In paradiso si gioca a rugby

All Blacks: quando il rugby diventa una fede. Tra business, spettacolo e tradizione

Gioco di squadra, agonismo, disciplina, rispetto delle regole e degli avversari… sono valori fondamentali del rugby,
fino a diventare un modello educativo e stile di vita.
In Nuova Zelanda, famosa anche per la sua prestigiosa squadra nazionale, gli All Blacks, tale sport
rispecchia storia, tradizioni, fede e cultura della composita popolazione del paese; ma i suoi riti e slogan vengono
banalizzati negli spot pubblicitari del mondo occidentale.

Sono stati gli attori indiscussi di uno degli spot pubblicitari di maggiore effetto. «Built the same way» (costruiti nello stesso modo) come recita il costoso slogan che Iveco, la casa italiana costruttrice di veicoli commerciali e pesanti, ha scelto per celebrare la partnership con gli All Blacks, i temutissimi nazionali neozelandesi di rugby. Un sodalizio di «peso» che, al di là di ogni connotazione commerciale, rafforza di riflesso anche l’immagine «d.o.c.», già insita nel corredo cromosomico di questi talentuosi campioni.
E se di cromosomi o di «dna sportivo» si vuole parlare certamente non è passata inosservata la nuova, più recente, trovata mediatica che ha visto come sempre protagonisti i campioni di rugby dell’emisfero australe. «Bonded by blod» (legati col sangue), questo è il titolo di una discutibile campagna pubblicitaria di abbigliamento sportivo, che Craig Waugh, marketing manager dell’Adidas in Nuova Zelanda, ha lanciato insieme alla nazionale di rugby del suo paese lo scorso 31 maggio. In vendita la maglietta degli All Blacks con in dono il poster, a tiratura limitata, realizzato con il sangue di 39 campioni della palla ovale. Sì, proprio così, perché il dna dei temutissimi All Blacks, è stato aggiunto all’inchiostro che è servito a stampare i manifesti pubblicitari della multinazionale tedesca. 
Un autentico «patto di sangue» per questo discutibile sodalizio: «Una firma è personale – spiega Mark Cochrane, della Tbwa-Whybin, la società pubblicitaria che ha curato la campagna della multinazionale tedesca – ma con il dna della squadra la rende ancora più personale».
Ma al di là di ogni connotazione morale, il rugby è effettivamente il dna della Nuova Zelanda, lo sport per eccellenza praticato tra gli atolli del Pacifico, dove i valori etici e spirituali di questa disciplina sono forse già connaturati nella «struttura biologica» dei grandi campioni.

Rugby e fede: sport come lezione di stile e di vita

Di recente, in Italia, sull’entusiasmo dell’ultima fortunata partecipazione della nostra nazionale al toeo delle Sei nazioni, la più importante competizione internazionale di rugby giocata in Europa, questo sport torna più che mai alla ribalta. Anche e soprattutto come modello educativo e sociale, che sottolinea i valori cristiani dello sport, anche agli occhi dell’opinione pubblica, dopo i vergognosi esempi di «calciopoli» e gli inconsulti atti di delinquenza che hanno infangato il miliardario passatempo delle folle del bel paese.
Lealtà sportiva e rispetto dentro e fuori dal campo di gioco: sono questi i soli modelli di comportamento che trovano nella palla ovale forse il più onesto esempio di educazione alla socialità da insegnare ai giovani, non solo quelli che si avviano all’attività sportiva. Proprio come avviene da almeno due secoli in Nuova Zelanda, il paese dove il rugby resta il gioco più praticato a livello scolastico, e che riveste altresì un ruolo di formazione al pari delle altre discipline d’insegnamento.
Anche per questa sua importantissima funzione il rugby è seguito con sguardo consenziente dalla congregazione anglicana del paese, perché diviene un veicolo di spiritualità, che si esprime come scuola di autocontrollo, di autodisciplina, di rispetto per sé e per gli avversari. Una «dimensione» cristiana dello sport che, al di là dei differenti costumi, usanze, riti, razze e schemi di gioco, è capace di mettere tutti d’accordo dentro e fuori dal campo.
Sono queste le prime norme di chi pratica ad altissimo livello agonistico il sano, vecchio rugby, lo «sport giocato in paradiso», come recita in modo provocatorio e un po’ irriverente un antico proverbio anglosassone. La violenza, l’offesa e l’esasperazione esacerbata degli animi non fanno parte dell’etica di questa disciplina, che impedisce di trasformare gli avversari in nemici, il proprio vigore fisico in una scorrettezza, l’abilità in una frode.
Il primo dei tanti perché è senza dubbio legato allo sviluppo della socialità: da sempre, il rugby nell’emisfero australe è inteso come massima espressione di un collettivo perfettamente integrato, dove è cristianamente del tutto assente l’egoismo individualista.
Dunque rugby anche come una confrateita, una religione, forse un modo di vivere, una battaglia sociale, un fatto educativo. Secondo Davis Storey, scrittore britannico di Wakefield, in una delle sue celebri novelle, This Sporting Life, a proposito del rugby scrive : «… è il solo sport per uomini che sia rimasto». Fuori dell’enfasi, il rugby neozelandese non è tutto questo, ma è certo paradossalmente un po’ di tutto ciò. Una disciplina diversa, romantica, genuina, ancora legata come nessun altro sport alla tradizione, alla storia, alla fede e alla cultura in cui è nata.

La Haka: tradizione e spettacolo

Per tradizione e poi sul campo sono i più bravi. Divisa tutta nera, maglietta della salute compresa, la felce argentea sul petto: ecco gli All Blacks, il dream team della palla ovale. Per loro il rugby è un modo di concepire la vita, ma anche una forma di arte e di spettacolo. Il resto poi lo fanno i media, con grande arguzia e dedizione, che sottolineano spesso le suggestioni che la dimensione religiosa  gioca in questo sport.
Sull’isola, dove convivono il passato e il presente etnico di un paese meticcio, il rugby assume maggiormente i connotati della disciplina romantica, ancora legata, come nessun altro sport, alla tradizione antropologica e alla cultura religiosa da cui trae origine la storia di un popolo. Significati riconducibili alle origini dei miti maori, al retaggio sacrale dei defunti, al rispetto dei riti e della religione a cui si affidano gli atleti prima di ogni match.
Dietro a ogni gesto preparatorio c’è una ritualità, una tradizione ancestrale che affonda le sue radici proprio nel valore più intimo e spirituale dell’uomo: la religione degli antenati. Tipica degli All Blacks è la Ka mate, un modello di Haka, la danza propiziatoria di guerra, che ha lo scopo di intimorire gli avversari prima di ogni partita, ma anche una manifestazione di gioia, di dolore, una libera via di espressione. Il rituale è ormai divenuto celebre in tutto il mondo e fa parte dello show offerto dalla squadra neozelandese prima ancora del calcio d’inizio. Una cerimonia a dire il vero impressionante: si roteano e si spalancano gli occhi, si digrignano i denti, si mostra la lingua, ci si batte violentemente il petto e gli avambracci, si dà quindi un saggio di potenza e coraggio, che si ricollega allo spirito guerriero. Dal punto di vista agonistico-sportivo, si può anche identificare nella danza tradizionale maori una vera tecnica di attivazione mentale che anticipa la psicologia dello sport e scava dentro rituali ancestrali. Un metodo che oltre a sottintendere passione, vigore e identità della razza, consente di arrivare alla gara in uno stato psico-fisico ottimale, dimostrando sicurezza di sé e nella squadra.
La fede dunque che rende nobile lo sport. Tutto questo è l’haka: comunicazione non verbale, mediante gesti rituali e guardi di sfida all’avversario, e comunicazione verbale per confermare le proprie origini, l’orgoglio di appartenenza a un popolo e la certezza nell’obiettivo.
Ma poi in campo, 15 campioni di eleganza, di stile, di disciplina, gli attori indiscussi di uno spettacolo dell’anima, quella bella. Gesti semplici che racchiudono la tradizione e il professionismo di chi è «ricco» anche di valori. Da Joe Rokocoko a Rodney So’oialo, da Neemia Tialata a Jonah Lomu, la leggenda maori continua. E l’ovale passa ai nuovi testimonial di una fede sportiva, quella in cui attraverso i media si concretizzano, come all’ultima meta, i modelli di sviluppo sociale e i più elevati ideali di educazione alla convivenza civile.

Copyright culturale a rischio

Certamente la danza rituale è l’aspetto che sembra penetrare, seppur superficialmente, più di tutti gli altri complessi elementi che compongono la cultura maori, nell’immaginario collettivo dei media occidentali. Molti sono gli spot che negli ultimi mesi si sono serviti, forse in modo un po’ troppo disinvolto e irriverente, dell’immagine della cultura dei nativi maori a fini promozionali. In Italia, ad esempio, non è passato inosservato il lancio commerciale di un modello di auto Fiat che ha suscitato accese polemiche in Nuova Zelanda. Creato dalla Leo Buett Italia, nella pubblicità alcune donne si esibiscono nella haka, accompagnata dalle tipiche sonorità, mentre alla fine dello spot, una donna sale sull’auto pubblicizzata, dove un neonato mostra la lingua: azione che conclude, anche nella realtà, il rituale di danza.
Secondo i diplomatici neozelandesi lo spot è «culturalmente insensibile» e, nonostante le proteste ufficiali, è stato comunque prodotto e mandato in onda da diverse emittenti televisive. Brad Tattersfield, portavoce del New Zealand Ministry of Foreign Affairs and Trade (Mfat, Ministero degli esteri e del commercio), ha dichiarato che il Ministero era stato avvertito dall’ufficio del New Zealand Trade and Enterprise (Nzte) di Milano dell’utilizzo della haka in uno spot pubblicitario. In alternativa, era possibile utilizzare un gruppo maori che avrebbe danzato un altro tipo di haka composto appositamente per il gruppo di donne; ma l’agenzia di pubblicità ha ignorato la proposta.
Tuttavia, secondo Garry Nicholas, general manager della Te Toi Aoteroa, associazione che promuove e protegge l’arte e la cultura maori, nello spot non viene danzato propriamente una haka, sebbene ne sia evidente la radice culturale. Il contesto dello spot è alquanto giocoso e il bambino che mostra la lingua alla fine della pubblicità sottolinea l’approccio ironico, sebbene abbia riconosciuto un’insensibilità di fondo verso la cultura maori.
Ma la Fiat non è l’unica realtà industriale ad aver utilizzato riferimenti della cultura maori. La pubblicità di una famosa marca di whisky, la William Lawson, apparsa in Belgio (dove una squadra di rugby si esibisce in un haka davanti a una squadra scozzese i cui componenti, per tutta risposta, sollevano il kilt) è stato oggetto della protesta ufficiale dell’ambasciatore neozelandese. La Philip Morris si è invece dovuta scusare con i maori, nell’aprile scorso, per aver stampato le loro immagini sui pacchetti di sigarette in vendita in Israele, mentre sei anni fa la Lego ha perso una causa legale contro il popolo maori per aver «plagiato» la loro cultura nelle storie legate a una sua popolarissima linea di giocattoli.

All Blacks oggi: sindrome da mondiale

Nello sport, diceva il barone De Coubertin, l’importante è «partecipare». Ma questo spirito pionieristico e dilettantistico che ha fatto del rugby la disciplina dilettantistica per eccellenza, oggi non va più bene. Gli All Blacks invece a vincere sono condannati. Ai mondiali però, dopo il mitico ‘87, anno della prima e unica vittoria, hanno sempre fallito per sfortuna, presunzione e orgoglio dei paesi ospitanti o, soprattutto, per l’enorme «pressione» non solo della stampa amica e avversaria e tifosi, ma di un’intera nazione, che provoca brutti scherzi a livello mentale e condiziona forse troppo le prestazioni sportive di questi grandi campioni.
La sesta edizione della Webb Ellis Cup, la coppa del Mondo 2007, conclusasi in Francia lo scorso ottobre, ha visto per la seconda volta il trionfo degli Springboks, le gazzelle sudafricane. Eppure anche in questo mondiale gli All Blacks, guidati dal c.t. Graham Henry, sembravano aver finalmente acquisito quel cinismo tipicamente «europeo», che, affiancato alle loro enormi abilità individuali e tattiche, avrebbe potuto portarli alla vittoria mondiale.
Quest’ultima eliminazione – conferma la stampa neozelandese – è forse stata la più incredibile della serie, perché negli ultimi quattro anni la Nuova Zelanda aveva dominato contro tutte le squadre, perfino sui Lions, la selezione che raccoglie i migliori giocatori delle isole britanniche, perdendo solo 5 test match sui 41 disputati prima del quarto di finale contro i padroni di casa della Francia.

E la storia delle sconfitte neozelandesi, però, ha sempre riservato particolari conseguenze con singolari ricadute anche a livello sociale. Ma se nel lontano 1991, eliminati dagli odiatissimi australiani, molti giocatori non tornarono nemmeno in patria, nel 1999 (ancora la Francia sul cammino degli All Blacks) appena atterrati si trovarono di fronte un’enorme scritta: «Loser» (perdenti).

