Col favore delle stelle

Reportage dal paese asiatico «normalizzato» (cfr. MC, dicembre 2007)

A 7 mesi dalla repressione delle proteste contro il regime militare il paese è tornato alla «normalità»: monaci deportati o imprigionati, abbuffata di affari in barba all’embargo, opposizione divisa, minoranze etniche in fermento, generali al potere più vecchi.  Un futuro più democratico dipenderà dal cambio di generazioni, sia tra i militari che nei partiti… Cina e India permettendo.


L’aereo della Thai atterra all’aeroporto di Yangon. Sono pochi mesi che manco dal Myanmar, eppure, appena uscito dalla carlinga, noto già qualcosa di differente rispetto all’ultima visita: la hall degli arrivi e delle partenze è nuovissima, appena inaugurata, in attesa di ospitare turisti e uomini d’affari che, per ora, tardano ad arrivare. «Ma è solo questione di tempo – afferma un imprenditore singaporeano, incontrato durante il breve viaggio da Bangkok -. Le economie mondiali non possono ignorare un paese ricco e praticamente vergine come il Myanmar».
L’uomo d’affari ha ragione: quanto potrà resistere il mercato, sempre alla disperata ricerca di nuove opportunità di investimenti, prima di spartirsi questo lembo di terra paradisiaco? Più di 600 mila kmq disseminati di ogni primizia terrena, pronta a trasformarsi in moneta sonante: dalle pietre preziose alle foreste di tek, da fiumi impetuosi, potenziali generatori di energia elettrica, a giacimenti di gas naturale, carburante di economie che per sostenersi devono fagocitare milioni di metri cubi di idrocarburi.
ANTIPASTO PER IL TURISMO
Per non parlare del fascino esotico che le pagode e le culture di semisconosciute etnie tribali emanano nell’immaginario collettivo. Una manna per i tour operator, smaniosi di presentare ad annoiati vacanzieri nuove esperienze, nuove terre «inesplorate», nuove avventure da declamare ai colleghi e agli amici.
Sull’onda delle proteste inteazionali scaturite dalla repressione del governo, le agenzie di viaggi si sono trovate costrette, loro malgrado, a sospendere i tour nel paese. Per anni, il boicottaggio, decretato dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, era stato aggirato, ma il drastico calo di prenotazioni dei viaggi in Myanmar da parte dei turisti, ha indotto numerose agenzie a depennare dal catalogo un nome che sarebbe divenuto per lo meno scomodo. Ma, come sempre accade, appena l’indignazione popolare è scemata e l’attenzione si è spostata altrove, le pagine che presentano le meraviglie del paese sono ricomparse. Magari aggiungendo una quota destinata a qualche progetto umanitario per mettere in pace la coscienza. No, è chiaro a chiunque che il Myanmar non potrà essere relegato a lungo nel limbo dell’embargo e del boicottaggio. Del resto non lo è mai stato e neppure ora, dopo la ola di biasimo che si è innalzata da mezzo mondo a seguito della violenta risposta dei militari alle manifestazioni dei monaci, lo sarà.
La nuova ala dell’aeroporto di Yangon, con gli schermi al plasma Samsung, l’aereo della Lauda Air parcheggiato poco distante, i due MiG 29 russi che sfrecciano nel cielo azzurro, sono solo l’antipasto della chiara dimostrazione che il mondo economico non ha mai chiuso le porte alla giunta militare.

INDIGESTIONE DEGLI AFFARI
Se l’aeroporto è l’antipasto, in città ecco l’indigestione. Gli incroci principali di Yangon mostrano i cartelli pubblicitari delle ditte che hanno sfidato apertamente l’embargo: Total, Alcatel, Chevron, Mitsubishi, Sony, Daewoo, Suzuki, Siemens. Sono solo alcune delle multinazionali che agiscono senza veli nel paese, nonostante le dichiarazioni ufficiali dei vari parlamenti europei, nonostante le proteste pubbliche, nonostante il boicottaggio. Non esistono sanzioni verso queste aziende; ma se si scava in qualsiasi ditta birmana, compare subito un qualche socio europeo o americano.
Nessuna economia vuole rischiare di perdere il Myanmar e le sue ricchezze. E se ufficialmente non si può trattare direttamente con la classe imprenditoriale del paese, legata a doppio filo con i generali dell’Spdc (acronimo per Consiglio di stato per la pace e lo sviluppo), si trova sempre un mediatore compiacente.
Per l’Italia, ad esempio, il principale intermediario con cui scardinare la saracinesca che impedisce il commercio diretto con il Myanmar, è Singapore. Tramite questa minuscola repubblica, centinaia di aziende nazionali costruiscono hotels, vendono macchinari, esportano materie prime, compartecipano alla gestione di aziende che creano profitti sfruttando la manodopera a basso costo del paese. Insomma, nonostante si neghi ogni coinvolgimento, anche noi facciamo affari d’oro con i generali. Lo dimostra, del resto, anche il documento redatto dalla Cisl, in cui sono elencate più di un centinaio di aziende che hanno rapporti commerciali con il Myanmar.

I MONACI «SCOMPARSI»
Poco importa all’economia, a noi, al nostro portafoglio, se i monaci nelle principali città della nazione, sono drasticamente diminuiti, come conseguenza delle misure intraprese dal governo dopo che, nell’autunno 2007, le strade di Sittwe, Yangon, Mandaly, Pakkoku si erano colorate di arancione e le urla di protesta contro la giunta militare si erano levate dalle pagode. Sono stati migliaia i religiosi deportati a forza dal Tatmadaw (le Forze armate birmane), mentre altri, per prevenire le repressioni, si sono rifugiati volontariamente nei monasteri dei villaggi d’origine, da dove provenivano.
«È difficile quantificare il numero esatto di morti e di prigionieri» mi dice un bonzo, stretto collaboratore di U Gambira, leader dell’«Alleanza di tutti i monaci birmani», ancora imprigionato per essere stato riconosciuto come uno dei leaders delle rivolte. «Ma pensiamo che le cifre siano maggiori di quelle date dal governo». Poi azzarda dei numeri: più di 700 arrestati stanno ancora marcendo nelle carceri birmane, mentre oltre ai 22 morti, ufficialmente dichiarati dal governo, se ne dovrebbero aggiungere 140 di cui non si hanno notizie.  
Un bilancio tragico, è vero, ma pur sempre limitato se pensiamo che nel 1988 le manifestazioni studentesche vennero disperse al costo di migliaia di vittime. Inutile, però, tentare di fare un raffronto con i cortei di 20 anni fa e quelli del 2007. Tempi e protagonisti sono totalmente differenti. Tra le toghe arancioni che hanno sfilato l’anno scorso non si sono viste immagini del generale Aung San, non si sono levati canti patriottici, non c’erano giovani universitari.

L’OPPOSIZIONE DIVISA
La stessa Lega nazionale per la democrazia (Lnd), il partito di Aung San Suu Kyi, ha brillato per la sua assenza. Anzi, è riuscita a fare anche di peggio: nei primi giorni delle dimostrazioni, quando ancora erano poche decine i coraggiosi dimostranti che sfidavano i militari, U Lwin, segretario del partito, dichiarava a Radio Free Asia che «le proteste sono di piccola portata e non possono risolvere i problemi del paese… Ci sono molte persone che non prendono parte alle proteste. Come possiamo sapere se i manifestanti sono una reale espressione della volontà della maggioranza del popolo?».
Parole che hanno lasciato tutti sconcertati, anche perché i maggiori esponenti della cosiddetta Generazione 88, i veterani delle manifestazioni del 1988, erano stati arrestati da pochi giorni. C’è voluta ancora Aung San Suu Kyi, quando si è affacciata brevemente dalla sua casa, per riconciliare il partito con il popolo. Ma le dichiarazioni di U Lwin dimostrano quanto distante sia anche l’opposizione dalle reali esigenze della gente.
Gli appelli acritici a favore dell’Lnd e contro la giunta militare birmana levatisi da numerose piazze europee si scontrano da una parte con la sfiducia che operatori umanitari stranieri e intellettuali birmani all’interno del Myanmar nutrono verso i leaders dell’opposizione e dall’altra con la necessità della nazione di avere un esercito forte per restare unita.
«L’opposizione è fortemente disunita e i membri dell’Lnd non sono poi molto differenti dai militari – afferma uno storico birmano pur simpatizzante di Aung San Suu Kyi -. Guardo con apprensione il giorno in cui il popolo acclamerà la raggiunta democrazia, perché allora si aspetterà stravolgimenti economici e sociali che nessuno è in grado di garantire a breve termine».
La stessa «Lady», all’inizio della sua carriera politica, subodorando la possibilità che alcuni membri del partito sfruttassero la loro posizione per fini personali, avvertì che «alcuni politici cercano di aiutarmi in vari modi. Io voglio essere chiara con loro, dicendo che se lo fanno per ottenere posizioni di potere per loro stessi, non li appoggerò in alcun modo». Una pura. Una delle poche.
Mi consolo con quello che mi ha riferito un comico bandito dal regime, quando gli ho confessato gli stessi dubbi: «Ci salverà la religione buddista, la fede inconscia e profonda dei birmani verso il fato e verso la magia. Se qualcosa non andrà come ci si aspetta, potremo sempre dire che era destino, che le stelle non erano favorevoli. E diremo loro di aspettare…».
Tutto in Myanmar rotea attorno all’astrologia, in particolare la politica. Se il 9 è il numero considerato fortunato dai militari, l’8 lo è per l’opposizione. «Forse dobbiamo solo cambiare numero magico…» continua il comico. L’8, infatti, non ha portato molta fortuna ai dissidenti, visto che le manifestazioni iniziate l’8 agosto (8° mese dell’anno) 1988 alle ore 8.08 del mattino, sono terminate in un bagno di sangue.

