Rinascere … si può

Remolino compie 20 anni

In 20 anni di vita, la parrocchia di Remolino ha lanciato la sfida alla guerriglia e narcotraffico, proponendo alternative legali alla coltivazione della coca. Le comunità disseminate nella foresta amazzonica stanno maturando una nuova coscienza, ma il cammino è ancora lungo.
Anche quest’anno si è realizzato il «mistero pasquale», cioè, il passaggio dalla situazione di «passione» alla speranza di una esistenza più umana e dignitosa.

Mi trovavo nell’ufficio parrocchiale, situato a ridosso della chiesa, quando sentii dei bambini gridare; mi diressi verso la chiesa per vedere che cosa stesse succedendo e mi trovai di fronte tre fratellini: un bambino di 5 anni e due bambine di 7 e 9 anni. Stavano facendo un gioco che piace a tutti i bambini: gridare per sentire l’eco della voce riflessa dalle pareti della chiesa.
Mi avvicinai e, prendendo per mano il più piccino, li invitai a entrare in chiesa, li accompagnai vicino all’altare, di fronte al tabeacolo, alla presenza di Gesù nell’eucaristia.
«Dove ci troviamo?» domandai loro. «Nella chiesa» risposero in coro. «E chi c’è qui in chiesa?» continuai. «C’è Gesù!» esclamarono insieme. «E dov’è Gesù?» insistetti. «Lì» risposero senza esitazione, indicando il crocifisso appeso al centro del presbiterio.
Non volli «rovinare» la loro risposta, che mi parve la più naturale, per una popolazione che soffre oppressioni e ingiustizie. Li invitai a pregare insieme a me. Fecero il segno della croce con molta devozione e tutti insieme recitammo il Padre nostro.
L’emozione è forte e, grazie a questi bambini, mi rendo conto come questo popolo ha dentro di sé sete di Dio e di spiritualità, anche se molte volte si lascia trasportare da una religiosità popolare ricca di superstizione che lo rende cieco.
20 ANNI DI SFIDE
L’episodio che ho voluto ricordare fa parte del programma pastorale del nostro vicariato di San Vicente per il 2008: celebriamo infatti l’«anno dell’eucaristia», ispirandoci al testo dei discepoli di Emmaus: «E lo riconosciamo allo spezzare del pane». Per celebrare tale evento con iniziative concrete, ci siamo trovati con un gruppo di persone, che non oso chiamare «consiglio parrocchiale»: la nostra comunità non è ancora una parrocchia ben definita, anche se ha compiuto 20 anni di vita.
Giuridicamente, infatti, l’istituzione della parrocchia di Remolino e la nomina del primo parroco portano le date rispettivamente dell’1e 2 gennaio del 1988. Alla fine dello stesso anno padre Giacinto Franzoi si stabiliva definitivamente come fondatore e parroco della parrocchia di Sant’Isidoro Lavoratore in Remolino del Caguán.
Già da una decina di anni, salvo un breve periodo trascorso in Italia impegnato nell’animazione missionaria, padre Giacinto si recava periodicamente in questa remota zona, che apparteneva alla parrocchia di Cartagena del Chairá, per prendersi cura dei contadini che migravano nella foresta amazzonica in cerca di sopravvivenza.
Il nuovo parroco arrivava nel piccolo paese senza avere un piede a terra: per anni è vissuto in un bugigattolo in affitto e celebrato la messa nell’arena destinata alle lotte dei polli. Ma le sfide più grandi erano date dal clima di conflitto causato dalla presenza della guerriglia e dal boom della coltivazione della coca.
Fin dai primi mesi padre Giacinto ha dovuto difendere la gente di questo territorio durante il primo attacco armato da parte dell’esercito nazionale, che considerava gli abitanti di questo paese tutti guerriglieri. Il suo intervento presso il comandante riuscì a far liberare molti contadini, incarcerati per la semplice colpa di vivere in questo territorio.
