nemmeno quando si avvicina alla casa riesce a «sentire» la presenza del fratello.
La musica e le danze avrebbero dovuto essere «il segno» da mettergli le ali ai piedi e farlo volare verso la pateità e la frateità compiute nell’abbraccio di padre e figlio; al contrario, lo escludono ancora di più e lo seppelliscono nel suo egoismo e nella sua avidità.

La frateità, Pasqua della pateità
Nella prima parte della parabola, tutto si gioca sulla pateità negata dal figlio minore, mentre il maggiore viene ricordato solo incidentalmente, perché «un uomo aveva due figli» (v. 11), tra i quali il padre «divise la sua vita» (v. 12). In seguito si parla solo del figlio «più giovane», mentre dell’altro si perdono le tracce. Forse per questo una lettura superficiale ce lo ha fatto apparire «simpatico», modello di figlio adulto e maturo, devoto al padre, a differenza del minore, degenere e traviato.
Scopriamo, invece, che la sua assenza non è motivata dalla sua fedeltà, ma dalla sua natura di figlio degenere nell’anima e traviato nel sentimento: egli è sempre assente, nonostante sia il «più anziano» e quindi l’erede designato, colui che fa le veci del padre. A una lettura attenta e meno frettolosa veniamo a conoscere la natura gretta e il volto accigliato di questo figlio, che figlio non è mai stato, perché vive nel rifiuto della frateità.
Il servo interpellato, con ogni probabilità, conosce bene questo figlio anziano e con la sua risposta cerca di creare il ponte verso il padre, offrendogliene l’opportunità: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello, quello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo» (v. 27), mettendo in luce lo stesso sentimento del padre, espresso al v. 24: il figlio morto e ritrovato.
Nelle parole del servo, però, c’è di più, perché anticipa le parole che lo stesso padre dirà più tardi, andando incontro anche a questo figlio «anziano» che si è perduto senza essersi mai allontanato: «Questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita» (v. 32). Il servo infatti non dice che è tornato il «figlio del padre», ma precisa «tuo fratello è qui» e aggiunge «tuo padre» ha deciso si ammazzare il vitello della festa.
Il servo gli annuncia la Pasqua di risurrezione che sta vivendo il padre e lo invita a risorgere anche lui, entrando a mangiare il vitello della festa. Il servo/estraneo sa quello che il figlio anziano non sa e non vuole sapere: «Che io non perda nulla di quanto egli (il Padre) mi ha dato» (Gv 6,39). Egli da uomo della tradizione religiosa, che recita le preghiere secondo il rituale, quello sicuro, pensa a salvare se stesso, non curandosi della salvezza del fratello, e non sa che questa è la sua condanna e il suo inferno, perché da soli ci si danna sicuramente, mentre ci si può salvare solo insieme.

Salvare vale più di ogni sacrificio
In questa circostanza straordinaria, il servo prova a riportare il figlio dentro la rete di relazioni affettive, stuzzicandolo a entrare nella dinamica della pateità, che diventa frateità condivisa: tuo fratello, tuo padre. È straordinario che il servo non gli dica che il padre ha reintegrato il fratello nella pienezza della sua identità di figlio, attraverso i segni esteriori (vestito, anello e sandali del v. 22), ma metta in evidenza l’aspetto religioso e sacrificale dell’avvenimento: il vitello grasso, riservato al sacrificio per il Signore.
Per il padre ricevere il figlio vivo ha la stessa valenza che stare davanti a Dio: ammazza il vitello grasso per il suo ritorno come se stesse compiendo il sacrificio di ringraziamento nel tempio di Gerusalemme. Per il padre credere è accogliere il figlio perduto. Il servo coglie questa grandezza smisurata e ne è partecipe così tanto che crede possibile smuovere il cuore di pietra del figlio anziano: «Tuo fratello è tornato e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello, quello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo» (v. 27).
A questa notizia il figlio «anziano»: «Si accese d’ira e non voleva entrare» (v. 28), svelando così la sua natura fratricida e la sua indole irrecuperabile; se è vero che il minore è scappato di casa, è altrettanto vero che il maggiore non vuole entrare; ma mentre il primo è tornato e sta dentro, l’anziano resta fuori perché non è mai entrato e tocca ancora una volta al padre uscire e andargli incontro, nel tentativo di recuperare anche questo figlio, che avrebbe dovuto essere un modello di esempio per la sua «anzianità». Di questo però ci occuperemo la prossima volta                              (continua – 20).

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Rinascere … si può

Remolino compie 20 anni

In 20 anni di vita, la parrocchia di Remolino ha lanciato la sfida alla guerriglia e narcotraffico, proponendo alternative legali alla coltivazione della coca. Le comunità disseminate nella foresta amazzonica stanno maturando una nuova coscienza, ma il cammino è ancora lungo.
Anche quest’anno si è realizzato il «mistero pasquale», cioè, il passaggio dalla situazione di «passione» alla speranza di una esistenza più umana e dignitosa.

Mi trovavo nell’ufficio parrocchiale, situato a ridosso della chiesa, quando sentii dei bambini gridare; mi diressi verso la chiesa per vedere che cosa stesse succedendo e mi trovai di fronte tre fratellini: un bambino di 5 anni e due bambine di 7 e 9 anni. Stavano facendo un gioco che piace a tutti i bambini: gridare per sentire l’eco della voce riflessa dalle pareti della chiesa.
Mi avvicinai e, prendendo per mano il più piccino, li invitai a entrare in chiesa, li accompagnai vicino all’altare, di fronte al tabeacolo, alla presenza di Gesù nell’eucaristia.
«Dove ci troviamo?» domandai loro. «Nella chiesa» risposero in coro. «E chi c’è qui in chiesa?» continuai. «C’è Gesù!» esclamarono insieme. «E dov’è Gesù?» insistetti. «Lì» risposero senza esitazione, indicando il crocifisso appeso al centro del presbiterio.
Non volli «rovinare» la loro risposta, che mi parve la più naturale, per una popolazione che soffre oppressioni e ingiustizie. Li invitai a pregare insieme a me. Fecero il segno della croce con molta devozione e tutti insieme recitammo il Padre nostro.
L’emozione è forte e, grazie a questi bambini, mi rendo conto come questo popolo ha dentro di sé sete di Dio e di spiritualità, anche se molte volte si lascia trasportare da una religiosità popolare ricca di superstizione che lo rende cieco.
20 ANNI DI SFIDE
L’episodio che ho voluto ricordare fa parte del programma pastorale del nostro vicariato di San Vicente per il 2008: celebriamo infatti l’«anno dell’eucaristia», ispirandoci al testo dei discepoli di Emmaus: «E lo riconosciamo allo spezzare del pane». Per celebrare tale evento con iniziative concrete, ci siamo trovati con un gruppo di persone, che non oso chiamare «consiglio parrocchiale»: la nostra comunità non è ancora una parrocchia ben definita, anche se ha compiuto 20 anni di vita.
Giuridicamente, infatti, l’istituzione della parrocchia di Remolino e la nomina del primo parroco portano le date rispettivamente dell’1e 2 gennaio del 1988. Alla fine dello stesso anno padre Giacinto Franzoi si stabiliva definitivamente come fondatore e parroco della parrocchia di Sant’Isidoro Lavoratore in Remolino del Caguán.
Già da una decina di anni, salvo un breve periodo trascorso in Italia impegnato nell’animazione missionaria, padre Giacinto si recava periodicamente in questa remota zona, che apparteneva alla parrocchia di Cartagena del Chairá, per prendersi cura dei contadini che migravano nella foresta amazzonica in cerca di sopravvivenza.
Il nuovo parroco arrivava nel piccolo paese senza avere un piede a terra: per anni è vissuto in un bugigattolo in affitto e celebrato la messa nell’arena destinata alle lotte dei polli. Ma le sfide più grandi erano date dal clima di conflitto causato dalla presenza della guerriglia e dal boom della coltivazione della coca.
Fin dai primi mesi padre Giacinto ha dovuto difendere la gente di questo territorio durante il primo attacco armato da parte dell’esercito nazionale, che considerava gli abitanti di questo paese tutti guerriglieri. Il suo intervento presso il comandante riuscì a far liberare molti contadini, incarcerati per la semplice colpa di vivere in questo territorio.
Immediatamente padre Franzoi si preoccupò di liberare i suoi parrocchiani da un’altra schiavitù: quella della coltivazione della coca e conseguente narcotraffico. E lanciò la famosa campagna «No alla coca, sì al cacao», partendo da Milano, al tempo del cardinal Martini, e estendendola con notevole successo in tutta l’Italia. Con gli aiuti raccolti padre Giacinto poté attuare una serie di proposte alternative: coltivazioni di cacao e caucciù, allevamento del bestiame, piantagioni di frutta amazzonica, cornoperative di vario genere, fabbrica di cioccolato Chocaguan e altri derivati dalla trasformazione del cacao…
A tali iniziative se ne aggiunsero altre di carattere formativo a favore dei contadini della zona, senza trascurare le necessarie strutture parrocchiali: costruzione della casa per i missionari, una bellissima chiesa ottagonale, un efficiente oratorio per tutte le attività ricreative e formative per la comunità di Remolino e di quelle dei 40 villaggi sparsi nel territorio parrocchiale.
Poi vennero progetti speciali, come l’acquedotto con acqua potabile e il centro di formazione e studio per accogliere i giovani dei villaggi più lontani che vogliono continuare a studiare nella scuola superiore statale del paese.
Poche righe per riassumere 20 anni di impegno missionario, ma sufficienti per descrivere come questa missione, sperduta nella foresta amazzonica, ha acquistato una propria identità di parrocchia e di comunità cristiana. Merito certamente dell’indefesso lavoro di padre Giacinto e degli altri missionari che lo hanno coadiuvato, tra cui padre Giuseppe Cravero che ha speso otto anni in questa missione; senza dimenticare i tanti laici e laiche passati da qui. Tra tutti ricordiamo il signor Paolo Vianello di Bolzano: a Remolino ha fatto i primi passi nella collaborazione missionaria, per poi continuare in altre località del vicariato di San Vicente.
La parrocchia oggi
Attualmente la parrocchia di Remolino è ricca di personale, se confrontata con gli anni passati. C’è naturalmente padre Giacinto, che, con i suoi 30 anni di esperienza nella regione del Caguán, è il nostro punto di riferimento, sempre pronto a orientarci nelle nostre iniziative.
Negli ultimi anni sono arrivate a Remolino tre Hermanas de la Paz (suore della pace), una congregazione nata in Colombia nel 1950, negli anni in cui scoppiava l’ondata di violenza che insanguina ancora il paese. Sono suore che hanno desiderato essere presenti in questo territorio di missione, totalmente nuovo per loro, ma che rispondono al loro carisma: le tre sorelle, infatti, sono specializzate nella creazione di gruppi impegnati nella costruzione della pace interiore, familiare e comunitaria, mediante l’educazione scolastica e il lavoro pastorale.
Dallo scorso ottobre è con noi Beatriz Sierra, una missionaria laica colombiana che si occupa della parte amministrativa della parrocchia, segue vari progetti in corso, è impegnata nella pastorale caritativa e, al tempo stesso dà una mano nella catechesi, specialmente nel preparare i bambini alla prima comunione.
Tutti insieme formiamo l’équipe pastorale; ma cerchiamo di coinvolgere più persone possibili. Per questo organizziamo incontri aperti a tutti coloro che vogliono partecipare e cerchiamo di creare gruppi e comitati che si occupano di settori specifici della vita della comunità.
Per meglio vivere e celebrare l’anno dell’eucaristia siamo riusciti a creare un nuovo gruppo che si dedica all’animazione della liturgia domenicale. Ogni venerdì ci raduniamo e riflettiamo sulla parola di Dio della domenica seguente e, con il metodo della lectio divina, prepariamo la celebrazione del giorno del Signore.
Settimana Santa
Un consolante risultato del nostro lavoro è stata la partecipazione della gente di Remolino alle celebrazioni della settimana santa, soprattutto il venerdì santo, dove tutti, ma proprio tutti, hanno collaborato attivamente alla preparazione della via crucis. È stato un evento alquanto speciale, anche perché, per la prima volta da quando sono in Colombia, la celebrazione è avvenuta sotto una pioggia torrenziale, dall’inizio alla fine. Ma la gente ha accolto tutto questo come un sacrificio da offrire al Signore per i peccati propri e del mondo.
Alla stessa sera, secondo la tradizione locale, la gente si è radunata di nuovo in chiesa per riflettere sulle cosiddette «ultime 7 parole di Gesù». Riflessioni preparate da alcune persone del paese, che hanno incarnato la passione di Cristo nella cruda realtà colombiana e di Remolino. Per ben due ore, senza il minimo segno di stanchezza, la gente ha vissuto questo forte momento della liturgia, proseguendo poi nell’adorazione della croce, in cui hanno visto rispecchiate le proprie sofferenze.
La settimana santa è il periodo dell’anno più sentito nella tradizione religiosa della popolazione colombiana. E poiché è impossibile essere presenti lo stesso giorno nelle 40 comunità della parrocchia, anche quest’anno, 15 giorni prima di pasqua, ho iniziato la visita ad alcuni villaggi, soprattutto quelli più popolosi, per celebrare la settimana santa e il triduo pasquale.
Uno dei villaggi era ancora scioccato dagli scontri, avvenuti pochi giorni prima del mio arrivo, tra l’esercito nazionale e un gruppo di guerriglieri. Ma anche qui siamo riusciti a coinvolgere la comunità, usando la metodologia latino-americana della «comunione e partecipazione». Si inizia con qualche gioco per mettere la gente a proprio agio. All’inizio non tutti si mostrano interessati e attivi; ma poi giovani, adulti, uomini e donne partecipano gradualmente per creare un clima di festa e di frateità. A questo punto formiamo tre gruppi, ognuno dei quali è chiamato a riflettere su un giorno del triduo pasquale: meditazione sulle letture bibliche, ricerca del messaggio più profondo e attuale, sua applicazione concreta nella vita di tutti i giorni, attraverso la conversione negli atteggiamenti e nei sentimenti più profondi del proprio cuore. Il lavoro di gruppo culmina con la scelta dei canti e la ricerca del «segno» che identifichi la giornata specifica del triduo. Ogni gruppo scrive su un cartellone i punti fondamentali della riflessione, che viene condivisa con tutta la comunità.
Dopo questo momento di «catechesi attiva», inizia la celebrazione, in cui ogni gruppo anima una parte della liturgia: il momento penitenziale è affidato a coloro che hanno preparato il venerdì santo; l’offertorio a quelli che hanno riflettuto sul significato del giovedì santo; dopo la Comunione il gruppo del sabato santo invita i partecipanti a imitare Maria Magdalena, l’altra Maria e i discepoli, cioè, annunciare con la vita l’incontro giornioso con il Cristo crocifisso e risorto e i fratelli. La celebrazione, infatti, che dura più di tre ore, è caratterizzato da un clima di gioia, vissuta con semplicità tra fratelli e sorelle,  con semplicità, espressione concreta del vero «clima pasquale».
USCITO DALLA GUERRIGLIA
Il significato della pasqua di risurrezione l’ho visto realizzato pochi minuti dopo la fine della celebrazione, in quello stesso villaggio. Un giovane con un berretto sportivo in testa, il poncho sulla spalla sinistra e la frusta per controllare il bestiame nella destra, mi si avvicina e comincia a parlarmi sottovoce, guardandosi attorno con aria circospetta. Capisco che si tratta di una cosa delicata e lo invito a uscire dal salone, per evitare occhi e orecchie indiscrete.
Comincia dicendomi il suo nome, che non riporto per la sua sicurezza personale. È nervoso. Comincia a parlare con mezze frasi, rendendomi difficile la ricostruzione della sua storia. Finalmente capisco che è uscito dalla guerriglia e mi chiede di aiutarlo a recuperare i documenti del suo stato civile.
«Non so quando sono nato – comincia a raccontare con più calma -. Avevo forse 7 anni quando ho dovuto lasciare la mia casa; oggi penso di avee 21. Da bambino mi piaceva giocare con le armi; quando mia mamma mi portava a messa, io scappavo per andare a giocare».  Mentre nomina la madre, il suo volto si fa più triste. «Mio fratello maggiore mi ha portato nella guerriglia – continua a raccontare -. È stato ferito in uno scontro armato ed è rimasto invalido. Un altro fratello è stato punito, cioè ucciso dagli stessi guerriglieri».
Le disgrazie capitate ai suoi fratelli hanno provocato in lui una forte crisi esistenziale circa il suo futuro personale e le motivazioni della guerriglia, e ideali dei guerriglieri. «Con loro la vita è durissima – continua a confidarsi -. Tutto è programmato e pianificato: ci sono tempi stabiliti anche per andare al bagno e chi sbaglia o disobbedisce è punito duramente. Quando sono entrato nel gruppo guerrigliero ero molto motivato; credevo nella loro ideologia politica: raggiungere il potere a ogni costo, perché questo è il solo modo per raggiungere in Colombia certi cambiamenti, come una vera riforma agraria… Padre, non so nemmeno se sono battezzato: con mia mamma ho imparato il Padre nostro… Ma tra i guerriglieri non si pratica alcuna religione; anzi, si predica che la chiesa è il nemico “numero uno”. Io, però ho sempre sentito dentro di me il bisogno di ricorrere a Qualcuno… E quando nei pacchetti di biscotti trovavo le immagini di santi e relative preghiere, le conservavo avvolte in pellicole di nailon e tutti i giorni invocavo la loro protezione. Tutte le volte che partecipavo a uno scontro con l’esercito pregavo perché tutto finisse al più presto, per potere uscire da una situazione che non sentivo più mia.
Sono stato 12 anni nella guerra e la mia salute ora è molto fragile, ho dolori in ogni parte del corpo. Dopo molte insistenze, ho ottenuto il permesso di uscire dalle file della guerriglia; ora posso vivere come un contadino qualsiasi di questo territorio. Vivo in questo villaggio, ma lavoro in varie fattorie e con il denaro che ricevo sto cercando di comprarmi una fattoria nella foresta, pagandola a rate. Mi dicono di piantare coca, ma non desidero mettermi in questo nuovo circolo. Ora vivo anche con una giovane di 26 anni, anche lei è scappata dalla guerriglia, che ho preso sotto la mia protezione: sono riuscito a parlare con i guerriglieri del suo gruppo che me l’hanno affidata.
Padre, mi aiuti a rintracciare mia madre: dovrebbe avere circa 50 anni e penso che viva ancora nel mio villaggio d’origine, in un’altra regione della Colombia…».