Diverso fu il destino del capitano vincitore David Kirk, che fece però parte nel ruolo di consigliere del premier nell’esecutivo guidato da Jim Bolger e fu vicino ad essere eletto deputato. Questa volta i giocatori non hanno subito particolari «trattamenti»; l’intera nazione è precipitata, però, nel totale sconforto: un intero popolo sull’orlo di una crisi di nervi, con psicologi invitati a sollevare il morale della popolazione; il capo degli arbitri della federazione rugbistica internazionale Paddy O’Brien, neozelandese per ironia della sorte, minacciato per aver preso le difese «istituzionali» dell’arbitro inglese, il debuttante Wayne Baes, che ha diretto la sconfitta contro i transalpini, finito per alcune sue decisioni discutibili sotto il tiro incrociato dei tabloid neozelandesi. Ma ancora borse che crollano e governo sull’orlo della crisi istituzionale. Addirittura alla vigilia della coppa del mondo, l’equivalente del nostro ministro delle Attività produttive neozelandese aveva espresso timori per via del fuso orario che obbligava i lavoratori a stare svegli di notte, limitandone quindi presenze e produttività.
Due giorni dopo la sconfitta della nazionale kiwi di rugby, il lunedì mattina, in apertura di contrattazioni, la seduta della Borsa di Wellington ha risentito del verdetto del campo di gioco. Oltre ai tifosi anche gli investitori non sembrano aver preso bene la sconfitta. Pur seguendo l’andamento positivo di Wall Street, l’attività del mercato è stata giudicata assolutamente piatta. Il lunedì è tradizionalmente una giornata tranquilla per il mercato neozelandese, ma la calma per l’occasione era apparsa eccessiva: da stato di shock hanno detto i brokers.
Che il rugby in Nuova Zelanda non sia solo un gioco lo dimostra anche il fatto che dopo l’incontro, i giornalisti hanno chiesto al primo ministro Helen Clark, allo stadio vicino al presidente francese, Nicolas Sarkozy, se la sconfitta avrebbe avuto ripercussioni negative sul governo. «Ne sarei sorpresa» ha risposto la Clark, cercando forse di scongiurare con astuta diplomazia su una possibile, annunciata crisi istituzionale.
Nel 2011 i mondiali si giocheranno in casa e molti, fin d’ora, sono pronti a scommettere che sarà la volta buona. 
Di Massimo Ruggero

Massimo Ruggero




«Hai mutato la mia veste di sacco in abito di gioia»

la parabola del «figliol prodigo» (17)

22 Presto, portate qui il vestito più bello
e fateglielo indossare, mettetegli l’anello
al dito e i sandali ai piedi.

Presto
Alcuni codici, sia maiuscoli che minuscoli, eliminano l’avverbio iniziale «presto» (gr. «tachý»), che dà il senso del precipitare degli eventi, della frenesia del padre e di tutta la casa coinvolta nell’accoglienza del figlio ritornato. Con tale eliminazione si vuole ritardare il perdono del padre in attesa che il figlio faccia il suo atto di dolore. È disdicevole per un padre cedere all’emozione di fronte al figlio. Nella mentalità orientale solo dopo che il figlio si umilia il padre può «benignamente» concedere la sua benevolenza. Se lo fa prima, mette in discussione la sua autorità.
Il testo greco, invece, accettato e riportato dai codici più antichi, compreso il papiro 75 del sec. iii, mette l’avverbio «tachý, presto/veloce/subito» in principio di frase, conferendogli così importanza dal punto di vista sintattico, perché lo pone in posizione enfatica. Nello stesso tempo sottolinea la successione simultanea delle azioni e degli oggetti, perché mette in evidenza la fretta che il padre ha di dimostrare il suo amore sconfinato, capace di mettere in movimento tutto l’ambiente circostante.
«Presto… portate… rivestite… mettete… prendete» danno il senso plastico di un ritmo che crea un clima e rivela una verità: il padre non si cura della sua dignità di fronte al mondo, ma si occupa e preoccupa soltanto di suo figlio. Il perdono del padre è contagioso fino al punto da riuscire a trasformare l’immobilità precedente in una gioia senza fine dalla quale nessuno si può dispensare. Il padre fa sue le parole del salmista che esprimono molto bene la sua condizione e la sua gioia: «Hai mutato il mio lamento in danza, la mia veste di sacco in abito di gioia perché io possa cantare senza posa» (Sal 130/129,12-13).
Il padre con questo comportamento condivide la stessa gioia degli altri due personaggi della parabola precedente nello stesso capitolo: del pastore che ha ritrovato la pecora: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta» (Lc 15,6); e quella della donna che ha ritrovato la moneta: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduta» (Lc 15,9). Gli atteggiamenti e le parole sono identiche:

v.6    (pastore)    Rallegratevi con me    perché ho trovato la mia pecora
v.9    (donna)    Rallegratevi con me    perché ho trovato la moneta
vv.23-24    (padre)    Facciamo festa    perché questo mio figlio è stato ritrovato

Padre, pastore e donna manifestano il sentimento profondo del Dio Padre/Madre che Gesù è venuto a «mostrare»: il Dio che mette in gioco se stesso pur di trarre in salvo i figli. Le tre figure delle parabole di Lc 15 sono veramente «il sacramento» del Dio di cui capovolge l’immagine abituale, diffusa dalla religione: «Il Signore è lento all’ira e grande in bontà, perdona la colpa e la ribellione, ma non lascia senza punizione; castiga la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione» (Nm 15,18). 
Il Dio di Gesù, al contrario, si rallegra e fa festa, senza chiedere in cambio nulla, felice che il figlio perduto è ritrovato. Il padre della parabola lucana, infatti, non permette al figlio di finire la sua confessione, ma lo precede con il suo amore generante per rigenerarlo nuovamente. Egli è il vero erede del profeta Osea che continua ad amare la moglie Gomer, nonostante sia scappata tre volte per fare la prostituta (cf Os 1,1-9; 3,1-5). Dopo averla rincorsa e trovata, circondata dai suoi amanti, aveva il diritto di applicare la toràh e comminare una sentenza di morte (Lv 20,10). Secondo la tradizione giudaica «grande è la misericordia del Signore e il suo perdono per quanti si convertono a lui» (Sir 17,24), che è l’atteggiamento fatto proprio dalla religione per gestire la mediazione tra il peccatore e Dio. Il profeta Osea, invece, si pone su un altro piano e travolge di tenerezza la moglie/prostituta, assetata di amore, prima ancora che lei apra bocca o esprima il suo pentimento, offrendole un viaggio nuziale nei luoghi del loro primo amore: il deserto di Dio (cf Os 2,16-18).
Sulla scia del profeta Osea, anche Gesù offre il perdono di Dio prima della conversione, prima della stessa richiesta: «Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rom 5,8.10). Lc insiste su questo aspetto, che costituisce il cuore del vangelo e la novità apportata da Cristo. Spesso anche per noi cristiani, Gesù è uno dei tanti profeti (Lc 9,19), il cui messaggio è un ideale di vita, tanto grande da essere irraggiungibile e finiamo per farci da noi una immagine di Dio su nostra misura che rispecchi le nostre esigenze e miseria. Dio diventa ìdolo.
Il comportamento del padre rispecchia lo stesso comportamento di Gesù nei confronti della prostituta che entra in casa del fariseo Simone (Lc 7,36-50). Lo scandalo è enorme: in un consesso di uomini perbene di giorno e frequentatori di prostitute di notte, l’ingresso della donna è un insulto. La donna che rende impuro tutto ciò che tocca si accucciola ai piedi di Gesù, glieli lava con le sue lacrime e glieli asciuga con i suoi capelli (Lc 7,36-50). Nata per fare la prostituta, non ha altri gesti che quelli di una prostituta per dimostrare il suo interesse e attenzione all’uomo che la guarda con occhi nuovi e non giudicanti. Di fronte a una tale donna, da cui ogni uomo perbene deve stare lontano almeno due metri, Gesù si lascia toccare e baciare e, in contrasto con l’ambiente circostante, perdona la donna senza nemmeno chiederle di cambiare mestiere: «I tuoi peccati sono perdonati… La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!» (Lc 7,48.50).

Il vestito
Il primo ordine del padre riguarda il «vestito più bello» (in greco «il vestito, il primo»), non un vestito qualsiasi, ma quello della festa, quello importante. E non si tratta di liberare il figlio dagli stracci che addossa e dargli una sistemazione dignitosa. «Il vestito» ha un significato preciso. Il padre veste il figlio restituendogli la dignità, come Dio veste Adam ed Eva, liberandoli dalla loro nudità (Gen 3,21) che offuscava la loro trasparenza di figli del Creatore. Da notare che è il padre a vestire il figlio: la dignità di figlio nessuno può darsela da solo, ma può solo essere accolta o rifiutata. Andando via di casa il figlio ripudiò, insieme al padre, la sua identità umana e filiale, ora la riceve di nuovo dal padre, l’unico a potergliela restituire.
Per il vestito nel vangelo di Lc si usano due parole: «imàtion», che vi ricorre 11 volte (Lc 5,36; 7,25; 8,35, ecc.), e «stolê», che si trova solo qui: è una di quelle parole «esclusive» e per questo hanno una importanza particolare.
Il primo termine indica un vestito generico, comune, senza alcuna connotazione particolare. Il secondo invece è il vestito «della dignità», riservato ai ministri, autorità, a chi esercita una funzione pubblica di rilievo. In questi casi la «veste-stolê» indica la dignità della persona che la indossa. Nell’Apocalisse la veste è il segno di riconoscimento dei martiri (Ap 6,11), ma è anche il distintivo della folla immensa che nessuno poteva contare (Ap 7,9.13-14) e l’abito di coloro che vogliono mangiare dell’albero della vita (Ap 22,14). Nell’Apocalisse la «veste-stolê» è il segno visibile del popolo del regno di Dio, in cui ora è riammesso il figlio ritornato da «un paese lontano» (Lc 15,13) alla casa del padre che ancora lo ama e lo amerà per sempre.
La qualifica del vestito, in italiano, è «il più bello». Il testo greco dice esattamente: «portate il vestito, il primo». Il padre non chiede di rivestire il figlio con un vestito qualsiasi, ma chiede che venga portato «quello che è primo».
L’aggettivo «prôtos-primo» ha tre significati: a) può avere valore temporale per cui significa «quello che aveva prima di andarsene» e che è stato conservato; b) può indicare la qualità del vestito, nel senso di «migliore/splendente» e quindi «il più bello»; c) nella bibbia è usato anche per definire «gli aromi migliori/preziosi», «olii raffinati» (cf Ez 27,22; Ct 4,14; Am 6,6); per cui, qualunque sia il significato, Lc nella parabola si riferisce a qualcosa di non usuale, ma di prezioso.
Per capire il comando del padre che ordina di portare il «vestito, quello migliore», bisogna tener presente che nella cultura mediorientale il «vestito» indica una dignità totale, anzi, moltiplicata: il vestito non solo era il migliore, ma è stato anche conservato per questa occasione, segno che il padre non si è mai rassegnato alla partenza del figlio. I tre significati sono intrecciati perché hanno il medesimo senso: reintegrare il figlio nella dignità filiale che il figlio aveva perduto, ma che il padre mai aveva rinnegato; il vestito è il simbolo della dignità filiale, anzi, della pienezza della dignità. Di più: è il segno della personalità, perché il vestito è prolungamento del corpo, estensione dell’anima. Nonostante la partenza, la dignità del figlio, simboleggiata dal vestito, è sempre rimasta in custodia presso il padre: il figlio dilapidava la vita in una terra impura e il padre custodiva la dignità del figlio, conservando gelosamente «il vestito, il primo».
In tutte le religioni e culture, il «rito dell’investitura» è il riconoscimento ufficiale di un servizio o incarico. Giacobbe per dimostrare l’amore di predilezione che provava per Giuseppe, figlio insperato avuto da Rachele, «gli aveva fatto una tunica dalle maniche larghe» (Gen 37,3). Il faraone per onorare di fronte a tutto l’Egitto Giuseppe, che aveva interpretato i suoi sogni e salvato l’Egitto dalla carestia, «lo rivestì di abiti di lino finissimo» (Gen 41,42).
Per affermare la dignità di Eliakìm, che Dio sceglie al posto del maggiordomo Scebnà, Isaia ci informa che è lo stesso Dio a fae l’investitura ufficiale, per bocca del profeta: «Ti toglierò la carica, ti rovescerò dal tuo posto… Chiamerò il mio servo Eliakìm… lo rivestirò con la tua tunica lo cingerò della tua sciarpa e metterò il tuo potere nelle sue mani» (Is 22,19-21). Nel libro di Ester, quando viene scoperto l’inganno di Amàn contro Mardocheo, il re chiama il primo e chiede: «Che si deve fare a un uomo che il re voglia onorare? Amàn rispose al re: “Si prenda la veste (gr. stolê) regale che suole indossare il re… si rivesta di quella veste l’uomo che il re vuole onorare….”» (Est 6,6-9). Qui la veste è un’onorificenza che attesta la benevolenza del re e riconoscimento pubblico a un uomo che agì con giustizia, anche a rischio della vita. Dai testi emerge con chiarezza che il vestito e la sciarpa sono simboli visibili di un’autorità trasmessa e ricevuta, segno di un onore tolto all’uno e concesso all’altro in forza della magnanimità di Dio.
Il figlio della parabola non si trova in nessuno dei casi biblici citati: egli non merita alcun riconoscimento o protezione; al contrario, egli merita solo disprezzo o, al limite, pena e compassione. Nulla è a suo favore, tutto è contro di lui. Possiamo meravigliarci che il padre della parabola lucana imiti il Dio di cui la scrittura descrive il comportamento? Togliendo gli stracci al figlio e rivestendolo della veste della dignità, il figlio giovane rappresenta Gerusalemme che finalmente depone «la veste del lutto e afflizione» per rivestirsi «dello splendore della gloria» di Dio (cf Bar 5,1). Il figlio che ha ricevuto la veste nuziale della dignità ora può entrare a pieno titolo nella sala di nozze e partecipare al banchetto dell’alleanza (cf Mt 22,11-12).