Immediatamente padre Franzoi si preoccupò di liberare i suoi parrocchiani da un’altra schiavitù: quella della coltivazione della coca e conseguente narcotraffico. E lanciò la famosa campagna «No alla coca, sì al cacao», partendo da Milano, al tempo del cardinal Martini, e estendendola con notevole successo in tutta l’Italia. Con gli aiuti raccolti padre Giacinto poté attuare una serie di proposte alternative: coltivazioni di cacao e caucciù, allevamento del bestiame, piantagioni di frutta amazzonica, cornoperative di vario genere, fabbrica di cioccolato Chocaguan e altri derivati dalla trasformazione del cacao…
A tali iniziative se ne aggiunsero altre di carattere formativo a favore dei contadini della zona, senza trascurare le necessarie strutture parrocchiali: costruzione della casa per i missionari, una bellissima chiesa ottagonale, un efficiente oratorio per tutte le attività ricreative e formative per la comunità di Remolino e di quelle dei 40 villaggi sparsi nel territorio parrocchiale.
Poi vennero progetti speciali, come l’acquedotto con acqua potabile e il centro di formazione e studio per accogliere i giovani dei villaggi più lontani che vogliono continuare a studiare nella scuola superiore statale del paese.
Poche righe per riassumere 20 anni di impegno missionario, ma sufficienti per descrivere come questa missione, sperduta nella foresta amazzonica, ha acquistato una propria identità di parrocchia e di comunità cristiana. Merito certamente dell’indefesso lavoro di padre Giacinto e degli altri missionari che lo hanno coadiuvato, tra cui padre Giuseppe Cravero che ha speso otto anni in questa missione; senza dimenticare i tanti laici e laiche passati da qui. Tra tutti ricordiamo il signor Paolo Vianello di Bolzano: a Remolino ha fatto i primi passi nella collaborazione missionaria, per poi continuare in altre località del vicariato di San Vicente.
La parrocchia oggi
Attualmente la parrocchia di Remolino è ricca di personale, se confrontata con gli anni passati. C’è naturalmente padre Giacinto, che, con i suoi 30 anni di esperienza nella regione del Caguán, è il nostro punto di riferimento, sempre pronto a orientarci nelle nostre iniziative.
Negli ultimi anni sono arrivate a Remolino tre Hermanas de la Paz (suore della pace), una congregazione nata in Colombia nel 1950, negli anni in cui scoppiava l’ondata di violenza che insanguina ancora il paese. Sono suore che hanno desiderato essere presenti in questo territorio di missione, totalmente nuovo per loro, ma che rispondono al loro carisma: le tre sorelle, infatti, sono specializzate nella creazione di gruppi impegnati nella costruzione della pace interiore, familiare e comunitaria, mediante l’educazione scolastica e il lavoro pastorale.
Dallo scorso ottobre è con noi Beatriz Sierra, una missionaria laica colombiana che si occupa della parte amministrativa della parrocchia, segue vari progetti in corso, è impegnata nella pastorale caritativa e, al tempo stesso dà una mano nella catechesi, specialmente nel preparare i bambini alla prima comunione.
Tutti insieme formiamo l’équipe pastorale; ma cerchiamo di coinvolgere più persone possibili. Per questo organizziamo incontri aperti a tutti coloro che vogliono partecipare e cerchiamo di creare gruppi e comitati che si occupano di settori specifici della vita della comunità.
Per meglio vivere e celebrare l’anno dell’eucaristia siamo riusciti a creare un nuovo gruppo che si dedica all’animazione della liturgia domenicale. Ogni venerdì ci raduniamo e riflettiamo sulla parola di Dio della domenica seguente e, con il metodo della lectio divina, prepariamo la celebrazione del giorno del Signore.
