Indipendenza piena

Intervista a un rappresentante del movimento tibetano indipendentista

Mentre il Dalai Lama chiede alla Cina l’autonomia del Tibet, il Movimento internazionale per l’indipendenza del Tibet (Itim) lotta per la piena indipendenza, non solo dell’attuale Regione autonoma del Tibet (Rat) ma anche per i tibetani presenti in altri stati della Cina, come Amdo e Khamdo.

S ongtsen è il re che per primo, nel vii secolo, riuscì a unire il Tibet in un’unica nazione. Ma è anche colui che, sposando una principessa cinese, gettò le basi affinché la Cina potesse rivendicare la sottomissione della regione alla dinastia Tang.
Oggi Songtsen è il soprannome che il rappresentante a Lhasa del governo tibetano in esilio si è dato. È giovane e idealista. Forse troppo, tanto da contestare lo stesso Dalai Lama e la sua «morbidezza» mostrata, rigettando l’indipendenza del Tibet a favore di una maggiore autonomia.
Songtsen è anche il rappresentante dell’Inteational Tibet Independence Movement (Itim).

I tibetani a Dharamsala si dividono tra autonomisti e indipendentisti. Che idea prevale qui nel Tibet?
Il Dalai Lama si è trasformato in politico e il suo governo è un governo fatto di monaci-politici. Noi rigettiamo l’idea dell’autonomia, che costringerebbe i tibetani a sottomettersi agli Han. Vogliamo inoltre un’indipendenza di tutte le popolazioni tibetane, non solo del Tibet politico, ma anche dell’Amdo e del Khamdo.

E come pensi di raggiungere questi obiettivi? Non c’è nazione che appoggerebbe politicamente la vostra richiesta. I movimenti pro Tibet in Europa e in America sono assolutamente tutti pro Dalai Lama.
Quando guardo le manifestazioni davanti alle ambasciate di Cina in Europa o in Usa, vedo che tutti i manifestanti portano cartelli con la scritta Free Tibet. Free Tibet, hai capito? Non Autonomy for Tibet. Penso che siano stati conquistati dalla figura del Dalai Lama, ma che lottino per qualcosa a cui il Dalai Lama non crede più.

Tibet indipendente vorrebbe dire tornare al Tibet anteguerra? Era un Tibet violento, dove Panchen Lama e Dalai Lama si fronteggiavano con propri eserciti, devastando le campagne… Un Tibet ben lontano dall’idea di nazione pacifica e mistica che abbiamo in Occidente.
No, non vogliamo tornare a quel Tibet. Non vogliamo il feudalesimo, il ritorno all’aristocrazia, alle lotte fra i vari monasteri. Ciò che vogliamo è salvare il meglio della nostra cultura. Un Tibet non chiuso in se stesso. Se il Tibet fosse stato più aperto e avesse allacciato rapporti diplomatici e di amicizia con altri stati, forse la Cina non avrebbe potuto invaderci così facilmente.

Il Dalai Lama vorrebbe per il Tibet il ritorno a uno status politico come quello assicurato da Mao Zedong tra il 1950 e il 1959. Molti tibetani sarebbero d’accordo.
Perderemmo però la nostra identità. Noi vogliamo essere gli artefici del nostro futuro. Ogni popolo ha il diritto di vivere nella sua terra come desidera. Possiamo avere rapporti di buon vicinato con la Cina, ma non vogliamo che sia Pechino a dirci quello che dobbiamo fare.

Eppure c’è stato un miglioramento delle condizioni di vita dei tibetani grazie alla Cina.
Ma sempre sulla base delle esigenze di Pechino. Non ci servono infrastrutture, case modee, industrie inquinanti. Gli Han hanno comprato tutto. Non siamo padroni di nulla.

È esattamente quello che gli indiani di Dharamsala lamentano nei confronti dei tibetani: con i milioni di dollari che arrivano dalle varie associazioni, fondazioni, governi, i tibetani sono divenuti proprietari di gran parte di Dharamsala, relegando gli indiani a cittadini di serie B.
La soluzione sarebbe fare rientrare questi tibetani dal loro esilio. Ma solo con la totale indipendenza potremo convincerli.

Che ruolo avrebbe il Dalai Lama in un vostro ipotetico governo?
Ne sarebbe il capo, esattamente come lo sono stati i Dalai Lama precedenti. Non possiamo perdere una figura così rispettata. È il nostro passaporto per il mondo. 

Di Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali

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