È questa una delle tante storie di vita quotidiana in Colombia e nella mia parrocchia. In questo momento stiamo vivendo una pace apparente: non basta far tacere le armi; bisogna recuperare tanti cuori afflitti e ricucire rotture che ogni guerra lascia attorno a sé.
«Cristo, nostra pace!» abbiamo proclamato e invocato nel tempo pasquale. L’esperienza di questi mesi mi convince sempre più che è possibile incontrare il Cristo risorto anche nelle situazioni più difficili e complesse e che, come missionari, è nostro compito principale farlo risorgere nel posto in cui viviamo, attraverso la fede e la speranza.
Lo sto scoprendo proprio in mezzo a questa popolazione, che è ancora attirata dal miraggio della coca, soldi facili, vita dissipata; ma al tempo stesso è in cerca di una via di uscita, attraverso le coltivazioni alternative, come quelle del cacao e caucciù, l’allevamento del bestiame e altre iniziative legali che stiamo promuovendo. 

Di Angelo Casadei

Angelo Casadei




L’EREDE

Intervista a don Marino Basso, rettore del Santuario della Consolata di Torino

Prete «da cortile», come si definisce egli stesso, don Marino guida ormai da qualche anno il cuore spirituale della città di Torino. In occasione della festa del 20 giugno lo abbiamo incontrato e gli abbiamo rivolto qualche domanda. Ci ha parlato di Maria, ma anche di una città che, seppur in rapido cambiamento, continua ad aprire il suo cuore alla Madre di Dio.

Alcuni dicono che nel volto somigli un po’ all’uomo che più di ogni altro ha legato il suo nome al santuario, essendone stato il rettore per ben 46 anni: il beato Giuseppe Allamano.  Ma le similitudini non si fermano qui. Don Marino è nato a Chieri, nell’aria dell’Allamano e dei grandi santi castelnuovesi. «L’aria mi ha fatto bene, ma la strada è ancora lunga…» dice ridendo.
Parecchia polvere mangiata negli oratori di periferia e della cintura torinese come vice curato: la pastorale nel sangue. Poi, un’altra comune esperienza con il santo predecessore: dal 1992 al 1997 è rettore del seminario maggiore. Un’esperienza che don Marino definisce «bellissima», al servizio di più di 70 studenti di teologia. Infine, dopo un’altra breve parentesi pastorale, arriva la «mazzata». «Nel 2001, all’età di 45 anni, sono stato nominato rettore del convitto e pro-rettore del santuario della Consolata. L’incarico a pieno titolo l’ho ricevuto il 2 febbraio 2006. Per uno che veniva dal lavoro sul campo, negli oratori, il cambio è stato grande. Mi sono dovuto abituare».
L’incontro con don Marino  si svolge in una saletta del convitto: «Luoghi frequentati dall’Allamano», mi ricorda. Gli chiediamo:

La gente continua anche oggi ad essere affezionata alla Consolata e al suo santuario?
Nel giugno 2004, durante la meditazione della novena, il cardinale  disse che il santuario della Consolata era «il cuore spirituale della diocesi». Il santuario è sempre visitato, abitato da qualcuno che viene a trovare la Consolata nella calma e nel silenzio. Le cappelle laterali permettono di raccogliersi nella libertà più personale e trovare l’intimità per incontrare la madre di Dio.
In questo silenzio della Consolata, che si avverte quando si entra nel santuario, c’è tutta l’attenzione ministeriale di Maria. Sembra che rimanga nel quadro invece, nel silenzio, si apre all’accoglienza e all’ascolto. Frutti di quest’attitudine sono la consolazione, la pace, la calma interiore, il grande dono di sentirsi visitati, anche nelle sofferenze più profonde, dalla Madre di Dio.
La chiesa sempre aperta permette un servizio a tempo pieno, anche nell’ora del pranzo, di cui la gente approfitta per venire a pregare o semplicemente a rimanere in silenzio. È certamente il luogo nel quale la gente viene in una situazione di felicità o in un momento di grande sofferenza e alla Consolata apre il cuore. Ciò che la Consolata raccoglie tutti i giorni, solo lei lo sa, di bello e di brutto, io faccio solo un po’ da segretario. Ciò che lei opera ogni giorno è racchiuso nel segreto della relazione che lei opera ogni giorno con chi a lei si affida.

Avvertite anche voi il senso di stanchezza spirituale che sembra avvolgere le nostre comunità di fede?
Più che di senso di stanchezza parlerei di calo matematico, quello sì innegabile. Si tratta di una diminuzione che noi avvertiamo soprattutto nel numero di persone che si avvicinano al sacramento della riconciliazione, che resta il servizio peculiare che offriamo qui alla Consolata. Al calo numerico cerchiamo di sopperire con la qualità, che è rimasta invariata, frutto anche di un continuo lavoro di preparazione e aggioamento. La gente, comunque, continua a venire perché sa che alla Consolata c’è sempre qualcuno pronto ad ascoltarla e ad offrire il perdono di Dio. E non sono solo torinesi, ma arrivano anche dalla Val d’Aosta, dalla Val di Susa, dalla diocesi di Ivrea. Giusto per dare due cifre: il santuario accoglie, per difetto, 1 milione e150 mila persone all’anno. Questa cifra corrisponde al conteggio che abbiamo fatto nell’anno 2006 con il contapersone sulle porte. In un anno passa praticamente la città di Torino.

Quante persone gestiscono di fatto tutte le attività del santuario?
Siamo in un momento di «bassa marea». Eravamo più di venti preti nel 2001, oggi siamo in sei ad occuparci direttamente dei servizi al santuario. Il cardinal Poletto ci ha confermato, che nel corso del 2008 alcuni preti lasceranno il loro ministero pastorale e verranno qui a darci una mano e spero tanto che la Consolata lo aiuti in questo proposito. Chi lavora al santuario passa almeno tra le 4 e le 6 ore al giorno in confessionale. Ora io sono fermamente convinto che questo tipo di ministero richieda necessariamente del riposo per poter offrire un servizio qualificato come quello che la Consolata è chiamata a rendere alla diocesi di Torino e anche alle diocesi vicine. Per essere buoni confessori bisogna prima di tutto essere degli uomini riposati. Essere riposati permette di poter pregare di più, formarsi adeguatamente e  servire meglio. Si rischia altrimenti di non avere la necessaria calma per ascoltare chi si rivolge a noi e si corre il rischio di diventare insofferenti. Le persone percepiscono immediatamente se siamo distratti, nervosi, stanchi. In questo modo, un servizio già reso carente dalla mancanza di personale rischia di allontanare la gente invece di avvicinarla. Questo è uno dei pochi luoghi in diocesi dove l’ascolto è sempre garantito, ed occorre darlo al massimo.

