«Hai mutato la mia veste di sacco in abito di gioia»

la parabola del «figliol prodigo» (17)

22 Presto, portate qui il vestito più bello
e fateglielo indossare, mettetegli l’anello
al dito e i sandali ai piedi.

Presto
Alcuni codici, sia maiuscoli che minuscoli, eliminano l’avverbio iniziale «presto» (gr. «tachý»), che dà il senso del precipitare degli eventi, della frenesia del padre e di tutta la casa coinvolta nell’accoglienza del figlio ritornato. Con tale eliminazione si vuole ritardare il perdono del padre in attesa che il figlio faccia il suo atto di dolore. È disdicevole per un padre cedere all’emozione di fronte al figlio. Nella mentalità orientale solo dopo che il figlio si umilia il padre può «benignamente» concedere la sua benevolenza. Se lo fa prima, mette in discussione la sua autorità.
Il testo greco, invece, accettato e riportato dai codici più antichi, compreso il papiro 75 del sec. iii, mette l’avverbio «tachý, presto/veloce/subito» in principio di frase, conferendogli così importanza dal punto di vista sintattico, perché lo pone in posizione enfatica. Nello stesso tempo sottolinea la successione simultanea delle azioni e degli oggetti, perché mette in evidenza la fretta che il padre ha di dimostrare il suo amore sconfinato, capace di mettere in movimento tutto l’ambiente circostante.
«Presto… portate… rivestite… mettete… prendete» danno il senso plastico di un ritmo che crea un clima e rivela una verità: il padre non si cura della sua dignità di fronte al mondo, ma si occupa e preoccupa soltanto di suo figlio. Il perdono del padre è contagioso fino al punto da riuscire a trasformare l’immobilità precedente in una gioia senza fine dalla quale nessuno si può dispensare. Il padre fa sue le parole del salmista che esprimono molto bene la sua condizione e la sua gioia: «Hai mutato il mio lamento in danza, la mia veste di sacco in abito di gioia perché io possa cantare senza posa» (Sal 130/129,12-13).
Il padre con questo comportamento condivide la stessa gioia degli altri due personaggi della parabola precedente nello stesso capitolo: del pastore che ha ritrovato la pecora: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta» (Lc 15,6); e quella della donna che ha ritrovato la moneta: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduta» (Lc 15,9). Gli atteggiamenti e le parole sono identiche:

v.6    (pastore)    Rallegratevi con me    perché ho trovato la mia pecora
v.9    (donna)    Rallegratevi con me    perché ho trovato la moneta
vv.23-24    (padre)    Facciamo festa    perché questo mio figlio è stato ritrovato

Padre, pastore e donna manifestano il sentimento profondo del Dio Padre/Madre che Gesù è venuto a «mostrare»: il Dio che mette in gioco se stesso pur di trarre in salvo i figli. Le tre figure delle parabole di Lc 15 sono veramente «il sacramento» del Dio di cui capovolge l’immagine abituale, diffusa dalla religione: «Il Signore è lento all’ira e grande in bontà, perdona la colpa e la ribellione, ma non lascia senza punizione; castiga la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione» (Nm 15,18). 
Il Dio di Gesù, al contrario, si rallegra e fa festa, senza chiedere in cambio nulla, felice che il figlio perduto è ritrovato. Il padre della parabola lucana, infatti, non permette al figlio di finire la sua confessione, ma lo precede con il suo amore generante per rigenerarlo nuovamente. Egli è il vero erede del profeta Osea che continua ad amare la moglie Gomer, nonostante sia scappata tre volte per fare la prostituta (cf Os 1,1-9; 3,1-5). Dopo averla rincorsa e trovata, circondata dai suoi amanti, aveva il diritto di applicare la toràh e comminare una sentenza di morte (Lv 20,10). Secondo la tradizione giudaica «grande è la misericordia del Signore e il suo perdono per quanti si convertono a lui» (Sir 17,24), che è l’atteggiamento fatto proprio dalla religione per gestire la mediazione tra il peccatore e Dio. Il profeta Osea, invece, si pone su un altro piano e travolge di tenerezza la moglie/prostituta, assetata di amore, prima ancora che lei apra bocca o esprima il suo pentimento, offrendole un viaggio nuziale nei luoghi del loro primo amore: il deserto di Dio (cf Os 2,16-18).
Sulla scia del profeta Osea, anche Gesù offre il perdono di Dio prima della conversione, prima della stessa richiesta: «Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rom 5,8.10). Lc insiste su questo aspetto, che costituisce il cuore del vangelo e la novità apportata da Cristo. Spesso anche per noi cristiani, Gesù è uno dei tanti profeti (Lc 9,19), il cui messaggio è un ideale di vita, tanto grande da essere irraggiungibile e finiamo per farci da noi una immagine di Dio su nostra misura che rispecchi le nostre esigenze e miseria. Dio diventa ìdolo.
Il comportamento del padre rispecchia lo stesso comportamento di Gesù nei confronti della prostituta che entra in casa del fariseo Simone (Lc 7,36-50). Lo scandalo è enorme: in un consesso di uomini perbene di giorno e frequentatori di prostitute di notte, l’ingresso della donna è un insulto. La donna che rende impuro tutto ciò che tocca si accucciola ai piedi di Gesù, glieli lava con le sue lacrime e glieli asciuga con i suoi capelli (Lc 7,36-50). Nata per fare la prostituta, non ha altri gesti che quelli di una prostituta per dimostrare il suo interesse e attenzione all’uomo che la guarda con occhi nuovi e non giudicanti. Di fronte a una tale donna, da cui ogni uomo perbene deve stare lontano almeno due metri, Gesù si lascia toccare e baciare e, in contrasto con l’ambiente circostante, perdona la donna senza nemmeno chiederle di cambiare mestiere: «I tuoi peccati sono perdonati… La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!» (Lc 7,48.50).