LE ETNIE DIFFIDENTI
Ma il principale problema del futuro del Myanmar non si può dire sia la corruzione o la divisione intea che frantuma l’opposizione: è qualcosa di ben più grave, che affonda le radici nella base sociale stessa della nazione. Il paese è, infatti, un crogiuolo di etnie, ognuna con i propri dialetti, credenze, tradizioni, leggende e, soprattutto, fondanti su identità nazionali diverse e autonome da quella bamar, la principale etnia del paese.
Il nome stesso Birmania, utilizzato sino al 1989 anche in sede internazionale, non è altro che la storpiatura inglese di bamar. Il cambio di nome voluto dal regime identifica con più ampio respiro l’effettiva sovranità interetnica dello stato, che sin dalla sua nascita, ha dovuto combattere contro le fortissime istanze secessioniste che arrivavano dalla periferia.
Le manifestazioni del 2007 sono state pressoché ignorate nelle regioni non bamar, che non accettano neppure Aung San Suu Kyi come possibile capo di stato nel caso le fosse data questa remota possibilità. «Aung San Suu Kyi è una bamar e come tale non farebbe altro che cercare di perpetuare il potere bamar sui nostri stati, esattamente come sta facendo oggi l’Spdc» argomenta un leader karen.
Del resto, se si analizzano a fondo i risultati elettorali del 1990, liquidati dai mass media declamando semplicemente la vittoria dell’Lnd, ci si troverebbe dinanzi a un quadro allarmante della situazione del paese. Di fronte a un 58,7% di voti a favore della Lega nazionale per la democrazia, quasi tutti per altro ottenuti nelle regioni centrali del paese (la Birmania vera e propria), i partiti indipendentisti a base etnica hanno ottenuto un sorprendente 16,2% a livello nazionale, che, parametrato su base regionale, si innalza a valori altissimi. Basti dire che il principale partito etnico alleato all’Lnd, lo Shan Lnd, ha raggiunto appena l’1,7%, dimostrazione di quanto debole sia il legame che unisce qualsiasi tipo di politica dettata da Yangon alle zone di confine.

I GARANTI DELL’UNIONE
Per questo le richieste di allontanamento immediato dei militari dai centri decisionali, tanto invocato in Occidente, hanno ben poco senso e dimostrano quanto poco si conosca il Myanmar. Solo un esercito forte è in grado di mantenere uniti gli stati che compongono l’Unione. La stessa Aung San Suu Kyi ha ripetuto, sin dal primo comizio del 26 agosto 1988 di fronte alla Shwedagon Pagoda, il suo rispetto per un’istituzione fondata da suo padre e indispensabile per l’unità del paese: «Ho un forte senso di attaccamento al Tatmadaw – disse in quel frangente -, non solo perché è stato voluto e fondato da mio padre, ma anche perché da bambina i soldati di mio padre mi accudivano». Traducendo in altre parole, il senso della frase sarebbe questo: come i militari hanno accudito me, possono proteggere anche voi e la nazione intera. «Solo i militari possono garantire lo status quo della Birmania» spiega Win Min, professore di Storia birmana all’Università di Chiang Mai, in Thailandia.
Non è una questione esclusivamente nazionale: la disgregazione birmana creerebbe pericolosi squilibri regionali che nessuno vuole. Una eventuale indipendenza di uno qualsiasi degli stati dell’Unione, potrebbe innescare un pericoloso senso nazionalistico anche tra le etnie cinesi dello Yunnan e quindi di altre regioni critiche come il Tibet e lo Xinkjiang, mentre la Thailandia sarebbe costretta a rivedere la sua politica verso le minoranze del nord, da sempre bistrattate. Infine l’India dovrebbe contrastare i forti movimenti indipendentisti assamiti, la cui sopravvivenza è garantita dalle basi che li ospitano negli stati Chin e Rakhine.
«Spiace dirlo, ma il Tatmadaw (forze armate) è l’unica organizzazione in grado di garantire l’unità della nazione e la stabilità del Sud-Est asiatico» ammette un’importante personalità religiosa che preferisce mantenere l’anonimato.
Per questo, a parole tutti auspicano un ritorno di Aung San Suu Kyi, ma nessuno spinge perché si avveri. L’Unione Europea, dando ad un inutile Fassino il compito di rappresentarla presso il regime militare birmano, ha dimostrato quanto poco creda in un cambiamento radicale nella politica del paese. Non fa meglio l’Onu, con Gambari succube dell’Spdc. I vantati colloqui tra Suu Kyi e i generali, in realtà si riducono a formali scambi di battute senza senso e senza altro fine se non quello di dare in pasto ai media qualche notizia. La pasionaria birmana ha come interlocutore un militare di basso livello in pensione. Il classico due di picche quando la briscola è bastoni.

L’OCCASIONE PERDUTA
Ma anche Aung San Suu Kyi, pur relegata nella sua casa di University Avenue, ha gravi responsabilità sull’attuale situazione del paese. U Than Tun, ex esponente di spicco dell’Lnd, espulso nel 1997 dalla stessa Lady per essersi mostrato favorevole a un dialogo con i militari, mi confidò che «Daw (attributo di rispetto dato alle persone di sesso femminile, nda), è stata troppo intransigente. In Birmania occorre cogliere tutte le occasioni possibili per cambiare il corso della storia». Lei, l’eroina birmana, la sua occasione l’ha avuta nel 2004, quando il moderato e filocinese Khin Nyunt, aprì un dialogo con il plauso dell’Onu, della Cina e degli stessi Stati Uniti. Incomprensibilmente, fu Aung San Suu Kyi a ritrarsi, scatenando una ridda di polemiche e defezioni all’interno dell’Lnd.
«Non sappiamo ancora cosa l’abbia indotta a interrompere i colloqui con Khin Nyunt. Pensiamo che sia stata male informata dalle persone del partito che, allora, la consigliavano» spiega Beaudee Zawmin, portavoce del Goveo di coalizione nazionale dell’Unione birmana (Gcnub), il governo in esilio rappresentato anche all’Onu. Male informata o no, l’interruzione delle trattative favorì l’ascesa della fazione militare pro-indiana, guidata dal duro Than Shwe, l’attuale capo della giunta, che si premurò di epurare tutti i moderati, condannando lo stesso Khin Nyunt a 44 anni di carcere.
La democrazia in Myanmar è quindi irrimediabilmente perduta? No, non direi. I cambiamenti tanto auspicati arriveranno, questo è certo, ma solo dopo il cambio generazionale dell’attuale quartetto che comanda l’Spdc. Il dietrofront della Signora con Khin Nyunt ha solo rallentato la via verso la democrazia. Than Shwe e Maung Aye, le due figure di spicco dell’Spdc, entrambe ultrasettantenni e malate, non rimarranno ancora a lungo al potere.
Nessuno, però, conosce i papabili successori: Thura Shwe, numero tre del regime, ha pochi amici all’interno del Tatmadaw, mentre Thein Sein, primo ministro dal 24 ottobre 2007 e il militare più presente sui media nazionali, non è riuscito ancora a ritagliarsi uno spazio sufficiente per garantirsi il salto che lo porterebbe al vertice della giunta. Indispensabile sarà comunque l’appoggio a questa o quella fazione della Cina o dell’India, le due nazioni che più hanno influenzato la politica intea del Myanmar sin dalla sua nascita.
La storia insegna che i generali al potere, considerati intoccabili, sono stati spodestati da fazioni rivali che godevano dell’appoggio di Nuova Delhi (Ne Win e Than Shwe) o Pechino (Khin Nyunt). Un dialogo con i due colossi asiatici da parte dell’Occidente non farebbe altro che accelerare la ripresa del dialogo. Leaders birmani permettendo. 

di Piergiorgio Pescali

Facce vecchie del regime
Sono oramai 46 anni che in Birmania i vertici militari detengono il potere. Visto dall’esterno, il governo della giunta appare solido e unito: nel paese sono pochissime le voci che esprimono dissenso, i turisti che vengono scorazzati tra splendide pagode e monumenti non vedono grosse sacche di miseria, i sorrisi che li accompagnano ovunque mostrano la facciata di un popolo felice e sereno, i manifesti della propaganda riflettono un’unica via condivisa da tutti.
In realtà, rivalità individuali e frantumazione sociale rendono il governo assai più debole di quanto possa apparire. Neppure nell’atteggiamento da tenere verso Aung San Suu Kyi c’è unità di vedute. Lo dimostra la lunga serie di destituzioni, cambi di denominazioni e rimpasti al vertice avvenuti dal 1962 ad oggi. L’ultima, in ordine di tempo, si è consumata nel 2004, quando l’allora primo ministro, generale Khyn Nyunt, da molti indicato come colui che avrebbe traghettato il paese verso il pluralismo economico e politico, è stato posto agli arresti domiciliari.
Nessuno all’interno della Spdc può considerarsi intoccabile: Nyunt, ad esempio, era a capo dei potenti Servizi segreti, ma tale posizione privilegiata non lo ha preservato da una fine miserabile. Le informazioni in suo possesso non sono servite ad arrestare l’ascesa del suo più acerrimo nemico, quel generale Than Shwe che, partendo da un posto pubblico nelle poste birmane, è riuscito a mettere da parte prima il generale Ne Win e poi lo stesso Nyunt.