Chi sono, oggi, i visitatori tipo del santuario della Consolata?
Tantissime persone. È difficile anche solo immaginare quante generazioni sono passate per la porta del santuario nella sua storia millenaria. Eppure, resta un profondo legame filiale della gente con la Madre di Dio. In questo santuario c’è una tradizione così radicata di affetto sincero e manifesto nei confronti della Madonna, al punto che anche i non credenti ci vengono. Ci viene chi magari sta percorrendo un cammino di fede o chi ha qualche cruccio. In qualsiasi momento del giorno possono arrivare il giurista, l’avvocato, l’imprenditore di fabbrica, il primario dell’ospedale, il docente universitario, insieme al popolo, alla gente più comune senza titoli onorifici o accademici. Tutti con il bisogno di sentire come la mateità di Maria diventi avvolgente, avvolgente come l’abbraccio della madre al figlio, come si vede nella tela.
Questo vale anche per i cristiani che arrivano da più lontano, per i tanti migranti che, pur portando da casa le loro tradizioni e devozioni, hanno anche adottato la Patrona di Torino. La Consolata, ha un ministero che travalica le etnie; tutti, davanti a lei, si sentono mateamente amati.  La Vergine ci apre a una realtà che supera la diocesi, le etnie, le nazioni. Oserei dire che supera anche le religioni. Un esempio? Abbiamo mamme musulmane che portano i bambini a vedere la Consolata. Nella sura 19 del Corano, infatti, si parla della madre del profeta, di Gesù. C’è una grande venerazione per Maria e le mamme accompagnano volentieri i bambini a vederla; si fermano all’ingresso, indicando il quadro della Madre di Dio. Tempo fa abbiamo fatto una prova stampando immaginette della Consolata con l’«Ave Maria» scritta in arabo. Per rispetto di chi vive la fede islamica, avevamo omesso il termine «Madre di Dio», sostituendolo con «Madre di Gesù» e tentando così di venire incontro a una diversa sensibilità religiosa, senza rinunciare alla verità, ma mitigandola per poter dare  un annuncio anche a chi farebbe fatica a riceverlo in un linguaggio così dogmatico. Le immagini si sono esaurite molto velocemente.

Che cosa offre di specifico, oggi, il santuario della Consolata a chi lo visita?
Quando nel 2001 il cardinal Poletto ha ridisegnato la realtà del  santuario per renderla al passo con i tempi e le necessità della diocesi, è stato molto chiaro sui servizi che si serebbe aspettato dalla Consolata: celebrazioni liturgiche esemplari, possibilità costante di accedere al sacramento della riconciliazione e alla direzione spirituale, formazione dei confessori, enfasi sulla spiritualità mariana. A tutto ciò ha aggiunto un quinto punto che rappresenta per noi una novità e che ci qualifica ulteriormente: il cammino di accompagnamento dei «ricomincianti». Si tratta di un insieme di percorsi di riavvicinamento alla fede per coloro che ricominciano a credere. Abbiamo iniziato cinque anni fa aiutando più di 100 persone attraverso questo particolare ministero.  A questo servizio collabora anche suor Raffaella, missionaria della Consolata;  credo infatti che chi in qualche modo ha il carisma del primo annuncio possa aiutarci a formare queste persone per i quali la fede è una riscoperta totale. Non facciamo nessuna pubblicità, le persone si passano loro la voce da uno all’altro.
Oltre a tutto ciò il santuario non ha iniziative specifiche, per esempio nei confronti del mondo giovanile: tutti quelli che chiedono di poter fare un cammino vengono accompagnati, anche giovani, ovviamente. Desideriamo però che loro stiano il più possibile nelle loro parrocchie di provenienza; il santuario è una clinica un po’ particolare, specializzata per le «malattie spirituali», quelle malattie di cui uno si rende conto e che hanno bisogno di un momento di accompagnamento. Poi, basta. Il santuario può essere definito come un luogo senza frontiera, quella frontiera che invece ha la parrocchia. Dal santuario si può entrare ed uscire senza che nessuno ti chieda di dove sei o dove vai.
Dal suo osservatorio un po’ speciale, dovendo chiedere alla Consolata una grazia per la Torino di oggi, che cosa penserebbe? Che ferita o che progetto metterebbe nelle sue mani?
Dal nostro piccolo osservatorio abbiamo una percezione che sembra essere paradossale se letta nel contesto della vita di oggi. Viviamo infatti nel tempo che tutti dicono essere della comunicazione, il tempo dei telefonini… A quest’enfasi sulla comunicazione – e quindi sulla relazione, corrisponde invece una malattia profonda, radicata, a volte senza speranza che è la solitudine. Anche  solitudine da Dio, ci si sente abbandonati da  lui proprio per l’incapacità di una strutturazione positiva nell’ambito della fede. C’è poi l’esperienza della solitudine nelle relazioni umane. Relazioni ferite, saltate, interrotte, frantumate, a volte frutto di un abbandono. Gli anziani continuano a dire che i figli li hanno abbandonati, hanno preso la loro vita e si sono dimenticati di loro; i giovani dicono che nessuno si prende cura di loro. A metà della loro vita, alcuni quarantenni continuano a dire che sono talmente scissi tra il lavoro e la famiglia, da vivere interiormente delle grandi lacerazioni, create proprio da questa solitudine. C’è certamente anche il problema della solitudine di chi è immigrato. Noi raccogliamo grandi sofferenze, e anche grandi confidenze  da chi giunge e dice: «Nella mia terra… quando io ero…». Si coglie una grande fatica nell’inserimento di queste persone. Non dico che la città non sia accogliente, ma forse non ha strumenti per accogliere tutti, per creare ponti nelle solitudini.
La Consolata vuole incontrare le solitudini e non soltanto per consolarle, ma per costruire. La vera consolazione sta nell’aiutare a fare i primi, piccoli passi per riprendere i cammini interrotti, per riguadagnare coraggio interiore e anche per ridare speranza. Se c’è un frutto della consolazione è proprio la speranza di non sentirti perduto. Penso che l’Allamano avrebbe accolto questa inquietudine del cuore dell’uomo e avrebbe fatto certamente miracoli, come sapeva fare lui. La Consolata gli avrebbe suggerito qualcosa, così come continua a suggerire, nella storia, la medicina giusta per quest’infermità del cuore dell’uomo. Per l’uomo di oggi è importante sapere che alla Consolata c’è sempre qualcuno che ti accoglie, che ti ascolta: prima di tutto la Consolata stessa, e poi i preti che lavorano con lei al santuario.

Come rettore del santuario è l’erede dell’Allamano. Che cosa invidia di più al suo predecessore?
Aver avuto il Camisassa… questo non è un giudizio sui miei collaboratori, per la carità. In realtà, qui con me ho dei grandi Camisassa. Il guaio è che io non sono l’Allamano, e quindi loro fanno più fatica del Camisassa a capire che cosa vorrei fare. Il rapporto fra l’Allamano e il Camisassa, quello stile, ecco il punto a cui dovremmo tendere come comunità. Il vostro fondatore è riuscito a concretizzare l’intuizione donatagli dalla Consolata perché il Camisassa è stato capace di essere il tessitore del sogno missionario dell’Allamano. La loro frateità, il loro progettare e lavorare insieme, il loro volersi bene sono i punti che ci ispirano nel nostro vivere e costruire insieme. E devo dire che ci stiamo riuscendo. Il primo miracolo che la Consolata fa tutti i giorni al santuario è che tra noi preti ci si voglia bene.  Si lavora bene, ci si aiuta,  si è sereni, giorniosi… si è contenti di essere alla Consolata. Questo è il dono più grande che la Madonna può fare ogni giorno a noi, che in fondo siamo preti di parrocchia, di oratorio, ma felici di essere alla Consolata. 

Di Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




Cari missionari

Fame e sete
di buoni esempi

Cari missionari,
innanzitutto un grandissimo grazie per l’articolo uscito su Missioni Consolata nel mese di febbraio, a favore dell’operato, lungo e silenzioso, di fratel Giuseppe Argese. Sì, sto leggendo e rileggendo queste intense righe e mi pare di averlo fisicamente vicino questo personaggio (mai visto e che non conosco davvero). Vorrei parlare direttamente con lui… ringraziarlo, abbracciarlo, incoraggiarlo…
Iddio vi benedica tutti! Vi voglio tanto bene! Poche e semplici parole, ma col cuore. Delle notizie, cattive cattive, è piena l’aria e il mondo intero. Richiediamo un po’ di cose buone. Edificanti. Che riempiono lo spirito. Dei buoni esempi di persone generose, allegre (anche silenziose). In questo mondo pieno di cattiverie (non si sa da che parte stare, né per chi votare…) abbiamo veramente un bisogno (urgente) di fame e sete di giustizia. Cerchiamola (anche con il lanteino) tra i missionari veri, tra i volontari, tra i giovani, che nel buio della notte si incontrano con «gli ultimi» poveri e sbandati. Tutto è sempre per la gloria di Dio e l’edificazione del popolo di Dio.
Non è vero che tanti fanno il bene per farsi vedere. Costa fare il bene. E poi, il dovere del buon esempio dove lo mettiamo? È più facile criticare chi fa il bene, anziché tirarsi su le maniche e dare una mano sudando per il prossimo.
Tanti si propongono in questi giorni in televisione, vestiti sempre a festa (e con i gemelli dorati ai polsini delle camicie bianche). Ma, viva Dio, e questi sono gli esempi di chi ci dovrebbe governare? Chiacchiere e basta. I fatti sono tutta un’altra cosa.
Abbraccio tutti frateamente in Cristo Gesù.
Cherubina Lorusso
Milano

Siamo pienamente d’accordo: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri; se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (Paolo VI).

Biocombustibile…
no grazie!

Cari missionari,
mi sento perfettamente in sintonia con quanto scritto da padre Giuseppe Svanera missionario a Marialabaja (Colombia) nell’articolo «E lo chiamano… progresso» (M.C. n. 2/08 p. 73). L’utilizzo della terra (specie quella dei paesi della fascia tropicale) per un’agricoltura finalizzata alla produzione di combustibili è un gravissimo errore.
So bene che qualcuno, per esempio il presidente del Brasile Lula, cerca di rassicurare gli ecologisti, ripetendo che «neppure un metro quadrato di selva sarà sacrificato per il bioetanolo»; ma io dubito, come anche padre Giuseppe dubita, che le cose andranno così: quante migliaia di kmq sono state cancellate per far posto, specie nei paesi del Sud-Est Asiatico, alla monocoltura della palma da olio!
In ogni caso, anche se Lula avesse ragione e per la produzione di biofuel dovessero essere usate solo aree già degradate, io dico che sarebbe un grosso sbaglio, perché quelle stesse aree potrebbero essere rinaturate, riforestate, affidate a cornoperative inserite nella rete del commercio equo e solidale. È ciò che avviene, per esempio, in alcune zone dell’Ecuador con il «Progetto Otonga», avviato da padre Giovanni Onore, missionario e docente all’Università cattolica di Quito; come avviene in alcune parti del Mato Grosso brasiliano coi progetti di padre Angelo Panza, sostenuti anche dalla Conferenza episcopale italiana grazie ai fondi dell’8 per mille.
Fa bene padre Giuseppe a dire che questo non è né può essere chiamato progresso: progresso è lotta contro la fame e la miseria, non consolidamento delle strutture di peccato che generano fame e miseria. Pertanto le popolazioni del Sud del mondo sono state accusate di distruggere le grandi giungle e svuotare gli scrigni della biodiversità (e così contribuire anche all’effetto serra e cambiamento climatico) per procurarsi legna da ardere: «Fanno così – dicevano in molti – perché non hanno tecnologia, né fonti di calore e di energia simili a quelle adoperate dai paesi sviluppati; quando ne disporranno, la pressione sulle foreste diminuirà».
Ebbene, oggi quelle stesse persone che ieri facevano questo discorso, per certi versi anche giusto, che cosa propongono? Propongono il ricino, canna da zucchero, girasole e palma da olio, perché, sostengono, «così ridurremo la dipendenza dal petrolio e faremo diminuire le emissioni nocive».
Ci vuole una bella faccia tosta. Innanzitutto non è vero che, aumentando la superficie adibita alla produzione di biocombustibili, diminuisce la dipendenza dal petrolio: forse diminuirà la percentuale, ma per farla diminuire in valore assoluto occorre ben altro, a cominciare dalla volontà politica.
Finora l’unico risultato certo di tale corsa al biocombustibile è stato l’aumento del prezzo del pane, pasta, carne, latte e suoi derivati, altri generi di prima necessità…
Guardiamo in faccia la realtà: le tecnologie non inquinanti o poco inquinanti ci sono, ma stentano a decollare; a volte si ha l’impressione che tale difficoltà sia inversamente proporzionale alla loro capacità inquinante. Prendiamo ad esempio le automobili: se non inquinano più faticano a essere collocate sul mercato. Il caso più eclatante è forse quello dell’auto ad aria compressa, la cui «produzione in serie è imminente», perché «tutto è pronto». Le stesse cose si dicevano otto anni fa, anche la rubrica scientifica Superquark se ne occupò: ma sulle nostre strade le auto ad aria compressa nessuno le ha viste, mentre si vedono e fanno presto a essere progettati, realizzati, testati, venduti i costosi, inquinantissimi e ingombrantissimi Suv (si veda Missioni Consolata di febbraio 2008). Negli ultimi otto anni sono aumentati di numero: in Italia prima del 2000 arrivavano a malapena a 100 mila, oggi sono più di mezzo milione.
Io penso che dobbiamo entrare nell’ordine di idee che, oltre certi limiti, le tecnologie non possono sostituirsi alle nostre mani, piedi, occhi, cervello: non possono essere le tecnologie a scegliere per noi. Le lampade fluorescenti sono una gran bella cosa, ma non riusciranno a farci risparmiare il famoso 80% se le terremo accese anche di giorno. I termovalizzatori, se fatti con un certo criterio, saranno anche utili; ma perché continuiamo a sottovalutare i benefici della raccolta differenziata? Per esempio, perché diamo per scontato che, nel ricliclaggio della plastica, Napoli non potrà mai raggiungere il 70% di Treviso e Treviso non potrà mai raggiungere il 90% di Stoccolma?
No cari politici «moderati» e cari industriali e confindustriali! La dipendenza dal petrolio non la supereremo né con gli etanolodotti della brasiliana Petrobras, né con gli inceneritori dell’Impreglio, tanto meno con la costruzione di centrali nucleari. La supereremo, invece, quando avremo capito che per i gran premi di Formula uno e di Motomondiale non possiamo continuare a sprecare migliaia di tonnellate di carburante e migliaia di kilowatt di luce (da quest’anno su certi circuiti si corre di notte, non di giorno).
La supereremo quando, ripensando a un passato neanche troppo lontano, riconosceremo che il calcio non era meno bello e meno seguito quando le partite (comprese le finali di Coppa dei campioni e Coppa del mondo) si disputavano di pomeriggio, senza bisogno dei riflettori.
La supereremo, cari ex vetero e neodemocristiani, che stravedete per una nuova stagione nucleare in Italia, quando accetteremo la rinuncia a certi viaggi aerei, certi yacht, certe crociere, nuovo Suv, ultimo modello di cellulare non come un’involuzione e regresso, ma come inizio di un cammino verso la vera civiltà dell’amore: amore a Dio Padre e Creatore, ai figli di Dio e nostri fratelli, verso la creazione di Dio, quella vicina e quella lontana, quella dei ricchi e quella dei poveri…
Francesco Rondina
Fano (PU)