Settimana Santa
Un consolante risultato del nostro lavoro è stata la partecipazione della gente di Remolino alle celebrazioni della settimana santa, soprattutto il venerdì santo, dove tutti, ma proprio tutti, hanno collaborato attivamente alla preparazione della via crucis. È stato un evento alquanto speciale, anche perché, per la prima volta da quando sono in Colombia, la celebrazione è avvenuta sotto una pioggia torrenziale, dall’inizio alla fine. Ma la gente ha accolto tutto questo come un sacrificio da offrire al Signore per i peccati propri e del mondo.
Alla stessa sera, secondo la tradizione locale, la gente si è radunata di nuovo in chiesa per riflettere sulle cosiddette «ultime 7 parole di Gesù». Riflessioni preparate da alcune persone del paese, che hanno incarnato la passione di Cristo nella cruda realtà colombiana e di Remolino. Per ben due ore, senza il minimo segno di stanchezza, la gente ha vissuto questo forte momento della liturgia, proseguendo poi nell’adorazione della croce, in cui hanno visto rispecchiate le proprie sofferenze.
La settimana santa è il periodo dell’anno più sentito nella tradizione religiosa della popolazione colombiana. E poiché è impossibile essere presenti lo stesso giorno nelle 40 comunità della parrocchia, anche quest’anno, 15 giorni prima di pasqua, ho iniziato la visita ad alcuni villaggi, soprattutto quelli più popolosi, per celebrare la settimana santa e il triduo pasquale.
Uno dei villaggi era ancora scioccato dagli scontri, avvenuti pochi giorni prima del mio arrivo, tra l’esercito nazionale e un gruppo di guerriglieri. Ma anche qui siamo riusciti a coinvolgere la comunità, usando la metodologia latino-americana della «comunione e partecipazione». Si inizia con qualche gioco per mettere la gente a proprio agio. All’inizio non tutti si mostrano interessati e attivi; ma poi giovani, adulti, uomini e donne partecipano gradualmente per creare un clima di festa e di frateità. A questo punto formiamo tre gruppi, ognuno dei quali è chiamato a riflettere su un giorno del triduo pasquale: meditazione sulle letture bibliche, ricerca del messaggio più profondo e attuale, sua applicazione concreta nella vita di tutti i giorni, attraverso la conversione negli atteggiamenti e nei sentimenti più profondi del proprio cuore. Il lavoro di gruppo culmina con la scelta dei canti e la ricerca del «segno» che identifichi la giornata specifica del triduo. Ogni gruppo scrive su un cartellone i punti fondamentali della riflessione, che viene condivisa con tutta la comunità.
Dopo questo momento di «catechesi attiva», inizia la celebrazione, in cui ogni gruppo anima una parte della liturgia: il momento penitenziale è affidato a coloro che hanno preparato il venerdì santo; l’offertorio a quelli che hanno riflettuto sul significato del giovedì santo; dopo la Comunione il gruppo del sabato santo invita i partecipanti a imitare Maria Magdalena, l’altra Maria e i discepoli, cioè, annunciare con la vita l’incontro giornioso con il Cristo crocifisso e risorto e i fratelli. La celebrazione, infatti, che dura più di tre ore, è caratterizzato da un clima di gioia, vissuta con semplicità tra fratelli e sorelle,  con semplicità, espressione concreta del vero «clima pasquale».
USCITO DALLA GUERRIGLIA
Il significato della pasqua di risurrezione l’ho visto realizzato pochi minuti dopo la fine della celebrazione, in quello stesso villaggio. Un giovane con un berretto sportivo in testa, il poncho sulla spalla sinistra e la frusta per controllare il bestiame nella destra, mi si avvicina e comincia a parlarmi sottovoce, guardandosi attorno con aria circospetta. Capisco che si tratta di una cosa delicata e lo invito a uscire dal salone, per evitare occhi e orecchie indiscrete.
Comincia dicendomi il suo nome, che non riporto per la sua sicurezza personale. È nervoso. Comincia a parlare con mezze frasi, rendendomi difficile la ricostruzione della sua storia. Finalmente capisco che è uscito dalla guerriglia e mi chiede di aiutarlo a recuperare i documenti del suo stato civile.
«Non so quando sono nato – comincia a raccontare con più calma -. Avevo forse 7 anni quando ho dovuto lasciare la mia casa; oggi penso di avee 21. Da bambino mi piaceva giocare con le armi; quando mia mamma mi portava a messa, io scappavo per andare a giocare».  Mentre nomina la madre, il suo volto si fa più triste. «Mio fratello maggiore mi ha portato nella guerriglia – continua a raccontare -. È stato ferito in uno scontro armato ed è rimasto invalido. Un altro fratello è stato punito, cioè ucciso dagli stessi guerriglieri».
Le disgrazie capitate ai suoi fratelli hanno provocato in lui una forte crisi esistenziale circa il suo futuro personale e le motivazioni della guerriglia, e ideali dei guerriglieri. «Con loro la vita è durissima – continua a confidarsi -. Tutto è programmato e pianificato: ci sono tempi stabiliti anche per andare al bagno e chi sbaglia o disobbedisce è punito duramente. Quando sono entrato nel gruppo guerrigliero ero molto motivato; credevo nella loro ideologia politica: raggiungere il potere a ogni costo, perché questo è il solo modo per raggiungere in Colombia certi cambiamenti, come una vera riforma agraria… Padre, non so nemmeno se sono battezzato: con mia mamma ho imparato il Padre nostro… Ma tra i guerriglieri non si pratica alcuna religione; anzi, si predica che la chiesa è il nemico “numero uno”. Io, però ho sempre sentito dentro di me il bisogno di ricorrere a Qualcuno… E quando nei pacchetti di biscotti trovavo le immagini di santi e relative preghiere, le conservavo avvolte in pellicole di nailon e tutti i giorni invocavo la loro protezione. Tutte le volte che partecipavo a uno scontro con l’esercito pregavo perché tutto finisse al più presto, per potere uscire da una situazione che non sentivo più mia.
Sono stato 12 anni nella guerra e la mia salute ora è molto fragile, ho dolori in ogni parte del corpo. Dopo molte insistenze, ho ottenuto il permesso di uscire dalle file della guerriglia; ora posso vivere come un contadino qualsiasi di questo territorio. Vivo in questo villaggio, ma lavoro in varie fattorie e con il denaro che ricevo sto cercando di comprarmi una fattoria nella foresta, pagandola a rate. Mi dicono di piantare coca, ma non desidero mettermi in questo nuovo circolo. Ora vivo anche con una giovane di 26 anni, anche lei è scappata dalla guerriglia, che ho preso sotto la mia protezione: sono riuscito a parlare con i guerriglieri del suo gruppo che me l’hanno affidata.
Padre, mi aiuti a rintracciare mia madre: dovrebbe avere circa 50 anni e penso che viva ancora nel mio villaggio d’origine, in un’altra regione della Colombia…».

È questa una delle tante storie di vita quotidiana in Colombia e nella mia parrocchia. In questo momento stiamo vivendo una pace apparente: non basta far tacere le armi; bisogna recuperare tanti cuori afflitti e ricucire rotture che ogni guerra lascia attorno a sé.
«Cristo, nostra pace!» abbiamo proclamato e invocato nel tempo pasquale. L’esperienza di questi mesi mi convince sempre più che è possibile incontrare il Cristo risorto anche nelle situazioni più difficili e complesse e che, come missionari, è nostro compito principale farlo risorgere nel posto in cui viviamo, attraverso la fede e la speranza.
Lo sto scoprendo proprio in mezzo a questa popolazione, che è ancora attirata dal miraggio della coca, soldi facili, vita dissipata; ma al tempo stesso è in cerca di una via di uscita, attraverso le coltivazioni alternative, come quelle del cacao e caucciù, l’allevamento del bestiame e altre iniziative legali che stiamo promuovendo. 

Di Angelo Casadei

Angelo Casadei