Dove osano le aquile

Viaggio nel Kelmend, la regione montuosa più settentrionale del paese

Il suo vero nome è Shqipëria (Paese delle aquile), dove per 46 anni
il regime comunista ha cercato di cancellare la presenza cristiana, togliendo di mezzo vescovi, preti e religiosi, perseguitando i semplici fedeli. Grazie all’opera di missionari italiani e all’aiuto di varie associazioni umanitarie, oggi le comunità cristiane stanno rifiorendo, anche nel Kelmend, regione dell’estremo nord del paese.

Sono arrivata in Albania al seguito di Anemon (acronimo di «aiutare nel mondo»), un’associazione di medici e volontari che si propone di sostenere il lavoro delle suore francescane di Susa e di padre Sergio, frate minore cui è stata affidata la regione montuosa del Kelmend, dove da molti secoli vivono isolate alcune tribù cattoliche.
Tirana ci sorprende, con il suo aeroporto moderno e luminoso, per l’ampia arteria che porta in città, fiancheggiata da nuove costruzioni commerciali e industriali. Chi tra noi ha già visitato questo paese si rende conto di un grande cambiamento. I nuovi edifici del centro si distinguono per la sobrietà e il colore. La gente pare molto cordiale; molti conoscono l’italiano. Come Migena, che significa «fior di melo», una giovane albanese cui mi rivolgo per un’informazione. «Ho imparato l’italiano da mio nonno, che aveva fatto il militare in Italia. Quando ancora non andavo a scuola, mi raccontava le fiabe in italiano».
Resta grave il problema dei contadini inurbati di recente, sistemati in case fatiscenti che non ricevono regolarmente né acqua né luce.
Piazze e viali del centro di Tirana ricordano le altre capitali dei paesi comunisti, ma i numerosi caffè all’aperto sono affollati e ci sono anche giovani donne, mentre in quelli dei villaggi che visiteremo gli avventori saranno solo uomini.

Scutari è una città molto antica. Un’antica fortezza domina la città e il lago, che in parte appartiene al vicino Montenegro. La sua storia testimonia la serena convivenza, da sempre, di cristiani e musulmani: dopo gli anni bui di ateismo e chiusura al mondo, hanno ricostruito la grande chiesa ortodossa e restaurato la moschea.
Scutari è la prima tappa del nostro viaggio umanitario: abbiamo promesso di ingrandire la casa che le suore hanno aperto per accogliere le studentesse provenienti dai remoti villaggi del Kelmend per proseguire gli studi nella città, rompendo così una tradizione che negava l’istruzione superiore alla donna.
Lasciamo le rive del grande lago e risaliamo la montagna punteggiata da ginepri e folti cespugli di melograno. La strada sale attraverso strette gole, supera pietraie e ripide scarpate sul fiume, sulle cui rive alcuni terrazzamenti alluvionali permettono le colture e l’allevamento. Le case di pietra hanno il tetto fatto di lamelle di legno, con i pagliai a forma di cono.
Nel villaggio di Stare le suore hanno la base per il loro lavoro nelle valli, evangelizzazione e assistenza sanitaria. Il dottor Veronese, un medico torinese in pensione, dopo una sua prima visita due anni fa, ha deciso di ritornare ogni due o tre mesi e collaborare con suor Anna, infermiera. Il piccolo ambulatorio richiama gente dalle valli più remote, ma sovente il medico si sposta nei villaggi di montagna, dove opera nelle sale di riunione o nelle cappelle.
Leggendo le sue relazioni ero rimasta colpita dal fatto che, dopo tanti anni in cui la gente di Albania pensava solo ad emigrare, pare sia nato tra i giovani un nuovo sentimento di orgoglio. Oggi chiedono di poter ricostruire il paese, evitando la fuga di massa, ma chiedono anche una vita più dignitosa.
A Fare incontriamo anche Iolanda da molti anni impegnata nel volontariato: ha trascorso alcuni anni nell’ospedale di Fogo in Capoverde. Da tempo in pensione, l’anno scorso accettò volentieri l’invito del dottor Veronese a seguirlo nella regione del Kelmend.
«Fui molto colpita dalle donne albanesi, che rappresentano la maggioranza dei pazienti. Sono donne che soffrono, abbandonate da uomini partiti per cercar lavoro o per delinquere, umiliate da una mentalità ferocemente maschilista che le ha sempre private di un minimo di cultura» racconta la volontaria.
Pare che la depressione sia la patologia ricorrente in queste creature, che dimostrano forte imbarazzo durante le visite, anche se al medico si affianca sempre suor Anna e un’altra donna. Iolanda mi spiega che le donne arrivano spesso accompagnate dalla suocera. La tradizione vuole infatti che le giovani, quando si uniscono a un uomo (e non sempre questa unione viene regolarizzata dal matrimonio), lascino per sempre la propria famiglia e vadano a servire quella del marito.

Proseguiamo risalendo la valle con difficoltà: il mezzo è vecchio, le gomme lisce e perdiamo pure la marmitta. Prima di arrivare a Tamare, dove padre Sergio ha avviato un allevamento di trote con buon successo, prendiamo una stretta deviazione che ci condurrà a Vukli, dove ci aspetta per la messa.
Dopo altre due ore di viaggio e strapiombi da brivido, la strada termina in un’ampia vallata. Una specie di paradiso perduto, con greggi di pecore, muli che trasportano il fieno e case dai tetti alti e spioventi.
Arriviamo quando la messa è già iniziata. Sotto il portico sostano i giovani maschi, la sigaretta tra le dita e l’aria sfrontata da guappi. Conoscono poco l’italiano, ma riescono a farsi capire: sognano di emigrare, per far soldi e non lavorare nei campi. Dentro la chiesa, le nonne hanno il velo nero da vedove, le rughe e il viso rassegnato. Le madri mi guardano e il viso si allarga in un sorriso. I lunghi capelli neri sono fermati da forcine in onde piatte sulla fronte, incoiciata dal foulard. Tra le ragazze ce ne sono di molto belle, sono vestite per la festa e si lasciano ammirare.
Dobbiamo partire, la strada per Vermosh è ancora lunga; facciamo una sosta a Nikc, dove troviamo la chiesa piena di fedeli che da ore aspettano il padre per la messa. Come sta avvenendo per tanti edifici di culto, anche questa chiesa è stata ricostruita sui resti di quella distrutta nel periodo della dittatura, con i soldi inviati dagli emigrati.

L’autista del nostro vecchio pulmino è molto abile, guida nel buio sulla strada impervia, che vedremo solo al ritorno, spettacolare. In meno di due ore arriviamo davanti al cancello della proprietà di due fratelli emigrati da anni in America. Padre Sergio è riuscito a farsi dare in comodato per 15 anni l’intera proprietà, da anni abbandonata. La casa è stata da poco restaurata con gli aiuti che il francescano raccoglie tra gli amici quando viene in Italia.
Ma il padre sta attuando un progetto più ambizioso: trasformare la proprietà in agriturismo; sono già arrivate prenotazioni di gruppi di austriaci e svizzeri per la prossima estate. A gestire il tutto sono Giovanili e sua moglie Mariana, che durante l’estate si trasferiscono nella casa e coltivano i campi della proprietà; mentre durante l’inverno tornano nella casa dei genitori, per affrontare l’isolamento che può durare a lungo.
La mattina partiamo a piedi per raggiungere il nucleo centrale di Vermosh, dove ci sono la scuola e la chiesa. Nei campi recintati pascolano cavalli e pecore. Ciò che maggiormente attrae l’attenzione sono le croci, poste dappertutto: sulle case, sui ponti, al collo dei bambini e delle donne, persino sui pali della luce.
Intanto, il signor Giovanili, la cui famiglia ha avuto un ruolo importante nella comunità della valle, ci racconta la sua storia, mentre camminiamo insieme lungo il torrente: «Abbiamo sofferto molto, prima sotto il dominio turco, poi sotto la lunga dittatura comunista, ma siamo rimasti fermi nella nostra fede. Mio padre e i miei zii, fratelli di mia madre, sono stati in carcere, a lungo». Uno di essi, uscito di prigione, fuggì in Belgio e a causa sua la famiglia venne perseguitata.
Dopo il 1990, quando si aprirono le frontiere, Giovanili volle raggiungere lo zio. Trovò lavoro per due anni a Bruxelles, in una pizzeria italiana; ma non riuscì a ottenere il permesso di soggiorno. Il francese imparato in quegli anni gli consente di comunicare con noi e con i rari visitatori.
Quindi prosegue: «Quando si decise la costruzione della chiesa, mio padre si recò in visita alle nostre comunità di New York e Detroit e riuscì a raccogliere i fondi necessari». Altri aiuti sono arrivati anche da Austria e Italia; così si spera di frenare l’esodo dei giovani con iniziative come quelle di padre Sergio, che vuole far conoscere queste montagne all’estero, creando basi di appoggio per un turismo sportivo e sostenibile in una natura selvaggia e incontaminata.
D’estate arrivano i cicloturisti dal Montenegro e già si pensa di predisporre un’area campeggio per ospitarli. Le idee sono buone, ma le difficoltà enormi. Il suo entusiasmo si confronta con le difficoltà di far capire i progetti alla gente, che tanti anni di sottomissione e chiusura ha umiliato e resa inerte.
Al tempo stesso, padre Sergio vuole incrementare l’artigianato locale: ha in programma un viaggio in Italia, con l’auto carica di tappeti tessuti dalle donne di Tamare. Lo accompagneranno anche Giovanili e Mariana, che saranno ospitati da famiglie di amici e potranno imparare l’italiano e l’arte dell’accoglienza.

Sulla via del ritorno, l’ultima tappa del nostro viaggio è Selce, un villaggio ai piedi di un’impressionante scarpata rocciosa. Ci accoglie Angelina, una bella donna, alta, elegante e vestita di scuro. Direttrice della locale scuola media, sta affrontando i problemi dell’educazione delle giovani e per questo ha fondato un’associazione femminile. Le iscritte sono già 50, alcune tra loro sono anziane. «Se vogliamo migliorare la qualità della nostra vita, dobbiamo cominciare con l’educazione delle donne. Il futuro del paese è nelle mani delle giovani madri».
Angelina parla con fervore, crede in quello che fa e le do ragione. Quando ci abbracciamo per lasciarci, la stringo e sento il calore delle sue gote arrossate. Le chiedo: «A casa tua, che educazione hai ricevuto, per avere una mentalità così aperta?». «Mia madre ha avuto sette figli, era un’educatrice meravigliosa» mi risponde. 

Claudia Caramanti

Claudia Caramanti

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