Il mestiere di Dio

Perdono e misericordia: il volto nuovo della «civiltà cristiana»

Un perdono che non si coniughi con la misericordia e la giustizia non appartiene alle scelte del Dio di Gesù Cristo, che dall’amore «illogico» e viscerale per la sua creatura è capace di generare costantemente vita nuova.

Nella colletta della domenica 26a del tempo ordinario, del ciclo liturgico dell’anno A, la chiesa espone l’intenzione universale della celebrazione eucaristica con queste parole: «O Dio che riveli la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono, continua ad effondere su di noi la tua grazia…».
Il testo italiano non traduce esattamente quello latino che è più espressivo e dirompente: «Deus qui omnipotentiam tuam parcendo maxime et miserando manifestas,  multiplica super nos misericordiam tuam». La traduzione letterale è: «O Dio, che manifesti la tua onnipotenza in sommo grado perdonando e avendo compassione, moltiplica su di noi la tua misericordia».
In questa preghiera, che esprime la dimensione della celebrazione eucaristica, l’assemblea dei fedeli non solo riconosce che il perdono e la compassione sono il segno dell’onnipotenza divina al sommo grado, ma chiede anche di moltiplicare la misericordia come se il sommo grado avesse bisogno di un supplemento di pietà. Questa straordinaria preghiera ci induce a modificare il nostro concetto di Dio e, di conseguenza, anche quello dell’uomo. In un tempo dove la violenza e la vendetta sono pane quotidiano, alimentate da un perverso sistema mediatico che aumenta esponenzialmente il degrado che descrive e di cui molto spesso si compiace, parlare di «misericordia e di perdono» può sembrare anacronistico. Noi lo ammettiamo: è anacronistico, perché la logica della fede non è sottomessa alla logica delle apparenze. Al contrario, essa va alla radice dell’essere e della persona perché solo le ragioni del cuore possono modificare anche i comportamenti estei.
Il mondo, avviluppato in una economia dove vige la legge del più forte che alimenta e fomenta ogni forma di perversione politica, sociale, militare, ha perso l’orientamento del proprio destino e si sta uccidendo con le sue stesse mani. Un mondo che non ha pietà nemmeno di se stesso perché è impegnato, in nome del guadagno immediato e senza fatica, a distruggere il futuro dei suoi stessi figli, è un mondo vittima della propria implacabile vendetta. È in questo mondo che dobbiamo annunciare la svolta della civiltà che deve sorgere alla base delle relazioni tra gli individui, i popoli, le nazioni, i governi e, ancora, tra l’umanità e l’ambiente, tra Nord e Sud, tra Est e Ovest: la civiltà del perdono, il millennio della misericordia. I credenti dovrebbero sapere che il loro Dio esercita un solo mestiere, monotono, sistematico, senza variazione alcuna: perdonare, perdonare sempre perché nessuno vada perduto (Gv 6, 39).
Il Dio che si rivela nel volto di Gesù si era già manifestato nell’Antico Testamento. Il libro di Neemia, ce lo descrive come «un Dio pronto a perdonare, pietoso e misericordioso, lento all’ira e di grande benevolenza», incapace di abbandonare il suo popolo (Ne 9, 17). Nell’Antico Testamento, infatti, c’è una costante richiesta a Dio di perdonare i peccati e i torti ricevuti. Il perdono di Dio è la fonte della libertà e anche il fondamento dell’agire umano. Siracide, infatti, memore dell’identità di Dio che si manifesta nel perdono e nella misericordia, indica in Dio stesso il modello del comportamento umano: «Perdona l’offesa al tuo prossimo e allora per la tua preghiera ti saranno rimessi i tuoi peccati. Se qualcuno conserva la collera verso un altro uomo, come oserà chiedere la guarigione al Signore? Egli non ha misericordia per il suo simile e osa pregare per i suoi peccati?» (Sir 28, 2-9, qui 2-4). Nel Midrash (interpretazione rabbinica) «Sifré» a Deuteronomio 13,18, si legge: «Ogni volta che avrai misericordia delle altre creature, dal cielo avranno misericordia di te». In questi testi si stabilisce un nesso diretto tra il perdono concesso da Dio e il perdono condiviso dagli uomini: lo stesso nesso che si trova nella preghiera cristiana per eccellenza, il «Padre nostro» nella duplice versione di Matteo e Luca che descrive anche la differente visione teologica del perdono dei due evangelisti: due prospettive, un solo esito.
Nella versione di Matteo (che abbiamo appreso fin da piccoli e che ancora oggi preghiamo in ogni celebrazione Eucaristica) la sesta richiesta così si esprime: «Rimetti a noi i nostri debiti come (greco: hôs kài = come anche) noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6, 12). Il perdono di Dio è commisurato al perdono degli uomini, in forza anche del dettato «col giudizio con cui giudicate sarete giudicati e con la misura con la quale misurate sarete misurati» (Mt 7, 2). In sostanza, si autorizza Dio a non esercitare il perdono se prima non è esercitato dagli uomini come misura del perdono di Dio. Nel contesto di Matteo, il perdono è un atto profetico che annuncia la misericordia di Dio, quindi non è solo mettere in pace la coscienza e ristabilire un ordine morale, ma è principalmente il «ministero» che proclama e svela il vero nome di Dio: «Dio di perdono».
Nella versione di Luca, invece, si usa la doppia congiunzione «kài gàr» (che alla lettera significa «e infatti»), ma qui ha valore causale e quindi può tradursi con «affinché»: «Perdonaci affinché [anche noi] possiamo perdonare». In Luca, il perdono di Dio diventa causa e forza per il perdono vicendevole tra gli uomini che non è possibile o quanto meno è difficile realizzare senza il perdono di Dio. Si chiede perdono a Dio «perché» si abbia la forza di perdonare i propri simili. In questo modo il perdono degli uomini diventa il «sacramento», il segno del perdono di Dio. Un atto di amore ricevuto non può che essere condiviso.
Il perdono non è una pia pratica di pietà né un atteggiamento ascetico di purificazione in vista di una ricompensa futura, ma assume la veste solenne di un comandamento. Il perdono, infatti, non è facoltativo, ma è un imperativo che adempie l’Alleanza nuova perché è la rivelazione della vera natura di Dio, che chi crede deve rendere visibile e sperimentabile. Perdonare significa aiutare gli altri a «toccare il Verbo della vita» (cf 1Gv 1, 1) perché è la vera novità dell’evento Gesù Cristo che l’ha stabilita e codificata nella quinta beatitudine: «Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia» (Mt (5, 7).
Per capire la portata di questo discorso che è decisivo per la fede, è necessario lasciarsi conquistare dal significato delle parole della Scrittura, in modo particolare da due di esse: «misericordia» e «perdono». Ogni parola della Scrittura è come una persona: ha un’anima e un corpo. Il corpo sono le lettere e l’anima è il senso, il significato. Ogni parola è viva, danzante, piena di vita, per cui leggere una parola o una serie di parole non significa scorrere un insieme di lettere morte, ma incontrare una persona viva che interagisce con chi legge, trasmette emozioni, sentimenti, immaginazioni: ogni rapporto con le parole è un turbinio di sensi che non lascia mai indifferenti i protagonisti. Non è un caso che la tradizione giudaica insegna che Dio prima ancora di creare il mondo, creò dieci cose, tra cui le lettere dell’alfabeto che sarebbero servite per scrivere la Toràh, cioè per mettere in comunicazione Dio e l’uomo.

Un Dio «scandaloso»

Tutti ricordiamo le due parabole «scandalose» di Luca: il buon Samaritano che si fa carico del nemico Giudeo (Lc 10, 25-37) e la famosa parabola conosciuta comunemente come parabola del figliol prodigo (Lc 15,11-32). Tutte e due le parabole potrebbero essere catalogate come «vangelo del grembo», perché in esse e solo in esse Luca usa un termine specifico che in italiano è tradotto con «compassione» nella prima e con «commosso» nella seconda, non rendendo però giustizia al significato profondo del testo originario. Luca infatti usa il verbo passivo greco «esplanchnìsthê» che traduce  l’ebraico rachàm (da cui rèchem e rachamìm),  termine da cui deriva la parola italiana misericordia. In ebraico richiama l’utero materno (= rèchem) nell’atto di generare alla vita: «Un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione» (Lc 10, 33).
Lo stesso verbo «esplanchnìsthê» è usato da Luca  nella parabola del figliol prodigo che la traduzione italiana rende con «commosso»: «Quando era ancora lontano, il padre lo vide e, commosso, gli corse incontro» (Lc 15,20). Questa traduzione non fa giustizia al testo che, come abbiamo visto, si riferisce all’ebraico rachàm per significare che è un amore viscerale, cioè senza ragione logica, un amore «a perdere» che solo una madre e un padre sanno sperimentare. Il riferimento al «grembo/utero» materno mette in evidenza che la misericordia di Dio non è una concessione benevola, ma un atto che genera e riporta alla vita. Quando si è afferrati dal perdono di Dio si scoppia di vita e questa zampilla di gioia. Questo è lo scandalo del Dio di Gesù Cristo: egli perdona «con grembo» perché vuole fare rinascere a vita nuova.
C’è un altro termine in italiano che riporta alla stessa radice ebraica ed è la parola «elemosina» che nel nostro linguaggio comune ormai è diventata espressione di un gesto benevolo verso qualche povero di strada: dare qualche centesimo. Fare elemosina ha anche il significato di dare e ricevere sporadicamente una miseria, come bene esprime l’espressione: «Non ho bisogno di elemosina!». Il termine invece è carico di senso, proveniente direttamente dal verbo greco «eleèō» che significa «ho misericordia». Anch’esso nella Bibbia si rapporta con l’ebraico rachàm, per cui, ancora una volta, ha attinenza con il «grembo/utero» materno che partorisce. «Fare elemosina», quindi, nel suo significato originario, etimologico significa «avere pietà/misericordia» nel senso proprio di accettare di essere generanti/partorienti: «fare elemosina» in conclusione significa «generare alla vita».
Nella liturgia eucaristica è rimasta una reminiscenza della celebrazione greca dei primi secoli ed è l’invocazione dell’inizio: Kýrie, elèison! Christe, elèison!», dove il verbo imperativo «elèison» è appunto una invocazione di perdono come misericordia che rigenera alla vita. L’esercizio della misericordia diventa quindi un atto di culto che ha valore sacrificale e rigenerativo perché condivide chi si è e ciò che si ha. Questo è il cristianesimo nel suo ideale supremo. Questo dovrebbe essere il cattolicesimo. Questa dovrebbe essere la vita e la testimonianza dei credenti. Da quando Gesù è morto sulla croce, giudizio, condanna, moralismo, perbenismo, tutto è morto con lui, perché da quella croce, nuovo monte Sinai della Nuova Alleanza, scendono non più due tavole di pietra, fredde e giudicanti, ma il grembo e la tenerezza di Dio, Madre/Padre che hanno il volto umano e divino dell’Uomo Gesù.
Luca fa iniziare il ministero di Gesù nella sinagoga di Cafaao con una citazione di Isaia, da cui però omette volutamente la parte finale di un versetto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore… Allora cominciò a dire: “Oggi si è adempiuta questa scrittura che avete udita con i vostri orecchi”» (Lc 4, 18-21; cf Is 61, 1-2).
La citazione di Luca è molto importante specialmente per quello che non dice. Il v. 2 di Isaia (a cui fa riferimento il v. 19 del passo lucano) dice testualmente «a promulgare l’anno di misericordia del Signore, un giorno di vendetta per il nostro Dio». Luca omette la seconda  parte del versetto («un giorno di vendetta per il nostro Dio»), per evidenziare l’atteggiamento favorevole con cui Dio, in Gesù Cristo, viene incontro agli esclusi dalla mensa della pienezza della vita.
Il primo atto pubblico di Gesù è un discorso programmatico di misericordia che è il nome nuovo della giustizia di Dio (Sal 33/32,5; 36/35,11). Questa giustizia segna tutta la vita e il vangelo di Gesù: dall’accoglienza  dei peccatori (Lc 7, 36-50) fino ai suoi crocifissori che egli perdona in punto di morte (23, 34). Non c’è nulla della logica umana nel comportamento del Figlio dell’uomo, che viene a rivelare una giustizia estranea all’orizzonte umano:  Dio è giusto perché perdona senza tenere conto di meriti e demeriti perché la sua misericordia è radicata nel cuore stesso di Dio.