Le «porcate» e … la «porcata»

S pettabile Redazione, ho letto le lezioni sui mensili della rivista Missioni Consolata riguardanti il Figliol prodigo, apprendendo che il peccato più grosso è quello dei «peccatori presuntuosi». Infatti, in quel trafiletto si dice che «incaponirsi a chiedere perdono o pensare di non essere perdonati può costituire un grave peccato, perché Dio… ha già perdonato prima ancora di averglielo richiesto» e ancora «peccare non è una cosa facile… perché esso è il rifiuto di Gesù Cristo come criterio di vita» e così via di questo passo.
Poi leggo su un quotidiano di giovedì 3 aprile 2008 che il biblista che ha risvegliato in me l’analisi del peccato, e mi ha liberato di tanti preconcetti sul peccato, riportandomi nella coscienza l’amore di Dio verso l’uomo, cade in un grossolano errore, scagliandosi contro una persona o addirittura contro la linea del centro destra con le parole: «I cristiani sono avvertiti in tempo, perché dopo non basterà una confessione a lavare la colpa della complicità che diventa anche apologia del fascismo, un cristiano che vota questi figuri non può in buona coscienza partecipare all’eucaristia e ricevere l’assoluzione in confessione, perché diventa complice in solido», e avanti con questo passo, facendo diventare cecchini di Gesù Berlusconi, Moratti, Fini, Casini, Bossi.
Dica Lei se non ci sono contraddizioni tra i commenti alla parabola nel primo capoverso della presente e questo modo di condannare una certa linea politica, dimenticando nel contempo di criticare l’altra linea politica, dove sono presenti i propagandisti e propugnatori agguerriti dell’aborto, dell’eutanasia e di tutte le altre «porcate» degli estremisti di sinistra, invogliando gli elettori a votare per quella lista.
Non è un grave e grossolano errore da una parte predicare l’Amore assoluto, e dall’altra parte predicare l’Odio assoluto?
Se vuole, mi dia una risposta sulla rivista che lei dirige, altrimenti cestini la presente, ovviamente io ne trarrò le mie deduzioni. Mi perdoni per il tempo che ho rubato e la ringrazio sin d’ora per la decisione che vorrà liberamente scegliere.
Giancarlo Macchi,
San Macario (VA)

Egregio sig. Macchi, siamo stati indecisi se pubblicare o meno la sua lettera, perché non ci piacciono le polemiche. Rispondiamo serenamente e telegraficamente, nella speranza che sia disposto e aperto alla verità.
1. Don Paolo Farinella, apprezzatissimo per la sua rubrica biblica pubblicata da più di due anni su Missioni Consolata, ha espresso critiche forti anche verso la sinistra e il governo Prodi; ma lei non le ha lette, perché non sono funzionali all’ideologia del suo giornale che non le ha mai pubblicate, per le ovvie ragioni che lei può capire.
2. La «porcata» di cui parla (termine forgiato dallo stesso autore della legge elettorale che lei conosce…) è più a monte: per due volte i cittadini italiani non hanno potuto scegliere i loro rappresentanti, ma sono stati costretti a votare quelli scelti dai capipartito. Nel suo partito vi sono circa 25 candidati condannati per vari reati, e tutti eletti, probabilmente per metterli al sicuro riparo dell’immunità parlamentare.
3. Don Farinella non «predica» l’«odio assoluto» in contraddizione con «l’amore assoluto», perché si tratta di due piani diversi e comunque non riguarda la singola persona, ma ciò che essa rappresenta, specialmente se offre una prospettiva di vita e assume atteggiamenti ideologici. Anche il gesuita padre Bartolomeo Sorge (vedi i suoi editoriali in Aggioamenti Sociali) usa la categoria del «berlusconismo» per descrivere l’ideologia dominante e dichiararla incompatibile con la fede cristiana. Questo non significa «odiare», ma «disceere». 
4. Per tornare alla parabola del Figliol prodigo, sull’«amore assoluto del Padre» non ci sono dubbi.  Ma fino a quando il figlio rimaneva a pascolare i porci, l’amore del padre c’era, ma era inutilizzato e il figlio non poteva gustare il perdono preventivo del Padre, né fare festa e mangiare il vitello grasso. Allo stesso modo, finché i mafiosi, i corrotti e corruttori… continueranno a strumentalizzare la religione, i valori cristiani, la famiglia cristiana… e a vivere da corrotti, anche contro l’amore del Padre, è meglio per loro che non si accostino all’eucaristia. Darebbero solo scandalo.
La Redazione




Paraguay, il vescovo che diventò presidente

Ancora una volta la fantasia latinoamericana sorprende l’opinione pubblica internazionale: a fare notizia l’affermazione di un vescovo cattolico a presidente della Repubblica del Paraguay. Nell’Ottocento era la più florida e prospera nazione sudamericana; ma venne praticamente annichilita dalle trame coloniali della potenza imperiale del tempo: l’Inghilterra, allo scopo di impadronirsi delle sue ricchezze e, al tempo stesso, controllare l’intera area regionale da una posizione strategica. Da paese indipendente e autonomo, con una buona produzione industriale, costruita senza prestiti capestro dalla City di Londra, alla fine di un lungo e sanguinoso conflitto, si ritrovò con la popolazione dimezzata e il territorio ridotto a meno della metà: i vincitori (Argentina e Brasile) si appropriarono di vaste aree produttive, provocandone così un collasso umano ed economico.
Negli anni Trenta del secolo scorso, un’altra guerra, con la Bolivia, costò al Paraguay oltre 50 mila vite umane; guerra orchestrata dalle multinazionali del petrolio, Standard Oil e Shell, che si contendevano i territori del Gran Chaco, ritenuti ricchi di giacimenti petroliferi.
Stremato, l’economia a pezzi, il Paraguay attraversò una lunga, difficile fase, con diversi colpi di stato, finché nel 1954, un’alleanza politica tra esercito e Partido Colorado, portò il generale Alfredo Stroessner al governo del paese. Da allora il Partido Colorado, come una piovra, si è infilato in ogni fessura della vita pubblica e sociale. Con l’appoggio degli Usa e la politica della dottrina della sicurezza nazionale, Stroessner avviò un regime dittatoriale, sopprimendo tutte le libertà civili e democratiche e applicando il terrorismo di stato, con omicidi, sparizioni, imprigionamenti senza processo e torture. Negli anni Settanta, quando in tutta l’America Latina si installarono regimi autoritari, il Paraguay collaborò con le giunte militari per esportare il suo modello in ogni angolo dello stesso continente.
Dopo la seconda guerra mondiale il Paraguay diventò un rifugio per parecchi gerarchi nazisti; vi trovò asilo anche il dittatore Somoza del Nicaragua, quando fu cacciato dal Movimento sandinista. Autoritarismo e connivenza con il peggio dei regimi militari, con la regia del Partido Colorado, trasformarono il Paraguay in un paese dall’economia fasulla, dove però il riciclaggio del denaro sporco proveniente dal narcotraffico, commercio delle armi e loschi affari delle mafie inteazionali, generarono una situazione sempre più insostenibile.

Con il rovesciamento di Stroessner, per mano del consuocero Andrès Rodriguez, capo dell’esercito, iniziò una lenta ma costante evoluzione nella politica del Paraguay che, pur con rovesciamenti di fronte e aspri confronti tra diversi protagonisti politici provenienti dalle stesse fila del Partido Colorado e dell’esercito, ha condotto il paese a vivere la stessa transizione verso la democrazia avviata dalle altre nazioni latinoamericane. Tale processo, alimentato da ampi settori della chiesa cattolica e dalle forze più vive della società, ha avuto nel vescovo emerito di San Pedro, mons. Feando Lugo, la figura di spicco nella quale sono confluite le attese e speranze di una democrazia vera e un futuro migliore di gran parte del popolo paraguayano. Con la costituzione dell’Alleanza patriottica per il cambiamento (Apc), interprete politica della voglia di rinnovamento della società del Paraguay, di cui Lugo è stato riconosciuto leader indiscusso, queste attese hanno avuto una risposta piena e definitiva domenica 20 aprile, quando ha vinto le elezioni, aprendo un capitolo nuovo nella storia del paese.
Mons. Lugo, che per iniziare questa esperienza, per certi versi inedita e affascinante, era stato sospeso a divinis dalla Santa Sede, potrà finalmente avviare la riforma agraria e mettere ordine nella corruzione dilagante in ampi settori della società. Oltre che sui cittadini che l’hanno votato, potrà contare su gran parte della chiesa paraguayana (compresa la maggioranza dei vescovi, tranne uno dell’Opus Dei) e su tutte quelle persone desiderose di vivere in un paese normale, finalmente liberato dalla morsa del Partito-padrone che ne ha tarpato le ali per mezzo secolo. Se per avviare questo processo c’era bisogno di una originale figura, come un vescovo cattolico da prestare alla politica, sarà solo il tempo a dire se un evento così inedito sarà per il Paraguay davvero provvidenziale.

Di Mario Bandera

Mario Bandera




Chi vuole uccidere sulukule?

Reportage: breve viaggio nei quartieri di Istambul

È un antico distretto a poca distanza dal Topkapi, il palazzo del sultano. Insediamento rom da oltre mille anni, un tempo Sulukule era frequentato da turisti, che vi trovavano cibo, musica e danze. Poi arrivò il degrado, non spontaneo. Oggi le ruspe (e i gas lacrimogeni) lo stanno radendo al suolo. In nome della politica e della speculazione edilizia.

Istanbul. «Per la fine della primavera verranno a demolire le case rimaste, la prossima estate non saremo più qui», la signora Uyar parla con Ferdin Davaroglu in una stradina di Sulukule, i lembi del suo lungo vestito toccano l’asfalto, mentre si accarezza i pochi capelli che escono dal velo colorato. Con fronte corrugata e sguardo rassegnato continua: «Ma noi non sappiamo dove andare».
Ferdin, che ha vissuto in Svizzera ed è tornato a Istanbul per stare vicino agli anziani genitori, risponde: «Avete accettato di vendere le vostre case, ora cosa possiamo fare? Dovevate parlarne prima, dieci anni fa, quando l’area di Sulukule è stata inserita nel progetto di riqualificazione urbana del Comune di Fatih, essendo considerata una delle zone fatiscenti della città di Istanbul. Ma voi vi svegliate solo ora, oramai non vi resta che andarvene». Il piccolo gruppo di residenti che si è raccolto intorno a noi rimane in silenzio. I bambini continuano a giocare tra le macerie e nel frattempo passa un signore, Ferdin lo ferma: «Murat è stato coraggioso, non ha venduto la sua casa e forse c’è ancora qualche speranza». Murat annuisce ma non nasconde una certa ansia, mentre parla la sigaretta che tiene in mano trema leggermente: «Ho fatto la mia scelta, ma non nutro speranze, so che la legge non tutela noi residenti, ma serve a dare sempre più potere al Comune e alle società private che vincono gli appalti. Non so cosa succederà, l’unica cosa che posso fare è aspettare».