Il vestito
Il primo ordine del padre riguarda il «vestito più bello» (in greco «il vestito, il primo»), non un vestito qualsiasi, ma quello della festa, quello importante. E non si tratta di liberare il figlio dagli stracci che addossa e dargli una sistemazione dignitosa. «Il vestito» ha un significato preciso. Il padre veste il figlio restituendogli la dignità, come Dio veste Adam ed Eva, liberandoli dalla loro nudità (Gen 3,21) che offuscava la loro trasparenza di figli del Creatore. Da notare che è il padre a vestire il figlio: la dignità di figlio nessuno può darsela da solo, ma può solo essere accolta o rifiutata. Andando via di casa il figlio ripudiò, insieme al padre, la sua identità umana e filiale, ora la riceve di nuovo dal padre, l’unico a potergliela restituire.
Per il vestito nel vangelo di Lc si usano due parole: «imàtion», che vi ricorre 11 volte (Lc 5,36; 7,25; 8,35, ecc.), e «stolê», che si trova solo qui: è una di quelle parole «esclusive» e per questo hanno una importanza particolare.
Il primo termine indica un vestito generico, comune, senza alcuna connotazione particolare. Il secondo invece è il vestito «della dignità», riservato ai ministri, autorità, a chi esercita una funzione pubblica di rilievo. In questi casi la «veste-stolê» indica la dignità della persona che la indossa. Nell’Apocalisse la veste è il segno di riconoscimento dei martiri (Ap 6,11), ma è anche il distintivo della folla immensa che nessuno poteva contare (Ap 7,9.13-14) e l’abito di coloro che vogliono mangiare dell’albero della vita (Ap 22,14). Nell’Apocalisse la «veste-stolê» è il segno visibile del popolo del regno di Dio, in cui ora è riammesso il figlio ritornato da «un paese lontano» (Lc 15,13) alla casa del padre che ancora lo ama e lo amerà per sempre.
La qualifica del vestito, in italiano, è «il più bello». Il testo greco dice esattamente: «portate il vestito, il primo». Il padre non chiede di rivestire il figlio con un vestito qualsiasi, ma chiede che venga portato «quello che è primo».
L’aggettivo «prôtos-primo» ha tre significati: a) può avere valore temporale per cui significa «quello che aveva prima di andarsene» e che è stato conservato; b) può indicare la qualità del vestito, nel senso di «migliore/splendente» e quindi «il più bello»; c) nella bibbia è usato anche per definire «gli aromi migliori/preziosi», «olii raffinati» (cf Ez 27,22; Ct 4,14; Am 6,6); per cui, qualunque sia il significato, Lc nella parabola si riferisce a qualcosa di non usuale, ma di prezioso.
Per capire il comando del padre che ordina di portare il «vestito, quello migliore», bisogna tener presente che nella cultura mediorientale il «vestito» indica una dignità totale, anzi, moltiplicata: il vestito non solo era il migliore, ma è stato anche conservato per questa occasione, segno che il padre non si è mai rassegnato alla partenza del figlio. I tre significati sono intrecciati perché hanno il medesimo senso: reintegrare il figlio nella dignità filiale che il figlio aveva perduto, ma che il padre mai aveva rinnegato; il vestito è il simbolo della dignità filiale, anzi, della pienezza della dignità. Di più: è il segno della personalità, perché il vestito è prolungamento del corpo, estensione dell’anima. Nonostante la partenza, la dignità del figlio, simboleggiata dal vestito, è sempre rimasta in custodia presso il padre: il figlio dilapidava la vita in una terra impura e il padre custodiva la dignità del figlio, conservando gelosamente «il vestito, il primo».
In tutte le religioni e culture, il «rito dell’investitura» è il riconoscimento ufficiale di un servizio o incarico. Giacobbe per dimostrare l’amore di predilezione che provava per Giuseppe, figlio insperato avuto da Rachele, «gli aveva fatto una tunica dalle maniche larghe» (Gen 37,3). Il faraone per onorare di fronte a tutto l’Egitto Giuseppe, che aveva interpretato i suoi sogni e salvato l’Egitto dalla carestia, «lo rivestì di abiti di lino finissimo» (Gen 41,42).
Per affermare la dignità di Eliakìm, che Dio sceglie al posto del maggiordomo Scebnà, Isaia ci informa che è lo stesso Dio a fae l’investitura ufficiale, per bocca del profeta: «Ti toglierò la carica, ti rovescerò dal tuo posto… Chiamerò il mio servo Eliakìm… lo rivestirò con la tua tunica lo cingerò della tua sciarpa e metterò il tuo potere nelle sue mani» (Is 22,19-21). Nel libro di Ester, quando viene scoperto l’inganno di Amàn contro Mardocheo, il re chiama il primo e chiede: «Che si deve fare a un uomo che il re voglia onorare? Amàn rispose al re: “Si prenda la veste (gr. stolê) regale che suole indossare il re… si rivesta di quella veste l’uomo che il re vuole onorare….”» (Est 6,6-9). Qui la veste è un’onorificenza che attesta la benevolenza del re e riconoscimento pubblico a un uomo che agì con giustizia, anche a rischio della vita. Dai testi emerge con chiarezza che il vestito e la sciarpa sono simboli visibili di un’autorità trasmessa e ricevuta, segno di un onore tolto all’uno e concesso all’altro in forza della magnanimità di Dio.
Il figlio della parabola non si trova in nessuno dei casi biblici citati: egli non merita alcun riconoscimento o protezione; al contrario, egli merita solo disprezzo o, al limite, pena e compassione. Nulla è a suo favore, tutto è contro di lui. Possiamo meravigliarci che il padre della parabola lucana imiti il Dio di cui la scrittura descrive il comportamento? Togliendo gli stracci al figlio e rivestendolo della veste della dignità, il figlio giovane rappresenta Gerusalemme che finalmente depone «la veste del lutto e afflizione» per rivestirsi «dello splendore della gloria» di Dio (cf Bar 5,1). Il figlio che ha ricevuto la veste nuziale della dignità ora può entrare a pieno titolo nella sala di nozze e partecipare al banchetto dell’alleanza (cf Mt 22,11-12).

L’anello
Ancora oggi il sigillo dei re e dei papi è racchiuso nel simbolo di un anello. Quando un papa muore, il primo atto ufficiale, dopo la constatazione della morte, è la rottura dell’anello del pescatore, simbolo del potere e della autorità conclusi del defunto pontefice.
Nella bibbia vi sono 3 tipi di anello: a) anello-pendente (gr. hènōdrion) che si mette alle orecchie o al naso (cf Is 3,21). Il servo di Abramo, in cerca della sposa per Isacco, quando incontra Rebecca, le mette al naso un anello-pendente di «mezzo siclo» (circa 6 grammi d’oro) (Gen 24,22.47); b) anello-amo (gr.: ànkistron) che si mette alle narici delle bestie, ma anche al naso dei prigionieri di guerra come simbolo di sottomissione e schiavitù (2Re 19,28; Is 37,29; cf Am 4,2; Ez 19,4.9); c) anello da dito (daktýlios), oggetto prezioso che distingue la persona che lo indossa, come si legge nella Lettera di Giacomo: «Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro…» (Gc 2,2).
Qui l’anello è ostentazione di ricchezza, sbattuta in faccia ai poveri, ma anche segno del degrado di una comunità che si adegua ai costumi del mondo. Luca usa questo termine che prende dalla bibbia greca della Lxx e lo usa soltanto qui, per cui diventa anch’essa una parola «esclusiva» con un significato proprio e profondo.
L’anello al dito è segno di distinzione sociale, simbolo di autorità e reputazione di alto rango, un sigillo di potere. Prima ancora di dargli la veste di plenipotenziario, «il faraone disse a Giuseppe: “Ecco, io ti metto a capo di tutto il paese d’Egitto”. Il faraone si tolse di mano l’anello e lo pose sulla mano di Giuseppe» (Gen 41,41-42). Portare l’anello del faraone significa rappresentarlo in tutto il suo regno: «Io ti metto a capo di tutto il paese d’Egitto». Mettere l’anello nella mano di Giuseppe è conferirgli l’autorità del faraone che così prolunga la sua persona in colui che porta il suo anello, è la stessa cosa: ogni decisione che Giuseppe prenderà e sigillerà con l’anello ricevuto, è la decisione del faraone stesso.
L’antenata di Gesù, Tamar, che si finse prostituta per esercitare il suo diritto di madre, al suocero Giuda che la mette incinta chiede come pegno del loro incontro «l’anello (daktýlion), il cordone e il bastone» (Gen 38,18.25).
Il padre che mette l’anello al dito del figlio, non solo gli riconosce la dignità di figlio, ma gli affida nuovamente l’amministrazione della casa, come suo fiduciario. Mettendo l’anello al dito, il padre di fatto e di diritto reintegra il figlio anche nell’eredità per cui significa che questo figlio, alla morte del padre, può ereditare di nuovo. È un comportamento scandaloso, perché ancora il figlio non dà alcuna garanzia, ma il padre gli affida la cassaforte di casa. Oggi è come se un padre desse il libretto degli assegni o carta di credito sulla parola e sulla fiducia. L’amministratore di casa conserva l’anello/sigillo con cui compra quanto è necessario alla famiglia: tutti fanno credito perché egli appone il sigillo dell’anello, una garanzia sicura.
Qualcuno potrebbe obiettare: il padre è ingiusto, perché reintegra il figlio che ha sperperato tutto; ereditando di nuovo, ci rimette il figlio maggiore. Teoricamente, alla luce dei comportamenti umani, l’obiezione ha un suo fondamento, ma nulla sul piano di Dio. È la stessa situazione del padrone che chiama gli operai per lavorare nella sua vigna: pattuisce un contratto e alla fine a quelli delle 5 della sera dà la stessa paga di quelli delle 6 del mattino; accusato d’ingiustizia, risponde che egli è libero di disporre dei suoi beni con generosità «o forse tu sei invidioso perché io sono buono?» (Mt 20,1-15).
L’anello al dito ha anche un risvolto pubblico: tutti devono vedere che è il padre a reintegrare il figlio, perché d’ora in poi tutti devono riconoscere che quel figlio fuggito senza dignità, con quell’anello rappresenta il padre, e tutti gli devono tributare il rispetto che il padre merita ed esige. Questa investitura nella dignità e nella eredità si completa con la consegna dei «sandali».

I sandali
Nelle case dei nobili, solo gli schiavi vanno scalzi, mentre i padroni portano i sandali ai piedi, segno della loro autorità sulle proprietà. Camminare con i sandali significa dominare su ciò che si calpesta, perché essi sono il simbolo della persona libera e non schiava, che esercita il possesso legittimo sui propri averi. Mettere i sandali ai piedi del figlio equivale a restituirgli la libertà totale su tutta quanta la proprietà. Voleva chiedere di essere trattato come un «dipendente», il figlio perduto e ritrovato riceve la dignità di figlio (tunica), l’autorità dell’erede (anello) e la libertà di persona (sandali).
Colui che era diventato «dipendente» dei porci ora si ritrova senza sforzo a essere figlio a tutti gli effetti, uomo a cui il padre ha restituito la dignità, piena fiducia su ogni cosa e totale libertà senza condizioni. Non basta vivere in qualche modo, non è sufficiente vivacchiare, per vivere da figli sono necessarie alcune condizioni: si deve essere figli, avere la dignità, possedere la responsabilità dell’autorità. Il padre non vuole un figlio a mezzo servizio, dimezzato, tollerato: vuole un figlio nella pienezza umana e ufficiale della sua identità e quindi dei suoi affetti.
Nessuno può trattenere qualcun altro a forza o per bisogno: prima o poi scappa da dove è venuto. Il padre lo sa e, se offre al figlio la possibilità di riscattarsi, lo fa senza condizioni, ma con l’amore sconfinato che solo un padre sa nutrire. Gesù è venuto per questo: ci ha portato un vangelo che è «scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani» (1Cor 1,23), perché impariamo a pensare e vivere secondo la mentalità di Dio. Se ci scandalizziamo del suo modo di essere e agire, siamo lontani dal regno e navighiamo in un confuso mare di religiosità che esprime più i nostri bisogni che il senso della nostra fede nel Dio di Gesù Cristo, «perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8). Tutto ciò ci conduce nel NT dove Gesù «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1), senza condizioni, senza contropartita. (continua – 17)

di Paolo Farinella

Paolo Farinella