L’anello
Ancora oggi il sigillo dei re e dei papi è racchiuso nel simbolo di un anello. Quando un papa muore, il primo atto ufficiale, dopo la constatazione della morte, è la rottura dell’anello del pescatore, simbolo del potere e della autorità conclusi del defunto pontefice.
Nella bibbia vi sono 3 tipi di anello: a) anello-pendente (gr. hènōdrion) che si mette alle orecchie o al naso (cf Is 3,21). Il servo di Abramo, in cerca della sposa per Isacco, quando incontra Rebecca, le mette al naso un anello-pendente di «mezzo siclo» (circa 6 grammi d’oro) (Gen 24,22.47); b) anello-amo (gr.: ànkistron) che si mette alle narici delle bestie, ma anche al naso dei prigionieri di guerra come simbolo di sottomissione e schiavitù (2Re 19,28; Is 37,29; cf Am 4,2; Ez 19,4.9); c) anello da dito (daktýlios), oggetto prezioso che distingue la persona che lo indossa, come si legge nella Lettera di Giacomo: «Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro…» (Gc 2,2).
Qui l’anello è ostentazione di ricchezza, sbattuta in faccia ai poveri, ma anche segno del degrado di una comunità che si adegua ai costumi del mondo. Luca usa questo termine che prende dalla bibbia greca della Lxx e lo usa soltanto qui, per cui diventa anch’essa una parola «esclusiva» con un significato proprio e profondo.
L’anello al dito è segno di distinzione sociale, simbolo di autorità e reputazione di alto rango, un sigillo di potere. Prima ancora di dargli la veste di plenipotenziario, «il faraone disse a Giuseppe: “Ecco, io ti metto a capo di tutto il paese d’Egitto”. Il faraone si tolse di mano l’anello e lo pose sulla mano di Giuseppe» (Gen 41,41-42). Portare l’anello del faraone significa rappresentarlo in tutto il suo regno: «Io ti metto a capo di tutto il paese d’Egitto». Mettere l’anello nella mano di Giuseppe è conferirgli l’autorità del faraone che così prolunga la sua persona in colui che porta il suo anello, è la stessa cosa: ogni decisione che Giuseppe prenderà e sigillerà con l’anello ricevuto, è la decisione del faraone stesso.
L’antenata di Gesù, Tamar, che si finse prostituta per esercitare il suo diritto di madre, al suocero Giuda che la mette incinta chiede come pegno del loro incontro «l’anello (daktýlion), il cordone e il bastone» (Gen 38,18.25).
Il padre che mette l’anello al dito del figlio, non solo gli riconosce la dignità di figlio, ma gli affida nuovamente l’amministrazione della casa, come suo fiduciario. Mettendo l’anello al dito, il padre di fatto e di diritto reintegra il figlio anche nell’eredità per cui significa che questo figlio, alla morte del padre, può ereditare di nuovo. È un comportamento scandaloso, perché ancora il figlio non dà alcuna garanzia, ma il padre gli affida la cassaforte di casa. Oggi è come se un padre desse il libretto degli assegni o carta di credito sulla parola e sulla fiducia. L’amministratore di casa conserva l’anello/sigillo con cui compra quanto è necessario alla famiglia: tutti fanno credito perché egli appone il sigillo dell’anello, una garanzia sicura.
Qualcuno potrebbe obiettare: il padre è ingiusto, perché reintegra il figlio che ha sperperato tutto; ereditando di nuovo, ci rimette il figlio maggiore. Teoricamente, alla luce dei comportamenti umani, l’obiezione ha un suo fondamento, ma nulla sul piano di Dio. È la stessa situazione del padrone che chiama gli operai per lavorare nella sua vigna: pattuisce un contratto e alla fine a quelli delle 5 della sera dà la stessa paga di quelli delle 6 del mattino; accusato d’ingiustizia, risponde che egli è libero di disporre dei suoi beni con generosità «o forse tu sei invidioso perché io sono buono?» (Mt 20,1-15).
L’anello al dito ha anche un risvolto pubblico: tutti devono vedere che è il padre a reintegrare il figlio, perché d’ora in poi tutti devono riconoscere che quel figlio fuggito senza dignità, con quell’anello rappresenta il padre, e tutti gli devono tributare il rispetto che il padre merita ed esige. Questa investitura nella dignità e nella eredità si completa con la consegna dei «sandali».

I sandali
Nelle case dei nobili, solo gli schiavi vanno scalzi, mentre i padroni portano i sandali ai piedi, segno della loro autorità sulle proprietà. Camminare con i sandali significa dominare su ciò che si calpesta, perché essi sono il simbolo della persona libera e non schiava, che esercita il possesso legittimo sui propri averi. Mettere i sandali ai piedi del figlio equivale a restituirgli la libertà totale su tutta quanta la proprietà. Voleva chiedere di essere trattato come un «dipendente», il figlio perduto e ritrovato riceve la dignità di figlio (tunica), l’autorità dell’erede (anello) e la libertà di persona (sandali).
Colui che era diventato «dipendente» dei porci ora si ritrova senza sforzo a essere figlio a tutti gli effetti, uomo a cui il padre ha restituito la dignità, piena fiducia su ogni cosa e totale libertà senza condizioni. Non basta vivere in qualche modo, non è sufficiente vivacchiare, per vivere da figli sono necessarie alcune condizioni: si deve essere figli, avere la dignità, possedere la responsabilità dell’autorità. Il padre non vuole un figlio a mezzo servizio, dimezzato, tollerato: vuole un figlio nella pienezza umana e ufficiale della sua identità e quindi dei suoi affetti.
Nessuno può trattenere qualcun altro a forza o per bisogno: prima o poi scappa da dove è venuto. Il padre lo sa e, se offre al figlio la possibilità di riscattarsi, lo fa senza condizioni, ma con l’amore sconfinato che solo un padre sa nutrire. Gesù è venuto per questo: ci ha portato un vangelo che è «scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani» (1Cor 1,23), perché impariamo a pensare e vivere secondo la mentalità di Dio. Se ci scandalizziamo del suo modo di essere e agire, siamo lontani dal regno e navighiamo in un confuso mare di religiosità che esprime più i nostri bisogni che il senso della nostra fede nel Dio di Gesù Cristo, «perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8). Tutto ciò ci conduce nel NT dove Gesù «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1), senza condizioni, senza contropartita. (continua – 17)

di Paolo Farinella

Paolo Farinella




Protocolli. convenzioni, decreti …

Nazioni Unite – Unione Europea – Italia

Dalla dichiarazione dei diritti dell’uomo (1948), le iniziative legislative per combattere
la tratta di persone si sono moltiplicate a livello mondiale e di singole nazioni. Ma le normative sono spesso disattese, lasciando ampi margini alle organizzazioni criminali.

Sono almeno 4 milioni, secondo le Nazioni Unite, le donne che ogni anno vengono vendute nel mondo ai fini della prostituzione, della schiavitù o del matrimonio e circa la metà sono bambine tra i 5 e i 15 anni, che vengono introdotte nel mercato del sesso. Di queste donne e ragazzine circa 2 milioni arrivano in Europa occidentale; la metà proviene dai paesi dell’Est.
Si tratta tuttavia di dati approssimativi e incerti, vista la natura clandestina e illegale del traffico e la mancanza, in molti paesi, di legislazioni adeguate contro la tratta delle persone. Del resto, molti governi ancora non dedicano abbastanza risorse alla prevenzione e alla repressione del fenomeno e le vittime stesse, dal canto loro, sono restie a denunciare i propri sfruttatori alle autorità, anche in presenza di legislazioni che potrebbero tutelarle.
Il fenomeno ha conosciuto un vero e proprio boom a partire dagli anni ‘80, quando migliaia di donne straniere hanno cominciato a riversarsi in Europa in fuga da condizioni di povertà, miseria, guerra… E ha continuato a crescere negli anni ‘90, assumendo proporzioni mondiali. In particolare il traffico delle ragazze nigeriane si è consolidato su nuove rotte, che le ha portate sempre più in Italia, con base e centro di smistamento a Torino. Ma il fenomeno in Africa non riguarda unicamente la Nigeria, anche se in questo paese la tratta mantiene le proporzioni più vaste e drammatiche.
Secondo l’Oim, l’incremento del traffico di donne nel continente si fa sempre più preoccupante e coinvolge circa 500 mila donne l’anno.

Nel 2000, le Nazioni Unite hanno pubblicato un nuovo Protocollo  per prevenire, reprimere e sanzionare la tratta di persone, specialmente di donne e bambini, a integrazione della Convenzione Onu contro la delinquenza organizzata transnazionale  (http://www.hrlawgroup.org/initiatives/trafficking persons/).
Ma già nel 1949 era stata promulgata una Convenzione (entrata in vigore nel 1951) per la soppressione del Traffico di persone e dello sfruttamento di altre persone ai fini della prostituzione. Per la prima volta, in un documento internazionale, si dichiarava che la prostituzione e il traffico di persone sono incompatibili con il valore e la dignità dell’essere umano, in quanto pongono in pericolo il benessere dell’individuo, della famiglia e della comunità.
L’articolo 3 del Protocollo del 2000 definisce la tratta di persone come «la captazione, il trasporto, l’accoglienza o la ricezione di persone, facendo ricorso alla minaccia, all’uso della forza o ad altre forme di coazione, al rapimento, alla frode, all’inganno, all’abuso di potere o di una situazione di vulnerabilità, o alla concessione o al ricevimento di pagamenti o benefici, per ottenere il consenso di una persona che abbia autorità su di un’altra ai fini dello sfruttamento di quest’ultima».
Nel marzo dello scorso anno, sempre le Nazioni Unite hanno lanciato la Global Iniziative to Fight Human Trafficking (Iniziativa globale per combattere il traffico di esseri umani, Un.Gift – www.ungift.org), che cornordina varie agenzie dell’Onu, al fine di prevenire e combattere la tratta, e assistere e riabilitare le vittime del traffico di esseri umani non solo finalizzato allo sfruttamento sessuale.
Lo scorso febbraio, Un.Gift ha organizzato a Vienna il primo Forum globale sul tema, al fine di creare maggior consapevolezza del problema e promuovere partnership e collaborazione tra i vari soggetti che lavorano in questo ambito.
Sempre a livello di Onu, oltre alla Dichiarazione universale dei diritti umani, diverse Dichiarazioni e Programmi di azione delle principali Conferenze mondiali contengono principi e normative di riferimento, a cui i diversi governi sono chiamati ad adeguarsi, senza tuttavia creare obblighi dal punto di vista giuridico. È così che vengono spesso disattesi e lasciano ampio margine alle organizzazioni criminali per i loro traffici.

Anche l’Unione Europea si è mossa per combattere il fenomeno della tratta e il primo febbraio 2007 è entrata in vigore la Convenzione del Consiglio d’Europa, in seguito alla ratifica da parte di Cipro, decimo stato a siglarla. Secondo Terry Davis, segretario generale del Consiglio, «la Convenzione usa intenzionalmente la mano forte nei confronti dei trafficanti e fa la differenza per le vittime, che beneficeranno di un grande aiuto a tutela dei loro diritti fondamentali».