La notte di Sulukule 

È un susseguirsi di voci, passaparola, lettere e avvisi ufficiali: scadenze, ultimatum, numeri civici, cognomi, proprietari e affittuari, municipalità, gli elementi del dramma ci sono tutti, e si confondono in un’unica forte paura, poiché nessuno può dire con certezza cosa succederà nel futuro immediato a Sulukule. L’unica certezza si ha quando ci si sveglia la mattina e tre, quattro case vicine sono state demolite, come se la notte e il buio concedessero l’impunità a questi operatori nottui, e la luce del giorno, le voci e l’attività facessero svanire, come dopo un brutto sogno, i lati più controversi della questione.
Purtroppo non è così, e in una bella mattina primaverile di metà marzo gli abitanti di Sulukule sono usciti e hanno trovato delle croci rosse sui muri delle case.
«La Municipalità di Fatih ha fatto marchiare le case con grosse croci rosse realizzate con bombolette spray, – spiega Cihan Baysal, attivista che sta scrivendo un rapporto sulla difesa dei diritti dei residenti di varie parti della città per la Istanbul Bilgi Üniversitesi, famosa perché si occupa di temi sensibili per la Turchia, come il genocidio degli armeni – sono gli edifici che saranno demoliti nei prossimi giorni, forse nelle prossime ore. È una vera vergogna. Stiamo riunendo vari gruppi per contestare questa pratica, dipingeremo sulle croci e faremo stendere grandi lenzuoli bianchi fuori dai balconi. Nel distretto di Basibuyuk sono stati usati gas lacrimogeni contro i residenti, molti sono stati picchiati e feriti gravemente. Abbiamo tutti paura che succeda anche a Sulukule. Erdoğan ha fatto una conferenza stampa in cui ha accusato i manifestanti di non essere al corrente nel modo giusto dei piani del governo, ma è apparso nervoso e a disagio».

Quando James Bond 
era di casa

Antico distretto della città di Istanbul, Sulukule sorge a ridosso delle mura costruite dall’imperatore Teodosio nel V sec. d.C., nella municipalità di Fatih, a qualche fermata di autobus dal centro turistico di Sultan Hamet e da Topkapi, il palazzo del sultano.
Fonti scritte risalenti al 1054 attestano la presenza di musici, acrobati, giocolieri e domatori di orsi arrivati su cavalli, bambini e donne con lunghe gonne che praticano la chiromanzia, accampati lungo le mura bizantine. Scambiati al tempo per egiziani, in realtà arrivavano dal nord-est dell’India e fuggivano dalle invasioni musulmane. Sotto Mehmet il Conquistatore, nel XV sec., l’abitato da temporaneo divenne permanente: oggi rappresenta il più antico insediamento rom del mondo. Luogo unico, dal forte valore simbolico per una popolazione vittima di discriminazione e per un’Europa in cui la convivenza tra culture è un dichiarato obiettivo politico, i suoi 3.500 residenti ne rappresentano il vero patrimonio.
Nei secoli, all’ombra delle antiche mura, la comunità è cresciuta e ha dato vita a un tessuto sociale attivo e vivace: l’interazione degli abitanti di Sulukule con la città è uno dei rari esempi di integrazione riuscita di una comunità rom, che vive nel rispetto delle tradizioni e del proprio stile di vita.
È necessario fare un passo indietro fino al periodo precedente il 1992, quando gli abitanti erano circa 20.000 e il quartiere uno dei più vivaci e turistici di Istanbul. Il cuore della cultura rom, musica e danza, si era riproposto in vere e proprie attività redditizie: le case d’intrattenimento erano almeno 40, e costituivano il nucleo della socialità e dell’economia locali. In un’atmosfera calda e accogliente, il capo famiglia e i figli maschi suonavano, la moglie cucinava e le figlie danzavano. Gli abitanti di Istanbul e i numerosi turisti erano attratti dalle melodie e dalle danze orientali di famosi musicisti e danzatrici. «Nel 1992, quando Tayyip Erdogan era sindaco di Istanbul, il Comune e la Polizia hanno chiuso le attività, sostenendo che fossero illegali perché non si pagavano le tasse –  spiega Hacer Foggo di Sulukule Platform, gruppo di attivisti nato dalla Sulukule Romani Culture Solidarity and Development Association -. Gli abitanti sostengono che le tasse venivano pagate regolarmente, ma che non veniva rilasciata alcuna ricevuta di pagamento».
Da allora il quartiere si è spopolato e impoverito, alcune famiglie non possono permettersi di pagare i servizi base come acqua e luce. La disoccupazione e il tasso di criminalità sono aumentati, e l’area si è gradualmente trasformata in un vero e proprio slum in cui non mancano prostituzione, spaccio e delinquenza.
La storia di Sulukule è ora al capolinea: le sue stradine in salita, gli edifici bassi e colorati che si rincorrono lungo i vicoli fiancheggiati dalle antiche mura, le case in legno e pietra con gli interni variopinti e le decorazioni floreali dei soffitti, tra non molto rimarranno solo nella memoria degli anziani e nelle scene del film «Arkadas» di Yilmaz Guney girato nel 1974, o in quelle di «Agente 007. Dalla Russia con amore» del 1963, in cui James Bond si ritrova in una rissa in una Sulukule dall’atmosfera noir. Per il 2010, quando Istanbul sarà la capitale europea della cultura e il progetto della municipalità di Fatih sarà completato, nell’area ci saranno 480 nuove casette in stile ottomano, un palazzo di uffici, un centro culturale, un hotel e un grande parcheggio. 

Espropriazioni con la forza

Il progetto è stato definito nel 2003, ma è nel 2005 che il Parlamento turco approva la legge 5.366 sul recupero e il riutilizzo delle zone storiche fatiscenti, meglio conosciuta come «legge sugli espropri». «La legge 5.366 dà tutti i privilegi agli enti locali, mentre gli individui e i proprietari degli immobili non sono considerati – spiega il prof. Alper Unlu della Istanbul Technical University, uno degli istituti più prestigiosi del paese per gli studi di architettura e ingegneria -, così i diritti della popolazione rom sono brutalmente calpestati. Si sta verificando una sorta di inganno: il progetto è presentato come un piano di recupero sociale ma in realtà le autorità stanno mandando via le persone in modo poco chiaro. Le basi legali per procedere all’espropriazione e alla demolizioni non esistevano, gli enti locali hanno preso decisioni ad hoc per legittimare gli espropri».
Appellandosi a questa legge, il 13 luglio 2006 il Comune di Istanbul, la municipalità di Fatih e il Toki, l’«Amministrazione centrale alloggi», firmano un accordo in cui si rende operativo il progetto di recupero di diverse zone della Istanbul storica, tra cui Sulukule. Lo slogan del progetto è People first. A nulla servono le proteste degli abitanti del quartiere, che, non invitati a partecipare all’incontro, si riuniscono davanti alla sede centrale del Comune di Istanbul. Ong e associazioni per la tutela dei diritti umani vengono coinvolte, comincia una vera e propria campagna in difesa dei diritti dei residenti rom e per la tutela della loro cultura e del loro spazio vitale. La risposta del governo turco arriva nell’ottobre 2006: con un provvedimento ad hoc si autorizzano le espropriazioni forzate dei terreni di Sulukule, lasciando così un’unica possibilità, la vendita degli immobili.
«Queste persone dovrebbero avere la possibilità di integrarsi nel tessuto urbano: mancano occasioni di incontro, scuole, posti di lavoro – continua Alper Unlu -. La legge è dalla parte dei developers, le società private che prendono in gestione interi terreni e ne “riqualificano” lo status costruendo e vendendo gli immobili. Nei loro progetti l’aspetto sociale non è considerato. Non si tratta neanche di un vero restauro: si conservano le facciate degli edifici ma si demolisce tutto quello che c’è dietro, e si ricostruisce non rispettando le funzionalità originarie dell’immobile. Questo modo di procedere è contrario all’etica professionale e darà ai residenti il diritto di andare in tribunale. Dobbiamo aspettarci grossi conflitti».     
Nonostante il professor Unlu sostenga che, alle porte del 2010, quando Istanbul sarà «Capitale europea della cultura» (con Essen e Pécs) , Comunità europea e Unesco valuteranno negativamente i risultati di questo progetto mettendo in imbarazzo il governo turco, il sindaco di Istanbul Kadir Topbaş continua a presentare il progetto come una iniziativa sociale senza precedenti, dichiarando che la sua attuazione rappresenta la via diretta alla risoluzione dei problemi dei residenti. Le case saranno ricostruite e saranno dotate di tutti i servizi, il quartiere verrà rivalutato e gli immobili si apprezzeranno.

Una guerra 
contro i poveri

«Qui siamo poveri e ignoranti, il livello di scolarizzazione è molto basso, solo il 50% dei bambini va a scuola, le famiglie non hanno soldi per comprare i libri. Per questo la gente non si rende conto di quello che sta succedendo – dice Ferdin Davaroğlu – se non fosse stato per due o tre di noi che si sono ribellati saremmo già tutti sulla strada. Quello che dice il governo è pura propaganda, nessuno di noi qui ha i soldi per acquistare un immobile o pagare rate mensili. La maggior parte di noi non ha i servizi essenziali, vive in condizioni di pura sussistenza ed è impensabile chiederci dei soldi. Vogliono mandarci via ma noi non ce ne andremo, la mia famiglia vive qui da generazioni, non me ne andrò mai. Sono turco e amo questo paese, ma in questa situazione mi sento rom».
Il primo round di demolizioni riguarda 620 immobili di proprietà e 432 immobili in affitto, i terreni diventano proprietà statale. In ogni immobile vivono dalle due alle dieci famiglie, considerando che le condizioni di povertà costringono spesso più nuclei famigliari a una convivenza forzata. I 620 immobili verranno demoliti e ricostruiti, i proprietari possono decidere se andarsene e ricevere una compensazione calcolata su 500 lire turche al metro quadro, accontentandosi di un totale che varia dalle 7.000 alle 25.000 lire turche a seconda delle dimensioni dell’immobile, oppure possono acquistare il nuovo immobile a prezzi agevolati e con, a detta delle autorità, numerose facilitazioni. Il comune ha già ricevuto 314 richieste per comprare i nuovi immobili, solo 8 di queste sono state avanzate da famiglie rom. Il prezzo dei nuovi immobili è il triplo e spesso il quadruplo della compensazione. 
Gli affittuari dei 432 immobili da demolire saranno invece dislocati in appartamenti di periferia dove le rate mensili sono comunque troppo alte.
«Il piano sta procedendo molto velocemente – spiega Asli Kiyak, architetto e attivista di Human Settlement Association e Sulukule Platform -, siamo in tribunale ogni giorno per contestare il modo di procedere del Comune che non rispetta i diritti dei residenti e demolisce edifici storici senza autorizzazioni dal Ministero dei beni culturali.  Le persone sono state convocate singolarmente per colloqui con i responsabili della municipalità, per evitare che si creassero gruppi o comitati di solidarietà. La stampa è stata usata per far vedere che il Comune stava definendo il progetto insieme ai residenti, ma in realtà è stata un’operazione propagandistica per creare consenso e far sì che le case venissero vendute prima degli espropri».
 «Siamo stati minacciati – dice Hüseyin Küçükatasayci, 53 anni, guida di un carro trainato da cavalli -. Ho avuto paura che la mia casa venisse espropriata da un giorno all’altro, così ho venduto tutto. Ora vivo lontano da qui, in un palazzo in periferia, ma quando i vicini hanno visto il carro con i cavalli parcheggiato davanti al portone hanno protestato, e io sono tornato a Sulukule con la mia famiglia e il mio carro. Dormiamo da mia madre». Il lavoro di Hüseyin è trasportare i turisti, l’estate lavora nelle Princes Islands.
Nonostante i ricorsi alla Corte di giustizia e gli appelli alla Commissione europea per i diritti umani, 35 edifici sono stati demoliti. In Sulukule street è stata demolita la casa di legno a due piani della famiglia Güldür, che quel 21 febbraio 2007 alle 9.30 si trovava ad Ankara. La Municipalità di Fatih ha successivamente presentato scuse ufficiali alla famiglia.

«Lo facciamo per voi» 

Duecento  famiglie hanno venduto le loro case a privati e società, che da una ricerca dell’associazione Sulukule Platform risultano essere collegati all’AKP di Tayyip Erdoğan e che hanno intenzione di speculare sui nuovi immobili. «Sulukule non è un caso isolato – dice Hacer Foggo di Sulukule Platform – i distretti di Küçükbakkalköy e Kağıthane, abitati prevalentemente da rom, sono già stati distrutti e ricostruiti, e la popolazione dislocata». Il sospetto è che le autorità vogliano portare nelle periferie i rom, socialmente e politicamente molto deboli e senza strumenti per difendere i propri diritti. «Le nuove case che costruiranno a Sulukule hanno tutte il garage, considerando che qui solo il 5% della popolazione ha una macchina, è chiaro che il progetto non è fatto per gli attuali residenti. Se si va avanti di questo passo, le famiglie rom scompariranno dal quartiere» conclude Hacer.
La protesta ha raggiunto gli alti ranghi della politica e il CHP, il Partito repubblicano del popolo all’opposizione, ha invitato un gruppo di rappresentanti degli abitanti del quartiere al Parlamento di Ankara, dove il presidente della Sulukule Romani Culture Solidarity and Development Association, Şükrü Pündük, ha potuto illustrare la situazione e ha dichiarato di non essere contrario al recupero di Sulukule, ma di voler creare un tavolo di lavoro in cui insieme a governo e Comune di Istanbul sieda anche la popolazione rom.
«Non siamo contrari al risanamento degli immobili – afferma Şükrü,  ci sono situazioni veramente drammatiche e c’è bisogno di un intervento delle istituzioni. Pensiamo però che le decisioni non possano passare sulla testa di noi residenti, e che la popolazione rom abbia il diritto di proporre una propria soluzione che non rischi di tagliarci fuori da Sulukule».
Il parlamentare europeo Joost Lagendijk ha visitato l’area e ha proposto alle autorità un approccio partecipativo al problema. Due giorni dopo altri nove edifici sono stati demoliti. «Questa mossa ha confuso tutti» spiega Asli.
Il 20 marzo 2008 Tayyip Erdoğan, in uno dei suoi discorsi televisivi alla popolazione, afferma: «È molto strano quello che sta succedendo in merito al progetto su Sulukule. Quelli che protestano non ci sono mai stati, non ci hanno mai vissuto. Altrimenti si esprimerebbero in un altro modo. Se fossero sinceri e sensibili ci direbbero grazie, per aver salvato Sulukule dallo sfacelo e per trasformarlo in uno spazio moderno, in linea con la contemporaneità, dotato di tutti i servizi ma nello stesso tempo, storico. Questo è quello che stiamo facendo perché noi amiamo Istanbul». Nel frattempo elettricità e acqua sono state tagliate in molte altre case, dove «ancora bollivano le pentole sui fornelli», come riporta un comunicato stampa dei residenti. (1a puntata – continua)

Di Alessandra Cappelletti

Alessandra Cappelletti




Milanesi con occhi a mandorla

Milano: quattro passi in «chinatown»

Lo storico «quartiere Sarpi», ormai conosciuto come «Chinatown» per la massiccia presenza di cinesi, è stato un esempio di convivenza multietnica, fino al 12 aprile 2007, quando è diventato teatro di scontro con la polizia. Varie associazioni lavorano per eliminare tensioni e pregiudizi; ma l’integrazione è ancora lontana: mentre i vecchi meneghini rimasti nel quartiere non hanno problemi, i giovani milanesi hanno paura di «contaminarsi».

Milano, una mattina d’inizio primavera. «Ve la dico io la soluzione ai problemi del quartiere: facciamo imparare ai nostri giovani il cinese e tutto si sistema». Nessuno si aspettava l’intervento di Luisa, sciura milanese 85enne, che con il suo trolley, come tutte le mattine da decenni, stava facendo ritorno a casa dal mercato rionale.
Alle parole di Luisa seguì un lungo momento di silenzio, interrotto dalla stessa donna: «Io, in quello che oggi voi chiamate Chinatown, ci sono nata e sto bene oggi come stavo bene allora». E i problemi, la viabilità spesso interrotta dalle merci scaricate dai grossisti, gli scontri che il 12 aprile di un anno fa hanno portato alla ribalta gli screzi tra la comunità cinese e i residenti italiani? «Niente di così esagerato come l’ha presentato la maggior parte dei mass media. Se a volte non si va d’accordo è perché non ci si capisce – replica l’effervescente signora -, per questo, oltre a dire a loro di imparare l’italiano, anche noi dovremmo imparare il cinese».
Magari fosse tutto qui. Il gruppetto di cinesi e italiani che, prima sbigottiti poi sorridenti, ascoltano le parole di Luisa, sa bene che di questi tempi le cose non sono così facili, anche se di strada ne è stata fatta e, poco alla volta, le cose nel quartiere stanno cambiando.

Il quartiere storico milanese tra la zona della Moscova, ovvero pieno centro, e il Cimitero monumentale, ha mutato volto in una mezza dozzina di anni, non di più. Quella che sembrava una piccola presenza, la comunità cinese, con i propri ristoranti, qualche parrucchiere e sparuti bazar di articoli vari, si è estesa in brevissimo tempo a macchia d’olio, rivoluzionando l’aspetto di decine di vie, comprese quelle più grosse, come via Bramante e la «famosa» via Paolo Sarpi. Ovvero, quella della rivolta, durata un pomeriggio, dei cinesi contro i vigili che sistemavano multe come fossero noccioline sui cruscotti dei furgoni di carico-scarico.
La vecchia Milano qui non esiste più, e l’appellativo Chinatown è più che corretto: 9 negozi su 10 e altrettante facce dei passanti provengono dal paese degli occhi a mandorla.
E l’integrazione a che punto è? «Per capire come stanno veramente le cose, bisogna andarci, a Chinatown» dice chi ci ha a che fare. Abbiamo seguito il consiglio. E il privilegio è stato quello di andarci guidati da un cinese, uno che quelle «nuove» vie le conosce bene: il nostro Caronte si chiama Zhang Xin, ha 29 anni ed è arrivato in Italia, da Shangai a Milano, quattro anni fa. Parla bene la lingua (anche se ammette di avere faticato parecchio), ha terminato gli studi e oggi di mestiere fa il fotografo professionista, la prima delle sue due passioni. «La seconda è il far cadere le barriere – esordisce strizzando l’occhio -. Proprio per questa ragione con altri ragazzi come me ho creato l’Associazione studenti cinesi di Milano».
Xin (è il suo nome, che in Cina segue il cognome) ha un buon ricordo del suo paese, ma vuole rimanere in Italia perché, oltre a piacergli e offrirgli sbocchi professionali, vuole essere utile ai suoi connazionali. Come? «Costruendo ponti di conoscenza reciproca». Per questo ha fondato l’associazione, di cui è presidente, e ha accettato di buon grado di accompagnarci per le vie della Chinatown milanese. Con lui, tre giovani «colleghi»: Lu Xiumin, ragazza 27enne che sta studiando design all’università, Liu Geng e Lu Xiao, 29 e 26 anni, studiosi di automazione al Politecnico.

Che il microviaggio si preannunci interessante lo si capisce dal primo incontro, quasi casuale, del gruppo: è un giornalista cinese, redattore di Europa China News, bisettimanale nato nel 2001 e voce autorevole della comunità del sol levante in Italia. Con lui un veloce scambio di battute, di più non può, deve chiedere il permesso al direttore che oggi non c’è.
Questioni di gerarchia, ma qualcosa si sente di dire: «La situazione è molto meno tesa rispetto a qualche mese fa; forse a breve si arriverà a un accordo per la questione delle merci dei grossisti». Sì, perché la gran parte dei problemi nasce da loro, quella miriade di negozi all’ingrosso che popola i marciapiedi delle strette vie di Chinatown, e che obbliga furgoni di ogni dimensione a fermarsi in mezzo alla via bloccando il passaggio di tutti gli altri malcapitati: automobilisti, motociclisti e persino mezzi pubblici come i tram.
Dopo mesi di tira e molla, la soluzione a cui accenna il giornalista cinese è quella concordata (sembra in via definitiva, ma non si può mai dare per certo) tra Comune di Milano e rappresentanti dei commercianti cinesi: tutti i negozi all’ingrosso verranno spostati a partire da prima dell’estate 2008 in una zona periferica del sud cittadino, nel quartiere Gratosoglio, e le vie di Chinatown diventeranno Ztl, zone a traffico limitato.
Un bel progetto, che rischia però di rimanere sulla carta, se tutte e tre le parti in causa non sono d’accordo. Tre, proprio così. Perché oltre ai cinesi e Comune, voce in capitolo la vogliono avere anche i residenti e i commercianti italiani del quartiere. Che, come è logico, vogliono vederci chiaro, a cominciare da Luigi Anzani, padrone della celebre cappelleria Melegari, da 90 anni in via Paolo Sarpi.
«Come cittadini prima e negozianti poi vogliamo essere tutelati – spiega l’Anzani dopo averci ricevuto tra centinaia di cappelli d’ogni epoca -. Prima cosa quindi la legalità, da qui nasce la convivenza». Parole che trovano d’accordo anche l’associazione Vivisarpi, gruppo spontaneo cittadino che si batte per la vivibilità del quartiere.
Poco più in là della cappelleria, un negozio di massaggi reiki è anche la sede dell’Associazione Cinesi in Milano, che ogni giorno espone i giornali locali e inteazionali in vetrina. «Basta discriminazione, siamo milanesi anche noi» dice il cartello appeso a lato del negozio.

Girato l’angolo, ci s’imbatte nella parrocchia del quartiere, quella della Santissima Trinità, condotta da tre sacerdoti tra cui don Dario Bolzani, 33 anni, che cornordina uno degli oratori più multietnici della città, tanto che, dal mese di aprile dello scorso anno, è stato affiancato da un prete cinese altrettanto giovane, il 30enne Li Jinsheng; grazie a lui la comunità mandarina, ogni domenica alle tre e mezza del pomeriggio, può seguire la messa nella propria lingua d’origine.
«Uno dei piccoli ma importanti passi per migliorare sempre più un’integrazione che già c’è» spiega don Dario. Per avvicinare ancor più i ragazzi, egli ha creato il brillante sito internet: www.parrocchiatrinita.it. Un’integrazione che significa convivenza pacifica, in cui non bisogna evitarsi ma, poco alla volta, cercare di conoscersi.
Nel frattempo, la visita prosegue. E le immagini, gli spunti sono davvero tanti. Poco più in là dell’ampia e bassa chiesa, due vigili in bicicletta entrano in un’erboristeria salutando con garbo la commessa. È un giro di routine, per controllare come va la «trasparenza» dei negozi, dopo l’ultimo spauracchio segnalato, quello delle erboristerie che si trasformano in cliniche dell’orrore, luoghi nel cui retro vengono praticati aborti illegali.
La segnalazione è arrivata da un’urgenza ospedaliera di una donna, poi salvatasi per il rotto della cuffia, a cui l’interruzione di gravidanza clandestina era andata male. Ma, nei controlli delle forze dell’ordine nei giorni successivi, non era stato trovato niente che potesse rimandare a tali pratiche. «Qualcosa sotto-sotto ci deve pur essere – afferma Gianni, 45enne italiano che a Chinatown fa affari con un’oreficeria -, ma come spesso accade, è l’alone di mistero attorno a una comunità chiusa come quella cinese che alimenta voci che poi, di bocca in bocca, rischiano di andare al di là della realtà».
Un esempio di quello che sta dicendo Gianni lo spiega, ridendo ma non troppo, uno dei personaggi più «importanti» del nostro viaggio: Hu Xiao, 40 anni, proprietario di una catena di market tra Milano e Torino, e di un centro di smistamento alimentari a Pero, fuori Milano. «Bella la barzelletta sui nostri morti, vero?» domanda Xiao con sarcasmo, rivelandoci di essere molto contrariato da quando, tempo fa, un quotidiano italiano ha pubblicato un articolo sui cinesi che non muoiono mai. «Avevo anche pensato di intentare una causa per diffamazione al quotidiano Libero, visto che pensa che i nostri morti li facciamo arrosto e li mettiamo a tavola – continua Xiao -. Sono stato due giorni fa a un funerale di un mio caro amico; al prossimo, invito tutta la redazione di quel giornale».
In Italia da 10 anni, il piccolo imprenditore cinese è un punto di riferimento nel quartiere per la sua serietà. «Vai da Xiao che sa tutto» è stato infatti il consiglio di uno dei grossisti di via Paolo Sarpi, quando il nostro traghettatore Xin gli ha chiesto di suggerirgli un rappresentante della comunità cinese da potere incontrare.

E il tempo passato con Xiao è stato molto istruttivo: ci ha fatto visitare il suo market di via Niccolini, tenuto in modo impeccabile. «Ogni dieci giorni riceviamo una visita della Asl – spiega -; le multe per qualsiasi errore sono salate, sui 3mila euro; ma è un bel po’ che non le prendiamo». Ci permette pure di parlare con i due commessi e con la giovanissima cassiera, che quasi con vergogna si scusa per non riuscire a parlare italiano: «Meno male che quasi tutti i nomi dei prodotti sono in doppia lingua e i prezzi bene in vista» riesce a dirci con l’aiuto di Xin.
Soprattutto Xiao ci ha raccontato la sua storia. «Vengo dalla campagna attorno a Shangai, come il 95% della gente di Chinatown» spiega mentre ci consegna il suo biglietto da visita, in cui spicca la scritta Group Hu Italy. «Ci chiamiamo quasi tutti Hu, siamo così numerosi che abbiamo superato i Brambilla, il cognome milanese per eccellenza» scherza l’imprenditore cinese.
Lui, le dinamiche dell’immigrazione mandarina in Italia (oggi il 5% del totale) le conosce bene. «La nostra famiglia in Cina si indebita fino al collo per farci venire qui – continua Xiao -. Quando arriviamo, ci facciamo ospitare da conoscenti e alla prima opportunità di lavoro ci dedichiamo 24 ore su 24, per saldare prima possibile il debito familiare». A molti va male, devono tornare in Cina. Xiao, invece, è uno di quelli che ce l’ha fatta, ha una piccola fortuna. «E ora che posso, cerco di dare lavoro a più connazionali possibili» conclude.
Proprio mentre dice ciò, gli si avvicina un cinese di mezz’età, chiedendogli qualcosa. Dopo qualche minuto, una stretta di mano e Xiao lo saluta. «Fa il muratore, ma ha problemi di permesso e non trova un impiego serio, spero di poterlo aiutare» chiarisce in un italiano impeccabile. «È vero che pochissimi cinesi sanno l’italiano, ma guai a fae loro una colpa – aggiunge -. Lavorano tutto il giorno a contatto solo con connazionali, la sera crollano di stanchezza. Quando trovano il tempo di studiare la lingua?».

A questo punto sopraggiunge la sciura Luisa, si ferma e, appoggiandosi al suo bastone, s’intromette di nuovo per dirci con il suo forte accento milanese: «È gente perbene, questa. Vivo nel palazzo qui a fianco da 50 anni, posso garantirlo»; e così dicendo, rivolge lo sguardo all’imprenditore, che ricambia con un ampio sorriso. Lei conosce Xiao, così come lo conosce Guido, 84 anni; questi, mentre Luisa parla, s’intrattiene con Geng (uno dei quattro ragazzi dell’associazione) per imparare formule di saluto cinesi, che poi ripete in modo molto buffo.
Xiao e i suoi giovani dipendenti cinesi, Luisa e Guido sono gli ultimi incontri di questo «passaggio» da Chinatown. «C’è qualcuno che manca all’appello – aggiunge Guido -. Sono i ragazzi italiani. Qui per le strade non se ne vedono da tempo, ed è un peccato: non possiamo essere solo noi anziani a dialogare con i giovani cinesi; devono farlo loro, prima che sia troppo tardi». Può darsi che abbia ragione. Forse per superare le incomprensioni bisognerebbe parlarsi, e «contaminarsi» un po’ di più. 

Di Daniele Biella

Daniele Biella




Utopia o realtà

Pensieri sulla democrazia

Il dibattito sulla democrazia in Africa continua. A prima vista, c’è un plebiscito per il modello occidentale da parte delle élite politiche africane. Ma alcuni decenni di pratica democratica sul continente testimoniano il fallimento di queste utopie. Cosa copre questo umanismo di facciata? E quali sono le ragioni del fallimento delle esperienze democratiche africane?

La svolta degli anni ’90 con la conferenza di la Baule aveva messo gli africani faccia a faccia con un dilemma: optare per  la democrazia, e quindi beneficiare dell’aiuto occidentale, oppure continuare con le loro politiche autoritarie, con le implicazioni dal punto di vista della governance economica e sociale. In questo caso avrebbero rinunciato essi stessi al sostegno dei paesi sviluppati. Quando François Mitterand lanciava questo ultimatum, la maggior parte dei paesi africani versava in una crisi economica e sociale senza precedenti. Il carattere strutturale di queste crisi non ha lasciato scelta ai paesi, che hanno tutti deciso di abbracciare la democrazia pluralista, per ottenere la manna finanziaria occidentale.

Ma ci si è presto resi conto che questa accettazione della democrazia era avvenuta a denti stretti. In realtà la situazione economica e sociale era così catastrofica che le misure terapeutiche previste dalle istituzioni finanziarie inteazionali accentuarono ulteriormente i problemi.
Analizzando il nuovo contesto dei paesi africani, l’intellettuale camerunese Achille Mbmbe vi denota tre fattori caratteristici.
Primo. La democratizzazione è stata accompagnata dall’informalizzazione delle economie  e delle strutture statali: dispersione del potere, mutilazione dello stato nel senso di indebolimento delle capacità amministrative, assenza di visione prospettiva che alimentava reazioni di panico di fronte a situazioni di rischio impreviste, da cui il ricorso sistematico alla violenza.
Secondo. Si assiste a una specie di fenomeno di «diffrazione sociale», ovvero la comparsa di eventi come le guerre, lo spostamento forzato di popolazioni, i massacri, ma anche il sorgere di poli diversi di autorità e giurisdizione, la molteplicità delle identità e delle alleanze, tutte cose che accrescono l’instabilità strutturale.

Terzo. Si nota, infine, l’assenza del modello teorico e di una tradizione di riflessione critica e autonoma sullo stato di diritto, le forme di cittadinanza e le istituzioni della democrazia sul continente. Ne risulta l’assenza di un progetto politico degno di questo nome, ideato da uomini e donne con una vera ambizione per l’Africa. Bisogna ammettere che le esperienze democratiche africane sono, la maggior parte almeno, dei fallimenti. Ma è soprattutto il fiasco delle élite politiche che non hanno saputo essere all’altezza delle loro responsabilità storiche. Queste consistevano prima di tutto a dare allo Stato-Nazione un contenuto e un valore, che trascendesse gli interessi identitari o di comunità.

Certi analisti hanno subito preso il pretesto di questi insuccessi per dichiarare, imprudentemente, che l’Africa non è adatta alla democrazia. Se consideriamo gli standard democratici come la separazione dei poteri, le elezioni libere e trasparenti, il multi partitismo e la protezione delle minoranze, è difficile affermare che questi sono esclusiva di una razza di uomini, di un continente o di un gruppo di paesi o di continenti. Corrispondono, pensiamo, a delle aspirazioni universali, fondate sulla storia stessa degli uomini. Così, l’appropriazione di questi standard può rispondere a degli approcci diversi, non solo in funzione della cultura politica di ogni popolo, ma anche, e soprattutto in funzione dell’ideale socio-politico che ogni popolo vuole fare proprio.
Il problema è quindi meno nei principi democratici, forzatamente generali, e più nella capacità degli africani ad abbandonare la via del mimetismo per essere veramente creativi. Lo si vede dove le élite politiche del continente fanno prova d’immaginazione e soprattutto di volontà politica di far loro l’ideale democratico. Qui la base istituzionale della democrazia è più solida.

Certe teorie politiche, che constatano il fallimento degli Stati-Nazione hanno pensato di cambiare la democrazia classica con un approccio consensualista. L’hanno chiamata «democrazia consensuale». Ma questa presenta talmente tante similitudini con il sistema dei capi tradizionali, che fa temere il ritorno al monolitismo e al potere personificato. Il popolo francese, ad esempio, non ha sempre vissuto in uno stato democratico. Ha conosciuto poteri monarchici con varianti assolutiste.  È proprio sul fondamento di questo passato che le lotte sociali si sono sviluppate e hanno portato la democrazia.
Non possiamo fondarci su dei pensatori socio-storici per definire l’evoluzione politica di un paese o di una nazione. Il male dell’Africa sta dunque in una carenza endemica delle élite politiche, incapaci di elevarsi al livello di visione nazionale per integrare armoniosamente l’insieme di entità etniche che compongono le comunità nazionali africane. Mancanza di trascendenza politica e di una reale volontà delle élite di portare le masse africane verso la costruzione di veri Stati-Nazione, la democrazia resterà sempre un’aspirazione e una linea d’orizzonte.

Di Germain Bitiu Nama

Germain Nama




Vivere per chi muore

Scelte di confine (prima puntata)

Diagnosi nefasta e prognosi di vita breve. Le terapie cosiddette «attive» salutano il paziente. Si varca la soglia del quotidiano e si entra in una terra di confine. Anticamera tra vita e morte. Diamo voce a chi, stringendo un patto con il tempo che segna i passi dell’uomo, sceglie di rendere meno doloroso il trapasso. Con il sostegno alla terminalità, dove meta ultima non è la guarigione bensì una morte dignitosa.

Siamo esseri a termine. Ma non facciamo che dimenticarcene. La «rimozione» non guarda in faccia nessuno, si estende a tutte le fasce sociali. Non è però un processo così immediato: esclude il non fare, alimenta l’azione, annulla il pensiero consapevole, annienta la profondità. Siamo specchio di una società in cui l’idea dell’uomo infallibile detiene una supremazia assoluta, sotto tutti gli aspetti, anche quello della salute.
La malattia va negata, la sofferenza taciuta, la morte cancellata. In questa prospettiva parlare di ferite, nel corpo e nello spirito, esige un cambio di paradigma.
Lo facciamo lasciando la parola a chi, per scelta, ha deciso di vivere quotidianamente con i malati terminali. Di essere taumaturgo del corpo e dell’anima per chi la «terminalità» non può più far finta che non esista. 

cure … palliative?

«Il medico di cure palliative agisce laddove non ci sono più spazi per le terapie attive convenzionali e rivolge le sue cure a malati cosiddetti terminali, con un’aspettativa di vita minore o uguale a 120 giorni». Così racconta Piergiacomo Rubatto, 46 anni,  medico presso la Fondazione per l’assistenza e la ricerca oncologica (Faro) di Torino. E sfata un equivoco semantico, secondo il quale l’attributo palliativo identifica un intervento superfluo. «Anticamente il sostantivo pallium indicava il mantello con cui i pellegrini si riparavano durante i loro viaggi presso i santuari, con l’intento di avvolgerli, proteggerli ed essere fonte di calore.
A questa idea iniziale si rifanno le cure palliative. Se non servono a guarire nel senso stretto del termine, servono a prendersi cura del paziente sino alla fine».
Ma in termini tecnici come ci si prende cura del paziente? «L’obiettivo è ridurre al massimo grado la sofferenza della persona malata, con un buon controllo dei sintomi. Alleviare dal dolore la persona permette non solo di intervenire sulla corporeità dell’individuo ma di restituirgli quella dignità umana,  indispensabile per migliorare la qualità del tempo che gli rimane da vivere».
Se il controllo di una complessa sintomatologia alla fine della vita è importante, inscindibile da questo è l’approccio relazionale e umano che il «palliativista» non può non avere.
«Alla base del nostro lavoro c’è la consapevolezza di varcare l’uscio di case segnate dal dolore. L’attività tecnica del controllo dei sintomi si lega indissolubilmente al rapporto relazionale con il malato e con l’intera famiglia. Nell’assistenza domiciliare il ruolo della mini équipe (medico e infermiere) è quello di affrontare i sintomi fisici dei pazienti ed emotivi dei parenti, con un’autentica condivisione del malessere psicologico».
Da cosa nasce la sua scelta di lavorare con la terminalità? Ha iniziato dopo la laurea o è una decisione recente? «Sono specializzato in chirurgia e ho lavorato per 15 anni come chirurgo al San Giovanni Vecchio e all’ospedale Valdese di Torino. Con il passare degli anni ho iniziato ad avvertire una pungente insofferenza verso quella che si può definire la catena di  “montaggio e smontaggio” della sala operatoria. Precisione, tecnicismo ma poca relazione umana. Dopo anni di lavoro mi sono riconvertito a quella che era la mia vera indole, il mio credo di quando ho iniziato gli studi: il rapporto diretto con il malato e i suoi disagi».
Da chirurgo a medico di cure palliative. Lasciando, se vogliamo peccare di cinismo, un titolo prestigioso per scegliere di accompagnare l’uomo alla fine dei suoi giorni. «In ospedale il malato è l’anello che ruota intorno al sistema. Nel percorso di cui stiamo parlando sono gli operatori a ruotare intorno al malato. L’uomo è immancabilmente al centro.
Non mi manca il prestigio del chirurgo. Sono nel posto dove volevo essere e quello che ritengo più fondamentale per il mio mestiere è essere credibile verso sé stessi e verso gli altri. La credibilità la leggi negli occhi dei tuoi pazienti e delle loro famiglie, condividendo quel pezzo di strada che porta al passo più importante delle nostre vite».

A casa o in hospice?

L’intervento di supporto alla terminalità attraverso le cure palliative può essere realizzato sia a domicilio che in hospice. Il dottor Alessandro Valle, 47 anni, cornordinatore del personale Faro, specialista in oncologia ed esperto in cure palliative, ci spiega: «La Fondazione Faro nasce a Torino nel 1983 per volontà di alcuni medici oncologi dell’ospedale San Giovanni Antica Sede. Dal 1989 avvia un programma di assistenza domiciliare medica e infermieristica, gratuita, ai malati oncologici in fase avanzata della malattia.
Nel 2001 apre al terzo piano dell’ospedale San Vito di Torino l’hospice con 14 stanze a un letto, con una poltrona per un familiare, per un totale di 10-20 posti. L’obiettivo è ricreare il più possibile un ambiente familiare, accogliente, che rispetti la dignità e l’integrità della persona.
Non esistono per questo orari precostituiti di visita e, per quanto possibile, si cercano di organizzare  momenti comunitari di intrattenimento».
L’hospice ha veramente un aspetto tranquillizzante. Situato nel verde della collina torinese, gode di una vista che, in qualche modo, rinfranca lo spirito. Il suo interno è l’espressione della «misura d’uomo». L’ambiente non è impregnato di quel nauseabondo odore medicalizzato degli ospedali, è impossibile perdersi perché troppo piccolo e ogni stanza è caratterizzata da un’icona floreale. Dall’iris al girasole, in un tutt’uno con l’idea che nulla muore per sempre, che bellezza e purezza sopravvivono anche al più drammatico degli eventi.
I luoghi della palliazione spaziano dunque dal domicilio all’hospice. Cosa li distingue e caratterizza?
«Le cure palliative a domicilio non hanno ragione d’essere se la famiglia stessa non è in grado di integrare le attività assistenziali. La famiglia è il peo su cui si basa l’intera cura.
Peo di appoggio pratico, affettivo e psicologico. Si potrebbe definire un’azione congiunta di mini équipe con la famiglia. Coordinazione e dedizione assoluta di ambo le parti conducono a un accompagnamento armonico. Le famiglie che non possono garantire tale impegno si rivolgono all’hospice».
Sono persone sole, senza famiglia i degenti dell’hospice? «Assolutamente no. I malati cosiddetti  “soli” sono sinceramente rari ma non tutte le famiglie, per quanto numerose possano essere, hanno possibilità di tempo e disponibilità emotiva per  seguire l’evoluzione della malattia  oncologica, in particolar modo in area metropolitana».

testa e cuore

Quale profilo professionale e umano è più consono all’operatore di cure palliative e su che criteri si basa la selezione del personale?
«Dopo anni di lavoro posso dire che il neolaureato o il medico con troppa esperienza non si confà al profilo giusto del candidato. Il primo perché non ha ancora acquisito una certa scioltezza nella professione e non ha gli strumenti giusti per trattare casi delicati.
Per contro, la troppa esperienza pecca a volte di rigidità mentale, di schemi prefissati e di poca flessibilità. Inoltre viene detto un no categorico a chi desidera collaborare con noi in attesa di altro nella propria vita: concorsi, master, etc. Su questo siamo tassativi, chi sceglie questa strada non può farlo per  poco tempo e con leggerezza».
Quali allora i giusti ingredienti? «Motivazione, competenza e inclinazione alle relazioni umane. Senza questa triade non esiste il medico o l’infermiere di cure palliative. Per quanto concee il medico non viene richiesta una determinata specializzazione. Chi viene da noi a cercare lavoro si mette al servizio dell’umanità più fragile, più ferita. Deve farlo con testa, cuore, elasticità mentale e di tempo. L’orologio perde il suo significato, il tempo acquista valore in quanto le giuste parole servono a curare quello che la medicina non può più guarire. L’esperienza, poi, chiude il ciclo. Aiuta a trovare soluzioni, gesti e complicità anche nei momenti più disperati».
Ma in questo olimpo di umanità, ci sarà qualcuno che prova a sbarcare il lunario per convenienza e non per sincera attitudine. «Le persone che non dichiarano apertamente di voler far altro nella vita e si improvvisano medici o infermieri di cure palliative hanno vita breve.
Sono loro stessi a rendersi conto che se non si ha una forte motivazione è impossibile convivere quotidianamente con la morte. Inoltre i nostri operatori, una volta superato il colloquio, sono sottoposti a un periodo di formazione e tirocinio della durata di cinque settimane, complessive di 30 ore teoriche globali e un duro tirocinio articolato in quattro settimane presso il servizio domiciliare e una in hospice. Dopodiché devono superare un esame e altri sei mesi di prova.
Questo iter serve a palesare anche il più piccolo disagio e a scoprire il vero talento dal fasullo».
La gente che prende posizioni nette nella vita o che, come in questo caso, fa scelte forti spesso è unita da un sentire comune, da una sorta di appartenenza a una stessa filosofia di vita. Cosa distingue il file rouge degli operatori Faro? «Oserei dire un pizzico di follia, nel senso di essere un po’ anticonformisti, di non essere allineati, di privilegiare la ricerca del  senso delle cose della vita, rispetto all’etichetta, al prestigio esteriore.
Ognuno di noi, per una ragione o per l’altra, ha fatto una scelta di rottura rispetto a ciò che era o faceva prima, abbandonando spesso luoghi di cura dove non esprimeva al meglio il proprio potenziale».
senza camice

Scelte alternative, dunque, come alternativo e controcorrente è lo stesso fatto di non nascondersi dietro il camice bianco, ma di essere sempre in borghese. Nel servizio domiciliare  come in hospice.
Una prospettiva meno autorevole, più accessibile che rinuncia al «costume» come identificazione di uno status sociale, censurando così tutte quelle dinamiche che il camice stesso crea: divisione, rottura, freddezza. E, in fin dei conti, poca utilità.
Sono le parole di Raffaella Oria, 35 anni, da 10 anni infermiera Faro, a dipingere al meglio quanto le interrelazioni emotive non necessitino di travestimenti.
«Già nei quattro anni in cui lavoravo come infermiera presso il reparto di ginecologia oncologica del Sant’Anna di Torino, sentivo l’esigenza di fermarmi di fronte alla terminalità. Era come se una spinta intea, molto viscerale, qualcosa di somigliante al mio io più profondo, mi invitasse a spostare il paravento o ad aprire la porta di una stanza in cui stava avvenendo un decesso.
Volevo essere lì e far sentire la mia presenza fisica e mentale». Parole e aspetto di Raffaella Oria non tradiscono il suo potenziale umano. E non stupisce che lavorare con i malati terminali sia da 10 anni la sua missione.
Abbiamo avuto modo di seguirla da vicino, a domicilio, e ho sperimentato quell’energia carezzevole, femminile, fatta di un universo interiore che si muove a passi di danza, in una terra di passaggio. Dove di quella danza c’è un bisogno infinito. «L’esperienza domiciliare mi ha dato la possibilità di esprimere al meglio la mia inclinazione ai rapporti umani e di responsabilizzarmi professionalmente. Senza nessun camice, esponendomi in prima persona per quello che sono realmente. Posso dire che è stata la vita stessa e l’esperienza a formare la mia umanità più vera. Quella che, oggi, riesce a intervenire nei momenti più complessi, a cogliere un disagio psicologico della famiglia, a cercare il giusto conforto. Dieci anni fa non sarebbe stato lo stesso».
Le abbiamo visto fare un gesto di cura e di amore. Che non posso dimenticare. Era il commiato fisico ad un corpo ormai senza vita. La tenera ricomposizione di quest’ultimo. Forse non rientra più nella sua sfera di competenza, perché lo fa?
«Un corpo non è solo un oggetto esanime, bensì una vita intera. Fatta di tanti fotogrammi che compongono un ciclo di amore, di pensieri, di speranze. E, purtroppo, è un corpo ferito dall’abuso sanitario. Merita un ultimo saluto dignitoso, una carezza che possa estendersi dall’ultimo respiro in poi. Tecnicamente rimuovo gli eventuali dispositivi (medicazioni, cannule endovenose o catetere) e poi provvedo all’igiene del corpo e, se la famiglia lo desidera, alla vestizione. I tempi sono fondamentali.
Non esiste fretta ma una dolce fluidità. Un ultimo, lungo saluto che soffia ancora di vita».
Dopo tanto morire, ci sono dei momenti in cui si rischia il bu-out (dall’inglese bruciarsi: lento processo di logoramento che porta a non disceere la propria vita da quella delle persone a cui si bada)? Come comportarsi?
«Mi è capitato di avere nello stesso anno quattro casi di pazienti anagraficamente simili a me. Questo, alla lunga, sfocia in un meccanismo di immedesimazione e di grande fragilità. La soluzione? Chiedere ferie e farsi aiutare dai colleghi, snellire il carico di lavoro o prendere in cura pazienti di diversa fascia anagrafica».
Cosa le ha insegnato questo lavoro, cosa si porta dietro nel suo quotidiano?
«Mi ricorda, in ogni istante, di vivere sempre il momento. E di farlo nel miglior modo possibile, dando la priorità alle cose che veramente contano».

«ascensori dell’anima»

Ma se le cure palliative servono a prendersi cura fisicamente ed emotivamente del paziente e della famiglia, esiste da qualche parte una «palliazione» dell’anima?
Ne parliamo con Gianpaolo Paoletto, 41 anni, cappellano dell’ospedale Molinette (San Giovanni Battista di Torino) e assistente spirituale in hospice Faro.
«Il nostro tempo è caratterizzato dall’incapacità del non fare. È un tempo inscatolato in cui diventa fattore ansiogeno trovare uno spazio libero per la mente e per il cuore.
La profondità di noi stessi è ciò che più inquieta l’uomo moderno. Che anche di fronte alla morte continua a ricercare l’azione per far finta che nulla di trascendentale si stia verificando».
Quale potrebbe essere allora un accompagnamento spirituale per l’uomo che sta compiendo i suoi ultimi passi?
«Smettere di vivere la vita in una prospettiva orizzontale, prendere l’ascensore in salita e in discesa, per accedere a quei meandri interiori del nostro io assoluto, che mai come in quel momento dovremmo conoscere. Solo così è possibile una sorta di pacificazione, seppur estremamente difficile.
Non è compito dell’uomo di fede indottrinare il malato terminale ma è parte della sua missione aiutare a trovare delle risposte, a chiarire alcuni interrogativi sulla vita e sulla sofferenza. Questo lo si può fare solo se si fuoriesce da una rigidità mentale e si allarga la prospettiva della spiritualità. Essendo di conforto all’uomo, a prescindere dal credo personale».
In un  film capolavoro del regista svedese Ingmar Bergman «Sussurri e grida», dove la tematica è l’agghiacciante terminalità della giovane protagonista, il colore rosso delinea propriamente questo tunnel verso l’interno dell’anima. E l’unica consolazione finale è il rapporto umano, quello sincero della donna con la governante, complice per esperienza personale di tale dolore.
È l’unica in grado di accompagnarla amorevolmente verso l’epilogo.
Questo viaggio verso l’anima può essere veramente facilitato da un’autentica relazione umana?
«Certamente. La relazione profonda tra due esseri si incontra esclusivamente nell’autenticità. E quando questo accade in prossimità della fine di una vita, assume un aspetto miracoloso.
Spesso incontro malati che vorrebbero sul serio prendere quest’ascensore verso la propria profondità ma sono gli stessi familiari a non consentirlo, occupandogli e occupandosi assurdamente il poco tempo che resta. Un ulteriore escamotage per nascondere le proprie paure».

Per Non perdere l’identità

Il timore di esprimere la propria fragilità, di ammettere di essere in scadenza ci toglie la leggerezza, ci rende responsabili di fronte a parole che mai avremmo pensato di poter pronunciare. Con un padre, un figlio, una moglie. E non sempre si trovano consolazioni anagrafiche, magari legate alla senilità, davanti alla notizia di una malattia incurabile.
A volte si incontrano famiglie con bambini o adolescenti a cui la malattia dei genitori segna profondamente un momento della loro esistenza, e non solo.
In questo senso il lavoro organico della mini équipe di cure palliative è pronto a richiedere, davanti a un particolare disagio emotivo all’interno di una famiglia, il supporto di uno psicologo.
«L’obiettivo del nostro lavoro è quello di aiutare il malato a trovare un punto emotivo di quiete, conducendolo al trapasso senza un’eccessiva disperazione.
L’approfondimento psicologico nei confronti del paziente o della famiglia aiuta a veicolare quelle che sono le effettive necessità, i bisogni inespressi della persona e a restituirgli il senso della propria storia». Così racconta Stefania Chiodino, 50 anni, cornordinatrice degli psicologi in Faro.
«La malattia sgretola, avvilisce e svilisce. Inizia scardinando l’autostima in termini fisici, esteriori, e poi si scava un percorso nelle pieghe più intee per colpire l’autentica identità della persona. Il nostro operato cerca, per quanto possibile, con la collaborazione dell’interessato, di riavvolgere quel nastro vitale e di agire sull’autostima del soggetto per aiutarlo a rivalorizzarsi e a riconoscersi».
Come avviene un cammino del genere? «Solo con una stretta relazione, il tempo e la fiducia reciproca. Un esempio: per un nostro paziente riconoscersi corrispondeva al piacere culinario. Per lui è stato un momento di autenticazione personale vedere come tutta la nostra équipe partecipasse alla preparazione del suo piatto preferito. Piccole cose di ogni giorno, semplici, ma che ridanno personalità a una vita».
La terminalità è una fase della vita sui generis, esula dalle condizioni psichiche ordinarie. Ci sono silenzi del malato a cui l’altro non sa come rapportarsi. Esistono chiavi di lettura e parole giuste per un commiato da una persona amata?
«Non ci sono strategie. L’esperienza mi ha insegnato che a volte quel silenzio che il parente legge come tormento è in realtà un’assenza. In un posto lontano, forse una vera terra di confine, dove l’uomo sente meno dolore.
Il nostro lavoro non è nel consigliare frasi d’effetto ma nel capire le necessità dell’altro e, se queste riguardano il commiato, favorie la realizzazione nel modo più sereno possibile».
Un intervento che si può definire circolare. «Direi di si. Lo chiamiamo “Progetto protezione famiglia” e agisce, preventivamente, rivolgendosi a famiglie fragili, ossia con bambini e adolescenti all’interno, patologie psichiatriche, marginalità sociali, etc. Accompagnandole con programmi di sostegno psico-sociale fin dalla diagnosi della malattia, seguiamo i malati terminali e offriamo un servizio di supporto al lutto per contrastare la solitudine e prevenire il lutto patologico».

Un numero limitato di volte

C’è una frase di Paul Bowles tratta dal libro «Il tè nel deserto» che esprime questa incapacità dell’essere umano a ricordarsi di essere parte di una parabola che, prima o poi, metterà la firma al fondo della pagina: «Poiché non sappiamo quando moriremo si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile, però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia, un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che, senza, neanche riuscireste a concepire la vostra vita. Forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte guarderete levarsi la luna, forse venti…  eppure tutto sembra senza limite».

Di Gabriella Mancini

Gabriella Mancini