Passaggio a Nord Ovest

Viaggio nell’ultima frontiera nord-americana

Comperata dalla Russia nel 1867 e dichiarata stato federale nel 1959, l’Alaska costituisce un quinto della superficie degli Stati Uniti, ma è il meno popolato. La ricchezza del sottosuolo e la sua posizione strategica ne ha fatto l’ultima frontiera della colonizzazione americana. Per la sua natura incontaminata è diventata un’attrazione turistica privilegiata e rifugio di americani in fuga dagli altri 48 stati dell’Unione (i cosiddetti lower 48). Ma anche questo angolo di paradiso sembra minacciato dall’avanzare del «progresso».

Siamo atterrati in Alaska dopo aver sorvolato Danimarca e Norvegia, nord della Groenlandia e  Polo nord. I dati del paese li conoscevo: superficie del territorio pari a quella di Inghilterra, Spagna, Francia e Italia messe insieme; sviluppo delle coste superiore a quello degli Usa… eppure la prima sensazione è quella di aver raggiunto una terra esagerata, che toglie il respiro e mette soggezione. Tutto ha una dimensione grandiosa, compresa Anchorage, città modea che ha decuplicato i suoi abitanti in 20 anni. Le montagne che la circondano, basse e bianche di neve, paiono lontane.
Noleggio una bici e faccio un giro in centro; passo davanti alla statua del capitano Cook, arrivato fin qui nel 1778 alla ricerca del mitico «passaggio a nord ovest»; percorro la pista che costeggia il mare: i cartelli avvertono di non avventurarsi sulla distesa fangosa lasciata dalle maree, che qui raggiungono il primato di 10 metri.
Siamo a metà maggio: nel parco le betulle e gli aspen hanno ancora poche gemme, ma tra pochi giorni avranno le loro tremule foglie e cambieranno il paesaggio. La gente non ha paura del vento e del freddo; corre e cammina anche sotto una leggera pioggia; i ragazzi girano in maniche corte; i piccoli vengono portati  in carrozzine chiuse, agganciate alle biciclette.
SILENZIO!
Dopo la prima guerra mondiale, le attrezzature usate per costruire il canale di Panama furono trasportate in Alaska per costruire le ferrovie. La più importante serve anche oggi per trasportare il migliore carbone del mondo, perché privo di zolfo e non inquinante, dal cuore del territorio al porto di Seward, dove viene imbarcato e spedito in Cile e in Corea.
Nei mesi estivi la linea, viene utilizzata dai turisti per spostarsi da Anchorage a Seward, attraverso paesaggi spettacolari di monti, laghi e ghiacciai.  La cittadina prende nome dal segretario di stato americano che, nel 1867, volle comprare l’Alaska dai russi, contro il parere di buona parte del mondo politico di allora.  
Sul treno siedo accanto a una famiglia di Anchorage in gita. I genitori sono originari di Sitka, l’antica città russa del sud est del territorio. Le tre bambine hanno nomi curiosi: Charity, Mercy, Marissa. Sul treno sale anche una classe elementare di Anchorage, guidata dalla maestra, che subito precisa di essersi felicemente trasferita dal New Jersey: «Le grandi città dei lower 48 sono invivibili». Un giudizio che sentirò ripetere spesso sui restanti stati americani, percepiti lontani, inquinati e troppo affollati.
Totalmente ricostruita dopo lo spaventoso terremoto del 1964, Seward è una cittadina di circa 4 mila abitanti, protetta da un profondo fiordo, circondata da monti bianchi di neve. Da qui si parte con il battello per raggiungere velocemente il mare aperto, tra isole rocciose, dove nidificano molte specie di uccelli. Incrociando orche e delfini, ci addentriamo in uno dei pochi fiordi già accessibili in questi ultimi giorni di primavera, per ammirare i ghiacciai che scendono in mare. Si spengono i motori; il mare brilla di mille blocchi traslucidi. Davanti allo spettacolo della natura vi è silenzio, emozione.
Ritornati in città, visitiamo il centro di ricerche biomarine. Tra le specialità della natura di questa parte del Pacifico, mi incuriosisce la storia di un pesce che riesce a sfuggire al sonar usato dalle modee navi da pesca; è forse grazie a questa sua specialità che sfugge alla minaccia di estinzione. La pesca effettuata negli ultimi anni, infatti, ha ridotto moltissimo la vita di questi mari un tempo pescosissimi, riducendo anche la presenza di uccelli e mammiferi marini che si nutrono di pesce.
Siamo ospiti di Margherite Christensen, una indigena aleutiana. Il villaggio dove è nata, sull’isola di Kodiak, fu totalmente distrutto dal terremoto del 1964. «Frequentavo la scuola elementare – racconta -. Udimmo il rombo della terra che tremava; il mare si ritirò e un’onda si chiuse sul villaggio». A Seward Margherite era arrivata per seguire i corsi di panetteria alla scuola professionale per i nativi americani. Ora non lavora, perché ha deciso di adottare una bimba e vuole occuparsene personalmente.
Il governo americano ha aiutato le comunità indigene a creare le proprie cornoperative; hanno costruito anche alberghi, che gestiscono con profitto, e amministrano i territori assegnati loro dallo stato come riserve, in ricompenso dell’immenso territorio loro sottratto, per lo sfruttamento del sottosuolo: petrolio, carbone, oro e altri minerali.
UNA VITA DIVERSA
Per passare all’altra parte della penisola Kenai non troviamo di meglio che un furgone per trasporto merci. Nostra compagna di viaggio è una ragazza diretta a Soldotna, dove ha trovato un lavoro estivo in un albergo. Shannon, questo è il suo nome, è decisamente obesa, come molte sue coetanee americane, e fatica persino a camminare.
Ho l’impressione che alla base ci siano problemi psicologici. La giovane è timida, ma riesco a farla parlare. «Ho venduto tutto – mi dice – e ho preso un biglietto di sola andata per Anchorage, senza sapere se avrei trovato un lavoro». A casa ha lasciato una scatola con alcuni oggetti e ricordi. Le chiedo dei suoi. «Mio padre? Non lo conosco; la mamma ha un boyfriend e non è mai a casa». Poi continua: «Terminata la scuola superiore, ho lavorato vicino a casa, in un locale sulla spiaggia dell’isola di Tybee. Sono venuta qui perché volevo cambiare, uscire da un posto divenuto stretto per me».
Molti altri giovani come lei, incontrati nel nostro viaggio, sono arrivati in Alaska con lo stesso sogno: costruirsi una vita diversa da quella che hanno lasciato, per lo più segnata dal dolore. Fergie, l’autista del furgone, è uno di essi. Capelli legati a coda, una vita disastrata alle spalle, è appena ritornato dalle isole Hawaii, dove ha tentato senza successo di stabilirsi. Oggi è il suo primo giorno di lavoro come autista.
La strada per Homer costeggia il Cook Inlet, attraversa un territorio di foreste con il terreno ghiacciato e duro; ma tra pochi giorni il disgelo creerà le condizioni di vita per le micidiali zanzare estive. Quando siamo nei pressi di Ninilchik, prego l’autista di fare una sosta fuori programma per visitare la bella chiesa russa. Il sole sta tramontando e restiamo in silenzio: lo sguardo spazia, al di là dell’immensa baia, sulle cime ghiacciate di una serie impressionante di vulcani.
Finalmente arriviamo a Homer, accolti nella casa di Kristal e suo marito.
OMBRE TROPPO LUNGHE
Questa mattina Homer registra la marea più bassa dell’anno. La gente è scesa a passeggiare sulla distesa umida di sabbia increspata, con i bambini e i cani, bellissimi, dal pelo lungo e bianco, la coda arrotolata. Le alghe sono lunghi nastri bruni, tra i rivoli d’acqua che si ritira. Nel cielo volano le aquile dalla testa bianca, tipiche di questa zona, così pure cicogne, stee artiche e gabbiani.
Homer non ha un vero centro cittadino, ma solo case sparse sul pendio boscoso, lungo la baia di Kachemak, vasto braccio di mare circondato da monti e numerosi ghiacciai. La gente che sceglie di venire in questo luogo è attratta dal clima, più mite che nel resto della penisola Kenai.
Trish, biologa marina, vi è arrivata 30 anni fa dal Tennessee per lavorare nelle industrie del pesce. Anno dopo anno ha visto il mare perdere la sua ricchezza a causa di una pesca indiscriminata. Dopo una grave malattia, ora che è in pensione, si sta costruendo una vera casa, accanto alla cabin che aveva nel bosco, per le vacanze.
Le cabins sono capanne di tronchi di legno, tipiche delle zone di frontiera, senza servizi interni, riscaldata da una stufa. «Finché c’erano i miei genitori, ritornavo una volta all’anno in Tennessee; ora mi è rimasta una sorella, che ha una famiglia numerosa, non la vedo da anni».
Visitiamo Seldovia, un antico insediamento russo di cacciatori di pelli, raggiungibile solo via mare. Quando l’Alaska fu acquistata dagli Usa, sorsero le fabbriche per il trattamento delle aringhe. Ora è tutto chiuso: le aringhe si sono estinte, così pure i famosi granchi della baia. Resta la pesca degli halibut, giganteschi pesci che raggiungono anche i 200 chili.
Il villaggio è un insieme di vecchie case di legno, con la chiesetta russa bianca e azzurra in posizione panoramica sulla baia e il porto, poche vetture e tutte d’epoca. Nei boschi vicini sono sorte le cabins per le vacanze di chi abita in città. Oggi sono arrivati alcuni proprietari per aprir casa e farsi un giro in barca a vela.
Sul traghetto di ritorno siamo accolti da una robusta signora in uniforme, dai capelli bianchi e le gote arrossate dal vento. Seduta a terra, apre la mappa e ci indica l’orario dei traghetti: vuole convincerci a ripartire in serata per le isole Aleutine. Una settimana di navigazione per arrivare nell’ultimo avamposto, un’isola priva di vegetazione, che durante la seconda guerra mondiale fu occupata dai giapponesi. Ringraziamo stupite per la calda accoglienza di questa gente di Alaska, ma dobbiamo rinunciare: non abbiamo il tempo né le forze per un simile viaggio.
Dispiace lasciare la casa di Kristal e suo marito, in cui abbiamo trovato veri amici. Abbiamo parlato a lungo di noi e dei nostri paesi. Anch’essi lasceranno Homer. Da poco hanno messo in vendita la bella casa, dove si erano trasferiti dal sud della Califoia alcuni anni fa, per restare accanto al figlio, rimasto vedovo dopo un incidente, e prendersi cura dei tre nipoti. Ora che i ragazzi sono cresciuti e studiano in un college a Seattle, hanno deciso di trasferirsi nello stato di Washington. «L’inverno in Alaska è troppo lungo e buio; comincia a pesarmi» Kristal confida, mentre con la sua auto mi porta a visitare un altro luogo interessante non lontano da Homer.
Si tratta di un insediamento di russi, conosciuti come «vecchi credenti». È domenica e sono vestiti a festa. Alcuni sono in coda a prendere i biglietti per fare un giro in giostra. Le bambine indossano vestiti lunghi e leggeri, di colore rosa e azzurro, come le mamme, e un velo sul capo, fermato da una tiara. Incuriosita, mi fermo per parlare con la gente, che si mostra molto riservata. Sono i discendenti di quei russi ortodossi che, nel 17° secolo si opposero alle riforme ecclesiastiche imposte dalla gerarchia ufficiale e per questo furono costretti a fuggire dal paese e rifugiarsi in Cina e Sud America. Dal Brasile si sono trasferiti negli Stati Uniti e ultimamente quassù, alla ricerca di un luogo pulito, lontano dai vizi delle grandi città. Pare però che i giovani siano attratti dalla modeità. Hanno scoperto l’alcornol e, la sera, vogliono divertirsi come gli altri americani.
C’È POSTO PER TUTTI
Negli ultimi decenni l’Alaska è diventata la nuova frontiera americana. Molte persone sono venute dalla Califoia, per fuggire dal traffico, crimine e sviluppo edilizio esagerato. Ma c’è gente che viene anche dagli stati per nulla congestionati, come Idaho, Montana, Dakota. La ragione è che in Alaska non si pagano le tasse statali; anzi, alla fine dell’anno, gli abitanti ricevono un bonus proveniente dallo sfruttamento petrolifero.
Inoltre, la breve estate turistica richiede molto personale stagionale, reclutato anche al di fuori degli Stati Uniti. Centinaia sono gli studenti provenienti dall’est europeo. Slavo, alla sua prima stagione, è uno dei 200 universitari croati arrivati da poco. La paga è minima, ma le mance sono generose; e poi, a fine stagione farà una crociera sulle navi del gruppo che gestisce i grandi alberghi del parco Denali.
Oltre alle 8 ore nel villaggio turistico, Slavo e i suoi amici lavorano anche nel ristorante della Roadhouse di Talkeetna, per cui le ore di riposo sono pochissime. D’altronde, a queste latitudini la luce diua dura molto e il cielo si oscura solo per 5 ore.
Talkeetna è il punto di partenza per scalare le cime del Mckinley, una impressionante montagna di ghiaccio di oltre 6.000 metri, che domina una regione di grandi fiumi a soli 300 sul livello del mare. Un gruppo di alpinisti belgi è appena ritornato alla base: due di essi hanno alcune dita delle mani congelate. Li incontro mentre si stanno rifocillando con i ricchi piatti della cucina della storica Roadhouse, avamposto dei pionieri dell’800, dove si fermavano le carovane di slitte trainate da cani.
Da pochi anni è proprietà di Trish Costello, una giovane signora di origine spagnola-irlandese, competente e appassionata: alle 4 del mattino è già in cucina a impastare il pane e preparare i pancakes. Trish è sempre in movimento: quando arrivano i primi avventori, organizza, prende le prenotazioni, assegna le camere, cucina, dando ordini a un certo numero di personaggi incredibili che si alternano ai fornelli. Tipica del gruppo è una giunonica ragazza in canotta e boxer colorati che spadella senza posa.
L’ambiente è più che familiare, come ai vecchi tempi: ai grandi tavoli si trova sempre posto, tutti insieme per potersi conoscere. Alle tre del pomeriggio la cucina chiude, ma si continua con le bevande, zuppe e dolci fatti in casa con i frutti di bosco.
Ma le poche camere in affitto a Talkeetna sono occupate. Dopo la prima sera dobbiamo spostarci dall’altra parte della strada, nella Casa dei 7 pini, gestita da una gentile, anziana vedova di Anchorage. «Era la casa che avevamo fatto per le vacanze con i nostri 4 figli – mi confida -; ora sono sposati e abitano lontano». Poi mi fa una proposta: «Se ti fermi e prendi in mano la gestione di questa casa, me ne vado al nord a trovare mio fratello». Mi dispiace rinunciare a questa occasione: questo paese è sorprendente, anche per le tante opportunità che può offrire persino a persone anziane.
Paradiso perduto?
Questo grande paese mi ha tolto il fiato, sin dal primo giorno. Sarà per la luce, che ti lascia riposare poche ore, o l’immensità dei panorami, con paesaggi dai ruvidi contrasti, orizzonti spogli di ogni orma umana, oppure per la prospettiva di trovarsi all’improvviso davanti un orso affamato.
I boschi sono scuri per l’abbondanza di pini spruce che a volte paiono cipressi, tanto sono sottili. Betulle e aspen hanno messo in questi giorni le prime foglie che, muovendosi, brillano e ingentiliscono i boschi. Le grandi felci si stanno schiudendo e tappezzano il sottobosco. 
Ma si parla molto di riscaldamento globale e del danno creato dagli aerei che passano sulla rotta polare. Sono chiamati in causa anche velivoli militari, che, dalle due grandi basi aree vicino ad Anchorage e Fairbancks compiono frequenti voli di ricognizione e addestramento. In Alaska, infatti, sono dislocati oltre 10 mila militari dell’aviazione e un corpo di marines. Durante il fine settimana i parchi sono affollati da gruppi di giovani rumorosi, robusti e allegri. Sono militari, tra i quali molte donne. «La posizione del paese è strategica: siamo più vicini al Giappone che a San Francisco, lo stretto che ci separa dalla Siberia russa è largo poco più di 80 miglia» afferma una coppia con in spalla due biondissimi bambini. «Abitiamo qui da due anni – dice la giovane mamma -; mio marito è militare, di stanza a Delta Junction, presso Fairbancks, una delle due grandi basi militari».
Il paradiso incontaminato forse non esiste più. I villaggi dei nativi stanno scivolando nell’Artico per lo scioglimento del permafrost, il terreno che fino a poco tempo fa rimaneva gelato tutto l’anno. Gli americani che cercavano un paese tranquillo ora si confrontano con le gang di asiatici che spacciano droga, non solo ad Anchorage, ma anche nei villaggi più remoti, dove il buio del lungo inverno accrescono l’isolamento e la paura. 

Di Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




Il mistero di un diario

La «nyumba ya kagita», una storia dalla terre dei Meru

Dalle pagine di diario di un vecchio missionario emergono antichi riti di un’Africa che fu. La curiosità e l’interesse di un confratello che, anni dopo, vuole sapee di più del mistero che essi nascondono.

Se si «ficca» il naso nei diari antichi delle missioni – specialmente africane – si può facilmente far rivivere pagine piene di storie e di misteri. A volte ci si può imbattere in racconti utili a lasciare ai posteri almeno una traccia del passato, elementi da mettere in un archivio e conservare gelosamente, come qualcosa di prezioso. A volte, però,  si tratta di veri e propri «misteri», che necessitano di qualche sforzo e molta buona volontà per essere interpretati.
Eccovi una pagina, o meglio quattro righe, del diario di Amung’enti, una missione del Kenya nell’incipiente vicariato di Nyeri, diventato poi in parte diocesi di Meru. Data del documento: 27 ottobre 1920.
«Il funzionario governativo, Mr. Gillbill, dietro mia informazione, mandava a monte la nyumba ya kaita di tutto l’Egembe, radunava tutti i tamburi (di cui mi diede licenza di scegliee alcuni). Di più: chiamò a se tutti gli avvelenatori facendo loro una buona ramanzina».
A scrivere queste precise righe in tale scao e semi-misterioso stile, fu probabilmente il padre Bodino, uno dei primi missionari mandati in Kenya ancora dal beato Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari e  missionarie della Consolata. Padre Bodino operò in questa missione che a quel tempo aveva nome Egembe (trasformato poi in Amung’enti), fin dal 1918. La missione aveva appena cinque anni di vita, essendo stata fondata il 1° dicembre 1913.
Sprofondato in una vecchia poltrona, in attesa che il fido Michael arrivasse con la cena, lessi e rilessi quelle righe. Che cosa significavano? Nyumba ya kaita poteva essere tradotto in «capanna della… kaita». Forse bisognava riscrivere la parola nel più moderno kagita? I tamburi dovevano essere davvero i vecchi tamburi costruiti con un tronco d’albero ed una pelle di vacca, visto che il padre aveva ricevuto il permesso di tenersi qualche esemplare. E la ramanzina agli avvelenatori?
Michael arrivò in quel momento con il suo portavivande e la zuppiera fumante.
«Michael cos’è la nyumba ya kagita?» – chiesi quasi innocentemente al giovanotto.
Ci mancò poco che zuppiera e tutto l’armamentario del vassoio se ne andassero per aria. Michael si era fermato di botto facendo un grosso sussulto, una specie di singulto alla maniera africana per dimostrare sorpresa e spavento.
«È solo perché volevo capire cosa c’è scritto in questo vecchio quaderno!» – lo rassicurai.
Michael tirò un sospiro di sollievo.
«Credevo che ci fosse di nuovo in ballo qualche faccenda da parte degli anziani. Sai… queste cose del tempo antico sono poco conosciute da noi. E quando si sente parlare della kagita non si può fare a meno di guardarsi intorno per scoprire chi potrebbe essere il capro espiatorio a fae le spese. Solo gli anziani possono oggi conoscere la verità completa. Forse il maestro Battista ti potrebbe aiutare…».
E così Michael se la cavò, stuzzicando però maggiormente la mia curiosità.
La capanna del maestro Battista era situata a non più di dieci minuti dalla missione. Battista era un maestro di scuola elementare, pochi anni più vecchio di me. La sua scheda anagrafica rivelava però un «pedigree» molto importante: era uno dei figli di un grande anziano, di quegli anziani che nella regione del Meru detta Egembe costituivano l’ultimo scalino della nobiltà, aventi potere sia nelle cose buone… come in quelle assai meno nobili, nelle quali ogni tanto si trovavano implicati.
«Allora, bwana Battista, mi dici qualcosa della nyumba ya kagita?» – gli domandai dopo aver sorbito un tè con lui e la moglie.
Battista, per tutta risposta, mi prese per un braccio e mi invitò fuori, per farmi vedere qualcosa di importante e, forse, per distrarre l’attenzione della moglie sui nostri discorsi.
«Vedi, padre, lassù su quella collina di fronte a noi? Bene, quella capanna diroccata è l’ultima capanna della kagita del nostro Egembe. Bada bene di non andare a toccarla. È tabù, tutti lo sanno e se ne stanno alla larga. Le prossime piogge, forse, laveranno tutto quanto e non ci sarà più alcun ricordo. Il tempo e le termiti avranno compiuto il loro lavoro».
Quello che segue ora è il resoconto di quanto il maestro Battista mi raccontò e che io mi son permesso di mescolare con quanto un nostro famoso missionario scrittore, il padre Ottavio Sestero, mi narrò nel 1964 nella missione di Tigania. Padre Sestero era conosciuto prevalentemente per i suoi scritti «avventurosi» e a volte burloni, ma quanto aveva scritto su usi e costumi della gente che ormai conosceva da anni, solleticava la mia curiosità.
Avevo fra le mani, fresco fresco di stampa, uno dei suoi ultimi romanzi missionari, «Il sacrificio del settimo anno». Anche in quel racconto veniva descritta la nyumba ya kagita.
Alla mia domanda un po’ insolente circa la veridicità di quello che lui aveva descritto, p. Sestero, dopo una lunga boccata dalla sua inseparabile pipa, mi disse: «Vede! Certe cose non si possono inventare. Ci vorrebbe troppa fantasia. Basta aver occhi per vedere e orecchie per sentire. Gli ingredienti ci son già tutti, basta cucinarli e fae una buona zuppa! Se lo desidera, posso anche accompagnarla a vedere i luoghi descritti in quel romanzetto. Non dobbiamo farci vedere poiché queste cose continuano a turbare la fantasia di queste nuove generazioni e con i nostri giovani è meglio chiudere il capitolo… o, al massimo, servircene per riempire le pagine delle nostre “avventure missionarie”».
Andammo un po’ di nascosto a visitare quei luoghi ed oggi, mentre scrivo, ritorno con la mia fantasia a rivederli: too a rivedere la capanna della kagita, gli antri della montagna in cui i futuri candidati alla circoncisione dovevano nascondersi, gli anziani njori vestiti nei loro caratteristici paludamenti, con la ncea (la corona dell’anziano), il meu (lo scopino scacciamosche), il bastone, lo sgabello a tre gambe significato della loro autorità, il manto di pelle di bue, il copricapo solenne fatto con la pelle della scimmia guereza, dalla coda bianco nera. E poi le zucche, le grandi e piccole zucche contenenti il vino di canna da zucchero e le zucchette del tabacco. Quanti grandi «ahh!» di soddisfazione si potevano ascoltare dopo le solenni bevute e i poderosi stauti che seguivano le abbondanti prese di tabacco…!
Battista prese a raccontare.
«La kagita era una grande capanna che fungeva da tribunale. Doveva essere costruita isolata, in una verde radura. Nessun boschetto, cespuglio e coltivazione poteva trovarsi nelle immediate vicinanze, affinché nessuno si accostasse ad origliare durante le sedute dei componenti del tribunale. Chi veniva scoperto su quello spiazzo rischiava quanto meno una feroce bastonatura. Il segreto era ciò che rendeva unito, forte e temuto il «consiglio degli anziani» che nella kagita si riuniva. Un membro che ne avesse svelato le decisioni importanti era condannato lui stesso a morte.
La kagita era il culmine di una piramide formata da una società detta njori, alla quale dovevano appartenere praticamente tutti gli uomini adulti poiché era una condizione indispensabile per fruire dei diritti della tribù.
Questi njori formavano il primo gradino, o base, di questa piramide. Un secondo gradino era formato dagli njori ncheke (letteralmente: njori ristretti o “magri”, nel senso che questo gruppo aveva un numero minore di appartenenti).
Il terzo gradino a cui si poteva accedere era quello finale degli njori-mpingiri (o “chiusi”, cioè una classe superiore, esclusa a chi, nella società, non avesse un grado elevato): questi ultimi costituivano il tribunale tradizionale della zona.
Sopra tutti quanti c’era la kagita, l’autorità suprema nel territorio.
Mio padre, ad esempio, era uno njori-mpingiri e uno dei pochissimi che appartennero nel passato alla kagita dell’Egembe. Se io ti dico queste cose è perché lui stesso me le ha confidate, quando sperava di fare anche di me un suo successore. Io, però, avevo ormai scelto di diventare maestro e cristiano».
Battista prese fiato e si accinse a continuare il suo racconto che, alle mie orecchie, stava diventando sempre più interessante.
«Le autorità inglesi hanno osteggiato la kagita pur avendone ricevuto a volte benefici molto utili alla loro politica di governo. In quella capanna diroccata che vedi lassù son successe tante cose… non tutte belle, per la verità».
Battista continuò, abbassando quasi istintivamente il tono della voce. «Mio padre un giorno mi raccontò che ricevette il messaggio segreto per un urgente raduno della kagita. Occorreva sistemare una grave questione intea alla comunità, senza che il governo inglese ne venisse a conoscenza. Un giovane della nostra tribù  nella regione dell’Egembe  ne aveva combinata una davvero troppo grossa. Secondo le nostre leggi tradizionali, la pena per certi delitti era quella capitale. Ma l’indiziato, secondo la tradizione doveva comparire di persona davanti a tutti i membri della kagita.
Bisogna dire che, in queste occasioni, le nostre donne si prodigavano nel rendere la capanna più accogliente possibile. Nel centro, in un incavo del terreno, trovava posto una grande zucca alla quale era stata tagliata la parte superiore, quasi fosse una grossa pentola. Le donne si incaricavano di portare anche un buon quantitativo di vino di canna da zucchero.
In quell’occasione i preparativi seguirono la solita procedura. Da tutti i clan arrivarono gli njori-mpingiri aventi diritto di partecipazione alla kagita».
«Mio padre – proseguì Battista – mi raccontò di come ciascun convenuto dovette sottoporsi al rito della “maschera dello njori” e, cioè, essere dipinto in faccia con ocra e burro, con i precisi disegni ricevuti quando furono eletti njori. Ognuno con il proprio sgabello a tre gambe, i manti tradizionali, il copricapo tradizionale, lo scopino-scacciamosche e il bastone del grande anziano, tutti presero posto intorno alla grande capanna, seduti sullo scranno dell’autorità.
Il mogà (stregone) stava già armeggiando attorno alla grande zucca. Sul suo fondo già aveva versato un liquido che lui stesso aveva ricavato dalla scorza di una pianta della foresta a lui conosciuta. Ora restava il compito delicatissimo di versare su questo liquido, il vino portato dalle donne. Occorreva una mano fermissima e tanta pazienza in modo da impedire che i due liquidi si mescolassero: il vino, più alcornolico, avrebbe galleggiato e coperto tutto. Un giovane seminudo e legato, intanto, venne fatto sedere non distante dalla zucca».
Battista continuò il suo racconto: «Il primo in dignità tra gli njori-mpingiri si alzò in piedi e proclamò solenne: “Sono del clan delle pietre; il mio popolo, che io qui rappresento, è innocente dell’accusa del delitto che dobbiamo giudicare. Ora bevo alla mia e vostra salute e di quelli del mio clan“. E così dicendo, con fare solenne ma attentissimo a non muovere il vino della zucca, prese con una mezza zucchetta, fungente da mestolo, un buon sorso della bevanda e la bevve d’un fiato, concludendo con un gran schiocco della lingua.  “Ho parlato”.  L’assemblea approvò:  “Ne bwega (va bene)”.  E l’anziano si sedette».
«Dopo di lui, in un silenzio di tomba, si alzò il secondo rappresentante.  “Io, njori-mpingiri del clan dell’acqua nera, dimostro che anch’io ed i miei sudditi siamo innocenti!”.  Stessa manovra, stessa somma attenzione nell’intingere ed alla fine la solenne approvazione dell’assemblea:  “Ne bwega”, va bene». Così, con calma, passarono tutti gli njori della kagita. Poi si fece avanti il mogà (stregone); rivolgendosi all’imputato gli disse: “Ora tocca a te, che sei stato portato qui a provare se anche tu sei innocente”. Con fare lesto immerse fino in fondo il piccolo mestolo e lo porse alle labbra dell’indiziato invitandolo a bere, operazione alla quale il giovane non poteva sottrarsi: dovette anch’egli bere dalla zucchetta che il mogà gli porgeva. Nel silenzio che seguì, cominciò dopo pochi minuti a sentirsi un sibilo come di persona che stesse per soffocare. Il condannato prese a un tratto a contorcersi come per liberarsi dai legami che lo tenevano prigioniero. Il veleno non gli aveva dato scampo. Fu questione di pochi minuti ed il “reo” giaceva stecchito sul pavimento. “La kagita ha giudicato e la verità ha colpito!”.
Su invito dello stregone, uno degli njori meno attempato si alzò e andò ad aprire un buco nella parete della capanna, proprio opposto all’entrata; un buco appena sufficiente per farci passare un corpo umano. Spinto con un bastone (nessuno avrebbe potuto toccare un morto neppure coi piedi) il giustiziato venne fatto passare attraverso quella feritornia e poi l’apertura fu chiusa con sterpi ed un po’ di fanghiglia. Il rituale era concluso».
Battista smise di raccontare e mi guardò, come per dirmi: «Così si usava fare. Era la tradizione che imponeva queste cose…».
E concluse: «Padre, io son grato al tuo predecessore, quello del tuo vecchio libro, perché è riuscito a mettere fine per sempre a queste cose del nostro passato».
La sera era ormai scesa ed in meno di dieci minuti sarebbe stato buio.
Guardai ancora una volta i resti di quella capanna e pensai a quelle quattro righe del vecchio diario. Piccolo mistero, che ora, non è più mistero né per me né per voi. 

Di Giuseppe Quattrocchio

Giuseppe Quattrocchio




Cari missionari

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Conoscere l’Allamano

Caro Direttore,
congratulazioni per la bella rivista, che leggo sempre con tanto interesse e piacere. Ho appena ricevuto il numero di maggio 2007, insieme all’allegato Giuseppe Allamano, bella figura di missionario-fondatore-animatore di anime generose, consacrate e laici.
Vorrei conoscere più a fondo questa bella anima sacerdotale: approfitto dell’invito a pag. 5 dell’allegato, per chiedervi il libro «Così vi voglio».
Da qualche anno mi trovo a Verona, reduce dalla missione in Uganda, dove ho passato una quarantina di anni di vita missionaria. Oggi che si presenta l’occasione, vorrei proprio approfondire la vostra spiritualità, trasmessa «alla buona, ma con tanta incisività» dal beato Giuseppe Allamano. Sarà un lavorare un po’ più da vicino in questa meravigliosa avventura del regno di Cristo.
Padre Luigi Varesco
Verona

Grazie, padre Luigi, per la simpatia verso il nostro fondatore. Le assicuriamo che anche noi della Consolata vediamo in san Daniele Comboni una fonte d’ispirazione per la nostra «avventura» missionaria.

Diamanti… sporchi

Cari Missionari,
ho letto sul n.7/2007 di MC la lettera di Carlo Occhiena e la vostra risposta, relative all’operato della De Beers in Botswana e la joint venture tra la stessa e il governo. Non credo per nulla alla bontà della suddetta operazione, perché, come voi giustamente dite, la De Beers è campione nelle operazioni «diamanti insanguinati».
Per quanto riguarda la Central Kalahari Game Reserve, terra da sempre dei boscimani, oggi riserva, che si trova al centro del Botswana, dal 2002 è in corso una persecuzione da parte del governo, tesa ad allontanare con tutti i modi possibili e legittimi proprietari della terra a beneficio della De Beers e di chi godrà le royalties sull’estrazione dei diamanti.
Sono socia di Survival, l’Ong che difende i popoli tribali del mondo, portando a conoscenza dei propri soci e della società civile i soprusi, violenze, espropriazioni, quando non lo sterminio programmato, che molti gruppi subiscono dal governo del proprio paese o da chi, avendo interessi sulla zona, agisce col beneplacito o la noncuranza del governo stesso.
Ebbene è dal 2002 che è in corso la campagna di sostegno ai boscimani del Kalahari, ma i loro problemi continuano e la loro situazione rimane sempre drammatica. Lo scorso anno l’Unione europea ha pagato una cifra enorme affinché nella riserva venisse inviata l’acqua: il governo del Botswana, infatti, ha fatto distruggere tutte le fonti d’acqua. Il pretesto «ufficiale» del governo per il trasferimento forzato dei boscimani è che, essendo la zona diventata riserva, non è più possibile cacciare: i boscimani preleverebbero troppa selvaggina.
I diamanti della De Beers sono veramente sporchi!
Lelia Zizioli
Conegliano (TV)

La campagna di Survival in difesa dei boscimani e loro diritti continua. Per ulteriori notizie e per partecipare a tale campagna si può consultare il sito: http://italia.survival-inteational.org.

Caro Direttore,
desidero ringraziare per il prezioso servizio che svolge la rivista per aprire la mente e il cuore nei riguardi delle attività e problematiche missionarie; solo l’approfondimento delle questioni consente di conoscere, comprendere e condividere.
Colgo l’occasione per affidare alle preghiere della vostra comunità la mia adorata mamma, che è in precarie condizioni di salute e sta affrontando tante sofferenze… una persona che ha le caratteristiche delineate dalle beatitudini.
Ringrazio e auguro un buon proseguimento.
Milva Capoia
Collegno (TO)

Grazie per la stima e incoraggiamento. Coloro che sostengono il nostro lavoro con i loro sacrifici e preghiere sono sempre presenti nel nostro ricordo al Signore.

Cari Missionari,
ricevo con gioia la vostra rivista. Prego sempre per i missionari. Fino a poco tempo fa potevo inviare offerte per aiutare il loro lavoro; ma adesso non mi è più possibile e faccio fatica a provvedere a me stessa; sono molto malata e presto avrò 90 anni. Però… le preghiere continuano e continueranno sempre, qui… e quando sarò «di là». Grazie ancora e Dio vi benedica.
Giuliana Imperatori
Roma

Da parte nostra continueremo a inviare la rivista: la sua preghiera per i missionari è l’aiuto di cui abbiamo maggiormente bisogno.

Complimenti vari

Cari Missionari,
in questi giorni mi è capitato di leggere da un’amica la vostra rivista e sono rimasta felicemente impressionata. Ho trovato articoli molto interessanti; mi è piaciuto molto in particolare il servizio sul Benin. Devo dire che reportages come questi ormai sono rarissimi nelle riviste italiane, per non dire assenti. Credo che il vostro giornale sia molto di più che una rivista missionaria; è molto ricca in contenuti e in bellissime immagini. Mi piacerebbe leggere altri reportages se fosse possibile.
Stefania Brizzi
Via e-mail

Caro Direttore,
ho avuto l’onore di una sua risposta sul numero 9 di Missioni Consolata. L’ho letta con emozione e, lo ammetto, con una puntina di orgoglio. Devo fare una piccola precisazione, l’articolo è stato letto anche dal mio figliolo minore, e mi ha detto che vi è un errore; io scrivevo «i miei figli non sono dei geni»; lui vi manda questa correzione di suo pugno: «Io sono un genio», firmato Ermanno. Grazie!
Daniela Inzoli
Milano
Spett. Redazione,
da diversi giorni desidero scrivere, ma corri di qua, corri di là, il tempo passa… Voglio complimentarmi con Missioni Consolata, per il dossier sulle bidonvilles nel mondo. Sto leggendo il libro The planet of slums (Il pianeta di slums): una situazione terribile ed è bene che si conosca. Il vostro servizio è molto ben fatto.
Giulio Santosuosso
Caracas, Venezuela

Si può vivere…
senza Tv?

Cari Missionari,
ho letto la lettera di Gionata Visconti, intitolata «Vivere senza Tv… si può» (MC 6/2007, p.7), e vorrei rispondere ad almeno una delle domande da lui poste: «Sapere che in Indonesia, si è rovesciato un autobus causando decine di morti è importante per la mia informazione?».
Io rispondo sì, caro Gionata e cari missionari; rispondo sì perché credo che  sapere di un autobus che è precipitato in un burrone a Giava, di un jumbo jet che si è schiantato contro una montagna a Sumatra, di un altro jumbo che si è incendiato in un aeroporto dell’Angola, di un treno deragliato in Egitto, in India, in Pakistan, in Thailandia, in Russia o nel vicino Montenegro sia importante per voi, per me, per chiunque si riconosca nell’idea di fratellanza universale e, a maggior ragione per chi crede alla fratellanza non solo come a un bel concetto filosofico, ma come a qualcosa di profondamente connaturato all’essere figli di Dio e consanguinei di Cristo.
Sarei un tantino più cauto nel contrapporre la vita felice senza Tv a quella infelice con la Tv… Io concentrerei le critiche sui reality show e altri programmi sciocchi, frivoli, deleteri per l’anima e per il corpo, non sulla Tv in generale.
Sarei più cauto anche a bollare come «cronaca nera», come «spazio rubato alle tante cose buone che accadono, ma di cui nessuno parla», le notizie riguardanti le guerre, il terrorismo, ma anche le calamità naturali, le stragi dei fine settimana sulle strade, le sciagure ferroviarie e aeree. Per me il più delle volte non sono i giornalisti a esagerare, siamo noi che abbiamo un atteggiamento sbagliato verso le notizie. Sta a noi passare dalla tristezza all’indignazione, dall’assuefazione all’impegno, dal pessimismo alla partecipazione…
Francesco Rondina
Fano (PU)

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I rom, i rumeni e l’italia: molti muri, pochi ponti

Ogni crimine, ogni delitto, ogni omicidio è sempre un episodio sconvolgente, che dovrebbe far inorridire la coscienza di ciascuno. Tuttavia, quando a commettere un delitto sono dei rom, sembra che il crimine diventi particolarmente odioso e l’assassino si trasforma in un mostro da sbattere in prima pagina. I fatti di novembre, accaduti in una degradata periferia di Roma, sono lì a dimostrarlo.
Gli zingari (siano essi rom o sinti) da secoli sono discriminati ed emarginati, la loro semplice apparizione in un qualsiasi comune o borgata delle nostre città, scatena una repulsione immediata per la fama poco onorevole che li accompagna. Nell’immaginario collettivo essi sono visti come ladri o, peggio, rapitori di bambini, ma quello che sconcerta ancora di più è che i rom non sembrano preoccuparsi di questa nomea che si sono procurati con alcuni loro atteggiamenti ripugnanti come il furto o il mandare i bambini ad elemosinare lungo le strade, allontanando un difficile ma non impossibile inserimento nella nostra società. Nel passato molti governanti hanno tentato di porre soluzione al problema degli zingari, attraverso delle leggi che costantemente li mettevano al bando. Hitler, unitamente agli ebrei, attuò la soluzione finale anche nei loro confronti. La sconfitta del nazismo evitò che questo criminale disegno si compisse, ma è amaro scoprire, visitando i vari campi di sterminio, che ci sono lapidi e cippi a ricordo di tutte le vittime dei popoli soggiogati dal nazismo, ma stranamente non c’è nessun ricordo che faccia memoria delle migliaia di vittime del popolo zingaro.
Non è certamente facile il dialogo con chi vive ai margini della società e della legge. Tuttavia, in una società multietnica e multiculturale come quella europea, non si può pensare di erigere mura che separano o ghettizzano, ma deve essere un punto centrale delle istituzioni cercare di costruire ponti che favoriscano la conoscenza ed il dialogo reciproco. La comunità cristiana (al contrario del circostante mondo «celtico-padano» che invoca «soluzioni forti» nei confronti dei rom) ha il dovere di percorrere queste strade.

D iverso il discorso relativo ai rumeni. Il fatto che la Romania sia entrata a far parte dell’Unione europea, li pone nella condizione di potersi muovere senza nessun problema all’interno degli stati membri. In Italia essi sono già la prima comunità straniera e, purtroppo, stando alle statistiche, anche la prima comunità per numero di reati. Il fatto che il presidente rumeno Calin Popescu Tariceanu, dopo i fatti di Roma si sia affrettato a venire in Italia (lo scorso 7 novembre) a discutere con Prodi i problemi legati alle relazioni tra i due paesi, la dice lunga sulla posta in gioco. Se la presenza dei rumeni in Italia ha raggiunto cifre ragguardevoli, garantendo attraverso le rimesse degli emigranti entrate sostanziose al bilancio rumeno, va anche tenuto presente che sono oltre 20.000 le imprese italiane operanti in Romania.
Il cammino dell’integrazione è difficile da percorrere, soprattutto tenendo conto che chi ha vissuto per anni sotto il tallone di Ceausescu ha sviluppato un senso di rifiuto per le leggi e questo ha portato a una forma mentis collettiva che relativizza di molto i principi morali. Tutto ciò non per giustificare chi delinque, ma per comprendere che alla base di tutto c’è il bisogno immenso di costruire non solo la nostra cortese tolleranza, ma un cammino pedagogico di formazione delle coscienze a cui tutti sono chiamati e in modo particolare il mondo istituzionale.
Alla luce di questi fatti, possiamo dire che la presenza del male nel mondo va contrastata vivendo fino in fondo la logica del Vangelo, e forse è il caso di ricordare che esso si basa sull’amore e non sull’odio, sull’accoglienza e non sul rifiuto dell’altro. Chiunque esso sia.

Di Mario Bandera

Mario Bandera




Una rivoluzione in tonaca rossa

Reportage dal paese asiatico

Una delle più longeve dittature del mondo è stata messa in crisi dalla protesta, pacifica ma determinata, dei monaci buddisti (mezzo milione su 54 milioni di abitanti). Questo reportage nasce da un viaggio effettuato durante le prime manifestazioni di agosto e settembre. Poi la situazione
è precipitata.  La giunta militare del generale Than Shwe ha risposto con la forza, sparando sui monaci e sulla gente, cingendo con filo spinato le pagode, incarcerando i dissidenti. La rivoluzione in tonaca rossa per ora è finita nel sangue. 

Mandalay, agosto 2007. A 698 chilometri da Yangon, verso nord, distesa su un’assolata pianura, c’è Mandalay, la seconda città del Myanmar. Vivace e vitale, è considerata il centro del buddismo birmano. Si calcola che, su oltre mezzo milione di monaci, circa il 60 per cento viva in questa città, cresciuta sulle rive del Ayeyarwaddy (già Irrawaddy).
Dall’alto della storica collina di Mandalay, la vista sembra confermare le informazioni. Il fiume scorre lento tra pagode e monasteri. Più lontane ci sono le colline di Sagaing e Mingun, anch’esse ricoperte di templi e pagode. Ma una conferma viene anche dai visitatori, molti dei quali sono proprio monaci.
Mentre ammiriamo i colori che il calar del sole dona al panorama, iniziamo a conversare con un gruppo di loro. Tonaca rossa e testa rasata a zero, si intrattengono volentieri. Sono studenti ed uno parla inglese.
 In Myanmar, per i maschi di fede buddista è consuetudine entrare per qualche tempo – sia da ragazzi (come novizi) che da adulti (dopo i 20 anni) – in monastero, per apprendere i principi fondamentali del buddismo, per acquisire meriti (che serviranno per una rinascita più felice) o semplicemente per un periodo di studio e meditazione.
Chiediamo come si svolge la loro vita di monaci e studenti: se ogni mattina vanno a bussare alle porte della gente per riempire di cibo (quasi sempre riso) le loro ciotole; se è duro rispettare la proibizione di mangiare dopo mezzogiorno; cosa studiano in monastero. Ma quando cerchiamo di andare sull’attualità, sulle proteste di questi giorni, la nostra guida ed interprete dà segni di impazienza, inusuali per lei. Dice che è buio e che occorre salutare ed andarsene.  Le obbediamo, promettendo ai monaci un improbabile contatto via internet. Lasciamo la collina di Mandalay, interdetti rispetto allo strano comportamento della guida.   
«C’era un militare in borghese che ascoltava la vostra conversazione», ci spiega. «In Myanmar, è preferibile evitare qualsiasi riferimento alla politica e ad altri problemi del paese».

Le pagode e le foto
dei generali

Rispetto ad una volta, negli ultimi anni l’esercito birmano – noto come Tatmadaw – aveva assunto un atteggiamento molto più discreto, meno visibile, pur mantenendo uno  stretto controllo sul paese. Ora la situazione è di nuovo in ebollizione, inizialmente a causa di una motivazione economica: l’aumento vertiginoso del prezzo del carburante avvenuto questo agosto.
Il Myanmar è molto ricco e tra l’altro non sovrappopolato come altri paesi vicini: come si giustificano aumenti di questa entità? Probabilmente c’entrano l’ingordigia e la corruzione dei generali al potere. Un comportamento il loro che, tra l’altro, stride con l’incredibile gentilezza e cordialità della popolazione.
La giunta dei generali birmani è al potere ininterrottamente dal 1962. Dal 1997 si chiama «Consiglio di stato per la pace e lo sviluppo» (State Peace and Development Council). 
La giunta – in un modo o nell’altro, con il bastone e la carota – è riuscita a tenere unito un paese con decine di etnie diverse e a tenere il Myanmar lontano dalle guerre che hanno insanguinato i paesi vicini (Cambogia, Vietnam), ma ha represso qualsiasi opposizione politica, in particolare la Lega nazionale per la democrazia (National League for Democracy), riunita attorno ad Aung San Suu Kyi, 62 anni, premio Nobel per la pace nel 1991, che ha trascorso in carcere o agli arresti domiciliari 14 degli ultimi 19 anni.
Sulla prima pagina de The New Light of Myanmar (La nuova luce del Myanmar) le foto sono sempre e soltanto quelle dei generali: un incontro, una inaugurazione, un successo economico della giunta militare. Ma le foto dei generali si incontrano anche in altri luoghi, ben più importanti di uno spazio sul quotidiano governativo. Sono nelle pagode, in teche di vetro, non lontane dalle statue del Budda: il generale Than Shwe che fa un’offerta, che si genuflette, che è in raccoglimento, che è in posa accanto ad un monaco. Un segno di rispetto per la religione buddista? Oppure un modo per ingraziarsi i monaci e di conseguenza la popolazione che verso di loro ha grande rispetto e devozione? Certamente la seconda motivazione prevale sulla prima.
I rapporti tra la giunta e la sangha, la comunità buddista, sono sempre stati appesi ad un filo, come la storia testimonia. Sul finire degli anni Ottanta, ad esempio, ci fu una forte contrapposizione perché i monaci appoggiavano le manifestazioni studentesche. Nel 1990, a Mandalay e poi nel resto del paese, i religiosi buddisti attuarono un temibile boicottaggio: non accettavano le offerte dalle famiglie dei soldati e non officiavano i loro matrimoni e funerali. Un’umiliazione inaccettabile per i militari, che infatti risposero con durezza. Centinaia di monasteri vennero occupati e molti religiosi incarcerati.

La «signora Bianca»,
un nome da tacere

Nella hall dell’albergo, da una poltrona all’altra, commentiamo ad alta voce alcuni articoli pubblicati da The New Light of Myanmar, il quotidiano governativo ha anche una versione in lingua inglese. Ad un certo punto, nella foga della discussione, uno di noi cita Aung San Suu Kyi. All’udire quel nome i due inservienti dell’hotel, che lì accanto stanno sistemando le piante, si girano di scatto e, per pochi secondi, guardano chi ha osato pronunciare quel nome ad alta voce. Noi, capita la situazione, ci scusiamo, cercando subito di stemprare la gaffe in una risata che però non riesce a nascondere l’imbarazzo. 
Siamo più discreti quando dobbiamo chiedere come andare al luogo in cui si esibiscono i Moustache Brothers, un gruppo di artisti popolari caduto in disgrazia. I taxisti ufficiali preferiscono evitare di avvicinarsi al luogo delle loro esibizioni, ma a questo si può rimediare.

A casa dei «Fratelli baffoni»,
artisti coraggiosi

La strada è buia, perché l’illuminazione pubblica è quasi inesistente. Ma il nostro improvvisato taxista sa dove fermarsi. Le insegne sono quelle di un negozio. Sì, siamo arrivati: ecco il teatro dei Moustache Brothers, i «Fratelli baffoni». In realtà, non è un vero e proprio teatro, ma una sorta di garage adibito a teatro. Non sarà un teatro, ma certamente è un luogo che colpisce appena si entra. Una struttura in legno, che si alza qualche centimetro sopra il pavimento, funge da palco. Attoo ad esso una ventina di sedie di plastica, a disposizione del pubblico. La parete dietro il palco è piena di splendide marionette di legno e di cartelli con frasi o singole parole – in inglese, francese, tedesco, italiano -, che fanno riferimento ai servizi segreti, al potere ed ai suoi «vizi»: Cia, Mossad, Guardia Civil, Most wanted, Moustache Brothers are under surveillance, e via dicendo. Un’altra parete è zeppa di manifesti, articoli di giornale, fotografie. La più grande ritrae Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, che – come recita la didascalia – nel giugno 2002 visitò i Moustache Brothers. E nella foto accanto la stessa è immortalata con i tre artisti.  Mentre osserviamo le immagini, si avvicina per salutarci un uomo mingherlino, con baffoni bianchi, una maglietta gialla con la foto del gruppo, il tipico longyi (1) e le ciabatte infradito, che in Myanmar indossano tutti. Sprizza energia ed entusiasmo. Si chiama Lu Maw ed è uno dei tre «fratelli».
Il 4 gennaio 1996, giorno dell’anniversario dell’indipendenza birmana, i fratelli fecero uno spettacolo nel giardino di Aung San Suu Kyi, come ricorda lei stessa in un suo libro (Letters from Burma, 1995). Presero in giro anche la giunta e i suoi generali. Che non risero affatto. Due dei fratelli – Par Par Lay (2) e Lu Zaw – vennero arrestati e condannati a sette anni di lavori forzati. Uscirono nel 2002, con la proibizione di fare spettacoli in luoghi pubblici. Oggi i Moustache Brothers si esibiscono nella loro casa di Mandalay al cospetto di piccoli gruppi di stranieri.
L’esibizione inizia con Lu Maw che, inginocchiato sulla vecchia moquette del palco, parla a raffica (in inglese) dentro un vecchio microfono. Lo spettacolo, tipicamente birmano, è un insieme di danza, teatro, musica e satira, chiamato a-nyeint. Ad assistere alla rappresentazione ci sono una ventina di persone, tutte straniere.  Non tutto è comprensibile per degli occidentali, ma il loro racconto servirà per far conoscere l’attività di questa compagnia di artisti coraggiosi.

Dal teck al gas,
le grandi ricchezze del paese

Verso l’altopiano dello Shan.  Da Bagan per arrivare a Kalaw, cittadina di villeggiatura già ai tempi della dominazione inglese, si percorre una strada sconnessa e piena di buche. Il nostro autobus non incrocia auto, ma decine di grossi camion, carichi all’inverosimile di enormi tronchi. Sono tronchi di teck,  un albero dal legno pregiatissimo per la sua durezza, impermeabilità e bellezza.
La guida ci spiega che tutto il legno viene esportato verso la Cina, sempre più ingorda di materie prime. Se si proseguirà con questa velocità di disboscamento, le foreste pluviali del paese rischiano di estinguersi nel giro di pochi anni.
Ma non ci sono soltanto le foreste. il sottosuolo del paese è ricco di ogni genere di minerali. Negli ultimi anni si è poi scoperto che i giacimenti di gas della zona sud-occidentale  del Myanmar, nello stato Rakhin (Arakan), sono tra i più cospicui dell’area. Già rifoiscono la vicina India, la Cina e la Thailandia. Mentre sono in fase di progettazione oleodotti verso lo Yunnan cinese e verso l’India.
La giunta militare ha potuto rimanere al potere dal lontano 1962, perché ha saputo trovare importanti partners commerciali, Cina, Thailandia ed India sopra tutti, come abbiamo visto. In questo modo, ben difficilmente questi paesi sceglieranno di schierarsi contro i generali al potere.
È certo che la giunta militare e le lobby ad essa legate si sono arricchite enormemente alle spalle delle popolazioni birmane. Rispetto alle altre accuse non c’è invece certezza assoluta. Negli anni passati il regime è stato accusato di usare lavoro forzato (donne, bambini, anziani) nella costruzione di strade, oleodotti ed altre opere pubbliche. La giunta sostiene di aver abolito il lavoro forzato nel 1999, ma esistono segnalazioni di diverso avviso. Sarebbe coinvolta anche la Total, la multinazionale francese dell’energia, che da anni ha investito nello sfruttamento del giacimento gassifero di Yadana.
Altra accusa pesante nei confronti dei generali riguarda il loro coinvolgimento nel narcotraffico. Il Triangolo d’oro, territorio montagnoso dove si coltiva il papavero da oppio, rientra in buona parte nello stato birmano di Shan (dell’etnia shan, ma anche di quella wa, la più indiziata per il narcotraffico). Tuttavia, la giunta si vanta di aver risolto il problema, arrestando nel 1996 Khun Sa, conosciuto come il «re dell’oppio», che da allora si è ritirato a vita privata. Invero, la produzione continua. Secondo le Nazioni Unite (3), per la prima volta dopo anni, nel 2006 il Myanmar ha incrementato le proprie coltivazioni di papavero, divenendo – con il 5% – il secondo produttore mondiale di oppio dopo l’Afghanistan (90%).

Il volere del popolo
(secondo la giunta)

Yangon, settembre 2007.  Atterriamo a Yangon (Rangoon), la ex capitale del paese, verso sera. Sulla strada che conduce dall’aeroporto all’hotel, passiamo l’incrocio che porta ad University Avenue, dove al numero 54 vive – reclusa e guardata a vista – Aung San Suu Kyi.
In hotel girano voci di nuove proteste avvenute il 5  e il 6 settembre a Pakokku, cittadina non lontana da Bagan. Prendiamo il quotidiano della giunta per vedere se e come ha trattato l’argomento. The New Light of Myanmar ne parla. A suo modo, ovviamente. Dice che le stazioni televisive straniere hanno esagerato le notizie sulle proteste e che alle dimostrazioni hanno partecipato soltanto una o due persone ed una cinquantina di monaci. Dice che i monaci sono stati incitati da esponenti locali della Nld (Lega nazionale per la democrazia). Dice che la gente ha compreso l’atteggiamento del governo ed apprezzato la sua magnanimità nei confronti dei religiosi. 
Yangon sembra tranquilla. La gente affolla la grande pagoda di Shwedagon, i mercati, i marciapiedi del centro. E, nonostante tutto, non dimentica mai di mostrare il proprio sorriso.
È ormai tempo di ripartire. Mentre andiamo verso l’aeroporto, ad un incrocio ci imbattiamo in un gigantesco cartellone rosso che, in lingua inglese, pubblicizza il people’s desire, il volere del popolo. Secondo la giunta militare, i quattro desideri della gente birmana sarebbero i seguenti:  «opporsi a quanti prestano ascolto ad elementi estranei, fantocci che sobillano il popolo diffondendo opinioni disfattiste: opporsi a quanti tentano di compromettere la stabilità dello stato e il progresso della nazione; opporsi alle nazioni straniere che interferiscono negli affari interni dello stato; annientare ogni elemento nocivo, interno ed esterno, in quanto nostro comune nemico».
No, i popoli del Myanmar non meritano di vivere sotto un simile regime.  

Di Paolo Moiola

Paolo Moiola




Scuole cattoliche: laboratori di cittadinanza

L’impegno educativo a servizio del paese

Non meri centri di tolleranza, ma di convivialità. Il ruolo delle scuole cattoliche nella creazione di un autentico senso di cittadinanza, capace di integrare culture e religioni diverse.

Le linee guida sono tutte un programma. Non solo pedagogico: «Educhiamo il cittadino per costruire il Libano». In tutte le scuole cattoliche del paese è stato questo slogan che ha fatto da filo conduttore per tutto l’anno scolastico 2006-2007.
I bambini della scuola Mar Behnam, delle suore domenicane della Presentazione, si sono ispirati per fae cartelloni e disegni, appesi alle pareti delle aule. Mentre i più piccoli, quelli della matea, cantano una canzoncina vagamente patriottica. Anche al Mont La Salle, una delle più grandi e prestigiose scuole cattoliche del Libano (2.200 studenti e molte attività educative e ricreative collaterali), il motto campeggia un po’ ovunque.
Visto da fuori, sembrerebbe scontato che, essendo in Libano, uno si debba sentire cittadino libanese. Ma nella complessità di questa terra, dove l’identità si costruisce su molti fattori (culturali, religiosi, politici, status sociale…), essere libanese può voler dire molte cose: rinchiudersi nella propria appartenenza comunitaria o assecondare l’indole indomita dell’emigrante.
«Le scuole cattoliche – spiega il responsabile del segretariato della chiesa maronita, padre Marwan Tabet – stanno dando un importante contributo alla creazione di un autentico senso di cittadinanza e allo sviluppo del paese. Quella che proponiamo è una pedagogia che vuole creare una cittadinanza capace di integrare culture e religioni diverse. Non puntiamo solo sulla formazione del cristiano, ma su quella del cittadino. La componente cristiana, semmai, conferisce il profilo pedagogico e culturale di riferimento».

È un impegno, questo, apparso prioritario, addirittura fondamentale, dopo la fine della guerra civile, che ha lasciato strascichi di odi e divisioni. Ma continua ad avere senso anche oggi, nel contesto politico e sociale attuale, fortemente condizionato dalla volontà di molti – dentro e fuori il paese – di dividere il popolo per meglio controllarlo e manipolarlo, anziché creare un vero spirito nazionale.
E allora l’insegnamento cattolico, che vanta una lunga tradizione e una diffusione capillare in tutto il paese, si è assunto questo compito. Che è anche una sfida cruciale per il futuro del Libano. Oggi le scuole cattoliche sono 365, per un totale di circa 200 mila studenti e 12.800 insegnanti. Complessivamente rappresentano il 25 per cento dell’insegnamento nazionale.
«L’istruzione – spiega padre Tabet – è un settore molto importante per la chiesa. Perciò si sta facendo uno sforzo molto grande perché sia mantenuto. A questo scopo cerchiamo di dialogare e cornoperare sia con il governo che con altre istituzioni scolastiche private. Anche se non è sempre facile».
Le sovvenzioni governative, solo per fare un esempio, sono in ritardo di circa tre anni e tocca al patriarcato maronita coprire il periodo scoperto. A livello di ministero dell’Istruzione, poi, da dieci anni il ministro è un musulmano sunnita e la Commissione episcopale per l’istruzione ha dovuto fare pressioni per molto tempo affinché nominassero un direttore maronita, in carica solo dallo scorso marzo.
«Non chiediamo privilegi – aggiunge padre Tabet -, ma semplicemente il riconoscimento di un lavoro prezioso che svolgiamo in tutto il paese con studenti di tutte le confessioni religiose».
Specialmente nel sud, infatti, e nella valle della Bekaa, al confine con la Siria, la percentuale degli studenti musulmani tocca punte del 90%. «In una scuola gestita dalle suore Antoniane – porta ad esempio padre Tabet – il 95% delle studentesse sono figlie di militanti di Hezbollah!».
«Proprio questa è una delle missioni della chiesa del Libano – precisa -: mantenere questa apertura e questo spirito di convivialità. Le nostre scuole non sono meri centri di tolleranza, ma appunto di convivialità. Di testimonianza dell’amore di Cristo nel rispetto delle differenze».
D urante la guerra civile, molti ricordano che alcune scuole cattoliche sono state difese da musulmani, perché ne riconoscevano il valore dell’insegnamento. «Chi ci conosce ci apprezza – continua il direttore -. Ma a volte il problema di fondo è proprio la mancanza di conoscenza. Per questo abbiamo promosso alcune iniziative volte a superare i pregiudizi e a promuovere l’incontro e la collaborazione».
Una di queste è stata la realizzazione di un libro che riporta tutte le feste cristiane e musulmane, distribuito a circa 500 mila studenti. Un lavoro durato due anni. Oggi, durante le feste degli uni e degli altri, tutti gli alunni ne leggono insieme il significato.
«Abbiamo inoltre creato una “Amical” degli ex allievi delle scuole cattoliche, in cui sono presenti sia cristiani sia musulmani che hanno studiato insieme. Infine – conclude padre Tabet – due anni fa abbiamo dato vita all’Unione delle istituzioni educative private, che comprende cattolici, protestanti, ortodossi, sunniti, sciiti e drusi. E che rappresenta l’85% dell’insegnamento in Libano». Anche questo è stato un passo molto importante per aprire un tavolo di discussione, confronto e condivisione di un impegno educativo che, in fondo, è una priorità per tutti.

«In questo momento – commenta monsignor Bruno Stenco, direttore dell’Ufficio nazionale per l’educazione, la scuola e l’università della Cei, presente in Libano per studiare modalità di cooperazione tra la chiesa italiana e quella libanese in campo educativo – è una sfida mantenere un’offerta formativa in tutto il paese e specialmente nel sud, dove anche i musulmani sono presenti nelle classi. Significa concepire una scuola autenticamente al servizio del paese, che si impegna a costruire una cittadinanza condivisa. L’insegnamento cattolico libanese ci pare un elemento fondamentale per la costruzione del Libano di oggi e del futuro. Per questo vorremmo impegnarci come chiesa italiana per promuovere occasioni di scambio e solidarietà, specialmente in questo ambito».
Mons. Stenco rimarca anche l’attenzione delle scuole cattoliche locali per le famiglie meno abbienti, gli orfani e i disabili. Per tutti coloro, insomma, che non possono permettersi di pagare le rette scolastiche, ma ai quali viene comunque garantito il diritto all’istruzione.
«Questo – riflette – è un ambito in cui potremmo promuovere azioni di solidarietà. Complessivamente, però, vorremmo innanzitutto creare occasioni di conoscenza, confronto e collaborazione reciproca. Anche la scuola cattolica italiana ha da imparare da quella libanese. Soprattutto in termini di accoglienza, rispetto delle differenze, apertura a tutti, anche ai non cattolici. La scuola cattolica italiana potrebbe trarre elementi di stimolo per elaborare proposte non solo per se stessa, ma per il sistema scolastico nel suo complesso».

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




Cristiani e musulmani: la sfida del dialogo

Faccia a faccia con due leader islamici

Uno è sunnita, l’altro sciita: entrambi sono particolarmente rappresentativi delle loro comunità. E sorprendentemente molto vicini su alcuni temi cruciali dell’incontro islamo-cristiano.

All’ingresso del suo ufficio, appesa al muro, è incoiciata la sura del Corano dell’Al-mâ’ida (La tavola imbandita, 82): «Troverai che i più affini a coloro che credono sono quelli che dicono: “In verità siamo cristiani”, perché tra loro ci sono uomini dediti allo studio e monaci che non hanno alcuna superbia». Ci tiene a mostrarlo subito quel quadro, il professor Mohammed Sammak, così come la foto che lo ritrae con Giovanni Paolo ii in Vaticano. Poco distante, invece, c’è quella con l’ex primo ministro Rafic Hariri, assassinato il 14 febbraio 2006.
Il professor Sammak era suo consigliere, così come lo è attualmente del figlio Saad. Ma è anche consigliere politico del gran mufti del Libano. Sino a poco tempo fa, ha insegnato presso l’università dei gesuiti Saint Joseph di Beirut, oltre che negli Stati Uniti. Musulmano sunnita, autenticamente libanese e al tempo stesso cosmopolita, Mohammed Sammak è oggi, anzitutto, un uomo del dialogo. A molti livelli. Anche sul piano interreligioso.
È, infatti, segretario generale del Comitato nazionale per il dialogo islamo-cristiano e segretario del Gruppo arabo per il dialogo arabo-cristiano. Ha preso parte più volte agli incontri «Uomini e religioni», organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio e, nel 1995, ha partecipato, in rappresentanza della comunità sunnita, al Sinodo speciale per il Libano, convocato in Vaticano da Giovanni Paolo ii.
Sammak ha una grande ammirazione per papa Woityla e lo cita volentieri. A cominciare, lui pure, dalla celebre metafora del «paese-messaggio».

INVENTARE LA SPERANZA
«Questa terra – spiega – è in sé un esempio di tolleranza e coesistenza tra cristiani e musulmani. Non potrebbe essere altrimenti. La libertà, intesa anche come libertà religiosa, e il pluralismo sono una condizione necessaria, perché altrimenti il Libano non potrebbe esistere. I problemi nascono quando si mischiano religione e politica e si fa un uso strumentale della religione per altri fini. Ma il messaggio resta. Ed è un messaggio positivo, incoraggiante, sia a livello di principio che nella prassi. Un messaggio che vale non solo per il nostro paese, ma per tutta la regione».
La storia del Libano, tiene a precisare il professore, è una storia di conflitti che hanno interessato tutto il Medio Oriente. Ma è anche la storia di un paese dove, diversamente da tutti gli altri della regione, sono garantite la libertà di espressione e di religione, il livello di scolarizzazione è molto alto e i diritti umani, in generale, e quelli delle donne, in particolare, sono sostanzialmente salvaguardati.
La guerra civile e le aggressioni estee hanno più volte messo in difficoltà questo sistema complesso e fragile, senza peraltro riuscire a scardinarlo completamente. «Nelle crisi libanesi – avverte Sammak – non c’entrano cristianesimo e islam. Personalmente sono convinto che la religione vada usata per risolvere i problemi, non per crearli. È quello che cerchiamo di far capire alla gente. Dobbiamo imparare a prenderci cura l’uno dell’altro e a far sì che si rispettino le differenze. Soprattutto dobbiamo imparare, sempre di nuovo, a inventare la speranza».

PARTIRE DA CIÒ CHE UNISCE
Il professore evoca la responsabilità di ciascuno nel giocare la propria parte fino in fondo. Sia in campo musulmano che cristiano. Ma, in prima istanza, è necessario promuovere la conoscenza reciproca e individuare i livelli su cui è possibile instaurare un dialogo.
«Se partiamo dalla teologia – avverte – forse non andremo molto lontano. Dobbiamo partire da ciò che ci unisce e creare le condizioni affinché, in un contesto di rispetto reciproco e pluralismo, cristiani e musulmani possano innanzitutto vivere insieme, avere buone relazioni di vicinanza e di solidarietà. Questo è fondamentale anche per il futuro del Libano come nazione. E può essere d’esempio per una migliore conoscenza e comprensione tra musulmani e cristiani a livello internazionale».
La visione del professor Sammak potrebbe apparire alquanto ambiziosa, al limite dell’utopia. In fondo – si potrebbe pensare – il Libano non è che un piccolo paese, 4 milioni di abitanti, divisi al loro interno e spesso istigati alla divisione e «calpestati» dai vicini. Ma forse, proprio nella sua fragilità, il popolo libanese trova un punto di forza. Dialogare è la prima condizione per esistere.
«Il dialogo è un sogno e una sfida. Bisogna crederci perché si realizzi. E bisogna praticarlo a cominciare dalla vita quotidiana, dove le diversità non devono necessariamente tradursi in ostilità. Lo sforzo da fare è quello di mettersi dalla parte dell’altro, cercare di capire il suo punto di vista. E non ridurre tutto alla religione. Il dialogo mette in gioco molti aspetti: implica un confronto tra culture, opinioni, mentalità, visioni politiche, retaggi storici… Senza voler imporre una verità. Per questo, il dialogo può assumere diverse forme. È, innanzitutto, dialogo della vita, in cui ci si riconosce e ci si prende cura reciprocamente. È dialogo dell’azione e della solidarietà, soprattutto in ambito sociale ed educativo. È anche dialogo teologico, che deve però tenere come punto fermo il rispetto di chi, pur appartenendo a un’altra religione, può adorare Dio, lo stesso Dio, in modo diverso.

DIVERSITÀ: RICCHEZZA DEL LIBANO
«Questa è l’epoca del dialogo della vita. Tra persone, tra esseri umani che abitano nello stesso mondo e affrontano le stesse sfide». È quasi sorprendente ritrovare parole analoghe in ambito sciita. Eppure, Ibrahim Shamseddine non si discosta di molto dal punto di vista del professor Sammak.
Anche se proviene da tutt’altro orizzonte: figlio di Mohammed Mehdi Shamseddine, leader spirituale dei musulmani sciiti del Libano, deceduto nel gennaio 2001, Ibrahim sta seguendo le orme del padre, almeno per quanto riguarda la promozione di una pacifica convivenza fra cristiani e musulmani.
Presidente del Centro culturale e sociale islamico di Beirut, ci accoglie nel suo studio, che dà sul cortile di una grande moschea. L’abbigliamento è occidentale, ma i modi sono propri di un leader sciita. E ci tiene a sottolinearlo. Come a dire, l’apparenza è una cosa, la sostanza è un’altra. Così come tiene a mettere subito in chiaro che «gli sciiti del Libano non sono Hezbollah, né tanto meno il contrario. A volte si è accecati e non si vedono le differenze. Gli sciiti non sono mai stati e non potranno mai essere – proprio in quanto sciiti – un partito politico. Non si può ridurre la comunità sciita a Hezbollah. Ho la responsabilità e la legittimità, in quanto figlio di Mohammed Mehdi Shamseddine, di dirlo. La mia opinione è rispettata, ma non necessariamente accettata».
Insomma, politica e religione non sono esattamente la stessa cosa, anzi. Eppure, deve ammetterlo, nel contesto libanese le due cose spesso si mischiano pericolosamente. E allora, il dialogo diventa talvolta arduo. Non solo tra cristiani e musulmani, ma all’interno della stessa comunità religiosa.
«Il nostro sistema politico – sostiene Shamseddine – tiene conto del pluralismo culturale e religioso del paese. Il Libano, tuttavia, non dovrebbe essere uno stato spartito tra le religioni, ma uno stato che si prende cura delle diverse comunità. Purtroppo, però, le comunità religiose hanno spesso cercato di conquistare il potere. E quando lo stato diventa debole, tutti perdono. Potenzialmente la più grande ricchezza del Libano è la sua diversità. Ma abbiamo bisogno di vivere in pace e di essere lasciati in pace per sviluppare le nostre reali potenzialità». Il riferimento, ancora una volta, è soprattutto a Hezbollah, il «Partito di Dio», inconcepibile nell’islam, secondo Shamseddine, oltre che già di per sé escludente. Ma è anche ai paesi vicini, che «usano» Hezbollah – e non solo – per i loro giochi di potere.
«La religione può essere uno strumento molto efficace per affascinare le persone e per controllarle – ammonisce -. È quello che fanno i politici e i potenti. Ma le persone sagge dovrebbero piuttosto dedicarsi a informare e formare la gente correttamente. Io dico: “Dio ti ha creato libero: perché mi ritorni schiavo?”».
È una chiara denuncia dell’oppressione attraverso la religione, quella di Shamseddine. Che tuttavia mette in guardia anche sul confondere e mischiare le cose. Soprattutto quando si tratta di dialogo interreligioso.
«Il dialogo non è convertire, ma accettare le differenze. Io, come musulmano, non potrò mai credere in alcune verità del cristianesimo. Viceversa, non ho bisogno che i cristiani credano nelle verità dell’islam. Ma ho bisogno di vivere e cornoperare con loro. Le nostre diversità non significano che non possiamo lavorare insieme, essere amici e buoni vicini, condividere gesti di solidarietà. Quello che dovremmo fare è affrontare insieme alcuni fenomeni di quest’epoca e provare a trovare delle soluzioni ai problemi reali della gente».

SFIDE DA AFFRONTARE INSIEME
La cooperazione tra islam e cristianesimo può diventare così non solo uno spazio di mutua conoscenza e comprensione, ma anche un’occasione per affrontare alcune sfide globali di questi tempi. Shamseddine ne cita due come cruciali: la difesa della famiglia e la bioetica.
«Viviamo sui due argini dello stesso fiume – è la metafora che usa -. Non si può immaginare un fiume senza entrambe le rive. Per questo dobbiamo sforzarci di costruire un ponte che le unisca. Per me, come musulmano, sarebbe triste perdere il mio fratello cristiano che sta dall’altra parte. Per questo il dialogo è una via di vita e per la vita. Ed è per questo che la religione non può e non deve diventare fonte di guerre».

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




Imperativo convivenza

Un «paese-messaggio» di libertà e tolleranza. Molto fragili.

È un auspicio, ma anche una necessità in un paese dove convivono 18 confessioni religiose differenti. Ma dove i cristiani si sentono sempre più minacciati ed emigrano.

Nicole è una giovane donna greco-ortodossa, mentre suo marito e suo figlio sono cattolici-maroniti. Zainab è musulmana sciita, ma è molto vicina al movimento del Focolare. Nada, invece, è armeno-cattolica ed è l’assistente del sacerdote maronita che dirige le Pontificie opere missionarie libanesi.
Al santuario mariano di Harissa, in mezzo a una folla festante di giovani cristiani, alcune donne musulmane accendono un cero alla Vergine…
Sono solo alcune immagini, molto quotidiane e comuni, di un Paese dove la convivenza tra differenze è più che un dato di fatto. È una necessità. Imposta dai numeri e dalla storia.
In questa terra minuscola, 10 mila chilometri quadrati (quanto la Basilicata), abitata da poco meno di 4 milioni di persone, convivono 18 confessioni religiose: 12 cristiane e 6 musulmane. Più, un tempo, la comunità ebraica.

DIALOGARE
Oggi il Libano è un paese che vanta di essere un «messaggio», come lo aveva definito Giovanni Paolo ii durante la sua visita nel 1997. Molti lo ripetono ancora oggi con orgoglio, quasi fosse uno slogan. Un messaggio per il Medio Oriente e per il mondo intero. Perché il Libano è – e potrebbe esserlo molto di più – terra di libertà, apertura, tolleranza. Un paese del dialogo e della convivenza tra comunità e religioni, in un contesto regionale e mondiale dove prevalgono le incomprensioni, le chiusure e gli scontri.
Ma, allo stesso tempo, le molteplici divisioni e rivalità intestine, tra cristiani e musulmani, tra le diverse confessioni cristiane e all’interno delle stesse comunità, rischiano di far implodere il paese. La commistione tra religione e politica certo non aiuta.
«Il Libano sta vivendo un momento molto critico», ha dichiarato con grande apprensione il cardinale Nasrallah Sfeir, patriarca della chiesa maronita. Massima autorità religiosa cristiana del paese, uomo autorevole e grandemente rispettato, continua con energica determinazione, nonostante i suoi 87 anni, a lottare per un Libano unito, libero e in pace. «Ci sono molte domande aperte che riguardano il futuro politico di questo paese e quello delle comunità cristiane. Occorre ritrovare la capacità di dialogare per ridare un soffio di speranza al Libano».
È un tema ricorrente negli interventi molto assidui del cardinale: ritrovare l’unità, superare le divisioni, rigettare il «fanatismo, il fondamentalismo e la violenza». E poi, «aiutare i cittadini a rimanere nel loro paese, malgrado le difficoltà economiche e politiche. La presenza cristiana è minacciata, a causa della divisione che regna dentro la comunità.

CONTENERE L’EMORRAGIA
«Ma il Libano senza cristiani non sarà più il Libano». È questo un altro dei ritoelli che ricorre ovunque nel paese. Tra i religiosi come tra i giovani, alla Caritas come tra gli intellettuali cristiani. L’instabilità politica, la difficoltà di trovare un lavoro, la paura di una nuova guerra spingono molti – soprattutto giovani e soprattutto cristiani – a lasciare il paese.
Anche il patriarca armeno-cattolico, Nerses Bedros iv, non può non fare a meno di dolersi di questa emorragia inarrestabile. La sua è una chiesa antichissima, nata nel 301 d.C. («prima che a Roma!», tiene a sottolineare), una chiesa dispersa nel mondo, soprattutto dopo il genocidio armeno del 1915, numericamente molto ridotta in Libano, ma che «sta alle radici della cristianità in Oriente».
Ci sono diversi giovani seminaristi, soprattutto libanesi e siriani, nel monastero di Notre Dame de Bzommar, dove dal 1742 ha sede il patriarcato, segno di una chiesa ancora feconda. «L’instabilità di questa regione spinge purtroppo molti cristiani ad andarsene. Si sta perdendo una grande ricchezza anche in termini di cultura e tradizioni».
Non è da oggi che i libanesi emigrano. Forse fa parte anche del Dna di un popolo affacciato sul mare e proteso da sempre verso l’altrove, al punto che oggi sono molto più numerosi i libanesi residenti all’estero di quelli che vivono in patria: almeno 10 milioni.

BALUARDO DI UNITÀ NAZIONALE
Ciononostante, in Libano vive la più numerosa comunità cristiana presente in un paese arabo. Attualmente sarebbero meno del 40%; sino a pochi decenni fa erano il 51%. In mancanza di un censimento ufficiale (l’ultimo risale al 1932), le statistiche si basano sugli elenchi elettorali, secondo i quali il 41,23% dei cittadini con più di 21 anni è cristiano (22,4% maronita, 7,92% greco-ortodosso, 5,22% greco-cattolico, 3,07% armeno-gregoriano, e in percentuali minori tutti gli altri).
I musulmani sarebbero invece il 58,57% (26,15% sunniti, 25,96% sciiti, 5,64% drusi, e in percentuali minori alauiti e ismaeliti).
Nonostante il loro numero si stia assottigliando, i cristiani non rinunciano a essere baluardo dell’unità nazionale e punto di riferimento per le comunità ben più esigue che sono presenti negli altri paesi arabi.
Anche l’arcivescovo di Jbeil, Bechara Rai, altra voce autorevole della chiesa maronita, ribadisce l’importanza di essere «messaggio»: «I musulmani del Libano – sostiene – hanno rinunciato alla teocrazia e i cristiani hanno rinunciato al laicismo occidentale. Entrambi vogliamo convivere in un sistema civile che rispetti la dimensione religiosa dei cittadini. Perciò il Libano offre questo modello: si tratta non solo di un paese, ma di un “messaggio”, offerto sia all’Occidente sia all’Oriente. All’Occidente, immerso in un laicismo che non solo ha separato religione e stato, ma che ha diviso anche stato e Dio. È però un messaggio anche per l’Oriente, il quale dice che culture e le religioni possono convivere e formare insieme uno stato civile».
E tuttavia, anche mons. Rai è preoccupato del futuro dei cristiani nel suo paese. A suo avviso, l’incursione israeliana dello scorso anno non ha fatto che peggiorare le cose, provocando una «vera e propria crisi», che tocca indirettamente tutta la regione. Per questo, ricordando le parole di Giovanni Paolo ii, avverte: «La presenza cristiana in Libano è una condizione necessaria per salvare l’esistenza dei cristiani in Medio Oriente».

TRA PESSIMISMO E OTTIMISMO
Tuttavia, oggi, molti sono alquanto pessimisti: temono che ben presto in Libano di cristiani ne resteranno ben pochi e conteranno sempre meno. «I giovani cristiani emigrano, i musulmani fanno più figli – analizza il direttore di Caritas Libano, Georges Massoud Khoury -. Talvolta ci sentiamo abbandonati dai nostri fratelli d’Occidente, che non capiscono che se i cristiani del Libano soffrono, sono tutti i cristiani del Medio Oriente a soffrire. La nostra terra sta perdendo il valore di questa presenza, di questo patrimonio. Per questo chiediamo che gli altri cristiani e le altre chiese ci aiutino. Non tanto in termini di cibo o medicine. Abbiamo bisogno che ci sostengano nel creare un’atmosfera sicura, affinché noi stessi, con il nostro lavoro e il nostro impegno, possiamo far fronte ai nostri problemi e possiamo far tornare in patria i nostri figli, che rappresentano potenzialmente le forze vive di questo paese».
La sua vicenda familiare è emblematica di molte altre. Dei suoi figli e nipoti, 21 in tutto, figli di suoi fratelli e sorelle, solo 3 si trovano oggi in Libano, perché sono ancora minorenni. Gli altri, tutti altamente qualificati – ingegneri, psicologi, architetti… – sono all’estero e, vista l’instabilità, per il momento non intendono tornare.
«Le divisioni intee sono la nostra debolezza – dice affranto -, ma anche a livello internazionale l’atteggiamento nei nostri confronti è molto deludente. Stanno prosciugando tutto il nostro bagaglio culturale, spirituale e morale…».
È più ottimista, invece, Rosette Héchaimé, responsabile del net-work di Caritas per il Medio Oriente e il Nord Africa (Mona) con sede a Beirut. Laica, focolarina, la scorsa estate si è data molto da fare in prima persona per soccorrere e ospitare le famiglie musulmane fuggite dai quartieri sciiti di Beirut sud, bombardati dall’esercito israeliano. «Abbiamo potuto ospitare e curare moltissime persone – racconta – soprattutto grazie a tanti amici musulmani: sono stati loro ad aiutarci ad accogliere la gente che aveva perso le proprie case e spesso i propri cari. Quello che abbiamo fatto è stato possibile solo perché lo abbiamo fatto insieme, cristiani e musulmani».
Zainab annuisce e sorride. Lei è sciita, in testa porta il jihab e veste un lungo soprabito beige. È la segretaria di un importante leader sciita, Ibrahim Shamseddine (cfr p. 42), vive e lavora in un contesto musulmano molto tradizionale. Ma l’estate scorsa anche lei era lì, alla Mariapoli, a portare il suo sostegno e la sua solidarietà. Lo racconta con grande naturalezza, come se fosse la cosa più normale, semplicemente quella che andava fatta. «Con tanti amici, cristiani e musulmani, abbiamo aiutato quelli che avevano bisogno, che avevano perso tutto, senza pensare a chi e cosa era. Musulmani o cristiani… c’era la guerra e stavamo insieme. È stata un’esperienza dura, ma anche molto bella e significativa».

VALE LA PENA SPERARE
Anche Rosette sorride e prova a rileggere la storia del Libano all’interno delle lotte che hanno coinvolto tutto il Medio Oriente. «Siamo una specie di cassa di risonanza di quello che avviene nel mondo arabo. È una grande sfida per noi». Contrariamente a molti altri, lei continua a credere che valga ancora la pena di sperare: «La società libanese è molto dinamica e generosa. Ci sono tante associazioni, gruppi, ong, sia a livello cristiano che musulmano. E tante iniziative di solidarietà in diversi ambiti. Dobbiamo mantenere viva la speranza».
La guerra della scorsa estate, è vero, ha provocato morte e distruzione, e tuttavia ha creato anche occasioni di solidarietà e vicinanza. La Caritas, da sola, ha assistito 91 mila persone, quasi tutte musulmane. Ma anche interi villaggi cristiani si sono mobilitati per accogliere gli sfollati musulmani, in fuga dalle bombe. «I cristiani – conferma Georges Massoud Khoury – hanno aperto le porte delle loro scuole, dei loro centri, anche delle loro chiese, per dare rifugio ai musulmani. Sono gesti che la gente non dimentica. E che aiutano a superare i pregiudizi e la diffidenza. È il dialogo della vita e della solidarietà».
Per i giovani sembra tutto più facile. È vero, la religione continua a rappresentare anche per i ragazzi un elemento identitario forte, poi però intervengono elementi culturali comuni, influssi occidentali, la scuola o l’università frequentata insieme, modelli e stili di vita condivisi, internet, il cinema, la musica, la voglia di divertirsi… E allora anche tra musulmani e cristiani diventa più facile condividere spazi e momenti di vita comune.
«La religione non è tutto», conferma Fadi Noun, giornalista di Orient-le-Jour, l’unico quotidiano francofono del paese. Pur essendo un maronita molto militante, ammette che nella personalità del libanese entrano molti elementi: «Uno spirito fenicio, commerciante, pagano, montanaro, tribale… E poi elementi culturali che si sovrappongono, arabi e mediterranei, orientali e occidentali. Tradizione e modeità che si incontrano e si scontrano. Tutto questo può essere segno di pluralismo o pretesto di divisione».
«Certo – ammette lo stesso Fadi Noun – la situazione è complessa. E quando tutto questo si mischia con la politica intea e internazionale, con gli interessi e i giochi di potere, la situazione diventa potenzialmente esplosiva. Noi libanesi portiamo la grande responsabilità di non essere uniti. Ma abbiamo comunque il diritto di esistere. Come paese e come popolo».

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




Mosaico incompiuto

Anatomia di un paese dalle molte anime

Pur segnato da conflitti e instabilità, il Libano rimane l’unica terra di libertà e pluralismo all’interno del Medio Oriente. Viaggio in un paese frammentato e inquieto.

Strano destino quello del Libano. Aperto al mare, aggrappato alle sue montagne, è stato sin dalla più remota antichità una terra di mezzo. Terra di molti e terra di nessuno. I fenici, navigatori abilissimi, si insediarono qui tre millenni avanti Cristo; svilupparono l’alfabeto lineare e lo diffusero in tutto il Mediterraneo, fondando colonie da Cipro alla Sicilia, dalla Sardegna al Nord Africa, sino alla Spagna. Come non riconoscere ancora oggi un residuo di quello spirito fenicio in questo popolo di migranti sparso in tutto il mondo?
Dopo i fenici passarono di qui anche i persiani di Dario, artefici di un significativo processo di assimilazione culturale, prima di essere sconfitti dai macedoni di Alessandro Magno. Quindi arrivarono i romani, che annessero il Libano alla provincia di Siria e vi introdussero il cristianesimo in seguito alla conversione dell’imperatore Costantino (313).

IL LIBANO NASCE CRISTIANO
Ma i libanesi seppero trasformare anche questa vicissitudine religiosa in una storia propria, del tutto singolare. Una storia che risale al v secolo e alla vicenda dell’anacoreta Marone, sulla cui tomba, ad Apamea (oggi in Siria), lungo il fiume Oronte, venne costruito un monastero, meta dei fedeli di quelle terre.
Da qui ebbe origine la comunità dei maroniti, che nel vii secolo si insediarono nell’attuale Libano, dove mantennero – e mantengono ancora oggi, pur essendo cattolici – una sostanziale autonomia e un proprio rito. E dove continuano a rappresentare la comunità cristiana più numerosa e influente del paese, non solo dal punto di vista religioso, ma anche politico, sociale ed economico.
Ma la storia del Libano è stata ed è fortemente segnata anche dalla presenza dell’islam. Gli eserciti musulmani vi penetrarono diretti a Gerusalemme, che cadde nel 638. In Libano, tuttavia, dovettero fare i conti con la particolare conformazione montuosa del paese e con la resistenza dei cristiani, e in particolare dei maroniti.
Tutto l’ultimo millennio di storia libanese – dalle crociate ai giorni nostri – è segnato dallo scontro e dalla dialettica tra le varie componenti religiose che fanno del paese un mosaico ricchissimo e incompiuto, le cui tessere continuano a cambiare di mano e di posizione.
Così anche negli anni più recenti. Dopo la caduta dell’impero ottomano e i primi scontri tra i maroniti e le popolazioni druse che abitano le montagne dello Chouf – e che, pur essendo islamiche, conservano gelosamente le loro tradizioni -, la Francia comincia a far sentire con maggior forza il proprio peso nella regione. Vicino alla causa maronita, il governo di Parigi promuove l’indipendenza del Libano.

GIOCO DI EQUILIBRIO
Dopo la prima guerra mondiale, durante il mandato francese, è promulgata una Costituzione che tiene conto degli equilibri religiosi del paese. Nel 1932 viene realizzato il primo e, fin qui l’unico, censimento della popolazione libanese. Ne emerge un quadro religioso sostanzialmente equilibrato: il 51% della popolazione cristiana (di cui il 29% maronita), il 49% musulmana e l’1% di altri gruppi, tra cui anche una piccola comunità ebraica.
Sulla base di tale censimento viene stipulato, nel 1943, il cosiddetto «Patto nazionale», in base al quale tutte le cariche politiche e istituzionali devono essere distribuite in percentuali ben precise alle diverse confessioni religiose. I seggi parlamentari, poi, dovevano essere assegnati con una proporzione di 6 a 5 a favore dei cristiani. Il presidente sarebbe sempre stato un cristiano maronita, il primo ministro un musulmano sunnita e il presidente del Parlamento un musulmano sciita.
Questo ordinamento è tuttora in vigore, anche se sono state modificate le percentuali dei deputati, che oggi sono metà musulmani e metà cristiani. Una suddivisione che probabilmente non rispecchia più la composizione sociale, visto che i musulmani sono certamente più numerosi dei cristiani, sia per il più elevato tasso di natalità, sia per la tendenza di molti cristiani a emigrare all’estero. Sta di fatto, però, che per il momento nessuno osa invocare un nuovo censimento, che sconvolgerebbe il già precario equilibrio, su cui cerca faticosamente di reggersi il Libano.
Non che questa particolarissima ed esplosiva commistione tra politica e religione abbia mai veramente funzionato: nei mesi scorsi ha letteralmente bloccato tutte le istituzioni del paese. Ma in passato è stata spesso causa di sanguinosi conflitti. Eppure nessuno pare intravedere o vuole promuovere una ragionevole alternativa.

VICINI SCOMODI E INVADENTI
L’esperienza del passato non è edificante. Ottenuta l’indipendenza – formalmente nel 1943, di fatto nel 1946, quando si ritirarono le truppe francesi – il Libano piomba in una serie di situazioni di crisi da cui non è ancora completamente uscito. Da un lato, paga le mai domate divergenze e spaccature intee; dall’altro, subisce le mire egemoniche di vicini invadenti (in tutti i sensi!) come Israele, Siria e Iran (ma anche Arabia Saudita ed Egitto). Per non parlare del fatto che – spesso suo malgrado – si ritrova al centro dei giochi di interesse e di potere delle grandi potenze inteazionali, a cominciare dalla Francia e, soprattutto, dagli Stati Uniti, oltre a subire le pesanti ripercussioni delle due guerre del Golfo e di svariati interventi e risoluzioni – spesso vani – delle Nazioni Unite.
Insomma, nella sua storia travagliata questo minuscolo paese che è il Libano non ha mai conosciuto realmente cosa significano nella loro pienezza parole come pace, indipendenza, sovranità nazionale…
Già all’indomani dell’indipendenza, in seguito alla guerra arabo-israeliana, scoppiata dopo il ritiro delle truppe britanniche dalla Palestina, il Libano ha dovuto sopportare l’arrivo di centinaia di migliaia di profughi palestinesi, molti dei quali sono rimasti nel paese. Attualmente sono circa 350 mila, arrivati anche in momenti successivi e ammassati, in condizioni spesso miserabili, in enormi campi, dove un tempo trovava rifugio l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) di Yasser Arafat, mentre oggi vengono facilmente infiltrati da organizzazioni filo-siriane o vicine ad Al Qa’ida.
È quanto è successo lo scorso maggio a Nahr al-Bared, nei pressi di Tripoli, uno dei 12 campi ancora presenti in Libano, dove il gruppo Fatah al-islam si è organizzato con uomini provenienti anche dall’estero e con armi pesanti ha attaccato l’esercito libanese. Un centinaio i morti tra gli integralisti islamici, militari libanesi e profughi palestinesi.
Il rischio è che la rivolta si estenda ad altri campi e ad altre città libanesi. Ma ancora una volta, per una battaglia che si svolge sul territorio del Libano, i responsabili vanno cercati fuori dal paese. Anche se alcuni ritengono il gruppo di Fatah al-islam vicino a Bin Laden, molti sospettano, rischiando facilmente di azzeccarci, lo zampino della Siria. Che mal sopporta un Libano fuori dal suo controllo.
La Siria, appunto, è uno dei grandi vicini scomodi del Libano, che da sempre ne condiziona pesantemente le sorti e mai ha rinunciato davvero ad annetterselo, perseguendo l’antico e inconfessabile sogno della «Grande Siria».
Sin dal ’76, con il pretesto di porre fine alla guerra civile scoppiata l’anno prima, i militari siriani, in seguito integrati alla Forza araba di dissuasione, sono stati massicciamente presenti nel paese sino all’aprile del 2005. Di fatto un’occupazione durata 30 anni, e accompagnata da forti condizionamenti politici, che in parte continuano.

GUERRA CIVILE DEVASTANTE
Intanto, però, un’altra grossa partita si è giocata sul fronte israeliano. Già la «Guerra dei sei giorni» del 1967, con l’occupazione di Gaza e della Cisgiordania, aveva provocato un nuovo massiccio afflusso di profughi palestinesi in Libano. I campi di raccolta si sono trasformati ben presto in centri di guerriglia anti-israeliana, oltre a rappresentare un serio problema interno al paese. Al punto da diventare il pretesto per lo scoppio della guerra civile, che dal ’75 al ’90 ha devastato il paese, opponendo in fasi diverse i maroniti della Falange libanese legata alla famiglia Gemayel (responsabili tra l’altro della famigerata strage nei campi di Sabra e Shatila), i drusi del Movimento nazionale di Kamal Jumblat (autori di massacri di cristiani sui monti Chouf), le milizie sciite di Amal e poi quelle di Hezbollah (protagonisti di numerosi attentati suicidi).
Gli israeliani, dal canto loro, sono intervenuti direttamente almeno otto volte, occupando fasce più o meno estese del territorio libanese. Le più devastanti sono quelle del marzo ‘78, quando hanno invaso il Libano meridionale, e del giugno ’82, quando invece si sono spinti sino a Beirut, dopo aver devastato le città del sud. La capitale, dove trovavano rifugio i dirigenti dell’Olp, è stata colpita per due mesi da pesanti bombardamenti che hanno provocato quasi 20 mila morti e 30 mila feriti.
Dopo il ritiro dell’esercito dal sud del Libano, oggi Israele controlla solo la zona delle fattorie di Shebaa, contese anche dalla Siria. E proprio questa occupazione è diventata il pretesto che la guerriglia di Hezbollah, il «Partito di Dio», usa per continuare la sua lotta armata. Movimento sciita, nato agli inizi degli anni Ottanta, Hezbollah aveva in parte avviato negli ultimi tempi un processo di riconversione in partito politico, che si è bruscamente interrotto la scorsa estate, quando, dopo ripetuti attacchi e il rapimento di due militari israeliani, l’esercito di Tel Aviv è nuovamente intervenuto in Libano, bombardando le città del sud, i quartieri sciiti di Beirut e molte infrastrutture del paese. La guerra, durata 33 giorni, è stata l’ennesima pesante batosta per il Libano: più di mille i morti, in gran parte civili, 4 mila feriti, 700 mila sfollati. Per non parlare di ponti, strade, infrastrutture abbattute e 130 mila abitazioni distrutte o danneggiate. Un danno pari a quasi 4 miliardi di dollari. Senza contare i circa 4 mila posti di lavoro persi, le 700 imprese chiuse o fallite e vaste zone agricole impraticabili a causa delle mine o degli ordigni inesplosi.
O ggi il Libano è un paese in bilico, profondamente diviso al suo interno, e pesantemente condizionato dagli interessi e dalle politiche regionali e inteazionali. «Unità e pace» sono le parole d’ordine che continua a ripetere il patriarca maronita Nasrallah Sfeir, la principale autorità religiosa cristiana del paese. Ma per raggiungerle c’è ancora molta strada da fare…

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi




«Fanno 6 euro, pesticidi compresi»

Cosa mangiamo? (1a puntata)

È triste dirlo, ma circa la metà della frutta e un quarto della verdura in commercio sono contaminati. I pesticidi contenuti nei prodotti che consumiamo producono danni, anche molto gravi, alla nostra salute. Che fare? In primis, essere informati. E poi agire di conseguenza. Nella speranza che il futuro ci porti un’agricoltura più biologica e meno dominata dalle regole del mercato.

Stiamo facendo la spesa nel reparto ortofrutta di un grande ipermercato di Torino e, come tutti, facciamo il confronto tra i diversi prezzi. All’improvviso, la nostra attenzione viene attirata dai cartelli di certe varietà di frutta, tra cui due diversi tipi di banane, pompelmi, arance di Valencia, fichi, limoni. Nei cartelli in questione, oltre il prezzo, alla provenienza, al nome della varietà del frutto e al numero per la pesata leggiamo la frase: «Trattato con…», seguita da sigle come TBZ, E232, E904, oppure da nomi come  tiabendazolo, imazalil, ortofenilfenolo. Molto interessante… o inquietante, dipende dal punto di vista. Già perché queste sigle e questi nomi appartengono ad alcuni fra gli antiparassitari (in questo caso, fungicidi) comunemente usati in agricoltura. Diamo un’occhiata ai cartelli delle altre varietà di frutta e verdure, ma non troviamo altre indicazioni di questo tipo, tranne quelle ordinarie. In particolare non ci sono indicazioni sull’uso di antiparassitari per alcun prodotto di provenienza italiana, se non per i limoni. La domanda che ci sorge spontanea è: «Ma questi prodotti non sono trattati, o il trattamento non è dichiarato?».

Le analisi sui prodotti:
una conferma nero su bianco

Per provare a darci una risposta, abbiamo esaminato l’ultimo rapporto di Legambiente – Pesticidi nel piatto 2007 – relativo alle analisi condotte nelle varie regioni italiane su campioni di frutta e di verdura, da parte dei laboratori di Istituti zooprofilattici, di Arpa, di Direzioni generali Sanità, di presidi di prevenzione delle Asl. Questo rapporto si riferisce ai dati raccolti nel 2006 dalle analisi condotte su 10.493 campioni ortofrutticoli e sui loro derivati quali olio, vino, ecc. È anzitutto opportuno dire che i controlli sono stati eseguiti dalle varie regioni in modo disomogeneo, per quanto riguarda il numero delle analisi svolte, con regioni che ne hanno effettuato un elevato numero, come il Lazio (1256) o la Campania (706), altre con un numero di analisi intermedio come il Piemonte (450), altre ancora con poche analisi effettuate come la Valle d’Aosta (60) o addirittura nessuna, come il Molise. Ciò che risulta subito evidente dai risultati di queste analisi, nonché dal loro confronto con i dati dell’anno precedente, è che nelle regioni con un più elevato numero di controlli è più alto il numero dei campioni irregolari o regolari, ma multiresiduo, rispetto alle altre regioni, ma questo risultato è solo dovuto alla maggiore accuratezza dei controlli e non ad un maggiore uso di pesticidi. In queste analisi sono stati considerati irregolari i campioni con superamento dei limiti di legge per la concentrazione del residuo chimico o con presenza di pesticidi non autorizzati, mentre i campioni regolari multiresiduo sono quelli regolari per le concentrazioni o il tipo di pesticidi, ma con presenza di più residui contemporaneamente.
Dall’analisi dei dati 2007 osserviamo in primo luogo che, rispetto a quelli del 2006, c’è un lieve miglioramento per quanto riguarda il numero totale di analisi compiute e per il ritrovamento di campioni irregolari di verdura e di frutta, nonché di regolari multiresiduo, mentre nelle voci «derivati» e «varie» è aumentato leggermente il numero di campioni regolari con un solo residuo e di quelli multiresiduo. Sostanzialmente da questo insieme di dati emerge che la frutta presenta più residui di pesticidi della verdura; infatti solo la metà dei campioni di frutta è esente da fitofarmaci, mentre l’1,7% è risultata irregolare. Inoltre, se consideriamo in particolare qualche tipo di frutta di larghissimo consumo, come le mele, ci accorgiamo che solo il 39% è esente da pesticidi, il 30% ha più di un residuo e il 3,6% è irregolare. Del resto, anche in assenza di indicazioni sui pesticidi nel cartello, quante volte ci è capitato di vedere sulle mele (specialmente quelle rosse) una patina biancastra, polverosa e leggermente untuosa al tatto? Molto spesso, a conti fatti, tra i campioni regolari di frutta, ma multiresiduo ci sono casi sorprendenti, ad esempio: un campione di pere con 7 residui e di uno di fragole con 8, entrambi trovati in Sicilia. Per le verdure le cose vanno un poco meglio, perché la percentuale di campioni senza residui sale all’84,2%. È da notare che tra i derivati della frutta che risultano contaminati da residui di fitofarmaci, in percentuale del 20%, oltre ad olio e vino troviamo marmellate, miele, succhi di frutta ed omogeneizzati, cioè prodotti largamente consumati dai bambini.
I principi attivi più frequentemente ritrovati nei vari campioni, anche se non tutte le regioni hanno dichiarato i nomi dei fitofarmaci rinvenuti, sono: captano, carbofuran, chlorpirifos, cyprodinil, diclofluamide, dimetornato, ditiocarbammati, endosulfan, fenitrotion, guazatina, imazalil, malathion, metalaxil, procimidone, propargite, tiobendazolo, tolclofos-metile. Queste sostanze, a seconda del tipo, funzionano come anticrittogamici, insetticidi, fungicidi, molluschicidi, rodenticidi, acaricidi ed erbicidi e rientrano in un lunghissimo elenco di circa 70.000 prodotti chimici diversi presenti attualmente sul mercato, secondo i dati della Fao. Inoltre, sempre secondo questi dati, ogni anno sono immessi sul mercato circa 1.500 nuovi prodotti. Per quanto riguarda la classe chimica di appartenenza troviamo composti cloroderivati, organofosfati, carbammati e piretroidi. Le sostanze appena citate sono quelle attualmente e legalmente in uso, i cui limiti massimi di residui (LMR) nei prodotti alimentari sono regolati con una direttiva europea, che si traduce in decreto ministeriale. La normativa è aggiornata periodicamente, in seguito all’introduzione di nuovi principi attivi oppure alla scoperta di effetti dovuti all’utilizzo dei fitofarmaci o alla esposizione ai medesimi. Con periodicità quinquennale anche i prodotti già in commercio vengono rivalutati ed i dati tossicologici aggioati. Le strutture preposte alla registrazione dei fitofarmaci possono richiedere alle industrie produttrici i dati relativi a studi tossicologici, ecotossicologici e di destino ambientale. In Italia i residui dei pesticidi sui prodotti ortofrutticoli sono raffrontati con dei limiti di legge calcolati sulla pericolosità delle sostanze attive.
Donne e bambini
i soggetti più a rischio

Secondo i risultati delle ricerche condotte in numerose Università sui possibili effetti dei pesticidi sui bambini, tali limiti andrebbero però rivisti, poiché attualmente essi si riferiscono all’organismo umano maschio adulto, mentre è sicuramente necessario un adeguamento all’organismo di donne e di bambini. Ad esempio in alcuni studi su bambini sono stati evidenziati rischi di disfunzioni dell’apparato riproduttore come malformazioni del tratto urogenitale maschile, neoplasie del testicolo in età adolescenziale ed una diminuzione della qualità del seme. Queste patologie sembrano correlate all’esposizione a composti in grado di svolgere un’azione di disturbo di tipo ormonale, che può causare problemi di sviluppo. Composti di questo tipo vengono definiti Endocrine Disrupting Chemicals (EDC) e molti di loro sono pesticidi.
La ricerca condotta dalla professoressa Brenda Eskenazi dell’Università di Berkeley (Califoia) ha dimostrato che i neonati possono essere da 65 a 164 volte più sensibili ad alcuni antiparassitari come il Chlorpirifos o il Diazinon, rispetto agli adulti.
Anche i pediatri del Mount Sinai Hospital di New York hanno riscontrato una maggiore sensibilità dei bambini ai pesticidi, rispetto agli adulti, con conseguenti danni non solo al sistema endocrino, ma anche a quello nervoso ed a quello immunitario. In particolare questi studiosi hanno raccolto prove che l’esposizione del feto agli antiparassitari organofosfati conduce alla nascita di bambini con una minore circonferenza cranica ed un rischio di deficit intellettivo.
Una conferma a questi dati si ha da uno studio condotto da Greenpeace India su 899 bambini delle regioni indiane a maggiore uso di pesticidi, cioè quelle dove sono presenti le piantagioni di cotone. I risultati ottenuti sono stati paragonati con quelli di bambini viventi in regioni non contaminate. I bambini, divisi in due gruppi di 4-5 anni e di 9-13 anni, presentavano tutti analoghe caratteristiche familiari ed ambientali in modo da evitare differenze dovute al trattamento, all’istruzione ed alle condizioni economiche, che avrebbero potuto influenzare il test. Il risultato ha dato un punteggio inferiore del 30% nel gruppo di 4-5 anni e del 21% tra quelli di 9-13 anni, rispettivamente, in un test di memoria nei bambini esposti ai pesticidi, rispetto ai controlli. I pesticidi più usati in queste regioni sono quelli organofoforici (in particolare methil-parathion e monocrotophos, classificati dall’OMS come estremamente dannosi), che agiscono sul sistema nervoso centrale, in quanto bloccano l’attività dell’acetilcolinesterasi, un enzima che inibisce l’attività dell’acetilcolina, uno dei principali neurotrasmettitori del sistema nervoso. Il blocco di questo enzima è di tale gravità che nei lavoratori, in cui si è verificata un’intossicazione acuta da pesticidi organofosfati, si sono avute convulsioni, problemi respiratori (in qualche caso mortali) oppure invalidità permanente, come nel caso della neuropatia ritardata, caratterizzata da paralisi flaccida della muscolatura degli arti inferiori, che insorge improvvisamente a 2-3 settimane di distanza dell’episodio acuto.
Studi svolti con procedimenti analoghi sia in Italia, in provincia di Siena, sia negli Stati Uniti dall’Università di Seattle, in cui sono stati analizzati campioni di urina di bambini esposti ai pesticidi organoclorurati hanno mostrato nel primo caso che le concentrazioni di metaboliti alchilsolfati era significativamente maggiore nei bambini, rispetto a quanto osservato in un precedente campione di adulti, abitanti nella stessa zona, anche se l’esposizione era da riferire più all’uso domestico di insetticidi che alla dieta; nel caso di Seattle si è scoperto che nei bambini, che consumavano abitualmente frutta e verdure biologiche, la concentrazione degli alchilsolfati era sei volte inferiore, rispetto a quella dei bambini alimentati convenzionalmente.
Dal momento che è ormai appurato che l’assunzione di pesticidi organofosfati per via diretta con l’alimentazione o indiretta, attraverso la placenta, può alterare lo sviluppo del sistema nervoso centrale, l’EPA (Environmental Protection Agency) ha messo in relazione il vertiginoso aumento delle patologie comportamentali, decisamente aumentate negli ultimi anni in USA, anche con l’aumento dell’assunzione di questi composti.
A seguito dei risultati di studi come quelli sopracitati, il National Research Council (NRC) dell’Accademia nazionale delle scienze di Washington suggerisce che le procedure per la valutazione del rischio sulla salute dei fitofarmaci siano condotte, prendendo come modello l’organismo di una bambina (per la maggiore sensibilità agli effetti dei pesticidi sugli organi riproduttivi) nella fascia d’età compresa tra 0 anni e la pubertà, cioè quella più sensibile.
La maggiore sensibilità dei bambini ai pesticidi, rispetto all’organismo adulto è dovuta all’immaturità dell’azione disintossicante del fegato nella giovane età.

La questione
del «multiresiduo»

Un altro problema che si pone nella definizione dei limiti di legge per i pesticidi residui negli alimenti è quello del multiresiduo. Attualmente i limiti della dose di residuo sono calcolati sull’organismo adulto e per un singolo principio attivo, quindi questo modello non tiene conto dell’eventuale sinergismo di più composti. Tuttavia c’è un regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Ue, il 396/2005, secondo il quale si dovrebbe finalmente tenere conto del multiresiduo ed inoltre i limiti massimi dovranno essere uniformati in tutta l’Unione europea.
È importantissimo non sottovalutare i rischi associati all’uso di fungicidi, in particolare dei ditiocarbammati, come il mancozeb ed il maneb, considerati a bassa tossicità, perché tali composti vengono rapidamente metabolizzati nell’organismo e nell’ambiente, con la formazione di etilentiourea (ETU), un metabolita molto tossico, che ad alte dosi è teratogeno per il feto dei mammiferi ed inoltre è un potente tireostatico, cioè interferisce con lo sviluppo della tiroide e degli ormoni tiroidei, che sono importantissimi per la maturazione del cervello. Studi sperimentali sui roditori esposti ai ditiocarbammati hanno mostrato danni neurologici simili a quelli presenti nel morbo di Parkinson.
Tra i vari danni portati alla salute umana dai pesticidi ci sono poi quelli dei pesticidi ad azione ormonale, cioè quelli appartenenti alla categoria degli Endocrine Disrupting Chemicals (EDC), ai quali abbiamo già accennato prima, parlando degli studi compiuti sui bambini. Si tratta di composti in grado d’interferire con la normale regolazione ormonale di un organismo, secondo diversi meccanismi: alcuni sono in grado di formare un complesso ormone-recettore; altri interferiscono nei meccanismi di produzione o di eliminazione di un ormone; altri ancora stimolano la formazione di recettori di superficie per determinati ormoni; ci sono infine quelli che reagiscono direttamente o indirettamente con un ormone, alterandone la struttura o la sintesi. Di solito questi composti presentano un’elevata solubilità nei lipidi, quindi tendono ad accumularsi nel tessuto adiposo degli esseri viventi, il che non comporta problemi fisiologici fino a quando non cominciano dei processi di mobilizzazione dei grassi, come avviene ad esempio nel momento della riproduzione. In questo caso tali sostanze vengono liberate dal tessuto adiposo e metabolizzate, con conseguente formazione di altri composti, che possono avere un’azione ormonale. Un altro aspetto fondamentale è l’accumulo di questi composti nei diversi livelli della catena alimentare (biomagnificazione o concentrazione attraverso la catena alimentare), per cui animali predatori, che si trovano al vertice di questa catena presentano la più alta concentrazione di composti lipofili. Tra questi organismi c’è anche l’uomo. Una delle classi di composti che meglio corrisponde a queste caratteristiche è quella dei pesticidi organoclorurati, cioè contenenti cloro, tra cui abbiamo i dicloro-difeniletani (Ddt, Dde, Ddd, ecc.), i cicloesani ed i ciclodieni. Molti di questi composti sono attualmente vietati o molto limitati nell’uso, ma continuano ad essere presenti nell’ambiente, perché accumulati negli esseri viventi grazie al processo di bioaccumulazione. Questo processo è favorito dalla presenza di atomi di alogeno (come il cloro) nella catena di idrocarburo (carbonio più idrogeno). Gli alogeni introdotti negli idrocarburi ne diminuiscono l’idrosolubilità e ne aumentano la liposolubilità. Ecco il motivo della loro presenza nel tessuto adiposo. Il capostipite di questi composti è l’insetticida Ddt o Dicloro-difenil-tricloroetano, una molecola caratterizzata da due anelli benzenici e da 5 atomi di cloro. A dimostrazione della potenzialità di questi composti si può citare l’incidente avvenuto nel 1980 nel lago Apopka in Florida, dove venne riversata dalla Tower Chemical Company, un’azienda produttrice di clorobenzilati, una miscela di dicolfolo, DDT e DDE. In seguito nella popolazione di alligatori del lago sono state evidenziate anomalie endocrine di vario tipo, tra cui emergevano la demasculinizzazione degli alligatori maschi e la superfemminilizzazione delle femmine, questo per via di una concentrazione di estrogeni doppia del normale in questi organismi. Pesticidi di questo tipo si comportano a tutti gli effetti come estrogeno-mimetici. La presenza di pesticidi organoclorurati è stata inoltre correlata alla diminuzione ed alla scomparsa di alcune specie di rane in parchi e riserve naturali in Canada.
A livello umano, questi pesticidi sono stati associati alla comparsa di patologie come l’endometriosi, che colpisce circa 80 milioni di donne al mondo, senza distinzioni etniche o sociali. Oltre a questo nelle donne causerebbero infertilità, aborti e parti prematuri, nonché malformazioni fetali. Analoghi problemi d’infertilità si sono sviluppati anche nell’uomo.
Uno degli aspetti più temibili di questi composti è la possibile associazione, come suggerito da alcuni recenti studi (anche se non tutti gli studiosi convergono su questo punto), tra i composti organoclorurati e l’insorgenza del cancro della mammella, una delle principali cause di morte per tumore nella donna, essendo le altre il carcinoma del polmone e del collo dell’utero (quest’ultimo ad eziologia virale, da Hpv). Il tumore della mammella esiste infatti in due varietà, estrogeno-dipendente ed estrogeno-indipendente; è chiaro che lo sviluppo del primo tipo è strettamente correlato alla presenza di estrogeni nell’organismo.
   
I pesticidi illegali

Finora ci siamo occupati quasi esclusivamente degli effetti di pesticidi legalmente in uso, ma non dobbiamo dimenticare che nell’ambiente sono ancora presenti (in parte per bioaccumulazione, in parte perché tuttora alcuni vengono adoperati nei paesi in via di sviluppo) dei pesticidi appartenenti ad un gruppo di composti definiti POP (Persistent Organic Pollutants). Tali composti sono stati messi al bando il 17 maggio 2004 dalla Convenzione di Stoccolma e sono: DDT, aldrina e dieldrina, clordano, endrina, toxaphene, eptacloro, PCB, murex, esaclorobenzene, diossine e furani. A parte diossine, furani e PCB, tutti gli altri sono pesticidi. La Convenzione di Stoccolma ne vieta la fabbricazione, l’impiego ed il commercio e prevede anche l’obbligo di allestire un inventario dei depositi di materiali contaminati da POP e di smaltie le scorie in modo ecologico. Nonostante queste restrizioni, il rapporto di Legambiente del 2004 mette in luce la presenza di DDT in Italia, specialmente in Emilia-Romagna, Liguria, Sardegna, Marche e Lazio. Ciò può essere dovuto al fatto che il DDT può viaggiare negli strati caldi dell’atmosfera, per condensare e precipitare a terra quando incontra aria più fredda, quindi non solo ha la capacità di persistere a lungo, ma anche di arrivare molto lontano dal luogo di utilizzo (nel mondo viene ancora adoperato nei paesi dove la malaria è endemica). Inoltre nelle serre e nei sistemi di coltivazione al chiuso si usa spesso terriccio, probabilmente contaminato, proveniente dai paesi dell’Est.

Che fare?

Toando al nostro dubbio iniziale sulla presenza o meno di residui di pesticidi sui prodotti ortofrutticoli, in assenza di indicazioni, è chiaro dai risultati dell’indagine di Legambiente che la metà della frutta ed un quarto della verdura risultano contaminati. Che fare quindi, dal momento che qualcosa bisogna pur mangiare? Senza farsi prendere dal panico, forse è sufficiente fare delle scelte ragionate al momento dell’acquisto, rivolgendosi il più possibile ai prodotti da agricoltura biologica, che sono sottoposti a maggiori controlli. Ormai in parecchi supermercati si trova l’angolo dedicato a questi prodotti. In loro mancanza, vale sempre il buon vecchio metodo del lavaggio molto accurato della verdura e della frutta. Quest’ultima poi andrebbe sempre sbucciata, magari asportando anche un po’ di polpa, dal momento che i pesticidi si concentrano nella buccia e nello strati immediatamente sottostante. Inoltre è sempre meglio leggere attentamente gli ingredienti e le informazioni riportati nell’etichetta dei cibi confezionati. Ove possibile poi, sarebbe opportuno servirsi dei prodotti del commercio equo e solidale, anche se in qualche caso possono essere più cari. Questo commercio può aiutare le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo, paesi dove l’uso indiscriminato di pesticidi e lo sfruttamento delle multinazionali stanno causando delle gravi emergenze sociali.
(fine 1.a puntata – continua)

Di Roberto Topino e Rosanna Novara

Il glossario

Alogeni: sono il fluoro, il cloro, il bromo, lo iodio e l’astato e sono gli elementi del VII gruppo del sistema periodico. Sono non-metalli, energici ossidanti e molto reattivi, che si combinano facilmente con gli elementi del I gruppo del sistema periodico (metalli), dando origine a dei sali.

Anticrittogamici: sostanze chimiche attive contro le crittogame parassite delle piante coltivate. Per crittogame si intendono le piante senza fiore, contrapposte alle piante fanerogame o con fiore. In agricoltura la lotta viene condotta quasi esclusivamente contro un tipo di crittogame, cioè i funghi e, a seconda dell’azione, gli anticrittogamici vengono definiti come fungicidi, quando uccidono i funghi; fungistatici, quando ne ostacolano lo sviluppo; antisporulanti, quando interferiscono con la sua moltiplicazione. Gli anticrittogamici si dividono inoltre in esofarmaci, se esercitano la loro azione sulla superficie dei vegetali ed in endofarmaci, se penetrano nei tessuti interni. Di solito i primi hanno un’azione preventiva e gli altri curativa, nei confronti delle infezioni. Infine gli anticrittogamici possono essere inorganici (a base di rame, di zolfo o di polisolfuri), oppure organici (carbammati, derivati del fenolo, dicarbossimidi, ammine, ammidi, diazine, eterociclici diversi, aloidrocarburi).

Azione detossicante del fegato: tra le sue molteplici attività, il fegato svolge la funzione detossicante, ovvero le sue cellule (epatociti) provvedono ad eliminare dal sangue le sostanze tossiche per l’organismo (tra cui ad es. l’alcornol etilico).

Composti inorganici: composti chimici privi di carbonio nella loro molecola, appartenenti al regno minerale.

Composti organici: composti chimici contenenti carbonio nella loro molecola e caratterizzanti la materia vivente.

Diserbanti o erbicidi: sostanze che distruggono le erbe infestanti o ne impediscono lo sviluppo in modo selettivo o non selettivo. L’azione fitotossica dei diserbanti può riguardare la struttura dei tessuti (causticazione, coagulazione del materiale cellulare, ecc.) o i meccanismi biologici del vegetale (alterazione del metabolismo di alcune sostanze, dei meccanismi ormonali, ecc.). Un erbicida può avere tempi di degradazione molto brevi, o permanere a lungo inalterato nel terreno, a seconda delle sue caratteristiche chimiche, fisiche, biologiche, nonché delle condizioni ambientali e delle caratteristiche del suolo. Ogni specie coltivata tollera la presenza di residui di ciascun diserbante solo se la concentrazione non supera un determinato valore, detto soglia di tollerabilità della specie verso un certo erbicida. I diserbanti sono classificati in: fenossiderivati, derivati degli ossiacidi aromatici o dell’acido ftalico, derivati degli acidi aromatici o dell’acido benzoico, derivati degli acidi grassi, nitroderivati o nitrocomposti, benzonitrili, carbammati, derivati dell’urea, ammidi, triazine o loro derivati, dipiridilici, diazine, piridine, pirimidine, derivati diversi.

Edc (Endocrine disrupting chemicals): composti chimici con azione di disturbo sul sistema endocrino, cioè sull’attività ormonale.

Endometriosi: patologia cronica femminile caratterizzata dall’anomala presenza di endometrio, cioè mucosa uterina, in altre sedi come ovaie, tube, peritoneo o intestino. Conseguenze di questa anomalia sono sanguinamenti interni, infiammazioni croniche, presenza di tessuto cicatriziale, aderenze ed infertilità. L’endometriosi è spesso dolorosa e può diventare invalidante.

Epa (Environmental protection agency): agenzia di protezione ambientale statunitense.

Fitofarmaci: composti chimici naturali o sintetici usati in agricoltura per combattere i parassiti e le malattie delle piante, per proteggere le colture da tutti gli agenti dannosi (non necessariamente parassiti, come erbe infestanti o alghe) e per il miglioramento della produttività. I fitofarmaci vengono distinti in varie classi: fisiofarmaci, usati per il controllo delle alterazioni fisiologiche da cause varie; fitoregolatori, capaci di modificare il normale sviluppo delle piante, in modo da ottenere rendimenti anomali, ma economicamente vantaggiosi, oltre che di controllare le alterazioni fisiologiche; fertilizzanti fogliari, impiegati per curare le malattie da carenze nutrizionali; erbicidi, per eliminare le erbe infestanti (vedi sopra); antiparassitari, per eliminare organismi vegetali o animali dannosi per le colture; anticrittogamici (vedi sopra).

Insetticidi: composti chimici in grado di eliminare gli insetti dannosi alle colture, alle derrate alimentari, agli animali domestici ed all’uomo. La loro tossicità, che può essere acuta o cronica, impone la necessità di stabilire i valori di ADI (acceptable daily intake) cioè le dosi giornaliere accettabili, che influenzano anche i valori limite dei residui di insetticidi ammessi per es. negli alimenti. Gli insetticidi sono classificati in:
• cloroderivati, cioè composti organici di sintesi, contenenti in prevalenza cloro, usati anche come anticrittogamici (cloropicrina). Sono distinti in derivati del difeniletano (DDT, DDD, ecc.), del cicloesano (esaclorocicloesano, lindano, ecc.), e ciclodienici (endosulfan, eptacloro, clordano, aldrin, dieldrin, ecc.);
• composti organofosforici: sono composti organici, contenenti fosforo, agenti in modo polivalente nei confronti degli insetti, degli acari e dei nematodi (vermi). Alcuni di questi sono usati per disinfestare le derrate alimentari o il terreno. Si distinguono in fosfati (dichlorvos), tiofosfati (paratione), ditiofosfati (dimetornato), fosfonati (trichlorphon), ditiofosfonati (fonophos);
• carbammati: composti di tipo alcaloide, distinti in monometilcarbammati (carbaryl, carbofuran) e dimetilcarbammati (isolan), usati come geodisinfestanti, disinfestanti del bestiame e delle abitazioni;
• piretroidi, neonicotinoidi, rotenoidi: insetticidi di origine vegetale, facilmente biodegradabili, ma che spesso presentano problemi di tossicità.

Metaboliti alchilfosfati: prodotti del metabolismo cellulare, costituiti da molecole di idrocarburi (carbonio e idrogeno) a catena aperta, con la presenza di atomi di fosforo.

Pesticidi: è un termine generico, che comprende gli anticrittogamici, i fitofarmaci, gli insetticidi, i diserbanti, ecc., cioè quei composti di origine per lo più sintetica, che vengono applicati sulle colture, sulle derrate alimentari o sul terreno per liberarli da infezioni o da infestazioni di vario genere.

Pop (Persistent organic pollutant): inquinante organico persistente nell’ambiente.
(a cura di R.Novara e R.Topino)

Roberto Topino e Rosanna Novara