Senza condizioni

Con una frase a effetto si potrebbe dire che il mestiere di Dio è il perdono. È la teologia della croce la sorgente di questa «novità». Su quel legno di morte Cristo insieme a sé ha «crocifisso» anche il peccato dell’umanità (Rm 5, 19), inaugurando «l’anno di grazia del Signore» (Lc 4, 19). Questo consiste proprio nel dare la giustificazione a coloro che non possono accedervi perché non hanno nemmeno la forza di alzarsi dalla loro debolezza. Il perdono è per Dio  l’unico modo di essere giusto: il suo modo; egli non si limita a cancellare il male, ma rigenera la persona a nuova vita come se rinascesse nuovamente. Risulta chiara nell’episodio dell’adultera narrato nel vangelo di Giovanni: «Donna… nessuno ti ha condannata? Nessuno, Signore… Neanch’io ti condanno; và e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8, 10-11). Nel «perdono» di Gesù alla donna si evidenzia un atto di liberazione che è il punto di partenza per la vita nuova di una persona destinata alla morte per lapidazione da parte di coloro che l’avevano abusata. Etimologicamente «perdonare», in italiano e nelle lingue europee, è formato da un prefisso «per-» che esprime pienezza e abbondanza e dal verbo «donare»: il verbo composto significa pertanto «donare completamente/del tutto, donare in sommo grado/in abbondanza».  In altre parole «perdonare» è il verbo «donare» al superlativo. San Tommaso, rifacendosi ad alcuni testi del Nuovo Testamento (Ef 4, 32; 2Cor 2, 10) afferma che nel perdono Dio esercita un potere superiore a quello della creazione perché il dono per eccellenza è il perdono (S.Th., II-II,113,9, sc.).
Nella storia biblica vi sono due pietre miliari che riguardano il perdono e la misericordia. La prima è costituita dalla legge del taglione «occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede» (Es 21, 24) che costituisce un passaggio di civiltà enorme. Prima di Mosè, infatti, la vendetta aveva un rapporto di uno a sette, degenerando fino a raggiungere l’impressionante cifra di uno a settanta volte sette, cioè un numero senza fine: «Sette volte sarà vendicato Caino, ma Làmech sarà vendicato settanta volte sette» (Gen 4, 24). Ciò significava che per un torto, una violenza, una morte, si riparava con sette torti, sette violenze, sette morti fino a Caino, ma fino a settanta volte sette da Làmech in poi. In questo contesto sociale, la legge del taglione introdotta da Mosè che, a noi sembra una barbarie, costituì un trapasso di civiltà portando la vendetta ad un rapporto paritario di uno a uno.
Bisognerà aspettare Gesù di Nazareth per piantare l’altra pietra miliare che cambia il volto e il cuore dell’uomo: la vendetta si ripara col perdono. All’ingiustizia e al male si risponde con l’amore e con la misericordia, fino a diventare il simbolo del vangelo del Dio incarnato: «Amate i vostri nemici e fate del bene a coloro che vi odiano» (Lc 6, 26). In un tempo in cui la vendetta è il pane quotidiano di molta parte dell’umanità e le folle sono assetate di sangue, in un tempo in cui popoli interi alimentano di vendetta il proprio futuro, uccidendo così solo la speranza dei propri figli, annunciare e testimoniare il perdono e la misericordia è la più grande rivoluzione che oggi si possa compiere perché essa non si occupa di modificare le strutture, ma si preoccupa di toccare il cuore e la parte profonda dell’animo umano: là dove avviene l’incontro tra Dio e la persona e dove ciascuno di noi può fare propria la preghiera di Davide: «Abbi pietà di me, o Dio, nella tua chesed (amore di tenerezza), secondo l’abbondanza delle tue rachamìm (grembo materno) cancella il mio peccato» (Sal 51,3) e sentire come una eco in sottofondo  la voce degli angeli che cantano: «Il Signore, il Signore Dio di pietà e di misericordia, lento all’ira e ricco di tenerezza e verità» (Es 34, 6). Di fronte a questo progetto di civiltà non ci resta che accogliere l’invito di Gesù al dottore della Legge nella parabola del buon Samaritano: «Va’ e anche tu fai così» (Lc 10, 37).

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella




il prezzo del perdono

Un faticoso cammino di liberazione

In un mondo che sembra favorire modelli di conflitto e rivalsa la scelta di perdonare potrebbe apparire una scelta debole e perdente. Al contrario, il perdono si propone come un’opzione forte, un maturo percorso di liberazione che investe la totalità dell’essere umano.

Può succedere nella vita di trovarsi davanti a quelle che sono delle vere e proprie «situazioni limite». Può darsi che queste assumano i tratti della morte violenta di una persona che si ama o di una grave offesa alla propria dignità; di un inganno che tradisce la fiducia riposta, oppure di un gesto o un episodio di violenza: qualcosa, insomma, che sembra intrappolarci, precludendoci ogni via di uscita.
Tanto la storia personale, come quella sociale presentano spesso ostacoli capaci di intralciare o a volte impedire un vivere insieme armonico, positivo. I gravi fatti che nel passato hanno segnato le vite dei popoli, hanno creato divisioni molto profonde, aprendo ferite storiche dopo secoli e secoli, così come è successo nei Balcani,  in Rwanda o in Burundi. La presenza di eserciti inteazionali sotto le insegne delle Nazioni Unite, invece di essere un deterrente, ha molte volte contribuito a rendere più profonda la reciproca avversione fra le parti in conflitto, prolungando in questo modo l’agonia della pace.
La geografia, frutto di trattati tra vincitori o di decisioni di grandi potenze coloniali o neocoloniali, presenta condizioni che alterano i rapporti fra i popoli e disegna scenari e situazioni sovente esplosivi.
La povertà, infine, risultato della ingiusta distribuzione dei beni è fonte di un grave malessere che può sfociare in violenza e guerre quando gli unici nemici riconosciuti sono le politiche economiche globali che causano situazioni di potenziale o reale conflitto.
In queste circostanze è allora possibile perdonare? Chi? Come? È facile comprendere che in situazioni limite o in circostanze in cui il nemico è invisibile o indefinibile, il tema del perdono si faccia più sfumato e più complesso. D’altra parte, quante volte si è considerato il perdono come una soluzione facile e ad effetto, soprattutto quando questo viene offerto senza molta coscienza o in modo spettacolare?
Il perdono è sempre un processo, a volte lento e faticoso, che esige tempo e riflessione. Un perdono esigito solo e soltanto per compiere un dovere – anche se religioso – o «regalato» con superficialità, non ha radici e non può dare frutto.
Il perdono è la negazione di ciò che è semplice e a poco prezzo. Parafrasando Bonhoeffer possiamo tranquillamente dire che il perdono costa caro. A volte costa veri e propri atti di eroismo da parte della vittima. Solo a queste condizioni il perdono è in grado di  creare una catena di relazioni capaci di rinnovare una vita umana in modo profondo e totale.

Strumento di liberazione

Con molta solennità si insiste a celebrare fatti di guerra come fondamento di liberazione dei popoli. L’Africa e l’America Latina ricordano con molto orgoglio le gesta dei propri eroi che, quasi sempre, hanno conquistato la libertà per i loro popoli grazie a guerre e sollevazioni di massa, anche se non sempre l’indipendenza ha significato «libertà». Allo stesso modo, molti popoli europei, tra cui l’Italia, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale sono riusciti ad ottenere regimi democratici attraverso lotte civili crudeli e violente.
La Bibbia stessa pone come esempio dell’intervento di Dio a favore del suo popolo un fatto intriso di forti connotazioni religiose, ma che nello stesso tempo lascia intravedere azioni di sabotaggio, razzia e massacro (Esodo 12, 29.35).
Ancora una volta il cammino per arrivare a ottenere un cambio sociale e politico (e quindi la liberazione) è stato violento e sembra essere questo, in realtà, il paradigma necessario. Tuttavia, anche il popolo eletto e liberato ha dovuto percorrere un lungo cammino di purificazione e di formazione per riuscire a uniformare la sua vita secondo quello che era il progetto originale di Dio.
Nasce di conseguenza la domanda: è sufficiente ottenere la liberazione per essere liberi? È sufficiente avere coscienza di appartenere a un progetto di Dio, per riuscire a realizzarlo e a viverlo? Che cosa manca al cammino dei popoli che hanno raggiunto un alto grado di indipendenza e di benessere per sentirsi veramente e interiormente affrancati?
Viviamo una scissione fra realtà e memoria e a causa di questo incontro fallito si trascinano situazioni che non ci permettono di essere liberi. Molte volte il passato conserva al suo interno una grande carica di traumi e dolore che spesso cerchiamo di nascondere, invece di elaborarli e assimilarli.
Far sì che un passato negativo non ci condizioni troppo, al punto da non permetterci di vivere con speranza e libertà: questo è perdono.
Nel perdono, pertanto,  si incontra una forte carica di memoria rielaborata e, lì dove possibile,  trasformata in un elemento di forza.
Il perdono non è mai dimenticanza, perché non si può perdonare il nulla. Ci sono perdoni «facili», che in realtà non sono dei veri perdoni, in quanto, secondo quanto afferma il filosofo Jaques Derridá, si può solo perdonare l’imperdonabile.
Per il credente, il perdono è la realtà che ci introduce nella parte più profonda del mistero di Dio che è soprattutto compassione e misericordia. Per coloro che non fanno riferimento a un credo specifico, il perdono permette comunque di vivere l’esperienza della libertà e della gratuità.
Il perdono è gratuito, non ha altro prezzo che la capacità di mettere bene, lì dove c’è il male, la benda dove ci sono ferite. E tutto ciò non nasce da un mandato etico o morale: non si perdona perché si deve, ma soltanto perché lo si vuole. Quando qualcuno si sente obbligato e «deve» perdonare, crea sì la condizione di un nuovo incontro con l’altra persona, ma non entra nella dinamica del perdono che, essendo l’atto che esprime la massima forma di umanità, esige anche la massima libertà.
Chiaramente, uno può invitare o persino obbligare due bambini a perdonarsi, dandosi la mano: si tratta in questo caso di un’azione pedagogica; ma nel caso di un adulto questi potrà giungere a perdonare soltanto perché lo vuole e secondo le modalità che lui stesso desidera stabilire.
Per questo motivo, perdono e riconciliazione devono essere preparati attraverso una progressiva presa di coscienza, un cammino  che coinvolga la persona nella sua totalità, non solamente emozionale e neppure esclusivamente razionale. Il perdono è sempre un processo in cui emozioni, ragione, volontà e spiritualità reclamano il proprio spazio. Una complementarietà  fra questi elementi non è facile da ottenere, può succedere che uno di essi prenda il sopravvento sugli altri pregiudicando l’equilibrio del processo. Se questo avvenisse, il perdono potrebbe assumere la forma di un imperativo categorico, di una emozionalità senza criterio o di un’esperienza religiosa vissuta senza partecipazione. Il perdono, al contrario è qualche cosa di molto più complesso e completo.
Non si devono bruciare le tappe, ma occorre darsi del tempo. Bisogna misurare le forze per vivere un momento che è al contempo doloroso e gratificante, un regalo che sana le ferite lasciando cicatrici a volte profonde ma in grado di offrire una liberazione che non tronca la relazione con il passato.

Anche questo è perdono

La regione di Ayacucho, in Perù, è quella che più soffrì a causa della violenza di Sendero Luminoso, un movimento rivoluzionario maoista che seminò terrore e morte tra le comunità contadine delle Ande peruviane. Nel medesimo tempo, è la regione che più soffrì a causa della repressione militare, con soldati pronti a vedere in ogni abitante della zona, un «senderista» o un informatore della guerriglia.
Si calcola che il 60% delle vittime della violenza vissuta in Perù, tra il 1980 e il 2000 è originaria di Ayacucho.
Un giorno, in un momento di integrazione che stavamo avendo durante un ritiro con la gente di Ayacucho, ebbi modo di andare a fare una passeggiata con un gruppo di donne: tutte madri, spose e figlie di vittime della guerra. Un bambino mi prese per mano e una signora mi accompagnò. Parlando un po’ quechua (lingua franca andina, parlata da molte popolazioni indigene della Cordigliera, ndr) e un po’ spagnolo mi raccontò la storia sua e del bambino: «Questo bambino mi chiama nonna. Io gli ho detto che il papà e la mamma gli hanno voluto molto bene e ora, dal cielo, non cessano di essere con lui. In realtà, è figlio mio… e di un soldato».
Una delle forme di repressione più comune era ed è la violenza sessuale. A volte, pur di salvare la vita di figli o mariti, le donne sono obbligate a concedersi ai militari. Spesso davano vita a chi veniva poi riconosciuto come «figlio di militari» o «frutto della violenza».
«Io non posso perdonare – mi commentava la donna – perché mio figlio l’hanno ammazzato e a me, invece, è rimasto questo bambino».
Che significa perdonare in questo caso? Un caso che per altro non è assolutamente eccezionale nella regione di Ayacucho. Provai a intavolare un dialogo con questa madre-nonna.
Dal di fuori è assolutamente semplicistico cercare delle spiegazioni ben definite: bisogna trovarsi in una determinata situazione. Bisogna provare l’angustia e la vergogna che accompagnano ogni sguardo, ogni rapporto con il bimbo… ogni gesto. Tuttavia, è necessario rompere quella sorta di incantesimo malvagio che la situazione ha creato e che tiene prigionieri tutti i protagonisti di questa storia.
Davvero questa donna non ha perdonato, viene da chiedersi? Vuole bene al bambino, lo sta facendo crescere, gli racconta di un papà e di una mamma e vuole che provi affetto verso di loro: un papà violentatore ed una mamma che altro non è che lei stessa, colei che il bimbo pensa esser sua nonna.
Questo bambino cresce senza la presenza fisica di una famiglia, ma con un’affettività incanalata nella direzione corretta. Sarebbe una tortura esigire a questa donna semplice una forma di perdono che vada al di là di quella che lei, attraverso la sua saggezza e la sua forza interiore, ha già saputo dare.
Questa donna dice di non poter perdonare perché confonde il perdono con la accettazione quando, in questo come in altri casi, il perdono non significa accettare un male ricevuto, ma costruire la possibilità di vita per lei e per il bambino.
Fare del perdono un qualcosa di mitologico è molto pericoloso: deve essere semplicemente uno strumento di vita… un potentissimo strumento di vita.

Gianfranco Testa

Gianfranco Testa




Quel giorno, all’improvviso …

Introduzione

L’uomo si era appena congedato da suo figlio che  stava ora attraversando la strada alle sue spalle.  Di colpo venne distratto dallo stridere tipico di una frenata e guardò istintivamente cosa stava succedendo: una macchina stava per investire il ragazzo dopo che questi, sbadatamente, aveva iniziato ad attraversare. Un istante dopo, l’apprensione patea aveva già lasciato il posto a un sospiro di sollievo: non era successo nulla, neppure un finestrino abbassato per gridare di fare attenzione, il tutto condito, magari, da qualche insulto tipico della turbolenta relazione fra automobilisti e pedoni. Anzi, gli sembrò persino che il conducente con la mano aveva fatto segno a suo figlio di attraversare… Nulla, meno male: «C’è ancora gente che fa attenzione quando guida» pensò a voce alta, iniziando ad allontanarsi.
Anche il ragazzo realizzò che, grazie a Dio, tutto era andato nel migliore dei modi. Lo spavento per la vista dell’auto lanciata e per la brusca frenata era stato addolcito dall’attitudine del conducente: non disse nulla, lo guardò bonariamente e con la mano, invece di mandarlo a quel paese, gli fece cenno di passare. E lui riprese ad attraversare.
Fu un attimo. L’uomo non si spiegò subito il perché di quella seconda sgommata e di quell’auto che correva come se l’avesse inseguita il demonio. Non se lo spiegò neppure in seguito… continua a non spiegarselo ora.
Bogotá: uno dei tanti incidenti stradali, di quelli che fanno statistica o riempiono la cronaca cittadina. Il ragazzo, comunque, non riuscì neppure a pensare che avrebbe potuto finire sui giornali o sul verbale di qualche poliziotto. Aveva iniziato ad attraversare soltanto perché l’altro gli aveva fatto segno di passare. Perché poi aveva ingranato la prima e premuto violentemente sull’accelleratore… perché questa storia di ordinaria follia?

Purtroppo è una storia vera. L’episodio del padre che vede il figlio a terra, con il corpo straziato dalle ruote di un’auto che fugge dopo averlo investito, volontariamente e malignamente per punirlo dell’affronto di non aver rispettato una precedenza, è paradigmatico delle «situazioni limite» di cui ci parla Gianfranco Testa nel primo articolo che compone questo dossier. Ricordo che quando lui stesso mi raccontò questa storia anni addietro, rimasi come impietrito di fronte alla estrema banalità, e nel medesimo tempo profondità, del male.  Come accettare un episodio del genere? Come fare a non convivee costantemente con il ricordo? Come riuscire a costruirsi una vita che non sia condizionata perennemente dal rumore di una sgommata, dalla vista del sangue, da tutto il corollario di avvenimenti, volti, riti che segue la morte? Le stesse domande che si fece il padre del ragazzo frequentando una delle Scuole di Perdono e Riconciliazione (ESPERE), fondate da un missionario della Consolata colombiano, il padre Leonel Narvaez. Nate in Colombia come risposta di pace a un contesto ormai radicato di guerra,  violenza e odio, queste scuole si sono diffuse in molti altri paesi per portare la speranza del perdono e la possibilità della riconciliazione. Questo indipendentemente dal credo religioso della persona che vi attende.

Perdono e riconciliazione sono due stadi del medesimo processo.  Il primo, per il fatto di essere personale e avere un carattere terapeutico, precede e rende possibile il secondo, che ha invece una dimensione sociale. La riconciliazione, infatti, è il cammino intrapreso da vittima e offensore verso un reciproco incontro; un incontro a volte possibile, altre volte impedito o addirittura sconsigliato dalle circostanze.  Il perdono assume allora un ruolo centrale nella gestione dei conflitti. Aiuta la persona a costruire in se stessa un universo di senso, a riacquistare un equilibrio armonico, a lasciar scorrere quelle tensioni che non ci rendono liberi, a rappacificarsi con il proprio passato per essere nuovamente liberi di vivere in pienezza l’esperienza presente.  Quella libertà che il padre del ragazzo ucciso su una strada colombiana, vittima di un assassinio a quattro ruote, cercava con speranza, per non essere ferito due volte dalla stessa violenza e ristabilire così la fiducia nella vita.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




La parabola del «figliorl prodigo» (15) La corsa dell’amore senza decoro

«(Gesù) cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatornio» (Gv 13, 5)

Abbiamo lasciato il figlio giovane nella decisione di partire verso casa. Siamo giunti a una svolta che crea una condizione nuova: ogni decisione di vita, anche se motivata insufficientemente, genera sempre un cambiamento che coinvolge chi la compie e quanti ne sono interessati. In tutta la prima parte della parabola il «padre» è nominato solo tre volte (v. 12), mentre nel resoconto del viaggio del figlio «senza salvezza» (v. 13) non è più nominato, anche se noi sappiamo che la sua presenza costante e fedele segue il figlio fino al punto da costringerlo a tornare a casa. Chiedendo la porzione di vita del padre (v. 12), il figlio non si accorge che volendo abbandonare tutto si porta dietro la vita del padre che non lo abbandona mai.

L’amore sa vedere da lontano

La partenza, anzi il ritorno al padre, coincide con la «risurrezione» del figlio e la ripresa della vita. Al v. 20a, infatti, dice il testo greco alla lettera: «Dopo essere risorto, partì». Non è una partenza qualsiasi, ma un andare verso quel padre da cui non vedeva l’ora di allontanarsi. L’aspirazione più grande del figlio era di allontanarsi dal padre, mentre ora la necessità di vivere impone di tornare al padre come condizione minima e vitale di sopravvivenza: anche se per vivere bisogna fare il servo. La forza che attrae il figlio che è più forte della morte, è la presenza del padre che anima e sostiene le deboli decisioni del figlio.
Non è ancora partito, non è giunto ancora all’orizzonte che il padre «sa già» che suo figlio sta arrivando. Nel v. 20b si esprimono in una intensità drammatica cinque azioni del padre, il solo che «ancora lontano» sa rinascere il figlio senza vederlo: vide, fu commosso nelle viscere, corse, si gettò sul collo e lo baciò. «Tutto» il padre è coinvolto in questo processo di ritorno: occhi, cuore, gambe, braccia e mani, bocca. È la descrizione dell’amore senza tornaconto e senza misura, che quando si realizza coinvolge anima e corpo, cuore e sentimenti.
L’amore sa vedere da lontano e anche per sperimentare la misericordia bisogna «vedere». La visione di Dio è l’aspirazione di ogni religione e fede. «Vogliamo vedere Gesù» dicono i greci a Filippo e Andrea (Gv 12,21); «Venite e vedete» risponde Gesù ai discepoli di Giovanni il Battezzante, i quali «andarono e videro» (Gv 1,39). Mosè arde dal desiderio di contemplare il volto di Dio: «Fammi vedere la tua Gloria» (Es 33,18) allo stesso modo del giovane innamorato che brama l’innamorata: «Fammi vedere il tuo viso» (Ct 2,14).

L’amore vede lontano

«Il padre lo vide». In questa espressione non c’è solo la vista di uno che arriva e appare subito familiare. No! C’è la dimensione interiore del padre, che aspettava da sempre il figlio: prima di vederlo con gli occhi, lo vide con il cuore; anzi, prima ancora che comparisse all’orizzonte, sentì nell’anima che quel figlio non era perduto, ma stava tornando. L’amore non ha distanze e non teme ostacoli.
Quando diciamo di amare Dio, ci accontentiamo di uno sguardo distratto, di un rapporto razionale, ma forse non sappiamo andare oltre le regole del buon senso. L’avverbio greco «makràn» (lontano, distante) misura l’abisso dell’amore del padre che è inversamente proporzionale alla distanza del figlio: più il figlio è distante, più invade l’animo del padre. Il padre è una potente calamita che attira il figlio anche da lontano e lo attrae al suo cuore. Il figlio non sa, non conosce la forza che lo spinge, ma ne è coinvolto e quando è all’orizzonte, prima ancora di vederlo, il padre ne percepisce la presenza e corre, corre, corre precipitandosi verso di lui perché il suo cuore «sa già» che è lui.
Nell’impatto dell’incontro nessuna parola, solo una convulsa gestualità di affetto. Padre e figlio comunicano con la fisicità dei loro corpi, perché quando l’amore esplode, nessuna parola del vocabolario è sufficiente a esprimee la pienezza e totalità. Resta solo il silenzio d’amore che parla attraverso i gesti del corpo. In questo senso la corporeità acquista una valenza fortemente spirituale, perché diventa l’anima visibile e palpabile.
Bisogna vedere non solo da lontano, ma bisogna anche sapere vedere lontano per cogliere i segni di una presenza che solo nella profondità e lungimiranza si può scrutare. Che fare con quel figlio dato per morto? Agli occhi del padre deve essere apparso come uno spettacolo miserevole, un uomo ridotto in schiavitù, un figlio mezzo morto e perduto, eppure quegli occhi sanno vedere oltre, contemplano la visione del figlio in quanto tale, indipendentemente dalla condizione in cui si trova. Un padre comune, potremmo dire un padre «ovvio», a questo punto per prima cosa avrebbe fatto una predica al figlio e lo avrebbe inchiodato in un senso di colpa da cui difficilmente si sarebbe salvato. Il padre della parabola al percepire il figlio ancora prima di vederlo, mentre era lontano, ritrova la vita. Certo, il figlio ha sperperato la sua vita in un paese lontano, ma ora torna e riporta solo le briciole di quella vita che ha disperso senza senso e senza salvezza. Il padre sa che deve ripartorire quel figlio, se vuole che rinasca di nuovo. Anche il figlio, ora, lo sa.

L’amore rimette in moto la vita

Dopo la «visione» il padre «fu commosso nelle viscere». Luca usa il verbo passivo greco «esplanchnìsthē» che traduce l’ebraico rahàm (da cui rèchem, utero, e il suo plurale rachamìm, uteri, viscere interiori). Da questo termine deriva anche ciò che noi esprimiamo con la parola misericordia. L’ebraico richiama l’utero materno (= rèchem) nell’atto di generare alla vita (cf Sal 51/50,3): il soccorso dato a qualcuno, l’aiuto donato è sempre un gesto generante.
La traduzione della Bibbia Cei, che rende con «commosso», non fa giustizia al testo che invece intende e descrive un amore viscerale, cioè senza ragione logica, un amore a perdere, che solo una madre e un padre sanno sperimentare: il riferimento al «grembo/utero» materno mette in evidenza che la misericordia di Dio, qui rappresentato dal «padre», non è una concessione benevola, ma un atto che genera e riporta alla vita. Quando si è afferrati dal perdono di Dio si scoppia di vita e questa zampilla di gioia. Ecco lo scandalo del Dio di Gesù Cristo: egli perdona perché vuole fare rinascere a vita nuova.
Il sapiente Siracide aveva criticato il padre le cui viscere si sconvolgono a ogni grido del figlio (cf Sir 30,7), mentre l’innamorata del Cantico si sente sconvolta nelle viscere, quando l’amante cerca di forzare la porta per entrare da lei (Ct 5,4) e infine il profeta Isaia afferma l’impossibilità per una madre di abbandonare il figlio a se stesso: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?» (Is 49,15). Geremia invece ci ricorda che Dio, nonostante l’infedeltà di Efraim, prova per lui un amore di tenerezza: «Per questo le mie viscere si commuovono per lui, provo per lui profonda tenerezza» (Ger 31,20).
In tutti questi testi in ebraico si usa il verbo o il sostantivo «rachàm, rèchem» e il Siracide che è scritto solo in greco usa il sostantivo corrispondente «splànchina», restando quindi tutti nel contesto del significato fondamentale: un amore generativo senza calcolo e senza aspettative che Davide invoca dopo il duplice peccato di omicidio e di adulterio: «Sii grazioso, o Dio nella tua tenerezza, nell’abbondanza delle tue rachamìm (viscere matee) puliscimi dalle mie ribellioni» (Sal 51/50,3).

Un Dio recidivo

È interessante notare come lo stesso verbo nella stessa costruzione sintattica è usato da Luca altre due volte sole. Nella parabola del Samaritano (Lc 10,25-37) che mentre si trova in viaggio passa accanto a un suo acerrimo nemico, «lo vide e n’ebbe compassione». Il secondo verbo in greco è reso da «esplanchnìsthē» (Lc 10,33). Un nemico che sperimenta un amore viscerale, generativo è un atto rivoluzionario che incrina la logica dell’odio e vendetta.
Nel racconto della vedova di Naim, Gesù «è scosso nelle viscere» (Lc 7,13) di fronte a una donna senza marito che perde anche il figlio. Qui lo scuotimento interiore previene una catastrofe: una donna in quelle condizioni poteva diventare schiava, perché senza protezione, senza uomo. In tutti e tre i casi Lc descrive un ritorno alla vita, una rigenerazione delle persone coinvolte.
Il padre, secondo l’usanza del tempo, avrebbe dovuto attendere il figlio fermo, in piedi sulla soglia di casa, invece troviamo un uomo che corre disordinatamente, perdendo la sua dignità: «Correndo cadde sopra il collo di lui e lo baciò (teneramente)» (v. 20). Con nove parole (in greco) l’evangelista riesce a dipingere una scena drammatica e straordinaria: il padre che corre, inciampa nel figlio nella foga di toccarlo, lo investe quasi a volerlo riportare dentro le sue viscere patee, lo bacia senza ritegno e senza fine. È un modo simbolico per esprimere il desiderio di «mangiarselo» per riportarlo dentro il suo cuore reintegrando la sua condizione di figlio rigenerato.
L’irruenza del padre che irrompe nella vita del figlio della parabola lucana, è espresso dall’autore con una co-struzione orecchiabile (tecnicamente si dice «onomatopèica, fare lo stesso nome-suono»): epèpesen epì tòn tràchēlon. Il verbo epèpesen (cadde) è costruito ripetendo due volte la preposizione «epì-», che in italiano significa «sopra» e non è assolutamente possibile rendere con tutta l’intensità del greco: «Cadde sopra, (proprio) sopra il collo di lui».

Perdere la dignità per restituire l’onore

L’accenno esplicito alla «corsa del padre» è significativa: secondo il costume del tempo (sia in Oriente che in Grecia, a Roma), l’uomo che «corre» compie un gesto ignobile, contrario alla sua dignità di uomo e di «capo» con una autorità legale e sociale. Avere fretta significa non rispettare il tempo necessario a ogni cosa e l’uomo che corre ha fretta e con ciò dimostra di essere ineducato e inferiore. L’uomo maturo, nobile non ha mai fretta perché tutto deve compiersi con onore e dignità. È terribilmente disdicevole che un padre corra verso suo figlio. Il padre sa tutto questo e, nonostante tutto, «corre»: preoccupato di restituire la dignità al figlio, non esita a perdere la sua. Il padre non tiene in alcun conto la sua dignità e decoro. È un elemento ulteriore della natura del padre come immagine del «Padre» dei cieli: davanti al recupero, nessun galateo o convenzione può bloccare la gioia incontenibile, che suscita atteggiamenti e comportamenti che all’esterno possono apparire anche come disdicevoli e non consoni alla dignità di chi li compie.
Un parallelo al femminile di questo comportamento si trova nel libro di Tobia dove l’autore usa le stesse parole. Tobia è di ritorno con l’angelo, portando il fiele di pesce per curare la cecità del padre. Egli è un figlio che lascia il padre per andare a cercare lontano una cura che lo guarisca. La madre di Tobia, Anna, sta seduta sulla soglia di casa a scrutare la strada da cui era partito il figlio. Ella ha la percezione di vedere il figlio e dopo averlo detto al padre Tobi, così continua il testo greco: «Anna corse avanti e si gettò sul collo del figlio» (Tb 11,5-13, qui v. 9). In greco vi è una corrispondenza straordinaria: sia il padre del figlio della parabola che la madre di Tobia non temono di perdere la faccia pur di andare incontro ai rispettivi figli che tornano salvi: il primo dopo avere ucciso il padre torna con un residuo di vita che vuole consumare nella servitù; il secondo per amore del padre che vuole guarire dalla sua cecità con l’aiuto di Dio.

Il bacio: sacramento del perdono

«Lo baciò». Baciare qualcuno non significa solo vicinanza e affinità, ma anche perdono. Il bacio è il segno del perdono totale, perché è un gesto d’amore totale. Insegna la psicologia che il bacio per sua natura tende al morso, perché esprime il desiderio di comunione assoluta: mangiare l’altro per fae la parte interiore più profonda di sé. È l’atteggiamento della mamma che colmando di baci il proprio bambino dice «ti mangio, ti mangio». Chi bacia esprime, chiede e offre intimità, comunione, condivisione, totalità.
Nella bibbia si hanno alcuni esempi di questa dinamica affettiva: «Cadere sul collo e baciare». Nel racconto dell’incontro tra Giacobbe ed Esaù, questi ha tutte le ragioni ambientali per odiare suo fratello che lo aveva scippato della primogenitura; invece «gli corse incontro, lo abbracciò, cadde sul collo di lui, lo baciò e piansero» (Gen 33,4). Anche Giuseppe, quando incontra il vecchio padre Giacobbe, «si gettò sulla faccia di suo padre, pianse su di lui e lo baciò» (Gen 50,1).
Anche Giuda «baciò» il suo maestro, ma solo per indicarlo come bersaglio dell’aggressione umana e ferocia assetata di morte (Mc 14,45). Lo stesso gesto può essere simbolo e sigillo di amore totale, ma anche di tradimento senza scampo. Il bacio del padre però non è disgiunto dal fatto che «cadde sul collo di lui», quasi a dire che intende raccoglierlo nel suo grembo e goderselo come figlio partorito per la seconda volta. L’azione del cadere indica che il padre lo copre con tutta la sua persona, facendo da scudo alla fragilità del figlio e rincuorandolo con i baci del cuore espressi dai baci della bocca.
Il figlio non fa in tempo a dire il suo pentimento che già si trova «baciato» dal padre, cioè perdonato: egli è perdonato prima ancora di chiedere perdono. Sta qui l’annuncio della parabola lucana, che ancora oggi facciamo fatica a capire, per cui non riusciamo nemmeno a incontrare Dio, perché ci incaponiamo di volergli attribuire modi umani di comportamento: il perdono del figlio, dato prima ancora che lo chieda, è la logica di Dio, è la rivoluzione delle religioni di ogni tempo, che si basano su una certa reciprocità. Qui non c’è alcuna reciprocità, perché chi ama non aspetta di ricevere in cambio qualcosa, non mercanteggia e non ha dignità da salvaguardare. Chi ama perde se stesso, perché vive per l’altro senza calcoli e interesse, ma con il solo obiettivo di essere strumento di nascita per la persona amata.

Di Paolo Farinella
(continua – 15)

Paolo Farinella




PIEDRAS 1597

Reportage / Tra i bambini di strada della capitale argentina (1.a puntata)

Quasi tutte le metropoli del mondo vivono il fenomeno dei bambini di strada. Una tragedia fatta di droga, abusi sessuali, furti, violenze della polizia. A Buenos Aires abbiamo visitato un Hogar Don Bosco, dove volontari laici accolgono bambine e bambini cresciuti troppo in fretta. Un lavoro durissimo ma svolto con un entusiasmo straordinario. Ecco cosa ci hanno raccontato.

Buenos Aires. L’indirizzo è Piedras 1597, ma l’entrata è su Avenida Caseros. Il barrio è quello di Constitución, noto soprattutto perché ospita la più grande e frequentata stazione ferroviaria del paese. L’ingresso è una porta in ferro, posta tra due finestroni protetti da grate metalliche di color giallo ocra. Daniel Blanco, giovane educatore salesiano, è un anfitrione entusiasta: «Benvenuti al Centro Miguel Magone».
Entriamo in un cortile interno, spoglio, ma funzionale. Da un lato, c’è una stanza con le docce, dall’altra un’aula scolastica e al centro un’ampio spazio per giocare a palla, protetti da spesse mura. 
Il Centro Miguel Magone (El Santa) è un centro di accoglienza per bambine e bambini di strada. O meglio, per attenersi alla terminologia usata da Daniel, per bambine e bambini in situazione di strada (chicas y chicos en situación de calle). A Buenos Aires, tra città e provincia, sarebbero parecchie migliaia, anche se non esistono dati certi.  Ma che età hanno?, chiediamo. «Ci sono anche bambini di 5 o 6 anni», risponde Daniel.
Provengono da famiglie povere, segnate dalla mancanza di lavoro o da un lavoro precario. Nel 90 per cento dei casi sono famiglie in cui la figura del padre è assente o negativa. Quando c’è un patrigno (padrasto), spesso questi non ha relazioni buone con i figli della donna. I motivi per preferire la strada sono dunque diversi, non ultimo quello della droga, che ha invaso Buenos Aires. I bambini fanno uso di colle e di paco, la pasta base di cocaina che dà subito assuefazione e che produce gravi danni fisici e mentali.
Il Santa è organizzato su due tui: uno per il giorno ed uno per la notte (Centro de día y de noche).  È un centro d’aiuto immediato. «Questo non è un centro residenziale – spiega Daniel -. Per chi vuole proseguire e costruire un progetto differente da quello della strada ci sono altri hogares, strutturati per una permanenza prolungata».
Al centro di Piedras 1597 i ragazzi trovano riparo, cibo, educazione. E quel po’ di affetto, che certamente a loro è mancato. Una scala in ferro porta al piano superiore. Qui ci sono i bagni ed alcune stanze. Sulla parete che precede la sala da pranzo e la cucina è dipinto il volto sorridente di Don Bosco, fondatore dei salesiani.
«Per camminare assieme – spiega Daniel -, occorre instaurare relazioni di fiducia reciproca tra bambini ed educatori». Una relazione di fiducia che chiunque può vedere osservando il comportamento degli educatori, tutti giovani ma motivatissimi e ricchi di entusiasmo.

Storia di Lisa, ex bambina di strada

Lalo ha 34 anni e da 15 lavora con i salesiani. Non ha competenze specifiche («Sono allenatore di calcio»), ma soltanto una predisposizione a lavorare con i bambini.  Mentre parla con noi, è abbracciato da due piccoli ospiti. «Io sono stato fortunato – racconta -. Anche se i miei genitori erano separati, la mia famiglia mi ha sempre seguito».
Non altrettanto può dire Lisa, occhi gentili, i capelli neri che le scendono lisci su un volto giovane. Ha soltanto 23 anni, ma è come ne avesse vissuti il doppio tante sono state le prove che ha dovuto affrontare. Papà mai conosciuto, mamma morta di Aids, quando lei era ancora una bambina. Poi la strada, la droga, un marito morto giovanissimo, due figli.
«Il Poxiran mi venne offerto per la prima volta a 8 anni. Cominciai a prendere di tutto. Mi ricoverarono più volte da tanta droga che avevo in corpo. Ma non ho mai provato il paco. Il paco è vizioso. Dura un secondo e subito ne hai ancora voglia. Ti viene l’ansia. Adesso nelle villas una dose costa un solo peso. In altre zone viene venduto a 5 pesos da gente che l’ha comprato nelle villas. Io vedo subito se i bambini sono fatti di Poxi o di paco».
In strada la vita è difficile, soprattutto per le ragazze, ma Lisa è riuscita a venie fuori. 
«Oggi sto bene. Sono tranquilla. Anche se la situazione che sto vivendo non è facile con due bambini. Non so immaginare come sarà il mio futuro. Ma non voglio che i miei figli crescano senza una madre. Non voglio che facciano le esperienze che ho fatto io».
«Vorrei stare qui al centro. Mi piacerebbe continuare ad aiutare le persone ad uscire dalla loro condizione, come ho fatto io».
Ci chiamano per il pranzo. Ci accomodiamo sulle panche, tutti – bambini, educatori, ospiti – attorno ad un grande tavolo di legno. È un pranzo comunitario, consumato con gusto e tranquillità.

La polizia, i vicini, i media

I bambini sono nell’aula al piano terreno, seduti dietro un banco scolastico per la lezione con due giovani insegnanti.  Ne approfittiamo per conversare con Hean, 23 anni, da 8 educatore.
Parla con calma, però le sue parole sono dure ed accusatrici.
«La polizia di Buenos Aires è molto violenta. Probabilmente ha mantenuto il modo di agire repressivo appreso durante il golpe militare del 1976. È aggressiva. Ad esempio, al mattino, quando alle 5 si apre la metropolitana, i bambini che dormono sotto vengono svegliati dai poliziotti a suon di botte». 
Chiediamo dei vicini di casa, che da tempo promuovono azioni – denunce, raccolte di firme, eccetera – per far chiudere il Miguel Magone.
«La cosa che dà più fastidio è avere questi bambini, mal vestiti e magari con una borsa di Poxiran tra le mani, vicino a casa. Se fossero lontani, non avrebbe importanza, ma sulla porta di casa non li sopportano. La verità è che la maggioranza dei vicini non conosce la situazione di questi giovani, non comprende i motivi della loro vita, non sa gli scopi di questo centro. Un giorno è venuta l’amministratrice di un palazzo a fianco. Era adirata perché diceva che la presenza dei bambini di strada faceva perdere di valore agli appartamenti del suo condominio».
Hean è durissimo anche con i mezzi di comunicazione. «Troppi programmi televisivi – spiega – mostrano il problema dei bambini di strada in modo distorto. Ad essi non importa nulla dei ragazzi:  mostrano le loro facce o quando si drogano. Si tratta di programmi sensazionalistici che cercano di suscitare emozioni nei telespettatori. Insomma, un giornalismo di m…».
Su istigazione dei vicini di casa questo giornalismo si è occupato anche del centro di Piedras 1597. Racconta Hean: «Un’importante rete televisiva – America Tv Canal 2 – ha filmato il centro durante il fine settimana, quando è chiuso. Ha fatto domande ai bambini che stavano fuori dalla porta. Non potendo entrare, hanno trasmesso immagini di altri luoghi. Hanno raccontato un mucchio di bugie: che il luogo non ha luce, che è sporco, che non c’è da mangiare, che non ci sono referenti. Una cosa incredibile! Alcuni bambini si sono sentiti responsabili, colpevoli per quel servizio televisivo. E noi educatori abbiamo provato un’arrabbiatura terribile, vedendo infangato in pochi minuti un lavoro in cui riversiamo fatica e cuore».

La notte picchia più forte

Piedras 1597, barrio Constitución, notte. La notte è più buia nel quartiere di Constitución.  I taxi passano veloci e per le strade è meglio stare accorti.  Il Centro Miguel Magone apre alle nove e mezza. La porta in ferro è il confine tra una notte all’addiaccio e una con doccia, pasto caldo, lezioni, materasso pulito e pareti protettive. Ma non tutti possono oltrepassare quel confine. Questa sera al varco c’è Adrian. Gentile ma fermo, Adrian si erge sulla soglia ed interroga i ragazzi che, da fuori, spingono per entrare: deve accertarsi del loro stato. 
«Non possiamo far entrare i bambini che sono sotto l’effetto del paco. Troppo alterati, troppo violenti. Purtroppo, non siamo attrezzati per affrontare quest’emergenza». Un’emergenza crescente, se si considera che il paco costa meno della marijuana e «sballa» di più.
Adrian è paziente. Ha studiato in una scuola pubblica, ma si considera un alunno salesiano. Conosce i bambini di strada e le loro problematiche. Conosce le dinamiche intee alle ranchadas.  «È il leader della ranchada – spiega – che decide cosa il gruppo deve fare. Può essere un capo positivo o negativo. Questo secondo abusa del suo potere, fa violenza sugli stessi membri del gruppo, non frena il consumo di droghe».  
Al Santa il tuo della notte è, più o meno, strutturato come quello del giorno: dopo l’entrata, i bambini si lavano, fanno cena, qualche attività di svago (lezioni di arti marziali o d’arte) e verso mezzanotte vanno a letto; al mattino, alle 8, viene servita la colazione e poi sono liberi.
Ci fermiamo a parlare con le bambine e i bambini che attendono la lezione. Le femmine, giovanissime ma già segnate dalla vita (anche fisicamente, qualche occhio pesto, qualche livido sul corpo), si atteggiano a «donne» con il rossetto sulle labbra e le movenze adulte. I maschi sono più bambini, anche se si comportano da bulli senza paura.  Mario, l’insegnante di arti marziali, chiama alla lezione e tutti corrono via.

Finalmente è mezzanotte

È passata la mezzanotte. Nelle due stanze – una per le femmine, un’altra per i maschi – la luce è stata spenta. Qualcuno già dorme, qualche altro ancora bisbiglia con il vicino di materasso. Adrian, Eduardo, Mario e il cuoco possono finalmente sedersi attorno ad un tavolo. 

Di Paolo Moiola

Le parole della strada
Il glossario  
paco: nome con cui si indica la droga più a buon mercato reperibile nelle strade di Buenos Aires. È pasta base di cocaina, mischiata con cherosene ed acido solforico (o altri agenti chimici). Viene fumata in rudimentali pipe di metallo. Lo smercio avviene nelle villas miserias più degradate.  Negli ultimi anni ha avuto una diffusione esponenziale, anche in ragione del suo basso prezzo: una dose costa da uno ad un massimo di 5 pesos. Il paco argentino è il bazuco diffuso in Colombia, il pitillo della Bolivia, il kete del Perù.

pegamento / pegar: è la colla inalata dai bambini di strada, di norma è racchiusa in un sacchetto da cui essi aspirano. Il termine «pegar» indica l’atto di inalare droghe. In Argentina, il pegamento più diffuso è il Poxiran.

ranchada: nel gergo della strada indica bambine e bambini che formano un gruppo. Si ritrovano in un luogo detto «rancho», che costituisce una sorta di rifugio dove dormono e si sentono teoricamente più protetti.  Ogni ranchada ha un proprio leader. Il termine deriva dal gergo del carcere.

villas miserias: si chiamano così i quartieri informali (cioè senza permessi e strutture) cresciuti nelle periferie delle città argentine, in particolare di Buenos Aires. Sono la versione argentina delle favelas brasiliane, dei pueblos jovenes peruviani, dei ranchitos venezuelani.
(a cura di Paolo Moiola)

Le droghe dei poveri
Gli inalanti 

Gli inalanti sono sostanze chimiche che producono vapori in grado di alterare l’umore. Vengono assunti per inalazione. Esistono più di 1.000 prodotti commerciali che rientrano in questa categoria. La maggioranza di essi è economica e facilmente reperibile, anche per questa ragione sono prodotti utilizzati più dai ragazzi che dagli adulti. I più diffusi sono le colle, le veici, i solventi.
Gli effetti degli inalanti sono simili a quelli dell’alcornol. A dosi basse negli utilizzatori si produce eccitazione, euforia, aumento della sicurezza, riduzione dell’ansia, comportamento disinibito. Poiché gli effetti di queste sostanze scompaiono in breve tempo, il soggetto tende ad assumere un’altra dose. Ciò determina un utilizzo pressoché continuativo, con rischi gravi per la salute, fino a mettere in pericolo la vita. I più pericolosi sono quelli contenenti toluene e nitriti.
Gli inalanti provocano mal di testa, nausea, vomito, disturbi dell’eloquio, perdita della cornordinazione motoria, riduzione dei riflessi, tremori, problemi respiratori. L’uso a lungo termine può provocare perdita di peso, disturbi cutanei, problemi cardiorespiratori, compromissione della memoria, danni al sistema nervoso, al fegato e ai reni.
È difficile stabilire a che livello inizia il pericolo di vita. La morte può sopravvenire quando si usano per la prima volta o dopo molto tempo. Va ricordato che il metodo di inalazione più diffuso – quello dal sacchetto – aumenta notevolmente la concentrazione delle sostanze e dunque i rischi per la salute.
Le inchieste suggeriscono che l’uso di inalanti nasce di norma in ambienti socioeconomici sfavoriti, dove sono presenti povertà, abusi sessuali infantili, abbandono scolastico.  
(a cura di Paolo Moiola)

Intervista – Padre Francisco De Rito, salesiano

Hogares Don Bosco
(e i guasti di una società diseguale)

Buenos Aires. In Calle Don Bosco tutto ha il marchio dei salesiani. Abbiamo appuntamento con padre Francisco De Rito, salesiano di origini calabresi, che dopo 10 anni in Patagonia da tempo ha iniziato a seguire il progetto degli Hogares Don Bosco.

Padre, come descriverebbe in poche parole il progetto degli Hogares?
«Delicato e di grande emergenza. A Buenos Aires ci sono almeno 4.000 bambine e bambini che vivono nelle strade. Molti di essi hanno famiglia, ma preferiscono la strada. Attraverso gli educatori noi li contattiamo offrendo case di accoglienza, scolarizzazione, recupero del rapporto con le famiglie d’origine. In una parola, un altro progetto di vita».

Dopo la spaventosa crisi del 2001, in questi anni  l’Argentina guidata dai coniugi Kirchner ha fatto dei passi in avanti, almeno a livello economico. È migliorato il problema dei bambini di strada?
«In questi anni la situazione è peggiorata. Molte famiglie sono arrivate dall’interno del paese, credendo di trovare qui la soluzione ai loro problemi economici. Ma non è andata così.  Oltre a ciò, sono aumentate le situazioni di violenza all’interno delle famiglie dove, tra l’altro, spesso ci sono patrigni o matrigne».

Perché tanta violenza?
«La causa prima è la società diseguale, con troppe differenze tra chi accumula e chi non ha nulla. La scelta liberista e di mercato ha prodotto questa frattura. Stiamo migliorando, ma l’Argentina rimane un paese diseguale».

Secondo lei, quali sarebbero le prime contromisure da adottare?
«Migliorare il mondo del lavoro. Offrire a tutti un’occupazione dignitosa con cui si possa affrontare la vita, provvedere alla salute e all’educazione dei figli. Sì, il peccato peggiore è non dare alla gente un lavoro degno.  Senza di esso si genera delinquenza e passività sociale».
(pa.mo.)

Paolo Moiola




Rivincita della storia

Secondo le ultime statistiche gli albanesi sono: 38% musulmani e 35% cristiani
(di cui 22,5% ortodossi e 12,5% cattolici), 16% agnostici o senza appartenenza religiosa.

La diffusione del cristianesimo in Albania risale al I sec. d.C., quando il paese faceva parte della provincia romana dell’Illiricum. San Paolo afferma di aver predicato il vangelo nell’Illiria (Rom 15,19) e la leggenda narra di una sua visita a Durazzo. L’evangelizzazione fu portata avanti da missionari provenienti da Roma e da Bisanzio, attraverso l’antica Via Egnatia. Con la divisione dell’impero romano tra Oriente e Occidente (395), la regione rimase legata amministrativamente a Costantinopoli, ma ecclesiasticamente dipendente da Roma. La maggioranza degli albanesi gheghi, che vivevano a nord del fiume Shkumbini, aderirono alla chiesa di Roma; a sud, gli albanesi toschi entrarono nella chiesa bizantina. Con lo scisma d’Oriente (1054) il sud dell’Albania mantenne i legami con Costantinopoli e la chiesa greca, mentre il nord rimase sotto la giurisdizione romana.
Per 47 anni la comunità cristiana resistette agli eserciti turchi, sotto la guida dell’eroe nazionale Giorgio Castriota, detto Skanderbeg (1405-1468), definito dai papi contemporanei «atleta Christi». Ma con la sua scomparsa, l’occupazione ottomana ebbe il sopravvento (1479); terrorizzati dai metodi repressivi dei dominatori, forti nuclei di popolazione albanese emigrarono in Italia, insieme a prelati e ordini religiosi, eccetto i francescani. L’impossibilità di regolari relazioni con Roma lasciò le comunità del nord in balia di se stesse, mentre quelle del sud ebbero una sorte migliore, essendo legata al patriarcato di Costantinopoli, unica autorità civile cristiana riconosciuta dall’impero turco.
La crescente infiltrazione di colonie musulmane nel territorio, l’influenza religiosa dell’ambiente islamico, la persecuzione attuata da alcuni fanatici governatori e la politica ottomana, che concedeva carriere civili e militari agli albanesi purché musulmani, provocarono un graduale passaggio all’islam di individui, famiglie e interi villaggi; uno stillicidio cessato solo con l’avvento dell’indipendenza (1912).
A partire dal secolo xvii, riprese l’organizzazione della chiesa, la formazione del clero (in seminari «illirici» in Italia), l’avvio di missioni francescane. Tale ripresa culminò nel secolo xix, grazie all’indebolimento dell’impero turco e alla protezione dell’Austria, che garantiva la sussistenza del clero e delle opere cattoliche in Albania; i francescani aprirono scuole in varie città; altrettanto fecero i gesuiti: il loro collegio a Scutari foiva il clero a tutto il paese e con le «missioni volanti» raggiunsero i luoghi più montagnosi, promuovendo istruzione e fervore religioso.
Al momento dell’indipendenza, la chiesa cattolica godeva di prestigio eccezionale, sia per il sostegno dato alla lunga lotta di liberazione nazionale, sia per l’elevatezza culturale. Il cattolicesimo aveva dato un’impronta decisiva all’identità nazionale: i più grandi poeti, scrittori, giuristi albanesi sono cattolici e quasi tutti appartenenti al clero.

Non per nulla Enver Hoxha si accanì subito come una furia contro i preti cattolici, ritenuti i maggiori ostacoli alla nuova ideologia. Per 46 anni (1944-1990) una dittatura spietata e crudele, stupida e malvagia, ridusse il paese in un gigantesco lager. Una generazione di albanesi è cresciuta in un regime di terrore che ha messo gli uni contro gli altri, dividendoli tra vittime o carnefici: pare che metà della popolazione albanese fosse coinvolta con il «sigurimi», la famigerata polizia segreta del regime, con cui il dittatore controllava tutte le manifestazione di vita della società albanese.
Nel suo furore ideologico, Hoxha si è scagliato contro i credenti di tutte le religioni, ortodossi e musulmani compresi, ma la sua persecuzione si è accanita con inaudita brutalità soprattutto contro i cattolici: i campanili furono abbattuti in tutta l’Albania; molte chiese (e moschee) distrutte; gli edifici di culto risparmiati dalla distruzione vennero trasformati in sale di cultura, palestre, tribunali, prigioni, magazzini e stalle.
Fin dal 1945, bersagli preferiti diventarono il clero e i fedeli.  «Ogni fascista portatore di un vestito clericale deve essere ucciso con una pallottola in testa e senza processo» diceva uno dei motti del regime.  Vescovi, preti, religiosi furono arrestati, malmenati in pubblico, torturati, fucilati, imprigionati, inviati nei campi di lavoro. Le suore furono obbligate a lasciare l’abito: quelle che rifiutavano venivano sottoposte al pubblico ludibrio, torture e inviate ai lavori forzati. Accusati di essere «fascisti» o «antisocialisti» clero e laici cristiani venivano sottoposti a processi farsa, diffusi via radio e riassunti in uno speciale la domenica mattina all’ora della messa; titolo della trasmissione era: «L’ora giorniosa».
All’inizio del 1967, il dittatore Enver Hoxha impose l’ateismo «ufficiale», emanando leggi che imponevano la chiusura di i luoghi di culto di tutte le associazioni religiose, proibiva ogni manifestazione di culto, la pubblicazione e vendita di materiale religioso, l’insegnamento di qualsiasi religione. Tali disposizioni furono confermate nella Costituzione del 1976 negli articoli 37 («lo stato non riconosce alcuna religione») e 55, in cui veniva sancito il divieto di qualsiasi associazione, propaganda e attività religiosa. Al tempo stesso la «rivoluzione culturale cinese» fu estesa negli angoli più sperduti del paese.
Ma poiché nel segreto della vita familiare i cristiani continuavano qualche tradizione religiosa, la repressione continuava, insieme alla propaganda, all’odio e al fanatismo anticattolico, senza che alcuno potesse contraddire. Nelle scuole gli alunni erano invitati a denunciare le pratiche religiose e «antisocialiste» dei loro familiari. I funzionari del «sigurimi» entravano nelle case, con le scuse più banali, e le perquisivano, frugando perfino nei bauli del corredo delle donne, per scoprire segni religiosi, e poi accusare gli inquilini come «antisocialisti». Il venerdì santo del 1967, per esempio, gruppi dell’associazione «Pionieri» entrarono nelle case dei quartieri cattolici di Scutari, per controllare la situazione e la pulizia; ma il vero scopo era quello di riferire alla polizia in quali case si stavano preparando dolci o si coloravano le uova di pasqua, oppure dove si trovavano rosari, croci e immagini sacre.
Ormai tutti i preti, nessuno escluso, erano stati tolti dalla circolazione. I gerarchi del partito comunista si vantavano di aver fatto dell’Albania «il primo paese ateo al mondo». Il triste primato non è l’unico. Il livello di repressione religiosa è stato superiore a quello di altri regimi rossi, sia per la durata che per la crudeltà, il sadismo e le perfide modalità orientali con cui la persecuzione veniva perpetrata. Il comunismo aveva affidato compiti e poteri per il lavoro più sporco ai musulmani. Riportiamo alcuni esempi.
A don Lazer Shantoja furono spezzati piedi e mani. A vederlo così ridotto, sua madre esclamò disperata: «Compro io il proiettile per ucciderlo, ma non lasciatelo più in queste terribili condizioni. Fu il primo martire, fucilato, nel 1945.
Padre Serafin Koda, francescano, spirò con la trachea strappata fuori dalla gola; papas Pandit, prete cattolico di rito bizantino, fu decapitato e la testa fu lasciata in mostra sul petto; papas Josif, anche lui prete di rito orientale, fu sepolto vivo nel campo di lavoro della palude di Maliq. A don Mark Gjini fu chiesto, sotto indicibili torture, di rinnegare Cristo; rispose invece: «Viva Cristo re!»: morì legato in modo da soffocare e il suo corpo fu gettato ai cani; i resti poi furono buttati nel fiume. Suor Maria Tuci, fu sottoposta a torture inumane: morì all’ospedale di Scutari poco dopo gli interrogatori. Padre Frano Kiri, francescano, rimase legato con un cadavere in decomposizione per tre giorni e tre notti. Il gesuita padre Gjon Karma fu chiuso vivo in una cassa da morto. Padre Beardin Palaj morì di tetano causato dai ferri con cui fu torturato. Don Lekë Sirdani e don Pjetër Çuni morirono immersi con la testa in giù nel pozzo nero. Don Mikel Beltoja fu a lungo torturato con punteruoli e poi fucilato.
C on la morte di Hoxha, nel 1985, finiva un incubo; ma anche sotto Ramiz Alia (presidente fino al 1992), non mancarono le forme subdole della dittatura comunista contro la chiesa cattolica, almeno fino al 4 novembre 1990. Quel giorno fu celebrata una santa messa nel cimitero cattolico di Scutari, la prima dopo decenni di terrore.
La chiesa cattolica poté cominciare a riorganizzarsi e, soprattutto, a raccontare la sua storia di martirio. Dei circa 200 perseguitati tra preti diocesani, religiosi e vescovi, solo in 27 erano sapravvissuti. Dei circa 170 martiri, molti erano caduti per morte violenta (5 vescovi, 60 preti diocesani, 30 frati francescani,13 gesuiti, 10 seminaristi e 6 suore), gli altri erano deceduti a causa di stenti e di fatica durante la lunga detenzione.
Ma la storia non è ancora finita: nell’elenco mancano soprattutto migliaia di laici, dal momento che, per affermarsi, il regime comunista ha dovuto sbarazzarsi anche di tutta la classe dirigente e intellettuale del paese, costituita in prevalenza da personalità del mondo cattolico.
Nel 2002 è stato avviato il processo di beatificazione di 40 martiri albanesi, 38 dei quali uccisi durante la dittatura comunista: sono vescovi, preti diocesani, religiosi francescani e gesuiti, laici, tra cui anche una donna. Il numero può sembrare esiguo, ma è sufficiente per stimolare il ricordo e la venerazione di tutte le altre vittime, conosciute e sconosciute, cristiani o appartenenti a altre confessioni religiose, il cui sacrificio ha permesso agli albanesi di ritornare a sentirsi uomini liberi.

Una cinquantina di anni fa, il montenegrino Milovan Djilas, sostenitore e poi oppositore del comunista iugoslavo Tito, scriveva: «Fra 40 anni il mondo si meraviglierà delle realizzazioni grandiose compiute dal comunismo e si vergognerà dei metodi usati per compierle». Ma in Albania del comunismo è rimasta solo vergogna. Simbolo inquietante e grottesco del regime di Hoxha sono gli orridi «bunker» che dominano il paesaggio in tutto il territorio: piccole fortificazioni di cemento, di cui emerge nei campi e prati solo un pezzo di superficie emisferica con due feritornie. Dicono che ce ne siano più di un milione. Dentro i bunker i soldati dovevano sparare contro chissà quale invasore; naturalmente non sono mai stati usati.
Oggi nei bunker più grandi, quelli allestiti per i carri armati, la gente si ritrova per la santa messa. È la rivincita della storia. 

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Dove osano le aquile

Viaggio nel Kelmend, la regione montuosa più settentrionale del paese

Il suo vero nome è Shqipëria (Paese delle aquile), dove per 46 anni
il regime comunista ha cercato di cancellare la presenza cristiana, togliendo di mezzo vescovi, preti e religiosi, perseguitando i semplici fedeli. Grazie all’opera di missionari italiani e all’aiuto di varie associazioni umanitarie, oggi le comunità cristiane stanno rifiorendo, anche nel Kelmend, regione dell’estremo nord del paese.

Sono arrivata in Albania al seguito di Anemon (acronimo di «aiutare nel mondo»), un’associazione di medici e volontari che si propone di sostenere il lavoro delle suore francescane di Susa e di padre Sergio, frate minore cui è stata affidata la regione montuosa del Kelmend, dove da molti secoli vivono isolate alcune tribù cattoliche.
Tirana ci sorprende, con il suo aeroporto moderno e luminoso, per l’ampia arteria che porta in città, fiancheggiata da nuove costruzioni commerciali e industriali. Chi tra noi ha già visitato questo paese si rende conto di un grande cambiamento. I nuovi edifici del centro si distinguono per la sobrietà e il colore. La gente pare molto cordiale; molti conoscono l’italiano. Come Migena, che significa «fior di melo», una giovane albanese cui mi rivolgo per un’informazione. «Ho imparato l’italiano da mio nonno, che aveva fatto il militare in Italia. Quando ancora non andavo a scuola, mi raccontava le fiabe in italiano».
Resta grave il problema dei contadini inurbati di recente, sistemati in case fatiscenti che non ricevono regolarmente né acqua né luce.
Piazze e viali del centro di Tirana ricordano le altre capitali dei paesi comunisti, ma i numerosi caffè all’aperto sono affollati e ci sono anche giovani donne, mentre in quelli dei villaggi che visiteremo gli avventori saranno solo uomini.

Scutari è una città molto antica. Un’antica fortezza domina la città e il lago, che in parte appartiene al vicino Montenegro. La sua storia testimonia la serena convivenza, da sempre, di cristiani e musulmani: dopo gli anni bui di ateismo e chiusura al mondo, hanno ricostruito la grande chiesa ortodossa e restaurato la moschea.
Scutari è la prima tappa del nostro viaggio umanitario: abbiamo promesso di ingrandire la casa che le suore hanno aperto per accogliere le studentesse provenienti dai remoti villaggi del Kelmend per proseguire gli studi nella città, rompendo così una tradizione che negava l’istruzione superiore alla donna.
Lasciamo le rive del grande lago e risaliamo la montagna punteggiata da ginepri e folti cespugli di melograno. La strada sale attraverso strette gole, supera pietraie e ripide scarpate sul fiume, sulle cui rive alcuni terrazzamenti alluvionali permettono le colture e l’allevamento. Le case di pietra hanno il tetto fatto di lamelle di legno, con i pagliai a forma di cono.
Nel villaggio di Stare le suore hanno la base per il loro lavoro nelle valli, evangelizzazione e assistenza sanitaria. Il dottor Veronese, un medico torinese in pensione, dopo una sua prima visita due anni fa, ha deciso di ritornare ogni due o tre mesi e collaborare con suor Anna, infermiera. Il piccolo ambulatorio richiama gente dalle valli più remote, ma sovente il medico si sposta nei villaggi di montagna, dove opera nelle sale di riunione o nelle cappelle.
Leggendo le sue relazioni ero rimasta colpita dal fatto che, dopo tanti anni in cui la gente di Albania pensava solo ad emigrare, pare sia nato tra i giovani un nuovo sentimento di orgoglio. Oggi chiedono di poter ricostruire il paese, evitando la fuga di massa, ma chiedono anche una vita più dignitosa.
A Fare incontriamo anche Iolanda da molti anni impegnata nel volontariato: ha trascorso alcuni anni nell’ospedale di Fogo in Capoverde. Da tempo in pensione, l’anno scorso accettò volentieri l’invito del dottor Veronese a seguirlo nella regione del Kelmend.
«Fui molto colpita dalle donne albanesi, che rappresentano la maggioranza dei pazienti. Sono donne che soffrono, abbandonate da uomini partiti per cercar lavoro o per delinquere, umiliate da una mentalità ferocemente maschilista che le ha sempre private di un minimo di cultura» racconta la volontaria.
Pare che la depressione sia la patologia ricorrente in queste creature, che dimostrano forte imbarazzo durante le visite, anche se al medico si affianca sempre suor Anna e un’altra donna. Iolanda mi spiega che le donne arrivano spesso accompagnate dalla suocera. La tradizione vuole infatti che le giovani, quando si uniscono a un uomo (e non sempre questa unione viene regolarizzata dal matrimonio), lascino per sempre la propria famiglia e vadano a servire quella del marito.

Proseguiamo risalendo la valle con difficoltà: il mezzo è vecchio, le gomme lisce e perdiamo pure la marmitta. Prima di arrivare a Tamare, dove padre Sergio ha avviato un allevamento di trote con buon successo, prendiamo una stretta deviazione che ci condurrà a Vukli, dove ci aspetta per la messa.
Dopo altre due ore di viaggio e strapiombi da brivido, la strada termina in un’ampia vallata. Una specie di paradiso perduto, con greggi di pecore, muli che trasportano il fieno e case dai tetti alti e spioventi.
Arriviamo quando la messa è già iniziata. Sotto il portico sostano i giovani maschi, la sigaretta tra le dita e l’aria sfrontata da guappi. Conoscono poco l’italiano, ma riescono a farsi capire: sognano di emigrare, per far soldi e non lavorare nei campi. Dentro la chiesa, le nonne hanno il velo nero da vedove, le rughe e il viso rassegnato. Le madri mi guardano e il viso si allarga in un sorriso. I lunghi capelli neri sono fermati da forcine in onde piatte sulla fronte, incoiciata dal foulard. Tra le ragazze ce ne sono di molto belle, sono vestite per la festa e si lasciano ammirare.
Dobbiamo partire, la strada per Vermosh è ancora lunga; facciamo una sosta a Nikc, dove troviamo la chiesa piena di fedeli che da ore aspettano il padre per la messa. Come sta avvenendo per tanti edifici di culto, anche questa chiesa è stata ricostruita sui resti di quella distrutta nel periodo della dittatura, con i soldi inviati dagli emigrati.

L’autista del nostro vecchio pulmino è molto abile, guida nel buio sulla strada impervia, che vedremo solo al ritorno, spettacolare. In meno di due ore arriviamo davanti al cancello della proprietà di due fratelli emigrati da anni in America. Padre Sergio è riuscito a farsi dare in comodato per 15 anni l’intera proprietà, da anni abbandonata. La casa è stata da poco restaurata con gli aiuti che il francescano raccoglie tra gli amici quando viene in Italia.
Ma il padre sta attuando un progetto più ambizioso: trasformare la proprietà in agriturismo; sono già arrivate prenotazioni di gruppi di austriaci e svizzeri per la prossima estate. A gestire il tutto sono Giovanili e sua moglie Mariana, che durante l’estate si trasferiscono nella casa e coltivano i campi della proprietà; mentre durante l’inverno tornano nella casa dei genitori, per affrontare l’isolamento che può durare a lungo.
La mattina partiamo a piedi per raggiungere il nucleo centrale di Vermosh, dove ci sono la scuola e la chiesa. Nei campi recintati pascolano cavalli e pecore. Ciò che maggiormente attrae l’attenzione sono le croci, poste dappertutto: sulle case, sui ponti, al collo dei bambini e delle donne, persino sui pali della luce.
Intanto, il signor Giovanili, la cui famiglia ha avuto un ruolo importante nella comunità della valle, ci racconta la sua storia, mentre camminiamo insieme lungo il torrente: «Abbiamo sofferto molto, prima sotto il dominio turco, poi sotto la lunga dittatura comunista, ma siamo rimasti fermi nella nostra fede. Mio padre e i miei zii, fratelli di mia madre, sono stati in carcere, a lungo». Uno di essi, uscito di prigione, fuggì in Belgio e a causa sua la famiglia venne perseguitata.
Dopo il 1990, quando si aprirono le frontiere, Giovanili volle raggiungere lo zio. Trovò lavoro per due anni a Bruxelles, in una pizzeria italiana; ma non riuscì a ottenere il permesso di soggiorno. Il francese imparato in quegli anni gli consente di comunicare con noi e con i rari visitatori.
Quindi prosegue: «Quando si decise la costruzione della chiesa, mio padre si recò in visita alle nostre comunità di New York e Detroit e riuscì a raccogliere i fondi necessari». Altri aiuti sono arrivati anche da Austria e Italia; così si spera di frenare l’esodo dei giovani con iniziative come quelle di padre Sergio, che vuole far conoscere queste montagne all’estero, creando basi di appoggio per un turismo sportivo e sostenibile in una natura selvaggia e incontaminata.
D’estate arrivano i cicloturisti dal Montenegro e già si pensa di predisporre un’area campeggio per ospitarli. Le idee sono buone, ma le difficoltà enormi. Il suo entusiasmo si confronta con le difficoltà di far capire i progetti alla gente, che tanti anni di sottomissione e chiusura ha umiliato e resa inerte.
Al tempo stesso, padre Sergio vuole incrementare l’artigianato locale: ha in programma un viaggio in Italia, con l’auto carica di tappeti tessuti dalle donne di Tamare. Lo accompagneranno anche Giovanili e Mariana, che saranno ospitati da famiglie di amici e potranno imparare l’italiano e l’arte dell’accoglienza.

Sulla via del ritorno, l’ultima tappa del nostro viaggio è Selce, un villaggio ai piedi di un’impressionante scarpata rocciosa. Ci accoglie Angelina, una bella donna, alta, elegante e vestita di scuro. Direttrice della locale scuola media, sta affrontando i problemi dell’educazione delle giovani e per questo ha fondato un’associazione femminile. Le iscritte sono già 50, alcune tra loro sono anziane. «Se vogliamo migliorare la qualità della nostra vita, dobbiamo cominciare con l’educazione delle donne. Il futuro del paese è nelle mani delle giovani madri».
Angelina parla con fervore, crede in quello che fa e le do ragione. Quando ci abbracciamo per lasciarci, la stringo e sento il calore delle sue gote arrossate. Le chiedo: «A casa tua, che educazione hai ricevuto, per avere una mentalità così aperta?». «Mia madre ha avuto sette figli, era un’educatrice meravigliosa» mi risponde. 

Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




CARI MISSIONARI

Il 5 per mille
(trasparente)

Spett. Direzione,
In questi giorni i giornali hanno riportato i dati della destinazione del 5 per milla. Avendo destinato la mia parte al «nostro» Istituto, mi farebbe piacere che, in un prossimo numero della rivista, sia data notizia dell’importo totale devoluto.
Grazie per l’attenzione e complimenti.
Giovanni Pirovano
Via e-mail

UN SENTITO GRAZIE a tutti coloro che generosamente hanno devoluto nel 2006 a favore della nostra Fondazione Missioni Consolata Onlus il 5 per mille dell’imposta sul loro reddito dichiarato per l’anno 2005.
Informiamo i nostri gentili lettori che le preferenze pubblicate nell’elenco definitivo dell’Agenzia delle Entrate sono state di n. 2.770 per un importo complessivo di  95.578,26 Euro. Tale importo è destinato ai vari progetti di aiuti umanitari nelle nostre missioni sparse nel mondo.
Nella speranza che, anche per l’anno in corso, ci siano state nuovamente così tante preferenze per la destinazione del 5 per mille, ringraziamo tutti per questo grande gesto di solidarietà e cordialmente vi salutiamo.
rag. Guido Filipello,
Amministratore
MC Onlus

Lettera al Padreterno

Eteo Padre,
mi dispiace scomodarti per un problema che non riesco a risolvere; e tu sai quanto sia tosta a portare avanti le lotte per la pace e aiutare tutti. Si tratta del trasferimento dalla sperduta missione di Matiri, nel cuore del Tharaka in Kenya, di padre Orazio Mazzucchi, quel grande missionario dall’accento lombardo, accompagnato da un simpatico intercalare anglosassone che accarezza le parole di chi gli sta di fronte.
Il mio pensiero va in particolare ai tanti bambini che vivono nel circondario della missione, che seguono il padre come se fossero la sua ombra. Mi pare di vederli quando la domenica se ne stanno seduti sulle panche di legno ad ascoltarlo silenziosi e immobili, attratti dalla lettura del vangelo nella loro lingua. Quanta folla e quanto entusiasmo nonostante il lungo percorso, a volte di chilometri a piedi, per raggiungere quella chiesetta e partecipare alla messa celebrata da padre Orazio.
Dopo la lunga funzione si ritrovano tutti sul sagrato, punto d’incontro per raccontarsi le notizie della settimana. I ragazzini sperano di trovare qualche wasungu di passaggio alla missione, che estragga dalle tasche qualche caramella, che resta in bocca e nella mente il più possibile. Noi qui, dall’altra parte del mondo, seguiamo questi bambini, indirizzando le nostre forze in adozioni a distanza e aiuti concreti, coinvolgendo più gente possibile come se si trattasse dei figli di Noela e i miei tantissimi nipotini. In questa missione ai limiti del mondo, hanno meno di niente e penso che per il loro necessario basterebbe il nostro superfluo.
Padre Orazio ha già fatto molto. Sta portando a termine il progetto che doterà il villaggio di acqua. Un lavoro immenso che sta per concludere come ha fatto per la costruzione dell’ospedale, opera realizzata attraverso il volontariato dei medici di Ferrara.
Ho nelle orecchie la preghiera dei bambini, il «Baba yetu», che implora il tuo aiuto affinché tu consenta di far restare con loro il bravo padre Orazio, in quella missione di frontiera. Privati della sua presenza si sentirebbero degli orfani, come soffrirebbero pure quelli che giacciono inerti nei lettini bianchi dell’ospedale, nato per salvare i loro corpicini provati da fame e malattie. Le loro anime sono già state redente.
Anch’io ti prego con tutta la fede che ho nel cuore, grande Baba yetu: Padre nostro che stai nei cieli, fai in modo che resti a Matiri nella sua e nostra missione. Mi risponderai di mettermi in fila, rivolgendomi al tuo segretario, padre F. C. a Nairobi. Col cuore colmo di speranza proverò a comporre il 34618000000000… per sentire la voce amica che mi offra il suo ascolto, come sempre il capo tra le mani e la pazienza infinita e poi ti trasmetterà la mia domanda per la firma.
Ti supplico di ripensare al suo provvedimento di trasferimento, se questo non fosse proprio possibile, sono certa che tu farai del tuo meglio, affinché un altro tuo servitore possa garantire la continuità a parità di entusiasmo, esperienza, capacità e grande lavoro quasi portato a termine dal nostro missionario.
Grazie, Signore, supremo Dio del cielo e della terra, confido fiduciosa di ottenere una tua favorevole risposta attraverso il tuo insostituibile segretario. Tua fedelissima e devotissima
Ines Levi
Milano

Ha fatto bene, signora Ines, a indirizzare la sua lettera a colui che guida tutta la nostra storia, e non al direttore della nostra rivista, che in problemi del genere non ha alcuna voce in capitolo. Siamo sicuri che anche nel caso da lei sottoposto egli saprà risolvere la faccenda, tramite il suo ottimo «segretario», nel modo migliore sia per padre Orazio che per la comunità in cui lavora da tanti anni.
Da parte nostra ringraziamo di cuore per la stima e la solidarietà che continuate a dimostrare verso il nostro caro confratello e la sua dedizione missionaria.

 Speciale «Donne…»
(anche alla RAI)

Caro Direttore,
sebbene con ritardo, vorrei esprimere la mia gratitudine a tutti voi per il magnifico numero monografico di ottobre: è un piacere imparare nuove cose, basate sul realismo, ma animate dalla fiducia e dalla speranza.
Un saluto cordiale.
Alessandra Verde
Torino

Grazie anche a lei, signora Alessandra, che ha contribuito al successo del numero speciale con la traduzione di vari testi.
Il 25 ottobre 2007, Radio3, nella rubrica «Uomini e profeti» (www.radio.rai.it/podcast/A0020228.mp3), lo ha definito «numero molto bello, da recuperare». Per chi fosse interessato, abbiamo ancora copie disponibili.

Una madre speciale

Egregio Direttore,
ringrazio per il prezioso servizio svolto da Missioni Consolata con competenza e profondità dei contenuti. Purtroppo la rivista ha perso un’assidua e interessata lettrice quale è stata mia madre: da anni e ogni mese la sfogliava indicandomi qualche articolo importante, a suo parere, da prendere in considerazione.
Le dolorose sofferenze, che l’hanno afflitta dal mese di gennaio le ha offerte, in particolare, per i missionari impegnati nella diffusione del bene nel mondo.
Sicuramente ora è nella gioia e può aiutare più di prima, non solo i familiari, ma anche tutti coloro che lei sosteneva in varie forme nelle loro opere di solidarietà, assistenza, diffusione della cultura.
Affido la carissima mamma a qualche missionario, affinché la ricordi nella preghiera. Ringrazio e porgo i più cordiali saluti.
Milva Capoia
Collegno (TO)

Grazie, signora Milva, per la testimonianza sulla sua mamma (vedi riquadro). La ricorderemo in modo speciale al Signore, come facciamo ogni giorno per i sostenitori del nostro lavoro missionario. Siamo certi che anche  lei dal cielo continuerà a sostenerci.

Lettore… devoto

Egregio Direttore,
sono un lettore di Missioni Consolata, che ricevo da mio figlio, prete diocesano, e che leggo con vero entusiasmo e di cui condivido pienamente i contenuti. Essendo nato a Torino, sono un devoto della Madonna Consolata, dove negli anni ‘50 conoscevo il rettore del santuario. Pur essendo impegnato con diverse associazioni nella lotta contro la fame e per lo sviluppo dei popoli, vorrei potere aiutare, sia pure con piccole offerte, i vostri missionari che stanno svolgendo lavori meravigliosi e concreti nei paesi poveri, sia nel campo dell’evangelizzazione che dello sviluppo. Per questo chiedo di mandarmi dei moduli Ccp prestampati.
Una preghiera alla Consolata per tutta la mia famiglia e i più cordiali saluti.
Eugenio Ceruti
Conegliano (TV)

Il suo «entusiasmo» e la sua devozione alla Consolata ci incoraggiano a continuare nel nostro lavoro, sia qui in redazione che nei vari continenti dove sono presenti i nostri confratelli.

INDIMENTICABILE MADRE

Venerdì 14 settembre 2007, festa dell’Esaltazione della Santa Croce, è scomparsa la mia carissima mamma, Cleofe Scapin, che leggeva regolarmente Avvenire, La Vita del Popolo, Famiglia Cristiana, La Voce del Popolo, Il Nostro Tempo, Città Nuova, Popoli e Missione e Missioni Consolata ai quali sono abbonata. Non mi dilungo sul dolore dei figli e tutti i parenti per tale perdita, quanto sulle specialissime qualità che l’hanno caratterizzata come mamma premurosa, sposa fedele, donna coraggiosa e dignitosa, coltivatrice con il «pollice verde», instancabile riparatrice di tutto, dagli indumenti ai mobili, persona generosa e attenta alle necessità degli altri, cristiana coerente e dalla fede profonda e incrollabile. Tali qualità e altro hanno reso la convivenza con lei un particolare privilegio di cui essere orgogliosi e da onorare.
Fin da giovane ha dovuto affrontare problemi di salute di ogni genere, che l’hanno accompagnata nel corso di tutta la vita. Tali problemi non le hanno impedito di occuparsi dei familiari e della casa, con volontà sovrumana e ininterrotto spirito di dedizione, non privo di sofferenze fisiche e anche morali, a causa di qualche incomprensione. Con un coraggio inaudito, infatti, ha mirato al miglioramento delle condizioni di vita dei suoi cari, promuovendo, fra l’altro, l’istruzione dei figli e l’acquisto dell’abitazione. Ha conservato sempre il piacere per l’ordine, la cura degli ambienti e delle cose, consapevole del loro valore e della loro rilevanza estetica.
Ha ereditato dalla terra veneta in cui era nata l’interesse e il piacere per i fiori e piante con cui aveva riempito balconi, veranda e davanzali, occupandosene tutti i giorni con particolare perizia e garantendo a molte una durata pluriennale impensabile. Alcune varietà di gerani sono ancora quelle portate dal Veneto, nell’avventuroso viaggio del 1951.
N on aveva potuto studiare da giovane per le condizioni di povertà della famiglia d’origine, ma ha coltivato permanentemente la curiosità per la cultura, l’interesse per l’approfondimento dei problemi e l’analisi delle situazioni socio-politiche attraverso la lettura di quotidiani, riviste e testi; spesso utilizzava le ore nottue per leggere i libri che i figli avevano portato a casa dalla biblioteca scolastica e che dovevano essere restituiti al più presto. Tale attività di documentazione le ha consentito di fornire suggerimenti e indicazioni ai figli per iniziative di formazione e aggioamento per migliorare la loro professione.
Ha mantenuto sempre un radicato senso del dovere nei confronti dei familiari, dei vicini di casa, delle istituzioni pubbliche, della parrocchia e della chiesa, insegnando a essere puntuali e precisi negli impegni, nei pagamenti, nel sostegno morale ed economico in caso di difficoltà; ha tenuto per moltissimi anni, tra l’altro, contatti con alcuni missionari dell’India, inviando loro regolarmente aiuti in denaro.
La salute precaria e le avversità non le hanno compromesso la dignità con cui le ha affrontate, la finezza e delicatezza dei sentimenti, nobiltà d’animo valorizzata dalla purezza di cuore e fede incrollabile; è stato un suo motto «mai disperare», sostenuto dalla certezza che la fede e la preghiera operano miracoli e trasformano il mondo.
Pur con le lacrime e il cuore lacerato non posso non ringraziare Dio per averla avuta accanto a lungo, per aver condiviso progetti e sofferenze, per aver superato insieme tante difficoltà, per la sua presenza che ora continua in cielo, nel cuore e della ricerca quotidiana di essere all’altezza ed erede degna di tale meraviglioso esempio.
Milva Capoia




Caro Amico

Caro Amico,

per anni gli editoriali che hanno occupato la tua prima pagina sono iniziati così, con la leggerezza e il calore di una lettera ai lettori, ragazzi e ragazze, compagni di cammino che da sempre hai chiamato con confidenza «amici», cari amici.
E proprio in qualità di «amici di amico» oggi ti auguriamo «Buon Compleanno». Mezzo secolo di vita – mica uno scherzo – al servizio della missione, sempre attento ai cambiamenti che questa ha presentato sullo scenario di un mondo sempre più complesso e sempre più grande. «Ti sei saputo conservare bene»; te lo diciamo noi che guardiamo lo stesso universo in cui sei immerso tu e lo facciamo da ben più tempo (pensa un po’, proprio quest’anno «Missioni Consolata» compie 110 anni).
Una cosa che ti ho sempre invidiato, te lo dico francamente, è il nome: amico, una parola che immediatamente richiama una relazione positiva fra le persone. Cinque lettere cariche di un profondo significato teologico e missionario, ma che sono anche il felice frutto di un acronimo: a.mi.co.: «Agenzia Missioni Consolata». Padre Caera, l’uomo che ti vide nascere,  mi disse una volta che ti chiamò «agenzia» perché voleva che tutti, sin dall’inizio, ti prendessero sul serio. E così è stato. Sei nato come una vera e propria agenzia di notizie, pubblicando sulle tue pagine le lettere dei missionari che lavoravano sul campo. Erano i seminaristi a raccoglierle e, una volta ciclostilate, le distribuivano ad altri giovani affinché potessero conoscere cosa succedeva dall’altra parte del mondo: in Africa… in America Latina. Il tutto per creare una relazione fra la missione di frontiera e quella imparata a tavolino: una relazione di amicizia.

Con il tempo sei cresciuto. Hai cambiato molte volte formato e altrettante volte stile, seguendo l’istinto di chi si occupava di te e, soprattutto, le tendenze della missione. Dopo gli anni del Concilio hai avuto una grande metamorfosi, sei diventato adulto e hai assunto il carattere che ancora oggi ti identifica: quello di essere uno strumento di «form-Azione» missionaria per i giovani. Pagine da leggere, ma che invitano anche ad agire. Una rivista che, soprattutto, ha sempre ricordato l’importanza di «raccontare» la missione, strumento su cui si fonda ogni animazione missionaria di ieri, di oggi, di sempre.
Ancora oggi, lo stile che ti rende ciò che sei, amico,  può essere sintetizzato attraverso un semplice schema. Il punto di partenza è la vita. È la realtà che ci interpella, attraverso situazioni che, di volta in volta, aprono finestre sugli universi della giustizia e della pace, della salvaguardia del creato, dell’alterità, della mondialità. Una realtà colta nella sua complessità, ma presentata ai giovani senza reticenze e con indicazioni per poter affrontare individualmente o in gruppo un determinato tema. Tutto ciò – e siamo al secondo passo – insisti nel volerlo interpretare alla luce della Parola di Dio, ponendo Gesù, la sua vita, le sue scelte, la sua missione come punto di riferimento del tuo rivolgerti ai giovani.
Infine, continui a ricordare che la vita, illuminata dalla luce della buona notizia, deve mirare all’azione e alla testimonianza. Lo fai comunicando l’esperienza di coloro che vivono l’ad gentes in prima persona e cercando, nel medesimo tempo, di far innamorare della missione coloro che ti leggono in Italia.
Insomma, un bello sforzo. Per essere un cinquantenne, caro amico, ti difendi «alla grande».

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli