La parabola del «figliol prodigo» (16) L’amore precede sempre il pentimento

«Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (Mc 9,35)
«Che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno» (Gv 6,39)

Immobile, in corsa
Il ritorno del giovane figlio non è esaltante: in cuor suo non è sicuro dell’accoglienza del padre. Per non sbagliare, infatti, lungo il viaggio si prepara e impara a memoria il discorsetto con cui commuovere il «vecchio». Da questo suo modo di ragionare, implicito nel testo, si evince che il figlio non conosce il cuore del padre che considera come un padrone. Cominciamo a capire perché è scappato «dal padre»: non ne aveva mai conosciuto la personalità e il cuore. Egli ritorna lento nel passo e pesante nel cuore, consapevole di avere perduto ogni diritto legale. Il padre al contrario corre e si precipita «addosso» al figlio, consapevole di una cosa soltanto: il figlio gli ritorna vivo. Al figlio in partenza interessava «il patrimonio», al padre che resta interessa «la persona» del figlio.
Da un punto di vista etico, è il padre che prende l’iniziativa, rimettendo in moto il processo generativo per giungere a un nuovo parto. Non a caso, come abbiamo visto, Luca ricorre al vocabolario della gestazione e parto per descrivere gli atteggiamenti matei del padre che accoglie il figlio. L’incontro è drammatico; in pochi versetti l’autore costruisce una scena forte espressiva di contrasti, come in una scena drammaturgica: alla lentezza del figlio che torna si contrappone la frenesia del padre che corre.
È un comportamento contro natura: per la mentalità orientale correre è comportamento disdicevole. La persona che corre, specie se riveste un’autorità, «perde la faccia» e cioè mette in gioco il suo onore. Un padre o un maestro non corre verso il figlio o il discepolo: sono questi che devono andare e correre verso il maestro o il padre. La logica sottintesa è che la persona matura e saggia non corre, ma «sta» perché il saggio non ha mai fretta.
Per logica, sebbene estrema, semmai avrebbe dovuto essere il figlio in quanto giovane e inesperto a correre verso il padre e questi avrebbe dovuto aspettare ritto e fermo sulla soglia di casa. Non sappiamo quanto tempo è durata la vacanza del figlio giovane, ma nel capovolgimento dei comportamenti, noi scorgiamo la gravità e la pesantezza della realtà. Tutto si capovolge: il padre perde la dignità per affrettare il godimento del figlio.

Pateità preveniente
Da una parte c’è un uomo, partito da figlio per essere libero da ogni regola e costrizione anche affettiva, che ora ritorna solo con la disponibilità a fare il servo. Suo unico bagaglio è la richiesta di diventare un salariato che è meno di un servo. Questi infatti resta nella casa e fa parte del casato; il salariato esiste in funzione del lavoro: quando manca, il salariato viene mandato via. Dall’altra c’è il padre che non ha mai cessato di essere tale anche quando il figlio in un paese lontano sperperava la «sua vita». La pateità non si esaurisce mai: più i figli la sperperano più essa si rafforza e ingigantisce. È il segreto dell’essere di Dio e del conseguente suo agire: la pateità di Dio è preveniente perché anticipa sempre la debolezza dei figli e se ne fa carico. Il bacio del padre al figlio è il segno eloquente del ripristino dell’intimità senza riserve.
La conversione non è un atto di volontà che noi presentiamo a Dio come pegno per ricevere il suo perdono; al contrario, essa è la conseguenza dell’amore di Dio che  perdonando prima ancora di essee richiesto, pone le condizioni e suscita la conversione del cuore che è sempre un dono e frutto della grazia. Nessuno di noi è capace di conversione, solo il Signore può convertire: «Facci ritornare e noi ritoeremo» (Lam 5,1). Non è il figlio che ritorna di sua spontanea volontà o iniziativa, ma è il padre che lo attrae e lo attira a sé, mettendo in movimento tutte le possibilità che condurranno alla salvezza definitiva.
Il Dio di Gesù non pratica la religione del «tu dai una cosa a me e io do una cosa a te»; questa dinamica conduce soltanto alla logica della prostituzione, mentre quella di Dio è la salvezza della persona in vista della quale Dio previene anche il desiderio, come insegna pure Dante a proposito della intercessione di Maria: «La tua benignità non pur soccorre / a chi domanda, ma molte fïate / liberamente al dimandar precorre» (Paradiso, xxxiii,16-18).

Quale peccato?
I versetti 21 e 22 sono tormentati: l’edizione critica riporta un’infinità di varianti di molti codici che a tutti i costi vogliono armonizzarli con il v.18, facendo ripetere al figlio l’intero discorso che si è preparato e rallentando così l’irruenza del padre «precipitoso». Questo tentativo di restaurazione è in funzione chiaramente ecclesiale: si vuole mettere in evidenza l’atteggiamento umile e penitenziale del figlio che chiede perdono e lo chiede in forma completa o come si direbbe in morale in «forma integra». In questo modo il perdono del padre viene dopo la richiesta di perdono del figlio: ciò rispecchia la prassi della confessione sacramentale o monastica che vede il perdono subordinato alla contrizione. Un caso evidente di uso strumentale della scrittura perché è contro la chiarezza del testo lucano che antepone il perdono gratuito del padre alla disponibilità del figlio.
L’evangelista sottolinea che il figlio prima di partire si era rivolto al padre per prendere quello che non gli apparteneva: «Il più giovane dei due disse al padre: Padre, dammi…» (v.12), ora invece sottolinea che non è il «più giovane» che parla, ma soltanto «il figlio»: «Il figlio gli (al padre) disse: padre, ho peccato…» (v. 21). La stessa invocazione ha un suono diverso, perché pronunciata in circostanze diverse con atteggiamenti diversi e cuore diverso. Là il padre era un ostacolo da fare fuori, qui è il padre come rifugio e misura della colpa. Il figlio usa il termine proprio del rapporto con Dio: «Ho peccato!». La sua colpa non è morale, ma relazionale. Non ha peccato perché ha dissipato, perché è stato dissoluto, perché si è divertito – queste restano azioni ignobili e moralmente condannabili -, ma qui il suo peccato consiste nel non avere conosciuto il padre e nell’avere interrotto la relazione padre-figlio e figlio-padre.

Oltre l’integrità, la totalità
Del «peccato» abbiamo spesso una concezione materialista: misuriamo le volte, quantità e peso. La preoccupazione maggiore di un confessore era (o forse lo è ancora oggi?) salvaguardare l’integrità della confessione e quindi determinare le circostanze per definire l’entità dei peccati, lasciando spesso nel penitente il dubbio di una curiosità morbosa fuori luogo. Il peccato non è «una cosa», ma la relazione spezzata con Dio e con i fratelli. Non a caso Gesù ha ridotto tutta la toràh a un solo comandamento con un duplice esito: l’amore incondizionato di Dio che si manifesta e si vive nell’amore senza confini per il fratello (cf Mt 22,40 e 18,22). Peccare non è cosa facile e per riuscirvi bisogna mettervi molto impegno, perché esso è il rifiuto di Gesù Cristo come criterio di vita: il suo modo di pensare, vivere, rapportarsi, servire, parlare, morire diventano il nostro stile di vita ed è la fede. Il contrario è il peccato. Il figlio della parabola tra sé e il padre ha messo «un paese lontano» (v.13), cioè un abisso invalicabile che però il padre ha potuto superare perché quel figlio non è mai stato abbandonato, nemmeno quando sperperava la vita del padre.
Il figlio è frastornato di fronte a quel padre che avrebbe potuto attendere sulla soglia di casa, mentre invece gli accorcia la fatica del ritorno, andandogli incontro. Il figlio è prigioniero ancora della logica del rendiconto e si aspetta che il padre eserciti la sua autorità accogliendolo come un estraneo e declassandolo dalla dignità di figlio al ruolo di servo. «Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio» (v. 21). La prima parola che il figlio pronuncia è «padre» senza alcuna connotazione ed è il segno che sa ciò che ha perso. Al contrario finisce la frase con l’altro termine correlativo «figlio», connotato dalla dichiarazione di indegnità: «Padre, non sono degno d’essere figlio».

«21Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di es-ser chiamato tuo figlio. 22 Ma il padre disse ai servi: Presto…».

Peccatori presuntuosi
Da un punto di vista giuridico il figlio minore ha perso ogni diritto ed è per questo che si aspetta dal padre un comportamento secondo la legge perché il peccato contro il padre è anche un’invettiva «contro il Cielo». Il figlio ha coscienza che il suo peccato non è solo contro il padre, ma anche contro Dio, cioè è un atto di ribellione totale che merita la cancellazione dal libro della vita, cioè la morte. Dopo l’idolatria del vitello d’oro, a Mosè che si schiera dalla parte del popolo Dio dice: «Io cancellerò dal mio libro colui che ha peccato contro di me» (Es 32,33). Il figlio meriterebbe la morte, perché «ha colpito e maledetto» il padre (Es 21,15.17) e la maledizione di Dio è senza scampo per chi disonora il padre (Dt 27,16; cf Pr 20,20) perché «chi deruba il padre è compagno dell’assassino» (Pr 28,24). È questo il contesto giuridico ed etico del ritorno del figlio ed è all’interno di questo quadro di riferimento che risplende ancora più potente la figura del padre sia sotto il profilo legale che religioso.
Quando ancora era in «un paese lontano», solo e impuro in mezzo ai porci, il figlio si era preparato il discorso da recitare al padre. Lo ripete per non dimenticarlo: «Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi dipendenti» (Lc 15,18). Quando il padre giunge davanti a lui non gli lascia il tempo di finire il discorso che già è stato reintegrato prima ancora che chiedesse perdono. Fa appena in tempo a dichiarare che non pretende di essere ancora figlio che il padre gli tappa la bocca e il figlio non riesce a dire che accetta di essere trattato come un dipendente. Incaponirsi a chiedere perdono o pensare di non potere essere perdonati può costituire un grave peccato perché Dio (nella parabola rappresentato dal padre) previene la nostra stessa richiesta ed egli ha già perdonato prima ancora di averglielo chiesto.

Amare con le due tendenze
Spesso i nostri rapporti con Dio sono improntati a legalismo: di lui abbiamo una nozione più giuridica che patea. Dio ci perdona prima ancora di avere chiesto il perdono e spesso, come qui, non lo chiede nemmeno, anzi lo reputa superfluo. Tante volte abbiamo ripetuto un concetto semplice, ma difficile da interiorizzare in un contesto di religione legalista: Dio perdona perché è giusto o anche: Dio è giusto perché perdona. Che senso ha la morte di Gesù, se continuiamo a misurare col centimetro la nostra corrispondenza e la risposta di Dio? Agendo così noi proiettiamo in Dio il nostro modo di essere e vedere, valutare e giudicare. In una parola, noi attribuiamo a Dio la nostra piccineria e grettezza e dimentichiamo che Dio è sempre più grande del nostro peccato, del nostro cuore, della nostra debolezza, del nostro limite (cf 1Gv 3,20). Per questo i rabbini spiegano il motivo per cui nella parola «cuore» in ebraico «lebab» vi sono due «b»: nel cuore regnano sempre due tendenze, una verso il bene e una verso il male. Il vero credente è colui che ama Dio con ambedue le tendenze. Anche quando abbiamo coscienza di fare il male, noi non possiamo cessare di amare Dio, perché egli ci ama anche quando lo rinneghiamo. Egli è fedele anche quando noi siamo infedeli perché il Dio di Gesù Cristo è «Dio non uomo» (Os 11,9).
Davanti al figlio che rinuncia al suo essere figlio, negando così al padre la possibilità della pateità, il padre compie tre gesti, altamente simbolici e colmi di significato attraverso tre oggetti: vestito, anello, calzari (v. 22), di cui tratteremo nel prossimo numero.    (continua – 16)

Di Paolo Farinella

Paolo Farinella

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