Per quanto riguarda l’Italia, esistono due leggi di riferimento: l’articolo 18 del Decreto legislativo 286/98 – strumento di lotta a forme di violenza e di sfruttamento nei confronti degli immigrati – e l’articolo 13 della legge n. 228/2003, che riguarda la tratta di esseri umani e la riduzione in schiavitù. Entrambi prevedono l’avvio di un percorso di protezione sociale, qualora la persona oggetto di violenza o reato denunci il fatto. L’articolo 18, inoltre, prevede – sia in seguito alla denuncia che in situazioni di particolare rischio – il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Spesso, però, là dove non esiste una buona collaborazione tra le associazioni del privato sociale e le questure, quest’ultime tendono a rilasciare il permesso di soggiorno solo in seguito a una denuncia. Cosa che molte ragazze non vogliono o non possono fare per paura o perché minacciate. I trafficanti hanno un enorme potere di ricatto, non solo sulla ragazza in Italia, ma sulla sua famiglia nel paese d’origine.
Anche per questa ragione il percorso di uscita dalla strada e di ri-socializzazione delle ragazze con il coinvolgimento di comuni, associazioni e case di accoglienza è sempre lungo, complesso e articolato e incontra molte difficoltà di attuazione, spesso per mancanza di volontà, mezzi e cornordinamento tra coloro che lavorano in questo campo. Intanto, i trafficanti perfezionano le vie e gli strumenti della tratta.
Il Dipartimento per i diritti e le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha bandito dal 2000 al 2007 il progetto «Avvisi», finalizzato alla realizzazione di programmi di protezione sociale. Complessivamente sono stati finanziati, su base nazionale, 490 progetti che hanno assistito 11.541 persone, di cui 748 minori. Secondo il rapporto Caritas/Migrantes 2007, «le persone che nel corso di questi anni sono entrate complessivamente nell’ambito di operatività dei progetti e hanno ricevuto una prima assistenza, raggiungono le 45.331 unità e sono per la quasi totalità donne vittime di sfruttamento sessuale».
L’Osservatorio sulla prostituzione e sui fenomeni delittuosi ad essa connessi del Ministero dell’interno – di cui fanno parte molte espressioni della società civile, dalla Caritas al Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca) – ha pubblicato il suo primo rapporto il 2 ottobre 2007: una fotografia della situazione, degli interventi e una serie di proposte per fronteggiare il fenomeno (www.interno.it, sala stampa, documenti). «Lo sfruttamento della prostituzione, anche minorile – vi si legge -, è l’attività principale dei gruppi criminali nigeriani e rappresenta il maggiore strumento di autofinanziamento per lo sviluppo di altri traffici o di attività commerciali, quali “African market”, beauty center, ristoranti, discoteche e altri luoghi di ritrovo…».
Infine, è stata promossa una Campagna informativa nazionale dal titolo: «Tratta no!… Ora lo sai», una collaborazione tra il progetto europeo «Tratta no!», in partnership con il Ministero per i diritti e le pari opportunità (www.trattano.it).

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




Nuovi «samaritani»… in rete

Religiose in campo contro il traffico di donne e minori

Impegnata nella lotta alla tratta dal 1993, Suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata, dal 2000 è responsabile nazionale del settore «Tratta donne e minori» dell’Usmi (Unione superiore maggiori d’Italia), con il compito di  cornordinare il lavoro di altre religiose, organizzare incontri formativi, creare reti di collaborazione con forze pubbliche e private, per meglio conoscere il problema e delineare strategie per contrastarlo.

La tratta di esseri umani a fini di sfruttamento sessuale, gravissima violazione dei diritti della persona umana, costituisce un problema di portata mondiale che coinvolge, sprona e stimola tutte le forze, laiche e religiose che operano in questo campo, a unirsi per individuare strategie adeguate a salvaguardia della dignità e della sacralità di ogni persona.
L’impegno, in questo campo, delle religiose italiane appartenenti alla Usmi (Unione superiore maggiori d’Italia, che raccoglie 627 congregazioni femminili, in Italia e all’estero, e contano 83 mila membri) è cresciuto negli ultimi anni, di pari passo con l’impegno della società civile e delle istituzioni.
Nel 2000 è stato creato un apposito ufficio «Tratta di donne e minori», per cornordinare il servizio di moltissime religiose – attualmente circa 250 in Italia che lavorano in 110 strutture – che, cogliendo la sfida di una nuova forma di schiavitù, avevano dato risposte immediate in questo settore. Infatti, le congregazioni religiose, insieme alle Caritas diocesane e a gruppi di volontariato, furono tra le prime a leggere il fenomeno negli anni ‘90 e a offrire a queste donne, in buona parte albanesi e nigeriane, soluzioni alternative allo sfruttamento sessuale sulle strade.
Quasi subito, le congregazioni hanno messo a disposizione di queste giovani vittime, che si ribellavano contro gli sfruttatori, alcune delle loro strutture, per accoglierle e per offrire protezione e aiuto per un nuovo progetto di vita.
In questi ultimi anni il fenomeno ha cambiato volti, rotte, modalità, così come sono cambiati gli interventi di contrasto e di recupero delle vittime, ma rimane costante il rischio di sfruttamento della donna e la conseguente riduzione in schiavitù a causa della sua vulnerabilità. Per questo, il lavoro dell’Usmi in Italia è diventato alquanto ampio e articolato.
C omincia dalla strada, dove apposite unità, insieme a gruppi parrocchiali, prendono un primo contatto con le vittime. Sono stati inoltre creati centri di ascolto, predisposti ad accogliere i problemi delle donne in cerca di aiuto. Numerose sono le comunità di prima e seconda accoglienza per progetti di reintegrazione sociale; complessivamente, sono un centinaio le case-famiglia gestite da religiose per programmi di reintegrazione umana, sociale e legale.
Molte strutture accolgono anche madri con bimbi o donne incinte, per proteggerle e salvaguardare il dono della vita nascente. Generalmente il numero delle ospiti non è mai superiore a sette e la permanenza varia dai 12 ai 24 mesi, il tempo necessario per un reinserimento sociale adeguato e in piena autonomia. Vengono, inoltre, proposti corsi di lingua, di formazione professionale e avviamento lavorativo.
Spesso viene foita anche un’assistenza legale, per permettere a queste donne di reperire tutta la documentazione necessaria per uscire dalla clandestinità e ottenere il permesso di soggiorno. Questo lavoro è svolto in collaborazione con le ambasciate per ottenere i dovuti documenti di identificazione.
Dall’inizio della nostra collaborazione in questo settore, oltre 2 mila passaporti sono stati rilasciati alle nostre organizzazioni dalla sola ambasciata della Nigeria.
Infine, viene offerta assistenza umana, psicologica e spirituale alle donne che si trovano in attesa di espulsione nel Centro di permanenza temporanea di Roma (Ponte Galeria), dove si alternano, ogni sabato pomeriggio, 14 religiose di 8 nazionalità e 11 diverse congregazioni.

Da parecchi anni l’Usmi lavora in collaborazione con alcune Conferenze delle religiose dei paesi di origine delle ragazze trafficate, specie in Nigeria, Romania, Albania e Polonia, per rafforzare la rete già esistente in tutto il mondo grazie alla presenza capillare di tante comunità religiose, che cercano di informare del rischio, contrastare il fenomeno e gestire l’emergenza attuale.
Diversi corsi di formazione professionale per religiose sono stati organizzati in questi paesi, in collaborazione con l’Uisg (Unione internazionale superiore maggiori), l’Oim (Organizzazione internazionale delle migrazioni) e l’Icmc (Commissione internazionale delle migrazioni cattoliche).
Lo scorso ottobre è stato organizzato a Roma un importante convegno internazionale, a cui hanno partecipato 33 religiose provenienti da 26 paesi, con lo scopo di allargare la rete e la collaborazione tra quelle che vivono nei paesi di origine e quelle che sono nei paesi di destinazione delle ragazze trafficate.

Il ruolo delle religiose, in un ambito così delicato, è quello di offrire a tante giovani la possibilità di essere aiutate a ritrovare la voglia di vivere e di ricominciare anche un percorso spirituale e di fede più approfondito, che le aiuti a liberarsi dalle catene dei pregiudizi e della superstizione.
Nonostante la terribile esperienza vissuta, possono ancora recuperare un ruolo attivo nella famiglia e nella società, testimoniare della possibilità di rinascita in ogni situazione e collaborare alla creazione di un mondo più umano e rispettoso della dignità di ogni persona.

Di Eugenia Bonetti

Eugenia Bonetti




Periferia della periferia

Qui Milano: reportage dalla capitale del «mercato»

Nella capitale economica e finanziaria italiana anche le nigeriane non sfuggono alla legge del mercato, che le relega in un ghetto di vessazioni e umiliazioni. La complessa organizzazione mafiosa che le gestisce rende difficile alle forze dell’ordine di comprendere il fenomeno e alle organizzazioni impegnate nella lotta al racket di aiutarle a liberarsi.

La Binasca di notte è il girone infeale delle ragazze nigeriane. Specialmente nel tratto Carpiano-Siziano, periferia sud di Milano. In gruppo, mezze nude, o nude del tutto, accanto a focherelli per strappare un po’ di calore nelle gelide notti d’inverno. Stanno alla periferia della periferia, ai margini di un mondo spietato, che seleziona e marginalizza anche gli ultimi tra gli ultimi. Anche chi è già così disperato da essere costretto a vendere il proprio corpo.
VECCHIE NUOVE MAFIE
La gerarchia della strada è crudele e spietata. Nella capitale economica e finanziaria italiana, neppure le ragazze sfuggono alla ferrea legge della domanda e della offerta. Al centro le più «redditizie», brasiliane soprattutto, ma anche italiane, est-europee, addirittura giapponesi, gestite da mafie potentissime. Lavorano sempre più negli appartamenti e nei club e prendono appuntamenti tramite siti specializzati. Lo scorso anno sono stati calcolati almeno 15 mila annunci del genere.
Poi, uscendo dalla città, lungo le strade provinciali che a raggiera si allontanano dal centro, si incontrano via via quelle più a «buon mercato»: moltissime est-europee e, sempre più lontane, le nigeriane. Tutte oggetto di violenza e mercificazione del corpo. Spesso in condizioni di vera e propria schiavitù.
A Milano, la mafia storica era quella sudamericana, scalzata poi da quella albanese e dell’Est europeo. Anche perché gestire i giri di prostituzione in città costa: richiede «investimenti» (soprattutto in appartamenti) che i nigeriani non fanno. In strada, tutto costa meno: il joint (il posto) come pure la ragazza. Una nigeriana è costretta a svendere il proprio corpo al massimo per 20 euro, spesso anche meno. Il debito che devono rimborsare, però, raggiunge cifre spaventose: mediamente dai 50 ai 60 mila euro, a volte anche di più. E inoltre devono pagare alla maman l’affitto, il cibo, gli abiti «da lavoro», nonché offrirle regali costosi, in cambio di un trattamento più umano. Altrimenti, finiscono col subire anche in casa i soprusi e violenze che già sopportano in strada.
E anche se la mafia nigeriana è ritenuta meno violenta di quella albanese o est-europea, non sono rari i racconti di stupri a opera dei trafficanti, di torture e violenze fisiche e verbali. Spesso le ragazze vengono obbligate a lavorare anche quando sono malate o in gravidanza o ad avere rapporti sessuali non protetti; se rimangono incinte vengono costrette ad abortire (alcune parlano addirittura di una dozzina di aborti!) o vengono sottratti loro i figli e usati come strumenti di ricatto.
«PICCOLE NIGERIE» ITALIANE
C hiuse in questo mondo di vessazioni e umiliazioni, vivono in Italia, ma per certi versi potrebbero essere ovunque. Sanno a malapena qualche parola di italiano; fuori dalla strada, vivono in una sorta di ghetto, mangiano il loro cibo, usano i loro prodotti per l’igiene, si procurano le medicine tradizionali, vanno persino nelle loro chiese… In alcune trovano conforto, in altre incontrano pastori, o sedicenti tali, coinvolti nella tratta, che danno giustificazioni «mistiche» o «spirituali» all’incubo che stanno vivendo. «È Dio che lo vuole!» si convincono.
Rinchiuse nelle loro «piccole Nigerie» italiane, non si mischiano, fanno vita a parte. L’unico fine sono i soldi: money, money, money. Un chiodo fisso, the big issue!
«Agli inizi degli anni Novanta – spiega Palma Felina, responsabile del settore donne vittime di tratta di Caritas ambrosiana -, era possibile trovare le ragazze nigeriane sulla circonvallazione intea di Milano. Ora sono sempre più fuori città. Questo per un insieme di fattori: per gli interventi della polizia, ma soprattutto in seguito alle lotte tra le diverse mafie che gestiscono le ragazze. Così le nigeriane sono state sempre più allontanate dal centro. Ora è possibile trovarle nelle zone industriali periferiche o in provincia. Sono lì soprattutto di notte, ma nell’hinterland sono costrette a lavorare anche di giorno. Alcune sono in strada da più anni, nonostante il tu-over. Oggi le spostano con più frequenza, per evitare che possano legare tra di loro o cercare rapporti particolari con qualche cliente».
La gestione del territorio è cruciale per chi sfrutta questo traffico aberrante. Soprattutto da quando è in atto un processo di «diversificazione» negli appartamenti e nei night-club. Le nigeriane, però, sono rimaste sempre in strada, in alcuni posti «storici» fuori città e sempre più nelle periferie e in provincia.
Secondo le ultime statistiche disponibili dell’Osservatorio permanente sulla prostituzione, risalenti al 2006, nelle case di accoglienza lombarde, il 35,2% delle ragazze ospitate sono rumene, il 33,3% nigeriane. In percentuali molto minori moldave, albanesi, uzbeke, ukraine e russe. Oltre la metà non ha alcun titolo di studio formale o ha il diploma di scuola elementare. Nei loro paesi d’origine erano disoccupate o svolgevano lavori saltuari in condizioni di grande precarietà. Il 70% è nubile, mentre il 30% ha uno o più figli.
«Circa l’80% – aggiunge suor Claudia Biondi, cornordinatrice del settore Aree di bisogno di Caritas ambrosiana – dice di non aver saputo che una volta in Italia sarebbe stata costretta a prostituirsi. Quasi tutte sono state ingannate o aggirate, mentre un 10% è stata vittima di violenza o rapimento. Negli ultimi anni è aumentato il numero delle ragazze nigeriane sempre più giovani, sia perché soddisfano le esigenze dei clienti sia perché sono più facilmente controllabili e manipolabili dai loro sfruttatori».

SEMPRE PIù GIOVANI,
PER BATTERE LA CONCORRENZA
In Lombardia la presenza delle nigeriane è piuttosto significativa e numericamente stabile, mentre è cresciuto negli ultimi anni il numero delle ragazze provenienti dall’Europa dell’Est e in particolar modo dalla Romania. Recentemente, è aumentata, sia sulla strada che in appartamento, la presenza di ragazze latinoamericane (e in particolare brasiliane). E, negli ultimi mesi, si cominciano a vedere in strada ragazze orientali e in particolare cinesi.
«Le ragazze nigeriane dicono tutte di avere 18 anni, ma moltissime hanno l’aria di ragazzine» fa notare Valerio Pedroni, responsabile del settore donne in condizioni di fragilità sociale di Segnavia, una struttura legate ai padri Somaschi. Gestisce cinque unità di strada, un drop in, un progetto in-door, case di prima e seconda accoglienza. Il tutto finalizzato a togliere le ragazze dalla strada e offrire percorsi di recupero che diano loro una nuova chance di vita.
«Molte di loro vivono tra Milano e Torino – continua – e si riversano la sera sulle strade della periferia milanese. È difficile stabilire un contatto con loro. Spesso sono in gruppo e non si riesce ad avere un rapporto personale; sono diffidenti, ed è difficile andare al di là di un contatto superficiale che può essere facilitato dalla loro esuberanza, ma che spesso non va molto in profondità. Inoltre, alcune maman che le gestiscono e le controllano, a volte sono in strada pure loro; le minacciano e le scoraggiano dall’avere contatti con persone che non siano i clienti. E poi loro stesse, essendo numerose e dunque dovendo lottare con una vasta “concorrenza”, non sono molto disponibili a “perdere tempo” con degli sconosciuti».

VINCERE LA DIFFIDENZA
«In passato – aggiunge Palma Felina -, a fronte di una presenza in strada significativa, erano poche le nigeriane nelle case di accoglienza. Avevano paura a denunciare, specialmente se non avevano ancora finito di pagare il loro debito. Quelle che decidevano di scappare non andavano nelle strutture di accoglienza, si aiutavano tra di loro. Non si fidavano di altri. Negli ultimi anni, invece, arrivano più numerose. Molte sono seguite in progetti territoriali. Alcune scappano, perché non ce la fanno più, prima di aver finito di pagare il debito. Dopo la denuncia, vengono portate lontano dai luoghi in cui hanno vissuto e lavorato. Ma spesso non dormono e si ammalano. Mostrano segni visibili di malessere e di traumi non solo fisici, ma anche psicologici».
In alcuni casi si allontanano dalla strada grazie a un ex-cliente che si è affezionato loro e che le aiuta. Ma i matrimoni di comodo non rappresentano la principale via d’uscita delle nigeriane; è molto più diffuso tra ragazze di altre nazionalità. In Italia molte sono state regolarizzate attraverso le sanatorie (comprese alcune madame!). Sempre di più sono quelle che denunciano i loro sfruttatori e che in base all’articolo 18 ottengono il permesso di soggiorno umanitario (cfr. p. 40).

STRUMENTI INADEGUATI
Tuttavia, gli strumenti legali paiono ancora inadeguati per combattere il problema alla radice. Sia perché in Italia le forze dell’ordine e le procure non hanno abbastanza mezzi per far fronte alla complessità della tratta, sia perché a livello nigeriano c’è una totale impunità.
«La mafia nigeriana – spiega Gianluca Epicoco, sostituto commissario della squadra mobile di Cremona, che da 12 anni svolge indagini e ricerche in questo ambito – è complessa e stratificata. Al livello più basso si trovano le maman, che rappresentano l’ultimo nodo di una rete che si dipana tra l’Italia e la Nigeria. A un livello intermedio, il potere passa agli uomini che gestiscono la logistica del traffico da Benin City a Lagos e da lì all’Europa, soprattutto Parigi, ma anche Amsterdam e Madrid per poi arrivare a Torino. Poi, a un livello più alto, troviamo i veri e propri trafficanti, che stanno in Nigeria: una struttura ben organizzata, potente, ramificata, con molti contatti, capace di corrompere ad alti livelli, con legami con governi e ambasciate, e addentellati in tutta Europa. Una vera e propria associazione a delinquere, in grado di trafficare documenti e visti, oltre che ragazze, su scala trans-nazionale. Di fronte a una simile organizzazione, spesso noi non abbiamo né le risorse umane né i mezzi necessari per fronteggiarla e combatterla adeguatamente». 
Un nuovo escamotage escogitato da qualche anno è quello della richiesta di asilo politico all’arrivo in Italia, magari spacciandosi per sierralionesi, liberiane o avoriane. Le ragazze vengono allora portate in appositi centri di prima accoglienza, da dove alcune scappano subito. Altre presentano la domanda alle questure, dove ottengono un foglio per richiedente asilo e da quel momento, sino al termine della valutazione della loro richiesta, non possono essere espulse.
Sempre di più, tuttavia, queste ragazze arrivano con storie molto plausibili, ma tutte uguali, che imparano a memoria e recitano davanti alle forze dell’ordine, facilmente smascherabili da chi ha un po’ di esperienza e conoscenza del problema, nonché dei luoghi di origine.

In Lombardia sono 34 le associazioni, i gruppi, gli enti che si occupano di queste donne e di tutte quelle che subiscono umiliazioni e violenze, vendendo il loro corpo. Oggi lavorano sempre più in rete per provare a restituire loro la dignità e riconsegnare il destino nelle loro mani.

di Anna Pozzi

Anna Pozzi




Donne in frantumi

Nigeria-Italia: storie di ragazze abusate e rimpatriate

Sono partite con un sogno; sono tornate svuotate del loro essere donna, rifiutate, giudicate, condannate…
con ferite profondissime, difficili da rimarginare. 

Joy lo ripete senza tregua. Con veemenza e desolazione. Con violenza, ma anche con le lacrime che le si affacciano agli occhi. «Mi dovete risarcire di tutto il male che mi avete fatto!». Sempre la stessa frase, ossessionante, che esonda dalla palude di sofferenza, paura, rabbia e dolore, che si porta dentro. Una ragazza spezzata. Come le altre. Ma lei continua a urlarlo fuori.
È stata rimpatriata a Lagos dall’Oim. Lo ha scelto lei quando forse non aveva più altra scelta. Prima era passata da Brescia e da Roma; l’hanno ospitata le suore di Nostra Signora degli Apostoli a Roma e l’hanno seguita al centro di ascolto Caritas della capitale. Aveva ottenuto il permesso di soggiorno a Brescia, ma non aveva futuro in Italia.
A suor Erma Marinelli, delle suore di Maria Riparatrice, non pare vero di rivederla lì, a Lagos. L’ha seguita per quasi sei mesi alla Caritas Roma. Una ragazza particolarmente problematica. Ha fatto impazzire tutti. «Quando veniva da noi, urlava, faceva scenate incredibili. L’abbiamo mandata da un medico e da uno psicologo. Ma lei ripeteva: “Non sono matta”. E già allora continuava a ripetere: “Mi dovete risarcire di tutto il male che mi avete fatto!”. Pensavamo che avesse subìto abusi e violenze in strada. Ma non sapevamo ancora tutto».
Joy racconta di aver fatto qualche lavoretto, la badante soprattutto. Ma non dice che resisteva a malapena un mese o poco più. Racconta di essere stata ospitata dalle suore e poi in un ostello Caritas. Ma non dice che anche lì aveva sempre problemi. Non dice soprattutto il dramma che ha rovinato la sua esistenza, ancor più della sua vita in strada, la vergogna che l’ha marchiata per sempre. «È probabile che le abbiano fatto girare un film poografico – racconta suor Erma -. Ogni tanto vi faceva allusione, urlando con rabbia frasi oscene, sbattendoci in faccia con violenza la peggiore delle violenze che aveva subìto. Un dramma da cui non si è più ripresa».
L’hanno convinta a rientrare in Nigeria, con un rimpatrio organizzato dall’Oim. Prima, però, ha chiesto alla famiglia se i soldi che le avrebbero dato (1.500 euro) erano sufficienti per essere di nuovo accettata a casa. «Hanno detto di sì – ricorda suor Erma -. E per lei è stata come una liberazione. Ha cambiato atteggiamento. Ha riacquisito un po’ di dignità. Non rientrava a mani vuote e sapeva che c’era qualcuno ad attenderla. Ma niente sarà mai abbastanza per risarcirla davvero di tutto il male che ha subìto».

Anche in Blessed si intuisce che c’è qualcosa di inesorabilmente infranto. Ha 37 anni ed è ancora una bella donna, alta e slanciata, avvolta in un elegante abito tradizionale. Ha un viso dolce, ma gli occhi sono spenti, persi.
È rientrata in Nigeria quattro anni fa, dopo avee passati undici in Italia. È tornata dai suoi figli, dice, che oggi hanno 23, 22 e 18 anni. Li aveva lasciati in Nigeria per andare in Italia a «lavorare». «Pensavo di andare a fare la cameriera o la parrucchiera – racconta – e invece…».
Della vita in strada non vuole ricordare nulla. Parla, con un italiano stentatissimo e lo sguardo un po’ assente, dei luoghi dove è stata e dei luoghi comuni: la gente che è simpatica, la pasta e la pizza che ora non mangia più. «Era un po’ dura in Italia – dice quasi scheendosi -, ma anche qui non è facile».
Da quando è tornata non ha più relazioni con i genitori. Le suore di Nostra Signora degli Apostoli hanno cercato di metterli in contatto, ma i suoi parenti non vogliono più sapee di lei. Neppure la figlia maggiore. Gli altri due le sono vicini e le suore l’hanno assunta per fare le pulizie in una biblioteca. Ma non è del tutto lucida e ha bisogno continuo di medicine.
«Quando vedo la disumanizzazione che comporta il fatto di vendere se stesse per sopravvivere dico che tutto questo non è giusto, e che dobbiamo lottare per mettere fine a questo traffico vergognoso». Eric Okoje, avvocato, è tra i fondatori del Cosodow, il Comitato per il sostegno della dignità della donna, creato dalle religiose nigeriane. E anche se da quasi dieci anni lavora in questo settore non smette di provare rabbia e indignazione.
«È un’ingiustizia intollerabile quella di ridurre una persona in schiavitù – denuncia -. Quando vedi che tante famiglie sono toccate direttamente o indirettamente da questo dramma, inevitabilmente ti interroghi. Sul loro futuro e sul futuro di questo paese. Perché dobbiamo permettere di rendere schiava una generazione di nostri giovani? È una generazione persa. Per questo dobbiamo lottare con tutti i mezzi per impedire che questo continui. Ma non è facile. Perché c’è un problema di povertà, di impunità e anche di perdita dei valori. Se non ci sono fondamenti non si può costruire nulla. Ma è difficile far passare un messaggio a una persona che ha fame. Non ascolta: ascolta il suo stomaco».

Faith viene da un villaggio poverissimo di Ondo State ed è tra quelle che ha ascoltato questo grido. Suo e della sua famiglia. E si è fidata, come molte, di un cugino, uno zio, un parente, che faceva promesse che non si potevano rifiutare.
Nel suo caso è stato lo zio che le ha detto che l’avrebbe portata in Europa. Erano un gruppo di 85 ragazze e 72 ragazzi; sono partiti via terra, attraversando il Niger e poi tutto il deserto del Sahara sino all’Algeria. Da qui in Marocco. «Non c’era niente da mangiare né da bere – ricorda Faith -. Siamo rimasti quattro mesi nel deserto e nove in Marocco. Tre di noi sono morte attraversando il Sahara, uno in Marocco. A quel punto sono voluta tornare indietro, ma so che altri tre sono morti nel Mediterraneo».
In Marocco, racconta, erano stati tutti rinchiusi in due stanze, una per i ragazzi e una per le ragazze.
«Non volevo fare la prostituta – dice -; ho detto che volevo tornare, ma non volevano lasciarmi andare. Sono riuscita a scappare e sono andata dalla polizia. Quelli mi hanno picchiata, ma poi mi hanno portata all’aeroporto e rispedita in Nigeria. Quando sono tornata ho trovato mio zio che stava preparando un altro viaggio. E voleva che partissi di nuovo. Ma questa volta ho detto di no».
Ora Faith è a Benin City dove sta cercando un lavoro. Ha conosciuto le suore che si occupano del problema della tratta e che la stanno aiutando a continuare gli studi. «Vorrei diplomarmi in business administration, trovare un buon lavoro e guadagnare un po’ di soldi per me e la mia famiglia che è rimasta al villaggio».
R ose, invece, è tornata ad Akure, ed è ospite di un convento, ma porta ancora addosso uno dei segni della vita che si è lasciata alle spalle in Italia: due lenti a contatto blu, che spiccano come due fanali sul suo volto scuro e un po’ triste. Voltare pagina non è facile, dicono le suore che l’hanno in custodia. Ha 21 anni ed è una ragazza alquanto problematica. I segni di quello che ha subìto non sono così evidenti come quelle lenti a contatto, ma sono scolpiti indelebilmente nella sua anima.
Rose è giovane e può ancora farcela. Soprattutto se le sarà offerta una qualche chance di riscatto. Come è successo a Kathy.

Kathy, oggi, ha 26 anni. È stata tra le prime a tornare a Benin City, nel 2000. Lei però la strada l’ha solo «sfiorata». Alla famiglia avevano detto che l’avrebbero portata in Europa. In Italia ci è arrivata passando dalla Francia. Poi è finita a Roma, ma lei non sapeva neppure dove fosse.
«Mi tenevano rinchiusa nella casa di una maman – racconta -. Poi, un giorno, mi hanno affidata a un’altra ragazza perché mi portasse al lavoro. Non mi avevano detto di cosa si trattasse esattamente, ma lo avevo intuito. E così, mentre eravamo sull’autobus, sono scappata e sono salita su un altro bus. Non sapevo dove stessi andando. Quando ho sentito una campana, sono scesa e ho cercato la chiesa e un prete. Due donne mi hanno aiutata a trovarlo. È stato gentile e mi ha accompagnata in ambasciata, ma era già chiusa. Allora mi ha portata in una casa di accoglienza delle suore. Io non parlavo italiano. Loro non parlavano inglese. Hanno chiamato suor Eugenia Bonetti». Da lì è partita tutta una serie di contatti e collegamenti che hanno riportato Kathy in Nigeria e che le hanno permesso di tornare a Benin City dove sister Florence e le sue consorelle l’hanno accolta. Kathy è una ragazza intelligente e volonterosa. Ha ripreso gli studi e si è diplomata in business economy. Lo scorso anno, poi, è riuscita a prendere una laurea in psicologia. «Ora vorrei aiutare le altre ragazze che hanno vissuto l’esperienza della tratta e che sono state meno fortunate di me». Il suo, almeno, non è stato un viaggio a senso unico.

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




Si è mosso anche lo stato

A Lagos: un centro di accoglienza governativo

Un gruppo di ragazze si intreccia reciprocamente i capelli. Lo spazio è un po’ angusto, manca luce, ma l’atmosfera non è cupa. Sono tutte giovanissime, certamente hanno meno di 20 anni. Una di loro, solo un poco più grande, cerca di dare qualche consiglio e mantenere un po’ d’ordine. Sono tutte vittime della tratta queste ragazzine che imparano a fare le parrucchiere. Intercettate all’interno della Nigeria o nei paesi limitrofi. La polizia le ha condotte in questo stabile, che assomiglia un po’ a una casa di accoglienza, un po’ a una prigione.
Si trova alla periferia di Lagos ed è stato aperto nel dicembre 2004, grazie alla collaborazione dei governi italiano e statunitense. È gestito dalla National agency for the prohibition of traffic in persons and other related matters (www.naptip.com), l’agenzia del governo nigeriano che opera contro il traffico – interno ed esterno – non solo di donne, ma anche di minori per scopi diversi: prostituzione, lavoro domestico, lavoro agricolo… Ha sei dipartimenti a Lagos, Benin City, Enugu e Sokoto.
Lo scopo è quello di accogliere, reintegrare e riabilitare le vittime, dar loro assistenza legale e sensibilizzare la popolazione sul problema. La grande sfida è quella di perseguire i trafficanti.
«Sono stata rimpatriata dal Burkina Faso – spiega Jessica, la ragazza che insegna alle alunne-parrucchiere. Ero stata portata lì con la promessa di continuare il viaggio, ma intanto ero costretta a lavorare. Io non volevo restare, così sono andata dalla polizia. Poi l’ambasciata mi ha fatta tornare in Nigeria». Dopo il periodo di counceling e riabilitazione, Jessica ha deciso di rimanere nella struttura del Naptip per aiutare le altre ragazze che hanno vissuto un’esperienza simile alla sua. Attualmente ce ne sono una trentina (ma può ospitae sino a 120), la maggior parte sono ragazze, ma c’è anche qualche ragazzino. Sono quasi tutti minorenni. Altre 10 sono state rimpatriate dal Burkina Faso, uno dei paesi-cerniera, lungo le rotte che, spesso via terra, portano verso il Nordafrica.

Dai loro racconti emerge uno spaccato sul mondo della tratta e le sue innumerevoli varianti. Una dice di avere 13 anni e che la mamma sta in Francia e lei stava cercando di raggiungerla. Un’altra racconta di essere partita insieme a un gruppo di amici, senza sapere esattamente per dove. Non aveva niente con sé, solo i vestiti che portava addosso. Sono giovani, sprovvedute, sognatrici. Fuggono da situazioni di miseria verso un vago miraggio, che spesso si trasforma in incubo.
I responsabili del centro raccontano di un altro gruppo di ragazze molto giovani; tutte sono state trafficate all’interno del paese, e portate a Lagos, la maggior parte per essere avviate alla prostituzione.
Ci sono anche tre bambini trafficati in Nigeria dal vicino Benin per lavorare come domestici. Il Naptip sta collaborando con l’ambasciata beninese per ricongiungerli alle loro famiglie. Spesso i genitori sono poverissimi e senza istruzione, e vengono facilmente aggirati e ingannati con promesse di soldi e d’istruzione per i loro figli, che invece si ritrovano rinchiusi dentro le case dei padroni in condizioni di vera e propria schiavitù.
«Da quando siamo aperti, abbiamo accolto circa 700 ragazzi e ragazze – spiega Godwin E. Morka, capo dell’ufficio Naptip di Lagos -. A tutti viene offerta la possibilità di un periodo di riabilitazione e una breve formazione. Per le ragazze si tratta spesso di un corso per parrucchiera. Mediamente restano dalle due alle sei settimane. Chi rimane di più è perché in tribunale ha in corso un processo contro i trafficanti».
«E se hanno problemi di salute – continua – facciamo anche un controllo medico. Se sono malate vengono trasferite al vicino reparto dell’ospedale militare». Morka non ne parla esplicitamente, ma il riferimento è chiaro. Molte, specialmente quelle che rientrano dall’estero, sono sieropositive o con Aids conclamato: una malattia-tabù, da queste parti, di cui si parla troppo poco e non si fa abbastanza per prevenirla e curarla.

Dalla struttura del Naptip le ragazze non possono uscire né ricevere visite, perché in passato si sono presentati trafficanti o madame, spacciandosi per i loro parenti. Una donna è stata scoperta e arrestata. Ma complessivamente l’attività di investigazione e avvio di procedimenti penali contro i trafficanti è alquanto carente. Alcune ragazze, poi, hanno il terrore di essere avvelenate. Sanno che i loro «protettori» temono di essere denunciati e che è gente senza scrupoli, capace di tutto.
Ma le ragazze non si fidano neppure del governo nigeriano né di qualsiasi altra istituzione ad esso legata. E, dunque, anche la vita e gestione di questo centro sono alquanto complesse e problematiche.
Per non parlare poi dei problemi che si pongono quando vengono rimpatriate dall’estero. «I governi europei – spiega Morka – quando espellono le ragazze sono in contatto con l’immigrazione nigeriana, ma non specificano chi sono le vittime e chi i trafficanti. Specie dall’Italia spesso tornano in gruppo, ammanettate come criminali, mischiate a trafficanti di droga, clandestini, delinquenti veri… Sono rimpatriati tutti insieme. Talvolta il volo diventa l’occasione per intrecciare contatti e organizzare nuove partenze».
Gli operatori del Naptip, inoltre, non hanno accesso all’aeroporto per accogliere le ragazze. A volte ci sono le famiglie ad aspettarle, ma è raro, soprattutto se non rientrano con un rimpatrio volontario e sono senza soldi e dunque si vergognano di farsi vedere a mani vuote. Sempre, però, ci sono i trafficanti, pronti a offrire «assistenza» alle ragazze, per poi farle rientrare nel giro.
All’immigrazione – ci dicono – non sempre operano persone preparate e adatte a fare questo lavoro e spesso c’è molta corruzione. Non è raro, poi, che le madame e i trafficanti corrompano i poliziotti per rimettere le mani sulle ragazze. «La situazione non favorisce la collaborazione e la possibilità di avvicinarle per offrire aiuto – continua il responsabile del Naptip -. Il lavoro di cooperazione è estremamente difficile. Anche quando vengono rimpatriate volontariamente dall’Oim, a volte vengono portate nel nostro centro, altre volte vanno direttamente nelle loro città o si disperdono qui a Lagos. Le ragazze non si fidano di nessuno quando tornano, ma spesso non vogliono andare a casa a mani vuote e cercano nuovamente di arrangiarsi come possono. Così diventano estremamente vulnerabili e rischiano di ricadere facilmente nelle reti di gente senza scrupoli».

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




Un «rifugio» per ricostruire il futuro

Casa di accoglienza a Benin City

I loro nomi spesso contengono un messaggio di speranza, un affidarsi a Dio: Blessed (Benedetta), Faith (Fede), ma anche Joy, Destiny… Eppure le loro storie parlano d’inferno. L’inferno della tratta di esseri umani, giovani donne, spesso poco più che bambine, comprate e vendute, sbattute sulle strade d’Italia, dove vengono usate e abusate per pochi euro. Sono loro, adesso, a riempire con le loro voci squillanti, i colori accesi dei loro abiti e un’immancabile e simpatica confusione, le stanze ancora tutte nuove dello shelter inaugurato l’11 luglio dello scorso anno a Benin City.
È qualcosa di più di una casa di accoglienza: è un rifugio e allo stesso tempo qualcosa di dirompente per il contesto di Benin City. Un luogo che dice che le ragazze possono tornare e devono essere accolte. Che quello della tratta non è un viaggio a senso unico. C’è, anche se raramente e spesso drammaticamente, un ritorno. È un luogo bello e difficile questo shelter, perché dice quello che le parole sin qui non hanno detto o hanno detto molto poco: la tratta esiste. Ecco queste ragazze, ecco le prove.
Il potere simbolico, si sa, in Africa è molto forte. E questa casa di accoglienza per donne vittime della tratta – rimpatriate volontariamente o espulse dall’Europa e specialmente dall’Italia – costruita proprio nel cuore della città che ne alimenta più di qualsiasi altra il traffico, ha il sapore intenso di una sfida: ai tabù, all’omertà, anche alla paura.
«Sono anni che lavoriamo a questo progetto e finalmente ne vediamo il compimento» dice suor Eugenia Bonetti, visitando lo shelter appena inaugurato. La religiosa ci ha davvero creduto molto e non si è fermata di fronte a nessun ostacolo. «Ci sono voluti quattro viaggi e una grande determinazione per realizzare questo progetto. Ma soprattutto c’è voluta la collaborazione di molte persone che hanno condiviso questo sogno».
Alcune di loro erano lì anche per l’inaugurazione. Lo scorso anno, infatti, una delegazione italiana si è recata sino a Benin City, per esprimere la propria vicinanza a questo progetto e rinsaldare i legami di cooperazione che già esistono tra Italia e Nigeria. Il gruppo era tutto al femminile (con un’unica eccezione): donne che con le ragazze trafficate hanno condiviso un pezzo di cammino, quello che dalla strada le ha condotte verso una vita nuova. Donne che lottano con coraggio, tenacia e amore per altre donne. Sono le suore delle molte case di accoglienza che in Italia ospitano e aiutano queste giovani nigeriane. Si sono recate sin lì per rendersi conto di persona del contesto da cui vengono le «loro» ragazze e per condividere la gioia dell’apertura di una casa che non è molto diversa da quelle in cui loro stesse operano, ma che è molto più vicina ai luoghi da cui provengono e a cui provano a ritornare.

I
nfatti, uno degli obiettivi fondamentali dello shelter è accogliere temporaneamente le ragazze che rientrano per preparare adeguatamente il loro ritorno in famiglia.
A questo scopo è fondamentale il lavoro che svolgono le suore nigeriane sul posto. «Loro stesse – spiega suor Eugenia – negli anni ‘90, hanno cominciato a rendersi conto del problema. Le abbiamo invitate in Italia, hanno visto con i loro occhi dove finivano le ragazze e si sono confrontate con le suore che lavorano qui da noi. Poi, hanno deciso di fare qualcosa».
«Sino ad ora – spiega sister Florence – accoglievamo le ragazze che tornavano in Nigeria nei nostri conventi. Ma non è facile, né per loro né per noi. Non sono più abituate a rispettare alcuna regola, sono disorientate, spesso disperate. Molte hanno disturbi mentali; alcune vengono rifiutate dalle famiglie. C’era bisogno di un luogo appropriato dove potessero stare per un po’ e che permettesse a noi di accompagnarle nel modo più adeguato».
Non sta ferma un momento sister Florence. È sempre impegnata su più fronti con inesauribile energia. Avvocato di formazione, ha fatto di questa lotta contro la tratta e per il recupero delle vittime la sua ragione di vita. Nel ’99, è stata tra le fondatrici del Cosodow (Comitato per il sostegno della dignità della donne), un’organizzazione voluta dalla Conferenza delle religiose nigeriane. Con lei lavorano altre suore, sia a Benin City che a Lagos (dove le ragazze vengono rimpatriate), oltre a due avvocati e molti volontari.
«Il nostro è un lavoro delicato e rischioso – ammette – perché, da un lato, si tratta di ricostruire la vita e la dignità di persone fortemente traumatizzate, sottoposte a una violenza disumanizzante; dall’altro, perché andiamo contro gli interessi di molte persone che su questa tratta vergognosa hanno costruito un enorme business».

La realizzazione di questo shelter è un passo incoraggiante, innanzitutto perché è il frutto della collaborazione di più enti e istituzioni della chiesa. Il terreno è stato acquistato da Caritas italiana, la costruzione è stata realizzata grazie a un finanziamento della Cei (dell’8 per mille), il cantiere è stato seguito da un salesiano, don Vincenzo Marrone. A ciò va aggiunto tutto il lavoro che è stato fatto sul posto dalle suore nigeriane, che non hanno mai smesso di accogliere le ragazze nei loro conventi, di collaborare con le famiglie e sensibilizzare la popolazione. Ora, questo lavoro di network ha un nuovo fondamentale punto di riferimento: la Casa di accoglienza di Benin City.
La struttura prevede l’ospitalità per un numero massimo di 18 ragazze. «Non di più – spiega sister Florence -, perché vorremmo creare il più possibile un clima di famiglia e perché le ragazze hanno bisogno di molte attenzioni specifiche e di tanto lavoro. Su di loro e sulle loro famiglie».
Molte si trovano davvero in una situazione di emergenza. Anche quelle che rientrano volontariamente (pochissime in verità), grazie ai programmi dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), spesso hanno enormi problemi a reinserirsi. Peggio ancora quelle espulse, che si ritrovano a casa loro senza un soldo e con addosso la vergogna di un fallimento.
Non poche presentano problemi psicologici, alcune vere e proprie patologie. «Spesso – spiega la religiosa -, specialmente all’inizio, vengono rifiutate dalle famiglie, non sanno dove andare, rischiano di finire nuovamente nelle mani di trafficanti o di persone senza scrupoli. Per questo hanno bisogno di una particolare attenzione e protezione».
Tra i primi ospiti dello shelter c’è Jody che segue sister Florence come un’ombra. È da poco rientrata nel suo paese, ma è come se fosse stata catapultata su un altro pianeta. È disorientata, un po’ assente… La sua famiglia, dice, è in un villaggio lì vicino, ma lei non può tornare. Abbassa gli occhi Jody, fatica a raccontare. E allora sister Florence si allontana e spiega: «Non può tornare perché non la vogliono. Sono arrabbiati, delusi. Jody rappresentava la loro unica fonte di reddito. Non so fino a che punto erano coscienti di quello che faceva in Italia. Sta di fatto che per loro significava un guadagno sicuro, ora invece è diventata solo un peso di cui farsi carico».
Sister Florence tuttavia non è pessimista. Sa che ci vuole tempo per tessere di nuovo dei legami. Intanto, aiuta Jody a imparare un mestiere e a cavarsela da sola. Almeno ora ha una casa. In futuro si vedrà…

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




Qui Benin City: reportage

Introduzione

In quasi tutto il mondo, l’8 marzo è la «festa della donna», una giornata per celebrare le conquiste sociali, politiche, economiche delle donne e, al tempo stesso, sensibilizzare la pubblica opinione sui problemi che pesano ancora oggi sulla condizione femminile. Milioni di donne, infatti, non hanno nulla da festeggiare, né possono rivendicare alcun diritto, soprattutto le vittime della prostituzione coatta, la peggiore schiavitù. Il dossier di questo mese, vuole richiamare l’attenzione su queste vittime, in particolare le nigeriane, trafficate e prostituite sulle strade italiane.
Missioni Consolata si è già occupata del problema con un numero speciale di ottobre-novembre 2005, «Prezzo di Mercato», poi pubblicato come libro dalla Emi nel 2006, e ritorna ad occuparsene in questo dossier, poiché il fenomeno della tratta delle nigeriane è in crescita; la situazione delle vittime sempre più tragica; l’indifferenza più scandalosa che mai.

Il dossier è frutto di una ricerca sul campo e viene pubblicato in contemporanea, tutto o in parte, dalle altre riviste Fesmi (Federazione stampa missionaria italiana). Autrice e fotografa (che hanno accompagnato in Nigeria un gruppo di religiose e laiche impegnate nella lotta allo sfruttamento di donne e minori) raccontano quanto hanno visto: complessità del problema, storie di donne liberate da tale schiavitù, impegno di chiesa e stato per prevenire l’esodo delle vittime della tratta e soccorrerle in caso di rimpatrio.
La seconda parte descrive la situazione delle nigeriane in Italia, particolarmente nell’area milanese, e le iniziative in corso, soprattutto da parte delle congregazioni religiose femminili, per aiutarle a uscire dall’inferno dei marciapiedi e guarire le ferite inflitte alla loro dignità. Il lavoro già fatto contiene segni di speranza.
Per richiamare l’attenzione e la responsabilità di tutti, è in fase di allestimento una mostra fotografica, che visualizza la tragedia delle nigeriane in Italia e nel loro paese di origine. (BB)

Qui Benin City: reportage

Sono oltre 30 mila le ragazze nigeriane costrette a prostituirsi sulle strade italiane. All’origine del dramma c’è un intreccio perverso fatto di affari e corruzione, inganni e ricatti, violenze e ignoranza, stregoneria e… tanta miseria. Una sfida immane, a cui qualcuno sta rispondendo con iniziative di prevenzione, sensibilizzazione e accoglienza
delle ragazze che tornano a casa.

«S iamo qui a Benin City per lottare contro il traffico vergognoso di migliaia di ragazze che vengono portate via con l’inganno e sono costrette a prostituirsi sulle strade italiane. Ragazze ridotte in schiavitù. Ragazze usate e abusate…». «Dai vostri uomini!».
Suor Eugenia Bonetti denuncia; l’Oba contrattacca. Lei è una missionaria della Consolata, cornordinatrice dell’Ufficio contro la tratta di esseri umani dell’Unione delle superiore maggiori italiane (Usmi). Lui è il re di Benin City, discendente di uno dei regni più potenti dell’Africa occidentale, che ancora oggi conserva un’autorità enorme su questa fetta di Nigeria, dove gli uomini della politica e dell’amministrazione nulla possono senza il suo accordo. Quello dell’Oba è un potere tradizionale e reale, si nutre di occulto e s’impone su questioni molto concrete. Compresa quella delle donne trafficate in Italia per essere sfruttate sessualmente.
VERGOGNA GLOBALE
Nello scambio di battute tra lui e suor Eugenia c’è la sintesi di questo vergognoso business fatto sulla pelle di ragazze spesso giovanissime. Un business che si regge su un meccanismo consolidato di domanda e offerta. E che si snoda tra la Nigeria e l’Italia lungo le vie della tratta, gestite da mafie inteazionali ben organizzate ed efficienti, spesso non adeguatamente perseguite.
Oggi il «commercio» di donne a fini di sfruttamento sessuale è, secondo l’Onu, la terza attività illegale più redditizia al mondo (dopo il traffico di armi e di droga), con un giro di affari stimato attorno ai 12 miliardi di dollari l’anno.
Merce di consumo di una società edonista e mercantile, la donna diventa, da un lato, «capitale» finanziario da sfruttare da parte di organizzazioni malavitose senza scrupoli, dall’altro, oggetto di soddisfazione di desideri e perversioni.
Le chiamano prostitute, quando va bene. Più spesso sono additate con i vocaboli più dispregiativi. In Liguria sono ancora le bagasce, come lo scarto della lavorazione della canna da zucchero. Peggio dei rifiuti, in un immaginario collettivo che ipocritamente getta loro addosso disprezzo e pregiudizio. Come se fosse una libera scelta quella di vendere il proprio corpo. Per molte di loro è una vera e propria schiavitù. Vittime della povertà e dell’ingiustizia, di una vita che non è degna di essere vissuta, innanzitutto nei loro luoghi d’origine, molte di queste ragazze si ritrovano ingannate da promesse fittizie, dal miraggio di un’esistenza migliore, di un altrove fatto di benessere e felicità: finiscono col ritrovarsi schiave sessuali, in una situazione di vulnerabilità e povertà ancora peggiore di quella da cui vengono, sradicate in un paese straniero, clandestine, senza identità né dignità.
Le chiamano prostitute, ma sarebbe meglio dire prostituite. Costrette a vendere se stesse, corpi-merce di un traffico che ha preso la forma intollerabile di una delle peggiori schiavitù contemporanee.
DONNE CORAGGIO
Suor Eugenia, 69 anni, originaria di Bubbiano, in provincia di Milano, si occupa del problema da molti anni. Eppure non finisce mai di indignarsi e scandalizzarsi. Il grido d’aiuto di una ragazza nigeriana, 15 anni fa a Torino, le ha aperto uno squarcio su un abisso di miseria, sfruttamento e violazione della dignità della donna. «Sister, help me! Suora, aiutami!». Quel grido ha continuato ad accompagnarla anche quando è diventata, nel 2000, responsabile dell’Ufficio tratta dell’Usmi e ha cominciato a lottare senza risparmiarsi per mettere in rete tutti coloro che si battono contro questo «commercio» di esseri umani al fine di promuovere un’azione più concordata ed efficace.
Oggi, suor Eugenia è un punto di riferimento importante di una rete di realtà inteazionali. E non è un caso se, nel corso della visita di stato nel giugno del 2007, Laura Bush, moglie del presidente Usa, ha voluto incontrare a Roma questa religiosa, che pochi mesi prima, in marzo, aveva ricevuto dal Dipartimento di stato americano il premio «Donna Coraggio».
«Ci sono ancora circa 30 mila ragazze nigeriane sulle strade italiane – denuncia suor Eugenia davanti all’Oba e ai notabili di Benin City – costrette a prostituirsi per pagare un debito assurdo: 50, 60, anche 80 mila euro. A volte, anche di più! Ci vogliono anni prima che riescano a riscattarlo. Alcune muoiono, altre vengono uccise. E in molte di loro si spezza qualcosa dentro. Per sempre. Dobbiamo dire basta a questo sfruttamento inumano. Ma dobbiamo farlo tutti insieme».
L’Oba annuisce. Lui sa e potrebbe fare molto, perché sta nel cuore del cuore del problema. È infatti la massima autorità tradizionale di Benin City, la città da cui proviene la stragrande maggioranza delle ragazze trafficate in Italia. È qui il centro di quell’intricato intreccio di business e traffici, di azioni legali e riti tradizionali, di finanza e stregoneria, che ne è all’origine: un giro di favori e minacce, ricatti e doni, troppo vasto e complesso perché anche chi sa possa o voglia fare davvero qualcosa.
Qualcuno però ci sta provando. Come sister Florence Nwaonuma delle suore del Sacro Cuore, una congregazione diocesana di Benin City, responsabile del Comitato per il sostegno della dignità della donna (Cosodow), un’organizzazione voluta dalla Conferenza delle religiose nigeriane. Fondato nel 1999, insieme a due avvocati e altri volontari, il Comitato svolge un importante e delicato lavoro di prevenzione, sensibilizzazione e accoglienza delle ragazze che ritornano. Non senza difficoltà.
La prima è parlarne. Lo ammette la stessa sister Florence, che peraltro ha sia la stazza che il carattere di chi non si lascia facilmente mettere a tacere. Pure lei è avvocato, ed è venuta a Benin City per occuparsi del problema proprio là dove ha origine.
«Facciamo moltissima sensibilizzazione, a tutti i livelli – dice suor Florence -: parrocchie, scuole, amministratori, affinché si sappia innanzitutto cosa sta succedendo.  Dopo tutti questi anni, dopo migliaia di ragazze trafficate, non si può più far finta di niente, come se questo fenomeno non esistesse. Eppure c’è ancora molta omertà, a volte per paura, a volte per interesse. Noi lavoriamo soprattutto per creare una coscienza del problema e per provare a cambiare i comportamenti».
SPECCHIO DI CONTRADDIZIONI
Una bella sfida, in un contesto che certamente non aiuta. La Nigeria in generale, e Benin City in particolare, sono oggi lo specchio di un’Africa che sta cambiando in maniera impressionante e caotica. Un’Africa dove restano forti alcuni riferimenti tradizionali – la famiglia, il villaggio, valori e norme di comportamento, ma anche superstizioni e stregoneria – e dove sempre più si impongono stili di vita e modelli culturali di tipo occidentale, spesso legati a logiche consumistiche e materialiste. Il connubio talvolta è un ibrido inquietante. Come a Benin City, città di più di un milione di abitanti a circa 350 chilometri a est di Lagos, dove la povertà diffusa ed evidente stride in maniera sconcertante con alcuni simboli di ricchezza e potere ben esibiti: Suv americani ultimo modello, campi da golf col prato all’inglese, ville sontuose protette come fortezze. E lì accanto, il degrado di una città decadente, sporca, le strade disseminate di buche grandi come voragini, le case troppo spesso simili a baracche fatiscenti…
La vita qui costa poco e non vale quasi niente. Bastano pochi spiccioli per mangiare il solito piatto di riso e pesce secco, ma per pochi spiccioli una famiglia può «vendere» il proprio bimbo come domestico nelle case di chi sta un po’ meglio. Di lavoro non ce n’è ed è difficile capire come la gente riesca a cavarsela. C’è sempre un gran via vai di persone in strada, nei mercati, ovunque. Una miriade di attività «informali», ma di lavoro vero e proprio poco o nulla.
Forse nell’amministrazione pubblica, che finisce tuttavia col diventare il ricettacolo di amici, parenti, persone a cui si deve un favore. Come al Museo nazionale, dove almeno cinque persone «lavorano» all’ingresso, tra la cassa e l’albo delle presenze, non facendo praticamente nulla. Del resto, siamo gli unici visitatori da chissà quanto tempo. Una rarità. Peccato che anche le rarità che sono nelle teche, oggetti preziosissimi e antichi, risalenti al prestigioso regno di Benin, siano praticamente invisibili perché la maggior parte delle luci non funziona.
Che funzionano, invece, a qualsiasi ora del giorno, sono i cybercafé, ovunque affollati di giovani. È il business che va per la maggiore e infatti se ne trovano ovunque e sono sempre pieni, nonostante la connessione lentissima e precaria. Taluni sono veramente angusti e i ragazzi stanno ammassati l’uno accanto all’altro. Alcuni cercano una scuola o un lavoro all’estero; le ragazze chattano con «fidanzati» che sperano di raggiungere in Europa, altri – i cosiddetti yahoo-boy – si sono specializzati in truffe telematiche e trafficano con migliaia di indirizzi… Tutti paiono proiettati verso l’estero, l’altrove, il paradiso immaginato, inseguito, voluto a ogni costo.
FUGA DALLA DISPERAZIONE
«Oibo! Oibo!». In strada è un continuo chiamare lo straniero che passa. «Ehi, bianco, perché non mi porti in Europa con te?». Un po’ per scherzo, un po’ sul serio, sono in molti a chiederlo.
Non sfuggono a questo meccanismo le ragazze che vengono trafficate in Europa. All’inizio venivano quasi tutte da Benin City. Ora le madame, le donne che gestiscono i traffici, e i loro corrieri rastrellano sempre di più i villaggi limitrofi, facendo balenare il sogno di un lavoro ben retribuito all’estero a famiglie estremamente povere e senza strumenti culturali per valutare il rischio a cui espongono le loro figlie. Quanto a loro, ragazze giovanissime e spesso analfabete, non aspettano altro: l’Europa, la bella vita, i soldi per loro e per le loro famiglie. Un sogno. Per il quale sarebbero disposte a tutto: a sottoporsi a un rito voudou – il ju ju (vedi riquadro) – ad affrontare viaggi spaventosi, talvolta via terra, ad accettare di pagare un debito spropositato.
«Fino a che punto queste ragazze siano coscienti di dove finiranno e a fare cosa è difficile dirlo», spiega don Vincenzo Marrone, salesiano, da 25 anni in Nigeria. È lui che ha costruito a Benin City la casa di accoglienza per quelle che rientrano volontariamente o che vengono rimpatriate.
«Questa città – spiega – vive in bilico tra l’orgoglio per un passato grandioso e un presente di decadenza e mancanza di speranza. La sua popolazione è fiera e volitiva, vuole a tutti i costi farsi un futuro, desidera una vita migliore. Sono convinto che molti sappiano dove finiscono le ragazze. Le ragazze stesse, almeno quelle della città, ne sono consapevoli; ma molte pensano che quello che è successo alle altre non potrà mai succedere a loro: e così finiscono in una trappola da cui faticano poi a liberarsi».
«Perché proprio Benin City?» si interroga padre Jude Oidaga, gesuita originario di questa città, ma che ha studiato in mezzo mondo. Il suo è uno sguardo, al tempo stesso, dall’interno e dall’esterno. «Bisognerebbe fare l’esperienza di alzarsi la mattina e non avere cibo, arrivare a sera e non avere cibo; e non avere un lavoro, né benzina, né sapone per lavarsi… Bisognerebbe fare l’esperienza di chi lotta per sopravvivere, per capire a fondo cosa spinge queste ragazze a partire a ogni costo. Ma la responsabilità della loro fuga va ricercata a un livello più alto: quello delle istituzioni e dei governi – locali, federali, inteazionali -, corrotti e inetti; quello delle politiche inteazionali ingiuste e discriminatorie, che non fanno altro che ampliare la frattura tra ricchi e poveri. E allora non andrebbero biasimate in prima istanza queste ragazze, ma innanzitutto coloro che sono responsabili della sperequazione e ingiustizia distributiva che condanna tanta gente a vivere una vita indegna».
Benin City, con il suo disordine e la sua decadenza, la sua miseria e le sue ville milionarie, è un po’ l’archetipo di molti angoli di un mondo che funziona a velocità diverse, che corre sulle autostrade di uno sviluppo accessibile a pochi e lascia indietro grosse fette della popolazione mondiale, abbandonate alle periferie di una globalizzazione che non è poi così globale. E le ragazze di Benin City – trafficate, sfruttate, abusate – sono un po’ il simbolo di questa vergogna. Che va gettata in faccia a chi le ha gettate in strada.

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




A scuola di dialogo interreligioso

«La religione è come il mago e la sibilla… Essa affronta le rovine del mondo e predice la restaurazione; di fronte al rosso-sangue del cielo, con i colori del tramonto che sprofondano nell’oscurità, profetizza l’aurora. Affronta la morte e annuncia la vita» (Felix Adler).
Mahatma Gandhi diceva che «uno studio amichevole delle religioni è un dovere sacro». Sono quindi contento di potermi dedicare allo studio comparato delle religioni, di avere l’opportunità non solo di assolvere a questo sacro dovere, ma di gustare, seppure come un semplice novizio, le ricchezze delle esperienze religiose del mondo al di fuori della sfera del cristianesimo. La realtà religiosa del mondo sta diventando sempre più pluralistica; perciò, qualsiasi religione venga professata, deve essere vissuta in un atteggiamento di incontro e dialogo con la fede del vicino.
«È arrivato il tempo in cui i contatti interreligiosi basati sulla cortesia e una conoscenza generica non sono più sufficienti. È indispensabile conoscere in profondità la religione di colui con cui si vuole dialogare» (card. Arinze). Lo studio del mondo delle religioni non consiste puramente nel cercare possibili vie di armoniosa coesistenza o pacifica interazione, ma è molto di più: è un arricchimento reciproco.
Quando lo studio delle religioni è fatto avendo in mente il dialogo interreligioso, è importante accettare che la maggioranza di tali religioni sono «i modi di vita di immense porzioni di umanità… l’espressione viva dell’anima di vasti gruppi umani. Esse portano in sé l’eco di millenni di ricerca di Dio, ricerca incompleta, ma realizzata spesso con sincerità e rettitudine di cuore. Posseggono un patrimonio impressionante di testi profondamente religiosi, di saggezza assimilata da popoli e culture. Sono tutte cosparse di innumerevoli “germi del Verbo”. Hanno insegnato a generazioni di persone a pregare, come vivere e morire, come custodire i propri defunti» (cfr Evangelii nuntiandi 53).

Infatti, il nocciolo della questione nello studio delle religioni è proprio qui: al di là dei contenuti di fede che vengono professati, esiste una realtà vissuta che è stata espressa in molti e differenti termini, come «esperienza religiosa», «esperienza spirituale», «esperienza divina», «esperienza del sacro, del trascendente, delle potenze divine» ecc. Nella tradizione abramitica possiamo chiamarla «esperienza di Dio».
Questa vasta gamma di «esperienze religiose», senza ignorare la realtà dell’errore umano, è una profonda, autentica e onesta avventura spirituale, che costituisce il cuore della storia umana di tutte le generazioni che si sono succedute nel tempo e nelle differenti situazioni geografiche. E poiché nessuno può pretendere di avere una completa e perfetta esperienza di Dio, lo studio delle differenti tradizioni religiose non può che arricchire la nostra limitata esperienza.
Noi non comprendiamo a pieno l’universo; non possiamo parlare della morte senza conoscere la vita. Almeno finché esistiamo, c’è una ragione per cui siamo al mondo. E la nostra volontà di credere in questa ragione più ampia ci aiuta ad agire in compagnia delle «potenze divine». E per affrontare la morte bisogna diventare collaboratori di cielo e terra nella creazione di un universo migliore: un traguardo raggiungibile se siamo aperti alle esperienze religiose altrui.
Lo studio delle religioni è di grande importanza anche nella stessa teologia cristiana. Senza raggiungere una prospettiva comparativa mondiale, la teologia cristiana non può né conoscere totalmente le proprie forze, né corroborare le sue debolezze. Per questo, la teologia cristiana ha bisogno di essere fondata sullo studio comparato delle religioni.

Il dialogo interreligioso è uno dei principali traguardi dello studio delle religioni. È importante nel nostro tempo inculcare nella mente della gente la «cultura del dialogo». «Il dialogo come attività umana e umanizzante – afferma il gesuita Raimond Panikkar, uno dei più grandi filosofi e teologi viventi – non è mai stato così indispensabile in tutti gli ambiti della vita quanto nel nostro tempo di individualismo accademico. Tutto il nostro loquace parlare di “villaggio globale” si effettua su paraventi artificiali sotto chiave».
Pace e coesistenza armoniosa della gente sono minacciate da estremismo e terrorismo. Per questo in tutto il mondo c’è un risveglio tra le persone di buona volontà, impegnate in uno sforzo di creare un’atmosfera di  amicizia e cordialità verso le religioni altrui.
Il traguardo da raggiungere nel dialogo interreligioso è, a sua volta, quello di rimuovere le nostre maschere religiose, che non hanno nulla a che fare con la vera esperienza religiosa. Il vero dialogo religioso ha luogo solo quando raggiunge le profondità delle intime credenze religiose e affronta gli interrogativi fondamentali sul senso della vita. Quando le maschere sono rimosse una ad una e siamo immersi nel dialogo con tutta la nostra persona, allora emerge qualcosa dal di dentro e comincia il «dialogo interreligioso».
A conclusione, riporto un poetico sermone di Panikkar, che contiene alcune linee-guida fondamentali per il dialogo interreligioso:
«Quando intraprendi un dialogo interreligioso, non pensare in anticipo ciò che devi credere.  Quando testimoni la tua fede, non difendere te stesso o i tuoi interessi acquisiti, per quanto ti possano apparire sacri. Fai come gli uccelli del cielo: essi cantano e volano, e non difendono la loro musica o la loro bellezza. Quando dialoghi con qualcuno, guarda il tuo interlocutore come un’esperienza rivelatrice, come tu vorresti (e dovresti) guardare il giglio nei campi. Quando prendi parte a un dialogo interreligioso, cerca di rimuovere la trave dal tuo occhio prima di togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo prossimo. Beato te, quando non ti senti autosufficiente mentre stai dialogando. Beato te, quando hai fiducia dell’altro, perché confidi in Dio. Beato te, quando affronti incomprensioni dalla tua stessa comunità o da altri per amore della tua fedeltà alla verità. Beato te, quando non abbandoni le tue convinzioni e tuttavia non le poni come norme assolute». 

di Peter Njoroge Githaiga

Peter Njoroge Githaiga