Molti analisti indicano nel rifiuto di Aung San Suu Kyi di accettare il dialogo offertole dal primo ministro, come una delle principali cause della sua caduta. Paradossalmente per questi osservatori (e per alcuni membri dell’Lnd poi espulsi dal partito per le critiche rivolte a Suu), l’intransigenza di Aung San Suu Kyi avrebbe favorito l’ascesa dell’ala dura dei militari. Oggi l’ottantenne Than Shwe è l’indiscusso presidente dell’Spdc e comandante delle Forze armate. Nonostante le sue apparizioni televisive cerchino di nascondere la paralisi al braccio dovuta a diversi attacchi di ischemia, è a tutti chiaro che la sua salute e, quel che è più grave, la sua mente, sono compromesse. In un suo discorso ha farfugliato che prima di morire non vuole vedere più una faccia bianca nel Myanmar e che nella nuova Costituzione vorrebbe reintrodurre la figura del re; ruolo che gli spetterebbe di diritto in caso di un suo ritiro dalle cariche militari.
Il suo vice, Maung Aye, potrebbe essere il successore di Than Shwe, ma il vizio di bere ha reso il suo fisico debole. Xenofobo, crudele, Maung Aye, oltre a essere contrario a ogni dialogo con Aung San Suu Kyi, è stato l’artefice degli accordi con i signori della droga in cambio di una pace con le diverse etnie.
Sono in molti, anche e soprattutto tra i militari, ad aspettare la morte di Than Shwe. È la sua presenza, infatti, che impedisce ogni cambiamento. La nuova generazione di militari, più moderata e incline al compromesso, è pronta a prendere le redini del potere per poi condividerlo con l’opposizione.

di Piergiorgio Pescali


Intervista con Beaudee Zawmin

Si commuove, Beaudee Zawmin, quando parla dei suoi concittadini oppressi in Birmania da un regime dispotico e dittatoriale. Lui, buddista cresciuto nelle scuole cattoliche di Rangoon, è uno dei pochi fortunati che, dopo essere fuggito alle pallottole dei militari, non ha mai smesso di lottare per la libertà del popolo che rappresenta. Oggi Beaudee è il volto di Aung San Suu Kyi nell’Unione Europea, l’esponente nel Vecchio Continente del governo in esilio della Birmania.

Signor Zawmin, dopo l’interesse per la rivolta delle toghe arancioni, la stampa italiana si è già dimenticata della Birmania.
Me ne sono accorto, purtroppo; eppure in Birmania si continua a soffrire. Migliaia di monaci sono ancora imprigionati, mezzo milione di persone accampate nei campi profughi in Thailandia e Bangladesh in condizioni pietose. All’interno l’economia è in sfacelo. Noi abbiamo bisogno della vostra attenzione e aiuto.

Oggi sembra che qualcosa si stia muovendo: oltre al rappresentante Onu, Gambari, Aung San Suu Kyi ha potuto incontrare alcuni membri della Lega nazionale per la democrazia e il dialogo con i militari sta procedendo.
Sono segnali positivi che fanno sperare in un futuro più roseo per il paese. I militari sembra si siano finalmente accorti che il popolo non è dalla loro parte. La pressione internazionale sui generali ha avuto il suo effetto, ma occorre continuare a mostrare loro che il mondo non si è scordato della Birmania.

È quindi tempo di abbandonare la propaganda e pensare a cose concrete. Avete già dei nomi da proporre per un eventuale governo di coalizione e per risollevare l’economia?
Abbiamo già dei nomi, ma non vogliamo forzare troppo le tappe.

Errori nel passato ne ha commessi anche Aung San Suu Kyi, il più evidente di tutti è il suo ostinato rifiuto di parlare con il moderato Khin Nyunt ritrovandosi oggi a dover dialogare con un dittatore come Than Shwe.
Sì, è vero. Abbiamo sbagliato e ne abbiamo pagato le conseguenze. Oggi, però, possiamo contare su una maggiore esperienza e su un movimento più giovane, snello e più pragmatico. È per questo che Aung San Suu Kyi ha accettato di dialogare con una giunta impresentabile come quella che oggi opprime il popolo birmano. È giunto il tempo di dare chiari segnali di speranza ai birmani.

L’immagine dell’Nld tra gli stranieri che vivono in Birmania non è così idilliaca come la si descrive in Occidente. Si teme che la corruzione e la carriera si siano insinuati anche tra molti dei leaders del partito.
Il pericolo della corruzione esiste ed è reale, ma oggi il principale obiettivo del partito è quello di raggiungere la democrazia e unirsi attorno ad Aung San Suu Kyi. Non possiamo garantire la cristallinità e la purezza, ma sappiamo anche che non possiamo permetterci di deludere il popolo.

Per far sopravvivere la Birmania alle lotte etniche che minano la sua unità, i militari dovranno mantenere un ruolo centrale anche in un futuro governo democratico. Siete disposti ad accettare la presenza dei generali?
L’esercito è una creazione di Aung San, l’eroe nazionale birmano e padre di Aung San Suu Kyi. Lei stessa ha sempre affermato di avere a cuore il futuro dei militari e tutti noi sappiamo che il paese ha bisogno di loro. Il problema sono i vertici che comandano le Forze armate. Ma sono vecchi e la nuova generazione ha una visione più ampia del mondo e della democrazia. È con loro che dialogheremo e costruiremo il futuro della nazione.

Di Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Un Chicco di grano per la vita

La missione di padre Adalberto coninua … oltre la morte

Missionario della Consolata per oltre 30 anni e per altri 5 incardinato nella diocesi di Dar Es Salaam, padre Adalberto Galassi fu stroncato da infarto a 61 anni, nel 2002. I familiari e tanti amici hanno raccolto il testimone e continuano a sostenere i progetti da lui avviati nella missione di Kibiti. 

Quando guardo il manifesto del Consorzio agrario provinciale di Macerata, mi vengono alla mente due «icone» della mia fanciullezza. Nella prima c’è un’Apetta, guidata da un passionista che, nei giorni della trebbiatura, arrivava puntuale sull’aia per la questua: apriva il sacco, i contadini vi versavano alcuni chili di grano e il frate se ne andava ringraziando e benedicendo.
Nella seconda c’è una vecchia Fiat 500, in cui scompariva la bassa statura del mio parroco, don Giulio. Anche lui arrivava sull’aia, attaccava un sacco a una bocchetta della trebbiatrice, ve lo lasciava per una decina di minuti e intanto gridava: «Butta giù!», sventolando un pacchetto di sigarette per incoraggiare gli operai a gettare nel battitore più covoni possibili.
Erano gli anni del dopoguerra. I contadini avevano pochi soldi in tasca, per cui risultava più naturale fare la carità o sostenere le opere della chiesa con doni in natura. Oggi il grano passa dal campo al consorzio quasi in un baleno, senza quell’atmosfera romantica della trebbiatura di quei tempi; rimane tuttavia il senso di solidarietà degli agricoltori; per questo il Consorzio agrario di Macerata ha organizzato «una raccolta di beneficenza in “cereali” da donarsi alla missione di Kibiti-Tanzania di padre Adalberto Galassi».
E funziona: ogni anno vengono raccolti più di 200 quintali di grano, che, tradotto in moneta e inviata al nuovo parroco di Kibiti, serve a comperare granaglie sul posto da distribuire ai più poveri o a sostenere i progetti rimasti incompiuti per la morte prematura di padre Adalberto.
I donatori maceratesi conoscono bene il defunto missionario, ma non sanno affatto dove sia Kibiti.

IN CAPO AL MONDO A DESTRA
Kibiti si trova al centro della zona costiera tanzaniana a sud di Dar Es Salaam. Facile a dirsi; ma arrivarci è un’altra cosa. Ne ho fatto esperienza in una piovosa giornata del 1997. Si lascia la città e s’imbocca la Kiliwa Road, strada dal nome altisonante, ereditato dall’amministrazione coloniale inglese, ma che di quel periodo non conserva più nulla. Per evitare le buche prodotte nell’asfalto dalle intemperie e dall’incuria, viaggiamo sulla terra battuta ai cigli della strada, zigzagando tranquillamente da destra a sinistra e viceversa, poiché non si incontrava anima viva.
Dopo circa150 km e oltre quattro ore di viaggio siamo finalmente nel villaggio di Kibiti: sembra di essere arrivati in capo al mondo. Svoltiamo a destra ed ecco la missione: una vecchia cappella e un dispensario nuovo di zecca, costruito e gestito dalle missionarie della Consolata.
La popolazione di questo sperduto angolo del mondo è prevalentemente musulmana, ma vi sono parecchi cristiani, di etnia makonde, fuggiti dal Mozambico fin dagli anni ‘60, quando in quel paese infuriava la guerriglia contro il dominio portoghese.
Un frate cappuccino olandese, di tanto in tanto si faceva 250 km dell’impercorribile Kiliwa Road, tanto era estesa la sua missione, per incontrare i cristiani. Poi costruì a Kibiti, al centro del territorio affidato al suo zelo missionario, una cappella e una casetta destinata a ospitare una piccola comunità di suore, che si prendessero cura della gente per troppo tempo dimenticata. Il suo sogno si è avverato nel 1991, due anni prima della sua morte, divorato da un tumore, quando quattro missionarie della Consolata vi si stabilirono e costruirono il dispensario.
Per sei anni le religiose hanno visto il prete, un altro cappuccino, solo la domenica, quando riusciva a venire a Kibiti per celebrare l’eucaristia e incontrare le sperdute comunità cristiane, finché all’inizio del 1997 è arrivato padre Adalberto Galassi, che, essendo senza casa, ha ricavato uno stanzino nella sacrestia: 6 mq che fungono da camera da letto, laboratorio e da cucina, quando rincasa troppo tardi.
Oltre alla cappella, il missionario ha poco da mostrarci, eccetto un paletto infisso al suolo, poco lontano dalla chiesetta, dove sarà scavato un pozzo per fornire acqua alla gente e al dispensario. Proprio in quel punto, alcune settimane prima, la bacchetta del rabdomante, padre Egidio Crema, venuto apposta da Iringa, si era agitata freneticamente, individuando una ricca vena d’acqua.

A SERVIZIO DEI FRATELLI
Adalberto è nato nel 1941 a Caldarola, uno storico e ridente paese nella Val di Chieti, affacciato sull’omonimo lago artificiale. Un luogo ideale per fare qualche scampagnata con i miei familiari, sempre accolti con calore e simpatia dalla famiglia Galassi, ben nota nel paese e in gran parte del maceratese: mamma Rosa e papà Vincenzo, quattro giovanotti, di cui Adalberto è il secondogenito, e una zia ostetrica, che ha aiutato a venire al mondo metà degli abitanti del circondario.
Finite le scuole elementari, Adalberto entrò nel seminario della diocesi di Camerino, in un momento in cui si respirava un’atmosfera di forte entusiasmo missionario. Proprio in quegli anni Giovanni Monti entrava tra i missionari della Consolata. Poco dopo, nel 1958, lo stesso direttore del seminario, mons. Attilio Marinangeli, all’età di 45 anni, entrava nello stesso istituto e l’anno seguente raggiungeva il Tanzania.
Non c’è dubbio che l’esempio del rettore abbia contagiato anche Adalberto. Terminati i corsi liceali, nel 1961 iniziò il noviziato tra i missionari della Consolata, continuò gli studi a Torino e venne ordinato sacerdote nel 1966 a Caldarola. Due anni dopo era in Tanzania, nella diocesi di Iringa, dove il suo ex rettore era amministratore apostolico, ma per pochi mesi ancora, perché minato da una grave malattia che lo portò alla tomba.
«Fortunato chi ti avrà come compagno in missione» gli aveva detto un giorno, quando era ancora a Torino, un suo compagno di classe, invidiando le sue doti pratiche, soprattutto in fatto di meccanica ed elettrotecnica. Sereno e generoso, padre Adalberto nascondeva elogi e complimenti con un timido sorriso e una battuta di humour quasi inglese.
Arrivato in Tanzania con pochi effetti personali e una cassetta di attrezzi di ogni genere, fu subito richiesto dai confratelli per un’infinità di lavoretti pratici, dove si richiedevano mani esperte. «Le radioline di tutte le missioni sono passate tra le sue dita» racconta un confratello.
Nel 1973 i confratelli lo elessero consigliere della direzione regionale del Tanzania; gli fu affidato anche l’incarico di amministratore regionale, facendosi stimare per la sua «serietà e onestà a prova di bomba», come afferma un confratello, di solito non prodigo di elogi.
Nel 1979 fu destinato a Dar Es Salaam, come procuratore: un servizio importante e delicato, che comporta contatti con ambasciate, disbrigo di pratiche burocratiche e amministrative a favore del personale impegnato nelle missioni della Consolata e di altri istituti, accoglienza e accompagnamento di missionari, volontari, medici… venuti in città per acquisti o altre urgenze.
A troncare tale servizio, nel 1988, fu una brutta avventura: una sera, un energumeno, forse in preda all’alcol o alla droga, irruppe nel suo ufficio e gli assestò due colpi di machete alla testa; padre Adalberto riuscì ad attutire i colpi riparandosi con un braccio; ma le gravi ferite ricevute lo costrinsero a venire a Torino per farsi curare.
Ce l’ho ancora davanti agli occhi, con la testa avvolta in una retina bianca per tenere ferma la fasciatura. Anche di questa disavventura sapeva ridere e scherzare. Ma mi raccomandava: «Non dire niente a nessuno, neppure ai tuoi, perché non lo venga a sapere la mamma: ne soffrirebbe troppo». Solo quando fu guarito toò a casa, con vistose cicatrici sulla parte sinistra del viso e della testa, e cercò di tranquillizzare i suoi familiari.

FINO ALL’ULTIMO RESPIRO
Nei 15 anni a servizio della missione come amministratore e procuratore, padre Adalberto era venuto a contatto con tante situazioni di povertà e abbandono, soprattutto nella zona a sud di Dar Es Salaam, dove si recava nei momenti liberi a prestare qualche servizio religioso. Era quello il tipo di missione da sempre sognato: vivere con la gente e come la gente del posto, condividee sofferenze e difficoltà, testimoniare concretamente amore e solidarietà.
Nel 1989 chiese ai superiori di affidargli una missione di quel genere. Fu invece sballottato da una missione all’altra: Matembwe, Pawaga, Kibao, Makambako, spesso per sostituire i missionari che andavano in vacanza. Finché nel 1997 chiese di andare nella missione di Kibiti.
La mancanza di personale rendeva impossibile aprire una nuova missione, tanto meno in una zona dove le autorità musulmane vedevano i cristiani con fumo negli occhi. Tuttavia, a malincuore i superiori lo lasciarono libero nella sua scelta, per mettersi, secondo le regole canoniche, sotto la diretta responsabilità del cardinal Pengo vescovo di Dar Es Salaam.  
Con una Land Rover scassata, cominciò a visitare i villaggi, radunare i cristiani emigrati dal Mozambico, stringere amicizie con i capi locali, prendere visione delle necessità della gente e abbozzare i primi progetti, che, in un breve viaggio in Italia, presentò a varie parrocchie e conoscenti per reperire i fondi necessari.
La prima urgenza della missione era promuovere la convivenza pacifica tra musulmani e cristiani. Un’opera già avviata dalle suore, presenti a Kibiti da sei anni. Dopo numerosi incontri è nata l’associazione Uwawaru, un acronimo di termini swahili che in italiano stanno per «Unione di musulmani e cristiani del Rufiji». Scopo dell’associazione è la coltivazione razionale dei cereali nel distretto di Rufiji, creando così lavoro e risorse alimentari per combattere indigenza e malnutrizione.
Un’altra urgenza ad attirare l’attenzione di padre Adalberto è stata la cecità epidemica, causata da un insetto microscopico, che infesta tuttora una vasta zona della sua missione. Per combattere tale epidemia, accettata dalla gente come una fatalità, egli avviò il progetto denominato semplicemente «Cure agli occhi». Contattati i medici della Cooperazione internazionale, che si offrirono di eseguire le operazioni agli occhi gratuitamente, cominciò a portare i pazienti accollandosi le spese di viaggio e di degenza nella struttura sanitaria.
Con un’altra iniziativa, chiamata «Progetto donna», mirava a salvare le partorienti denutrite e bisognose di speciali cure per sopravvivere insieme alla propria creatura. Le andava a prelevare nei villaggi più lontani per portarle al dispensario o, quando era necessario, farle ricoverare in ospedali più attrezzati a Dar Es Salaam.
Altrettanto a cuore gli stavano i giovani: con il progetto «Adozione studenti» li aiutò nella frequenza scolastica, con la quale potevano liberarsi da ignoranza e pregiudizi.
Con l’aiuto delle parrocchie della città di Macerata e della diocesi di Camerino, oltre a sostenere i suoi progetti, era riuscito a procurarsi un mezzo di trasporto più efficiente. Ma una notte fu assalito dai ladri, che lo legarono, lo percossero duramente e rubarono la macchina nuova insieme alla vecchia Land Rover delle suore.
Anche in questa occasione non disse nulla ai familiari, ma confidò il suo sconforto a un suo compagno di seminario, che gli pagò il biglietto dell’aereo per tornare in Italia e lo sostenne nel raccogliere i fondi necessari per continuare i suoi progetti.
Tre mesi dopo era di nuovo al volante con più entusiasmo che mai e senza risparmiarsi: portò a termine la realizzazione del pozzo, moltiplicò i trasporti di giovani non vedenti a Dar Es Salaam, si prodigò per procurare cereali per tanta gente, ridotta alla fame da un parassita che aveva distrutto le coltivazioni di granoturco.
Al tempo stesso progettò la costruzione di una modesta abitazione per accogliere un prete locale, promesso dalla diocesi per aiutarlo nella sua missione. I familiari spedirono materiale vario per realizzare la casetta; due suoi fratelli promisero di recarsi a Kibiti per eseguire i lavori di muratura, impianto elettrico a pannelli solari, condotte dell’acqua…
Mancavano pochi giorni alla partenza quando, il 14 settembre 2002, padre Adalberto fu colpito da grave infarto. Per una decina di giorni cercò di stare calmo, finché accettò di essere ricoverato all’ospedale di Dar Es Salaam, da dove i familiari furono avvisati dell’accaduto via fax.
Convinto a ritornare in Italia, fu ricoverato all’ospedale di Macerata, dove pregava i medici di guarirlo in fretta, perché a Kibiti lo aspettavano tante opere incompiute. Il suo recupero lasciava sperare per il meglio; invece, tornato in famiglia, fu colpito da un nuovo infarto: il 24 novembre padre Adalberto si spegneva serenamente tra le braccia della madre. «Il Signore ha visto tutta la sua vita, intessuta di grandi sofferenze e tante giornie, e ha deciso di premiarlo, chiamandolo con sé in paradiso» diceva mamma Rosa, accettando con tanta fede quest’ultimo sacrificio, consolando i familiari per la grave perdita.

LA MISSIONE CONTINUA
Mentre Adalberto era ricoverato all’ospedale e raccontava ciò che gli era accaduto, uno dei familiari ebbe un accento di rimprovero, quando sentirono che, il giorno dopo l’infarto, si era recato a una quindicina di chilometri, per consegnare dei soldi all’autista del pullman che doveva portare a Dar Es Salaam 40 ragazzi ciechi, per essere sottoposti a interventi chirurgici. «Senza soldi l’autista non sarebbe partito – rispose padre Adalberto -. Vi sarei andato anche carponi! Non potete immaginare cosa può provare una persona, soprattutto giovane, che riacquista la vista dopo aver vissuto per anni nella cecità».
Di fronte a tanta tenacia, i familiari decisero di continuare le opere avviate da padre Adalberto. Presi i contatti con la diocesi di Dar Es Salaam, le suore e il nuovo parroco di Kibiti, fu mantenuta la promessa fatta a suo tempo: andarono nella missione per costruire la nuova abitazione.
Gli altri progetti cari al missionario scomparso furono presentati a un centinaio di benefattori, tra singoli e associazioni (comunità e gruppi parrocchiali, centri missionari, caritas, organizzazioni sindacali e produttive…) che risposero all’appello e continuano la missione di padre Adalberto.
Il progetto «Cure agli occhi» ha già restituito la vista a oltre 4 mila persone, soprattutto giovani e bambini; il «Progetto donne» ha salvato la vita a centinaia di mamme e bimbi; l’«Adozione studenti» mantiene a scuola varie decine di alunni (ragazze e ragazzi) dalle scuole primarie alle superiori.
Visti i risultati, sembra che, appena arrivato in cielo, il missionario si sia rimesso subito al lavoro: nel maggio 2003, a sei mesi dalla sua morte, l’Associazione Uwawaru è stata riconosciuta dal governo tanzaniano; e l’Iscos Marche (Istituto sindacale per la cooperazione e lo sviluppo) ha cominciato a fornire il suo apporto istituzionale, gestionale e di assistenza tecnica. Nello statuto di questo primo progetto di padre Adalberto sono stabiliti anche i seguenti scopi: assistere orfani e disabili, combattere fame e malnutrizione, senza proselitismo e nel rispetto delle proprie convinzioni religiose. La realizzazione di tali principi può diventare un esempio da imitare, non solo per la popolazione del Tanzania, ma anche per quelle dei paesi confinanti. 

di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Cari missionari

Ambientalisti…
siate più seri!

Cari missionari,
dell’articolo di Topino e Novara, condivido l’impostazione di fondo: bisogna far crescere la raccolta differenziata, con l’educazione e organizzazione, e riuscire a vivere con meno consumi e imballaggi. Però, di fronte a una emergenza, che da Napoli minaccia di estendersi anche altrove, l’atteggiamento degli ambientalisti che dicono di no a tutto, non avanzano proposte concrete se non un generico «bisogna essere tutti più buoni», mi sembra un po’ poco.
Cominciando dalle proposte banali, ma efficaci, mi risulta che in molte città tedesche e qualcuna francese e Usa, i supermercati siano dotati di compattatori, che pesano quanto viene portato in plastica e vetro e danno dei gettoni da spendere nel supermercato. L’azienda che raccoglie i rifiuti risparmia comunque molto lavoro di raccolta dai bidoni. È poco, ma serve a creare un’abitudine, tanto al supermercato si va in auto.
Poi, anche se non sono un tecnico, non riesco a capire come mai in Germania, Svizzera e Francia, paesi dove esiste una buona cultura tecnica e un’attenzione all’ambiente superiore alla nostra (da 2 anni in Francia sono vietati i sacchetti di plastica), ci ridono dietro e ci invitano a mandare in treno i nostri rifiuti, che ci pensano loro a bruciarli: non si curano della salute e dell’ambiente? Non mi pare: forse hanno una tecnologia più avanzata, ma non vedo perché non la compriamo.
D’accordo, i nostri Pecoraro, camorristi e ambientalisti si stracciano le vesti; ma lo fanno anche per gli inceneritori superati che ci apprestiamo a comprare, forse perché erogano maggiori tangenti, oppure non sono superati neanche i nostri e chi fa l’ambientalista generico si limita a dire no a tutto, senza fastidiose informazioni tecniche? Insomma, in Italia non ho ancora trovato ambientalisti seri.
Claudio Bellavita
via e-mail

Lo smaltimento dei rifiuti è un problema complesso (l’emergenza campana lo dimostra) e ci coinvolge tutti. Ben vengano i suggerimenti, come quelli riportati anche nella lettera seguente. Una cosa rimane molto chiara: tutti possiamo e dobbiamo fare qualcosa e farlo meglio!

Si può fare… meglio

Caro sig. Direttore,
sono un vostro sostenitore e vi ho indicati come beneficiari del 5‰ per il 2006. Poiché si vocifera che qualcuno abbia rubato dai conti della posta, sarebbe bello se ci deste qualche notizia in merito ai vostri fondi, in una delle prossime edizioni della sua simpatica pubblicazione Missioni Consolata.
In questa rivista trovo molto interessanti gli articoli nei quali date notizia delle situazioni di vari paesi nel mondo, da un angolo visuale diverso dai soliti e da parte di chi ci vive veramente in mezzo. Unico neo, a mio parere, un certo piglio terzomondista e verde arcobaleno che appare in alcuni scritti, che mi sembra poco obiettivo, per il verso opposto nei confronti delle condizioni reali delle cose.
Certo il peccato del mondo e il suo «principe» permangono anche dopo la Pasqua; ma è anche vero che non tutto è male come proclama il «grande bugiardo». L’umanità in fondo sta proseguendo il cammino della Genesi di dominare la terra, certo nella caligine e nell’oscurità, ma avanzando più di quello che egli dice, irridendoci di fronte a Dio.
Prendiamo la globalizzazione: ora stiamo tutti a dire che è un gravissimo errore, che la sua molla è il bieco profitto, che l’umanità andrà incontro alla catastrofe. Non mi sembra proprio così: il fatto è, ad esempio, che le materie prime, il grano in testa, hanno prezzi elevati semplicemente perché la gente muore meno di fame e sta un pochino meglio di prima, che l’acqua scarseggia anche perché l’igiene migliora, che la miseria assoluta si è ridotta, ecc.
Certo, si può fare meglio; certo sarebbe bello che le persone lavorassero solo per il bene comune, ecc. Ma di chi è la colpa se non del fatto che quando la cosa è di tutti, nessuno se ne cura? I sindacati non si sono mai sognati di usare maggiore severità nei confronti dei propri iscritti, pubblici dipendenti; anzi, hanno permesso con questi ogni genere di licenza. Poi ci stupiamo che si torni al padrone?
Nel numero di marzo 2008, l’articolo di apertura di don Antonelli spara a zero nei confronti di chi produce immondizia, ma non mi sembra abbia l’onestà intellettuale di dire che il mancato uso degli inceneritori (ma sì, usiamola la parola) ha prodotto molta più diossina che se questi fossero stati funzionanti e che quindi erano, sono essi quel buon rimedio che è stato invece rifiutato in nome dell’assoluto.
Afferma l’Antonelli che l’immondizia è causata da un uso ignobile delle ricchezze della terra, ma si dimentica di dire che il più è causato dall’uso di involucri che rendono difficile il degrado delle merci e che quindi vanno a vantaggio della sicurezza e del buon uso dei prodotti.
Produrre di meno e consumare di meno? Toare al mondo passato di miseria dilagante e fame diffusa? La risposta non può che essere produrre e consumare meglio. Produrre con attenzione alle conseguenze conosciute dei nostri atti, senza perfezionismi, e consumare quanto è utile per sviluppare la nostra vita, senza giansenismi, ma disponibili a pagare quanto necessario per migliorare le cose. Dobbiamo mettere in conto che non sarà mai una risposta impeccabile; sarà sempre un meno peggio, ma sarà quanto possiamo e dobbiamo fare.
Francesco Ferrazin
via e-mail
Di ogni offerta pervenutaci tramite c.c. postale viene inviata lettera di riscontro e ringraziamento; ma non siamo in grado di confermare quanto si «vocifera».
Così pure per i benefici devoluti alla nostra Onlus tramite il 5‰ (di cui ringraziamo di cuore); essi sono gestiti dal Ministero dell’Economia tramite l’Agenzia delle Entrate, che ci comunica l’importo totale, senza i nomi dei singoli donatori.

Altri dentisti in Kenya

V orrei prendere spunto dall’articolo del dott. Azzalin sull’iniziativa dell’ApaOnlus con il progetto «Adotta un dentista a distanza» (M. C. febbraio 2008, pag. 72), per contribuire a chiarire alcuni aspetti del volontariato in Kenya e relative problematiche che coinvolgono le associazioni che vi operano.
Faccio parte dell’associazione SmomOnlus (Solidarietà medico odontorniatrica nel mondo – http://www.smomonlus.org). Per conto dell’associazione e in partenariato con i missionari della Consolata, negli anni 2003-2004 ho dato avvio a due progetti di intervento odontorniatrico: a Likoni (Mombasa) e a Maralal. Grazie all’aiuto di padre Masino Barbero, lo studio dentistico di Likoni è diventato autonomo in breve tempo. Da alcuni anni una collega locale, regolarmente assunta, conduce lo studio in modo continuativo e con brillanti risultati.
Attualmente la Smom è impegnata, sempre a Likoni, per strutturare in un locale adiacente allo studio, un laboratorio odontotecnico. Il dott. Paolo Bologna sta operando affinché anche questa iniziativa si realizzi in tempi brevi con l’inserimento di operatori qualificati locali. L’autonomia e autosufficienza delle strutture sanitarie locali è dunque un punto chiave attorno al quale ruota il nostro lavoro di operatori sanitari e non sembrerebbe lecito voler prescindere da questo assunto, che guida da sempre l’operato della nostra associazione.
Ben diversa, però, è la situazione a Maralal. Lo studio dentistico è attivo dal 2003. Tra la diocesi di Maralal, nella persona del vescovo mons. Virgilio Pante, e la Smom, è stato stilato un protocollo d’intesa, che definisce le linee operative di entrambe le istituzioni. Numerose missioni di volontari, dentisti, odontotecnici e assistenti, si sono succedute nel tempo prestando cure a migliaia di persone.
Tuttavia Maralal, e più in generale il Samburu District, non è luogo di immigrazione intea. Lontano com’è dai circuiti urbani, non si presta a reperire personale sanitario locale qualificato. Il Dental Unit di Maralal potrebbe dunque, per molto tempo ancora, rivestire un ruolo puramente assistenziale, le cui saltuarie prestazioni non soddisfano i propositi di autonomia operativa caldeggiati dalla Smom. Nel corso delle numerose missioni che ho condotto a Maralal, ho avuto occasione e possibilità di approfondire la conoscenza di quella regione e focalizzare alcune problematiche cruciali.
Il Samburu District  fa parte dei distretti Asal (Arid and semi arid lands). Per caratteristiche climatiche e di territorio è dunque soggetto a periodi ciclici di siccità, che spesso in passato hanno dato luogo a terribili carestie. Per le tribù nomadi e seminomadi di quelle terre, la mancanza d’acqua rappresenta la sofferenza e la morte delle mandrie di bovini e capre, unica fonte del loro sostentamento.
Da questa consapevolezza nacque l’idea di perforare un pozzo per l’acqua nella regione. Iniziato nel 2006, a fine agosto 2007 il pozzo era completato e messo in funzione a Leir-Bahawa, 20 km a sud di Maralal. Alcuni volontari che parteciparono alle missioni si sono attivati personalmente per raccogliere fondi rivelatisi preziosi (se il «turismo umanitario» dà questi frutti… perché no?).
La Smom, nel suo intento di proporre un intervento globale di promozione e salvaguardia della salute, impegnando energie e risorse, ha patrocinato la realizzazione di quest’opera, volta a garantire l’accesso libero e gratuito a un bene prezioso e indispensabile. Ne beneficeranno circa 10 mila persone. L’opera non sarebbe stata comunque possibile senza l’aiuto esterno di singoli e associazioni, che hanno prontamente aderito all’appello della Smom. Per questo ringrazio: la parrocchia S. Giovanni Gemini (AG), don Salvatore e collaboratori; le associazioni «Carta Vetrata» di Cammarata (AG) e «Itinerari» di Telgate (BG); il gruppo «Amici di Villabalzana»(VI); una donatrice anonima di Reggio Emilia; padre Alex Moreschi.
Tralascio volentieri ulteriori commenti sul «turismo umanitario» e resto in attesa che qualcuno individui, nel lavoro sopra descritto, intenti «narcisistici e autoreferenziali» o, peggio ancora, una testa di ponte per introdurre «un inutile quanto dannoso e nuovo colonialismo di tipo economico».
Nel frattempo sarebbe auspicabile una maggiore prudenza nei giudizi e una rinnovata coscienza che promuova una reale solidarietà fra gli operatori umanitari a unico beneficio dei destinatari del nostro servizio.  Saluti fratei.
Dott. Massimo Fugazza

G razie, padre, per avermi passato la lettera del dott. Fugazza. Chi fa, è spesso esposto alle critiche.
Non ricordo chi sia il dott. Fugazza e se l’ho incontrato da qualche parte non lo ricordo. Lavoro in Africa dal 1987 e so come vanno queste cose, ma non volevo certo irretire nessuno anzi semmai ringraziarlo, insieme a quei gruppi elencati nella lettera, per ciò che fanno in Africa. Il mio era un pensiero ben condiviso dal gruppo di cui faccio parte e dunque rivolto solo a noi stessi. Mi spiace per questo malinteso: non era assolutamente mia intenzione coinvolgere altri e mi scuso sin d’ora se non è stato afferrato il concetto. Sono in partenza per il Ghana… Le farò avere la risposta condivisa dall’ApaOnlus.

Dott. Dino Azzalin




Le Frecce impazzite

La serie di articoli su droghe e tossicodipendenze proposti nel dossier di questo mese dal dottor Topino e dalla dottoressa Novara, sensibili ed attenti studiosi dei problemi legati all’ambiente e alla salute, interpella da tempo la missione e i suoi agenti.
Innanzitutto perché ciò che sa di «globale» sfida il mondo missionario e se c’è un tema con tale caratteristica è proprio questo. La carta geografica colorata pubblicata nella seconda pagina di introduzione al dossier descrive, meglio di tante parole, come il nostro bistrattato pianeta sia diventato anche un «mondo di droghe». A quella mappa – che evidenzia i paesi  produttori di sostanze stupefacenti e quelli che maggiormente le consumano – provate ad associare la cartina presentata in questa pagina. È la carta delle «frecce impazzite», che illustra il viaggio della droga verso i più floridi mercati, tra i quali, fa pena dirlo, si distingue il nostro bel paese: porti protetti di smercio o scambio dei prodotti, sedi di mafie che hanno il controllo dello spaccio in determinati territori, corridoi privilegiati per il trasporto della droga. Di mondo non contaminato ne resta davvero poco.

Il missionario vive il lungo viaggio della «merce» dal suo inizio, dai villaggi dove cannabis, coca e papavero da oppio vengono coltivati. È presente negli anfratti più bui delle «terre di mezzo»: nei corridoi dove la droga passa a fiumi attraverso canali di smercio sicuri o nelle baraccopoli alla periferia delle grandi metropoli, dove il marcio delle lamiere delle baracche fa da scudo a quelle ben più brillanti di SUV con vetri polarizzati di proprietà dei narcos. Accompagna il cammino fino a qui, nel nostro Occidente industrializzato e super-tecnologico, dove narcotraffico e tossicodipendenza segnano una delle tante frontiere impalpabili della missione di oggi. In questo tragitto, l’annuncio del vangelo passa principalmente attraverso  un lavoro di formazione volto a irrobustire la persona nella lotta fra coscienza individuale e il dio mercato. È quest’ultimo, infatti, il nemico vero dietro il quale si genera la narco-coscienza, quella sorta di hybris criminale, che si esalta nel mito del denaro facile, che non ha nessun rispetto se non quello garantito dal potere d’acquisto.
In tutti questi anni, Missioni Consolata ha più volte incrociato le frecce impazzite delle rotte delinquenziali della droga, raccontando di progetti produttivi alternativi, iniziative di sviluppo sostenibile, programmi di riabilitazione e recupero, ecc. Ha raccontato storie, fotografato luoghi e situazioni, inseguendo le frecce nel buio della selva amazzonica, sulle pendici scoscese delle Ande, sugli altopiani asiatici, negli slums di metropoli africane o latinoamericane. Questo dossier ci sfida a riposizionare ancora una volta la nostra missione alla fine del percorso per scoprire che, guarda caso, scandalo nello scandalo, il punto conclusivo coincide con quello di partenza. È il punto dove meno vorremmo trovarci: casa nostra.

Ugo Pozzoli

Ugo Pozzoli




«GUAI A VOI, CHE SIETE RICCHI, PERCHÉ AVETE GIÀ IL VOSTRO CONFORTO»

La parabola del «figliol prodigo» (19)

«25 Si trovava, intanto, suo figlio, quello anziano [lett.: presbitero] in [nel] campo. E quando fu di ritorno, si avvicinò alla casa, udì musiche e danze» (trad. letterale).

P rima di iniziare a descrivere il nuovo personaggio che entra in scena, è utile fare una breve sintesi di tutto quello che abbiamo riflettuto fino a qui, per riuscire a cogliere la novità di questo «figlio maggiore» (spiegheremo più avanti il vero senso di questa imprecisa traduzione) che è essenziale ai fini narrativi.

Il sabato o la persona?
Con il v. 25 inizia la seconda parte della seconda parabola di Lc 15, cioè, il prolungamento della parabola del «figliol prodigo» vera e propria che si conclude con il v. 24.
Abbiamo già insistito precedentemente, spiegando che Lc 15 si compone di due parabole che hanno per protagonisti il pastore e la pecora da un lato (vv. 4-7) e il padre con il figlio minore dall’altro (vv. 11-24). Le due parabole hanno lo stesso insegnamento: pastore e padre non guardano al loro interesse e al loro benessere, ma mettono a rischio se stessi per la salvezza della pecora e del figlio. Per loro conta ciò che è importante: la pecora e il figlio, realizzando così la parola del Signore che «il sabato è stato fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27).
La seconda parabola (padre e figlio minore) approfondisce e sviluppa l’insegnamento della prima perché, oltre la simbologia, si estende ai rapporti umani vissuti. Non è più solo la gioia di un ritrovamento, ma c’è di più: nonostante il figlio minore lo avesse ucciso, chiedendogli l’eredità prima della morte, il padre lo accoglie di nuovo come figlio e lo reintroduce nel diritto ereditario.
Non si tratta solo di perdono, il padre va oltre la natura, anzi va contro natura e non lo sfiora nemmeno l’idea di perdono perché si lascia distruggere per avere la possibilità di reimpastare il figlio e rigenerarlo nuovamente alla vita come fosse la prima volta.

Dio è trasgressivo
In queste due figure (pastore e padre) sono descritti il volto e la natura di Dio come Gesù lo ha manifestato con il suo agire e le sue parole. L’evangelista vuole metterci di fronte alla necessità di purificare l’immagine che abbiamo di Dio, obbligandoci a prendere coscienza del suo agire «trasgressivo» secondo le regole umane.
Il Dio di Gesù Cristo non è «l’idolo» ufficiale che la religione dominante ha addomesticato per orientare le coscienze e addormentarle, piegandole al suo potere, ma è il Dio scandaloso che rompe gli schemi della convenienza e della religiosità a buon mercato. Egli non accetta transazioni ricattatorie del tipo: «Se tu mi fai un favore, io ti offro un sacrificio», perché questo «mercato» è stato rovesciato definitivamente da Gesù nel porticato del tempio (cf Gv 2,13-22). Egli ha una sola fissazione: salvare tutti, a qualsiasi costo ( Gv 6,39), perché per lui non esistono buoni e cattivi, delinquenti e onesti; per lui tutti gli uomini e donne sono figli e figlie suoi e la prova è che «fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45).
Noi siamo lontani dal volto di Dio e spesso ci facciamo di lui una rappresentazione caricaturale, espressione di ciò che noi vogliamo che Dio sia: per molti cristiani Dio è la proiezione delle loro manie e del loro modo di pensare e vedere. Troppo facilmente dimentichiamo il monito di Paolo ai Gàlati che davanti ai nostri occhi «è stato dipinto/rappresentato Cristo crocifisso» (Gal 3,1).

Un figlio contrappunto
Da genio della narrazione, Luca vuole che comprendiamo bene il messaggio delle due parabole (pastore e padre) e per questo le prolunga, estendendone il significato, impiegando altre due figure complementari: al pastore che esprime la prospettiva maschile, aggiunge quella femminile della donna che trova la moneta (vv. 8-10). In questo modo la parabola del pastore che giornisce per il ritrovamento della pecora perduta diventa un insegnamento universale che vale sia per gli uomini che per le donne, cioè per tutta l’umanità.
Allo stesso modo la seconda parabola, che rigorosamente parlando è limitata al padre e al figlio minore (vv. 11-24), è prolungata di altri otto versetti, che illustrano la grandezza del padre sul contrappunto del «figlio maggiore» (vv. 25-32); tale prolungamento serve da contrasto, per fare emergere la figura del padre come un gigante di fronte alla piccolezza e piccineria egocentrica del figlio maggiore, che rivela una mentalità gretta e omicida più grave di quella del fratello minore.
Senza questa aggiunta, la parabola sarebbe abbastanza scialba, perché mancherebbe il contrasto tra il padre e il figlio anziano, tra questi e il fratello minore. Come in una pala a due quadri, a loro volta suddivisi in due parti, i colori sono netti, senza sfumature e per questo rapiscono l’attenzione e i sentimenti.
Con l’ingresso del «figlio maggiore» assistiamo a un capovolgimento imprevisto che Luca anticipa, collocandolo «fuori» della casa patea.
Ragionando con gli schemi umani, secondo un senso «materiale» della giustizia, istintivamente si è portati a solidarizzare con questo personaggio, che viene spontaneo giudicare buono e vittima dell’ingiustizia patea: non è giusto che il figlio minore che ha speso tutta la sua parte ora riabbia di nuovo tutto, mentre il maggiore che «è stato fedele» debba avere di meno. Se questo fosse il comportamento generalizzato, dove si andrebbe a finire?
Luca probabilmente consoce questo «tipico» modo di ragionare e quindi ci apre gli occhi a cogliere il comportamento di Dio, qui raffigurato nel padre, che capovolge sistematicamente i criteri di valutazione degli uomini.

Sguardo d’insieme
Nella terza puntata (MC 7-8 2006, pp. 61-63) abbiamo spiegato che la parabola lucana è un «midràsh» di Geremia 31, dove il figlio minore di Giuseppe, Efraim prende il posto del fratello maggiore, Manasse (Ger 31,18-20), realizzando un capovolgimento di diritti e situazioni, cioè ribaltando il modo umano di vedere le cose, alla luce del pensiero profetico che il modo di pensare di Dio è l’opposto di quello dell’uomo (cf Is 55,8-9). Questo capovolgimento di mentalità rispecchia l’insegnamento di Gesù, esposto nella parabola degli operai che vanno a lavorare nella vigna: gli ultimi non hanno meno dei primi (cf Mt 20,1-16) e che Lc mette in bocca a Maria nel Magnificat, che è la sintesi di tutta la storia della salvezza (Lc 1,51-53).
Nella stessa puntata abbiamo scritto: «La parabola dei due figli è parallela a quella del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14). Essi si recano al tempio per pregare, ma ritornano a casa a ruoli invertiti: l’atteggiamento del fariseo corrisponde a quello del figlio maggiore, mentre quello del pubblicano è identico a quello del figlio minore» (MC 12 2007, pp. 62-63). Il fariseo e il «figlio maggiore» sono tronfi di sé e accampano diritti davanti a Dio, mentre il figlio più giovane e il pubblicano sono disperati nel loro bisogno di perdono.
«Anziani, capi dei sacerdoti e scribi» (Mc 8,31)
Con il v. 25 entra in scena il figlio comunemente indicato nelle varie traduzioni (compresa la 3a edizione della CEI del 1997) come «figlio maggiore». Questa traduzione ridimensiona la vera portata del termine greco che è «presbýteros – presbitero/anziano» e ne svia anche l’esegesi, perché travisa l’intenzione dell’autore.
Con il termine «anziano» che traduce l’ebraico «zaqèn/ziqnê», infatti, nella tradizione biblica e giudaica al tempo di Gesù si indicavano gli antenati (At 2,17; Eb 11,2) oppure il sinedrio che governava Israele (Lc 7,3; Mc 11,27) e in epoca cristiana, i capi della comunità (At 14,23; 15,2). Qui si potrebbe dire che la parola è una specie di «sinèddoche» (dal gr. syn-ekdèchomai – prendo insieme), cioè una figura retorica che usa una parte per indicare il tutto: con il termine «anziani» si indicano tutte e quattro le categorie che componevano la suprema autorità in Israele.
I rappresentanti del sinedrio si dividevano in quattro classi o caste: sacerdoti, scribi, farisei e anziani; in genere si usa la forma abbreviata, cioè uno o due nomi per indicare tutti, cioè la «casta» globale dell’autorità ufficiale. Nei vangeli troviamo molto spesso questo utilizzo: «Scribi e farisei» oppure «dottori della leg­ge» o anche «farisei e dottori della leg­ge», e ogni volta s’intende la totalità del sinedrio, cioè di chi esercita autorità.
Luca quindi ci vuole parlare dell’atteggiamento ufficiale della religione del tempo di Gesù, qui rappresentata dal figlio «anziano», che escludeva dalla salvezza «i pubblicani e i peccatori» (Lc 15,1), nella parabola rappresentati dal figlio più giovane. Da ciò rileviamo che la parabola non ha il compito di suscitare un comportamento etico, cioè non è scritta per insegnarci a essere più buoni e accoglienti, ma ci insegna qual è la prospettiva di Dio che si manifesta a noi in un piano di salvezza, rivelato e proclamato da Gesù, affinché noi potessimo prenderlo come modello di vita e di testimonianza.

Sinagoga e chiesa scomunicate
Nel tempo in cui scrive Lc (seconda metà del sec. i d.C., anni 80-90), c’è una fortissima tensione che conduce alla separazione totale, con un atto di scomunica reciproca, tra la comunità cristiana ormai consolidata e la sinagoga anche della diaspora: gli ebrei accusano i cristiani di essere traditori della Toràh di Mosè e quindi li considerano «apòstati»; i cristiani, al contrario, considerano gli ebrei ciechi, che non sanno vedere il compimento di tutte le profezie nella persona di Gesù, e si ritengono i «veri discendenti» di Abramo (Mt 3,9). Il momento è drammatico.
Anche all’interno della chiesa le lotte sono feroci, come testimoniano le lettere di Paolo (vedi ad es. la lettera ai Galati): i cristiani provenienti dal giudaismo non accettano «il vangelo» di Paolo, che predica il superamento della tradizione nella novità di Cristo e si oppone drasticamente ai primi, che vogliono che i pagani convertiti prima diventino ebrei attraverso la circoncisione e solo dopo possono pervenire al battesimo come qualcosa in più. Per essere cristiani bisogna farsi prima giudei.
Dopo una lunga e furibonda lotta, che portò al primo concilio di Gerusalemme, prevale la posizione di Paolo (cf At 15,1-29), anche se l’apostolo non sarà mai accettato completamente dai giudeo-cristiani e subirà persecuzione e opposizioni da parte di «falsi fratelli», che ne spiano continuamente la predicazione e l’agire (cf 2Cor 11,26; Gal 2,4).
Questo, in sintesi il contesto storico, in cui collocare la parabola e allora si capisce meglio che l’intento dell’autore non è solo quello di completare un raccontino fiabesco con la figura un po’ strana di un figlio, ma di presentarci il simbolo di una categoria religiosa, cioè gli «anziani» d’Israele, a loro volta rappresentativi di tutto il sinedrio. Essi sono stati introdotti e descritti già all’inizio del capitolo: «I farisei e gli scribi mormoravano» (Lc 15,2) per l’accoglienza che Gesù riserva «ai pubblicani e ai peccatori» (Lc 15,1).

Religione col telecomando
Non sappiamo se questo «figlio» appartenga di fatto al gruppo degli «anziani» d’Israele e quindi al sinedrio, certamente li rappresenta molto bene e ne esprime l’atteggiamento di totale esclusione nei confronti di quanti essi non ritengono «idonei» alla salvezza. Logicamente, sempre «in nome di Dio», che gestiscono col telecomando a distanza, perché Dio è a loro servizio ventiquattro ore su ventiquattro, a cui ha delegato la sua volontà e la sua verità. Quando l’autorità si appella all’autorità di Dio per dare forza al proprio insegnamento, è segno che è distante da Dio, perché significa che la propria vita di testimonianza fa acqua da tutte le parti. L’autorità di Dio non ha bisogno di essere provata, perché si manifesta e si esprime nella trasparenza della vita che diventa una profezia parlante e orante del cuore di Dio.
La rappresentatività dell’«anziano» figlio non riguarda tanto le figure storiche degli «anziani, scribi e farisei», perché anche di loro al tempo di Gesù vi erano persone rette e giuste che cercavano la volontà di Dio con purezza di cuore: al contrario, il «figlio anziano» è rappresentativo del «fariseismo» in quanto atteggiamento religioso escludente e, quindi, ci riguarda da vicino, perché possiamo essere religiosi osservanti e praticanti ed essere farisei, che rinchiudiamo l’immagine di Dio nelle nostre anguste categorie mentali fino a escludere quanti non sono in sintonia con noi.
Lc ci vuole insegnare che dobbiamo costantemente purificare il nome e l’immagine di Dio che è in noi, per avere la certezza di essere di fronte al Dio di Gesù Cristo. Non è scontato: si può essere credenti ed essere «idolàtri»; si può essere preti e celebrare messa tutti i giorni e ritrovarsi «atei», perché ossequienti di una caricatura di Dio e non nel Dio carnale che ci ha spiegato Gesù (cf Gv 1,18).
Sì, si può essere religiosi e pii senza fede, perché per essere religiosi basta osservare esattamente le regole e le pratiche di pietà, ma per essere uomini e donne di fede bisogna essere appassionati e passionali, carnali e assetati di verità, amanti della novità, cercatori instancabili del volto di Dio, sempre nuovo e sempre diverso, capaci di dubitare di se stessi e delle proprie certezze, liberi da ogni forma di religiosità schiavizzanti e servi di una fede che affonda nel corpo e nel cuore di una Persona viva che viene a noi come Parola, Pane, Perdono, Tenerezza, Vita, Progetto, Speranza. Questa Persona è il Signore risorto, anzi il Signore Crocifisso e Risorto.

Lontano, restando vicino
«25 Si trovava, intanto, suo figlio, quello anziano (lett.: presbitero) in campo. E quando fu di ritorno, si avvicinò alla casa, udì musiche e danze».
La notizia più importante che Lc offre alla nostra attenzione nel presentare il nuovo personaggio è agghiacciante: «Si trovava nel campo», cioè non era in casa, ma lontano. Il fratello minore quando se ne andò da casa «partì per un paese lontano» (v. 13) e quindi intraprese un viaggio di diverse giornate di cammino: dovette sudare per diventare estraneo alla sua famiglia.
Il fratello «anziano» non ha bisogno di andare distante, egli è già «lontano» pur restando in casa. Non assiste all’incontro del padre con il fratello, non ne partecipa la gioia, non è contagiato dal trambusto che il ritorno comporta. Forse, Luca ci dice che, anche se fosse stato dentro le mura di casa, per lui sarebbe stato la stessa cosa, perché questo figlio è lontano non fisicamente, ma nel cuore. Si può stare insieme accanto ed essere distanti; si può vivere nella stessa famiglia/comunità/chiesa, vivere sotto lo stesso tetto, mangiare alla stessa mensa ed essere lontani, cioè irraggiungibili.
La notizia non è solo tragica, ma la costruzione sintattica del greco ci dice qualcosa di più. Il verbo all’imperfetto è all’inizio di frase per darvi importanza e sottolineare lo stato quasi permanente che esprime, perché l’imperfetto indica un’azione continuativa: «Si trovava», cioè, «era solito trovarsi» nel campo. Dopo la spartizione dei beni patei, probabilmente egli controlla da vicino la sua parte di eredità che cerca di fare fruttare al massimo: egli assapora la «sua» proprietà e da essa non si distacca mai, perché egli ama ed è amato dal possesso che, invece di riempirlo di gratitudine verso il padre che gliel’ha dato, lo allontana da lui sempre più.
Si può dire che il figlio «anziano» è l’assente per eccellenza: assente dalla vita e anche da se stesso, perché prigioniero del dèmone del possesso, sempre «in campo» a misurare, a controllare e amare la sua ricchezza con tutto il cuore, con tutta l’anima e tutte le forze (cf Lc 10,27). Come può trovare il tempo per «essere in casa» e accorgersi degli eventi straordinari che vi accadono?
Tre capitoli prima, Lc lo aveva avvertito che il Signore aveva messo in guardia i ricchi, i quali non possono salvarsi: «Badate di tenervi lontano da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni» (Lc12,15); ma egli era lontano e lontano è rimasto, anche se materialmente «si avvicinò alla casa». (continua – 19)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella