Passaggio a Nord Ovest

Viaggio nell’ultima frontiera nord-americana

Comperata dalla Russia nel 1867 e dichiarata stato federale nel 1959, l’Alaska costituisce un quinto della superficie degli Stati Uniti, ma è il meno popolato. La ricchezza del sottosuolo e la sua posizione strategica ne ha fatto l’ultima frontiera della colonizzazione americana. Per la sua natura incontaminata è diventata un’attrazione turistica privilegiata e rifugio di americani in fuga dagli altri 48 stati dell’Unione (i cosiddetti lower 48). Ma anche questo angolo di paradiso sembra minacciato dall’avanzare del «progresso».

Siamo atterrati in Alaska dopo aver sorvolato Danimarca e Norvegia, nord della Groenlandia e  Polo nord. I dati del paese li conoscevo: superficie del territorio pari a quella di Inghilterra, Spagna, Francia e Italia messe insieme; sviluppo delle coste superiore a quello degli Usa… eppure la prima sensazione è quella di aver raggiunto una terra esagerata, che toglie il respiro e mette soggezione. Tutto ha una dimensione grandiosa, compresa Anchorage, città modea che ha decuplicato i suoi abitanti in 20 anni. Le montagne che la circondano, basse e bianche di neve, paiono lontane.
Noleggio una bici e faccio un giro in centro; passo davanti alla statua del capitano Cook, arrivato fin qui nel 1778 alla ricerca del mitico «passaggio a nord ovest»; percorro la pista che costeggia il mare: i cartelli avvertono di non avventurarsi sulla distesa fangosa lasciata dalle maree, che qui raggiungono il primato di 10 metri.
Siamo a metà maggio: nel parco le betulle e gli aspen hanno ancora poche gemme, ma tra pochi giorni avranno le loro tremule foglie e cambieranno il paesaggio. La gente non ha paura del vento e del freddo; corre e cammina anche sotto una leggera pioggia; i ragazzi girano in maniche corte; i piccoli vengono portati  in carrozzine chiuse, agganciate alle biciclette.
SILENZIO!
Dopo la prima guerra mondiale, le attrezzature usate per costruire il canale di Panama furono trasportate in Alaska per costruire le ferrovie. La più importante serve anche oggi per trasportare il migliore carbone del mondo, perché privo di zolfo e non inquinante, dal cuore del territorio al porto di Seward, dove viene imbarcato e spedito in Cile e in Corea.
Nei mesi estivi la linea, viene utilizzata dai turisti per spostarsi da Anchorage a Seward, attraverso paesaggi spettacolari di monti, laghi e ghiacciai.  La cittadina prende nome dal segretario di stato americano che, nel 1867, volle comprare l’Alaska dai russi, contro il parere di buona parte del mondo politico di allora.  
Sul treno siedo accanto a una famiglia di Anchorage in gita. I genitori sono originari di Sitka, l’antica città russa del sud est del territorio. Le tre bambine hanno nomi curiosi: Charity, Mercy, Marissa. Sul treno sale anche una classe elementare di Anchorage, guidata dalla maestra, che subito precisa di essersi felicemente trasferita dal New Jersey: «Le grandi città dei lower 48 sono invivibili». Un giudizio che sentirò ripetere spesso sui restanti stati americani, percepiti lontani, inquinati e troppo affollati.
Totalmente ricostruita dopo lo spaventoso terremoto del 1964, Seward è una cittadina di circa 4 mila abitanti, protetta da un profondo fiordo, circondata da monti bianchi di neve. Da qui si parte con il battello per raggiungere velocemente il mare aperto, tra isole rocciose, dove nidificano molte specie di uccelli. Incrociando orche e delfini, ci addentriamo in uno dei pochi fiordi già accessibili in questi ultimi giorni di primavera, per ammirare i ghiacciai che scendono in mare. Si spengono i motori; il mare brilla di mille blocchi traslucidi. Davanti allo spettacolo della natura vi è silenzio, emozione.
Ritornati in città, visitiamo il centro di ricerche biomarine. Tra le specialità della natura di questa parte del Pacifico, mi incuriosisce la storia di un pesce che riesce a sfuggire al sonar usato dalle modee navi da pesca; è forse grazie a questa sua specialità che sfugge alla minaccia di estinzione. La pesca effettuata negli ultimi anni, infatti, ha ridotto moltissimo la vita di questi mari un tempo pescosissimi, riducendo anche la presenza di uccelli e mammiferi marini che si nutrono di pesce.
Siamo ospiti di Margherite Christensen, una indigena aleutiana. Il villaggio dove è nata, sull’isola di Kodiak, fu totalmente distrutto dal terremoto del 1964. «Frequentavo la scuola elementare – racconta -. Udimmo il rombo della terra che tremava; il mare si ritirò e un’onda si chiuse sul villaggio». A Seward Margherite era arrivata per seguire i corsi di panetteria alla scuola professionale per i nativi americani. Ora non lavora, perché ha deciso di adottare una bimba e vuole occuparsene personalmente.
Il governo americano ha aiutato le comunità indigene a creare le proprie cornoperative; hanno costruito anche alberghi, che gestiscono con profitto, e amministrano i territori assegnati loro dallo stato come riserve, in ricompenso dell’immenso territorio loro sottratto, per lo sfruttamento del sottosuolo: petrolio, carbone, oro e altri minerali.
UNA VITA DIVERSA
Per passare all’altra parte della penisola Kenai non troviamo di meglio che un furgone per trasporto merci. Nostra compagna di viaggio è una ragazza diretta a Soldotna, dove ha trovato un lavoro estivo in un albergo. Shannon, questo è il suo nome, è decisamente obesa, come molte sue coetanee americane, e fatica persino a camminare.
Ho l’impressione che alla base ci siano problemi psicologici. La giovane è timida, ma riesco a farla parlare. «Ho venduto tutto – mi dice – e ho preso un biglietto di sola andata per Anchorage, senza sapere se avrei trovato un lavoro». A casa ha lasciato una scatola con alcuni oggetti e ricordi. Le chiedo dei suoi. «Mio padre? Non lo conosco; la mamma ha un boyfriend e non è mai a casa». Poi continua: «Terminata la scuola superiore, ho lavorato vicino a casa, in un locale sulla spiaggia dell’isola di Tybee. Sono venuta qui perché volevo cambiare, uscire da un posto divenuto stretto per me».
Molti altri giovani come lei, incontrati nel nostro viaggio, sono arrivati in Alaska con lo stesso sogno: costruirsi una vita diversa da quella che hanno lasciato, per lo più segnata dal dolore. Fergie, l’autista del furgone, è uno di essi. Capelli legati a coda, una vita disastrata alle spalle, è appena ritornato dalle isole Hawaii, dove ha tentato senza successo di stabilirsi. Oggi è il suo primo giorno di lavoro come autista.
La strada per Homer costeggia il Cook Inlet, attraversa un territorio di foreste con il terreno ghiacciato e duro; ma tra pochi giorni il disgelo creerà le condizioni di vita per le micidiali zanzare estive. Quando siamo nei pressi di Ninilchik, prego l’autista di fare una sosta fuori programma per visitare la bella chiesa russa. Il sole sta tramontando e restiamo in silenzio: lo sguardo spazia, al di là dell’immensa baia, sulle cime ghiacciate di una serie impressionante di vulcani.
Finalmente arriviamo a Homer, accolti nella casa di Kristal e suo marito.
OMBRE TROPPO LUNGHE
Questa mattina Homer registra la marea più bassa dell’anno. La gente è scesa a passeggiare sulla distesa umida di sabbia increspata, con i bambini e i cani, bellissimi, dal pelo lungo e bianco, la coda arrotolata. Le alghe sono lunghi nastri bruni, tra i rivoli d’acqua che si ritira. Nel cielo volano le aquile dalla testa bianca, tipiche di questa zona, così pure cicogne, stee artiche e gabbiani.
Homer non ha un vero centro cittadino, ma solo case sparse sul pendio boscoso, lungo la baia di Kachemak, vasto braccio di mare circondato da monti e numerosi ghiacciai. La gente che sceglie di venire in questo luogo è attratta dal clima, più mite che nel resto della penisola Kenai.
Trish, biologa marina, vi è arrivata 30 anni fa dal Tennessee per lavorare nelle industrie del pesce. Anno dopo anno ha visto il mare perdere la sua ricchezza a causa di una pesca indiscriminata. Dopo una grave malattia, ora che è in pensione, si sta costruendo una vera casa, accanto alla cabin che aveva nel bosco, per le vacanze.
Le cabins sono capanne di tronchi di legno, tipiche delle zone di frontiera, senza servizi interni, riscaldata da una stufa. «Finché c’erano i miei genitori, ritornavo una volta all’anno in Tennessee; ora mi è rimasta una sorella, che ha una famiglia numerosa, non la vedo da anni».
Visitiamo Seldovia, un antico insediamento russo di cacciatori di pelli, raggiungibile solo via mare. Quando l’Alaska fu acquistata dagli Usa, sorsero le fabbriche per il trattamento delle aringhe. Ora è tutto chiuso: le aringhe si sono estinte, così pure i famosi granchi della baia. Resta la pesca degli halibut, giganteschi pesci che raggiungono anche i 200 chili.
Il villaggio è un insieme di vecchie case di legno, con la chiesetta russa bianca e azzurra in posizione panoramica sulla baia e il porto, poche vetture e tutte d’epoca. Nei boschi vicini sono sorte le cabins per le vacanze di chi abita in città. Oggi sono arrivati alcuni proprietari per aprir casa e farsi un giro in barca a vela.
Sul traghetto di ritorno siamo accolti da una robusta signora in uniforme, dai capelli bianchi e le gote arrossate dal vento. Seduta a terra, apre la mappa e ci indica l’orario dei traghetti: vuole convincerci a ripartire in serata per le isole Aleutine. Una settimana di navigazione per arrivare nell’ultimo avamposto, un’isola priva di vegetazione, che durante la seconda guerra mondiale fu occupata dai giapponesi. Ringraziamo stupite per la calda accoglienza di questa gente di Alaska, ma dobbiamo rinunciare: non abbiamo il tempo né le forze per un simile viaggio.
Dispiace lasciare la casa di Kristal e suo marito, in cui abbiamo trovato veri amici. Abbiamo parlato a lungo di noi e dei nostri paesi. Anch’essi lasceranno Homer. Da poco hanno messo in vendita la bella casa, dove si erano trasferiti dal sud della Califoia alcuni anni fa, per restare accanto al figlio, rimasto vedovo dopo un incidente, e prendersi cura dei tre nipoti. Ora che i ragazzi sono cresciuti e studiano in un college a Seattle, hanno deciso di trasferirsi nello stato di Washington. «L’inverno in Alaska è troppo lungo e buio; comincia a pesarmi» Kristal confida, mentre con la sua auto mi porta a visitare un altro luogo interessante non lontano da Homer.
Si tratta di un insediamento di russi, conosciuti come «vecchi credenti». È domenica e sono vestiti a festa. Alcuni sono in coda a prendere i biglietti per fare un giro in giostra. Le bambine indossano vestiti lunghi e leggeri, di colore rosa e azzurro, come le mamme, e un velo sul capo, fermato da una tiara. Incuriosita, mi fermo per parlare con la gente, che si mostra molto riservata. Sono i discendenti di quei russi ortodossi che, nel 17° secolo si opposero alle riforme ecclesiastiche imposte dalla gerarchia ufficiale e per questo furono costretti a fuggire dal paese e rifugiarsi in Cina e Sud America. Dal Brasile si sono trasferiti negli Stati Uniti e ultimamente quassù, alla ricerca di un luogo pulito, lontano dai vizi delle grandi città. Pare però che i giovani siano attratti dalla modeità. Hanno scoperto l’alcornol e, la sera, vogliono divertirsi come gli altri americani.
C’È POSTO PER TUTTI
Negli ultimi decenni l’Alaska è diventata la nuova frontiera americana. Molte persone sono venute dalla Califoia, per fuggire dal traffico, crimine e sviluppo edilizio esagerato. Ma c’è gente che viene anche dagli stati per nulla congestionati, come Idaho, Montana, Dakota. La ragione è che in Alaska non si pagano le tasse statali; anzi, alla fine dell’anno, gli abitanti ricevono un bonus proveniente dallo sfruttamento petrolifero.
Inoltre, la breve estate turistica richiede molto personale stagionale, reclutato anche al di fuori degli Stati Uniti. Centinaia sono gli studenti provenienti dall’est europeo. Slavo, alla sua prima stagione, è uno dei 200 universitari croati arrivati da poco. La paga è minima, ma le mance sono generose; e poi, a fine stagione farà una crociera sulle navi del gruppo che gestisce i grandi alberghi del parco Denali.
Oltre alle 8 ore nel villaggio turistico, Slavo e i suoi amici lavorano anche nel ristorante della Roadhouse di Talkeetna, per cui le ore di riposo sono pochissime. D’altronde, a queste latitudini la luce diua dura molto e il cielo si oscura solo per 5 ore.
Talkeetna è il punto di partenza per scalare le cime del Mckinley, una impressionante montagna di ghiaccio di oltre 6.000 metri, che domina una regione di grandi fiumi a soli 300 sul livello del mare. Un gruppo di alpinisti belgi è appena ritornato alla base: due di essi hanno alcune dita delle mani congelate. Li incontro mentre si stanno rifocillando con i ricchi piatti della cucina della storica Roadhouse, avamposto dei pionieri dell’800, dove si fermavano le carovane di slitte trainate da cani.
Da pochi anni è proprietà di Trish Costello, una giovane signora di origine spagnola-irlandese, competente e appassionata: alle 4 del mattino è già in cucina a impastare il pane e preparare i pancakes. Trish è sempre in movimento: quando arrivano i primi avventori, organizza, prende le prenotazioni, assegna le camere, cucina, dando ordini a un certo numero di personaggi incredibili che si alternano ai fornelli. Tipica del gruppo è una giunonica ragazza in canotta e boxer colorati che spadella senza posa.
L’ambiente è più che familiare, come ai vecchi tempi: ai grandi tavoli si trova sempre posto, tutti insieme per potersi conoscere. Alle tre del pomeriggio la cucina chiude, ma si continua con le bevande, zuppe e dolci fatti in casa con i frutti di bosco.
Ma le poche camere in affitto a Talkeetna sono occupate. Dopo la prima sera dobbiamo spostarci dall’altra parte della strada, nella Casa dei 7 pini, gestita da una gentile, anziana vedova di Anchorage. «Era la casa che avevamo fatto per le vacanze con i nostri 4 figli – mi confida -; ora sono sposati e abitano lontano». Poi mi fa una proposta: «Se ti fermi e prendi in mano la gestione di questa casa, me ne vado al nord a trovare mio fratello». Mi dispiace rinunciare a questa occasione: questo paese è sorprendente, anche per le tante opportunità che può offrire persino a persone anziane.
Paradiso perduto?
Questo grande paese mi ha tolto il fiato, sin dal primo giorno. Sarà per la luce, che ti lascia riposare poche ore, o l’immensità dei panorami, con paesaggi dai ruvidi contrasti, orizzonti spogli di ogni orma umana, oppure per la prospettiva di trovarsi all’improvviso davanti un orso affamato.
I boschi sono scuri per l’abbondanza di pini spruce che a volte paiono cipressi, tanto sono sottili. Betulle e aspen hanno messo in questi giorni le prime foglie che, muovendosi, brillano e ingentiliscono i boschi. Le grandi felci si stanno schiudendo e tappezzano il sottobosco. 
Ma si parla molto di riscaldamento globale e del danno creato dagli aerei che passano sulla rotta polare. Sono chiamati in causa anche velivoli militari, che, dalle due grandi basi aree vicino ad Anchorage e Fairbancks compiono frequenti voli di ricognizione e addestramento. In Alaska, infatti, sono dislocati oltre 10 mila militari dell’aviazione e un corpo di marines. Durante il fine settimana i parchi sono affollati da gruppi di giovani rumorosi, robusti e allegri. Sono militari, tra i quali molte donne. «La posizione del paese è strategica: siamo più vicini al Giappone che a San Francisco, lo stretto che ci separa dalla Siberia russa è largo poco più di 80 miglia» afferma una coppia con in spalla due biondissimi bambini. «Abitiamo qui da due anni – dice la giovane mamma -; mio marito è militare, di stanza a Delta Junction, presso Fairbancks, una delle due grandi basi militari».
Il paradiso incontaminato forse non esiste più. I villaggi dei nativi stanno scivolando nell’Artico per lo scioglimento del permafrost, il terreno che fino a poco tempo fa rimaneva gelato tutto l’anno. Gli americani che cercavano un paese tranquillo ora si confrontano con le gang di asiatici che spacciano droga, non solo ad Anchorage, ma anche nei villaggi più remoti, dove il buio del lungo inverno accrescono l’isolamento e la paura. 

Di Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




Il mistero di un diario

La «nyumba ya kagita», una storia dalla terre dei Meru

Dalle pagine di diario di un vecchio missionario emergono antichi riti di un’Africa che fu. La curiosità e l’interesse di un confratello che, anni dopo, vuole sapee di più del mistero che essi nascondono.

Se si «ficca» il naso nei diari antichi delle missioni – specialmente africane – si può facilmente far rivivere pagine piene di storie e di misteri. A volte ci si può imbattere in racconti utili a lasciare ai posteri almeno una traccia del passato, elementi da mettere in un archivio e conservare gelosamente, come qualcosa di prezioso. A volte, però,  si tratta di veri e propri «misteri», che necessitano di qualche sforzo e molta buona volontà per essere interpretati.
Eccovi una pagina, o meglio quattro righe, del diario di Amung’enti, una missione del Kenya nell’incipiente vicariato di Nyeri, diventato poi in parte diocesi di Meru. Data del documento: 27 ottobre 1920.
«Il funzionario governativo, Mr. Gillbill, dietro mia informazione, mandava a monte la nyumba ya kaita di tutto l’Egembe, radunava tutti i tamburi (di cui mi diede licenza di scegliee alcuni). Di più: chiamò a se tutti gli avvelenatori facendo loro una buona ramanzina».
A scrivere queste precise righe in tale scao e semi-misterioso stile, fu probabilmente il padre Bodino, uno dei primi missionari mandati in Kenya ancora dal beato Giuseppe Allamano, fondatore dei missionari e  missionarie della Consolata. Padre Bodino operò in questa missione che a quel tempo aveva nome Egembe (trasformato poi in Amung’enti), fin dal 1918. La missione aveva appena cinque anni di vita, essendo stata fondata il 1° dicembre 1913.
Sprofondato in una vecchia poltrona, in attesa che il fido Michael arrivasse con la cena, lessi e rilessi quelle righe. Che cosa significavano? Nyumba ya kaita poteva essere tradotto in «capanna della… kaita». Forse bisognava riscrivere la parola nel più moderno kagita? I tamburi dovevano essere davvero i vecchi tamburi costruiti con un tronco d’albero ed una pelle di vacca, visto che il padre aveva ricevuto il permesso di tenersi qualche esemplare. E la ramanzina agli avvelenatori?
Michael arrivò in quel momento con il suo portavivande e la zuppiera fumante.
«Michael cos’è la nyumba ya kagita?» – chiesi quasi innocentemente al giovanotto.
Ci mancò poco che zuppiera e tutto l’armamentario del vassoio se ne andassero per aria. Michael si era fermato di botto facendo un grosso sussulto, una specie di singulto alla maniera africana per dimostrare sorpresa e spavento.
«È solo perché volevo capire cosa c’è scritto in questo vecchio quaderno!» – lo rassicurai.
Michael tirò un sospiro di sollievo.
«Credevo che ci fosse di nuovo in ballo qualche faccenda da parte degli anziani. Sai… queste cose del tempo antico sono poco conosciute da noi. E quando si sente parlare della kagita non si può fare a meno di guardarsi intorno per scoprire chi potrebbe essere il capro espiatorio a fae le spese. Solo gli anziani possono oggi conoscere la verità completa. Forse il maestro Battista ti potrebbe aiutare…».
E così Michael se la cavò, stuzzicando però maggiormente la mia curiosità.
La capanna del maestro Battista era situata a non più di dieci minuti dalla missione. Battista era un maestro di scuola elementare, pochi anni più vecchio di me. La sua scheda anagrafica rivelava però un «pedigree» molto importante: era uno dei figli di un grande anziano, di quegli anziani che nella regione del Meru detta Egembe costituivano l’ultimo scalino della nobiltà, aventi potere sia nelle cose buone… come in quelle assai meno nobili, nelle quali ogni tanto si trovavano implicati.
«Allora, bwana Battista, mi dici qualcosa della nyumba ya kagita?» – gli domandai dopo aver sorbito un tè con lui e la moglie.
Battista, per tutta risposta, mi prese per un braccio e mi invitò fuori, per farmi vedere qualcosa di importante e, forse, per distrarre l’attenzione della moglie sui nostri discorsi.
«Vedi, padre, lassù su quella collina di fronte a noi? Bene, quella capanna diroccata è l’ultima capanna della kagita del nostro Egembe. Bada bene di non andare a toccarla. È tabù, tutti lo sanno e se ne stanno alla larga. Le prossime piogge, forse, laveranno tutto quanto e non ci sarà più alcun ricordo. Il tempo e le termiti avranno compiuto il loro lavoro».
Quello che segue ora è il resoconto di quanto il maestro Battista mi raccontò e che io mi son permesso di mescolare con quanto un nostro famoso missionario scrittore, il padre Ottavio Sestero, mi narrò nel 1964 nella missione di Tigania. Padre Sestero era conosciuto prevalentemente per i suoi scritti «avventurosi» e a volte burloni, ma quanto aveva scritto su usi e costumi della gente che ormai conosceva da anni, solleticava la mia curiosità.
Avevo fra le mani, fresco fresco di stampa, uno dei suoi ultimi romanzi missionari, «Il sacrificio del settimo anno». Anche in quel racconto veniva descritta la nyumba ya kagita.
Alla mia domanda un po’ insolente circa la veridicità di quello che lui aveva descritto, p. Sestero, dopo una lunga boccata dalla sua inseparabile pipa, mi disse: «Vede! Certe cose non si possono inventare. Ci vorrebbe troppa fantasia. Basta aver occhi per vedere e orecchie per sentire. Gli ingredienti ci son già tutti, basta cucinarli e fae una buona zuppa! Se lo desidera, posso anche accompagnarla a vedere i luoghi descritti in quel romanzetto. Non dobbiamo farci vedere poiché queste cose continuano a turbare la fantasia di queste nuove generazioni e con i nostri giovani è meglio chiudere il capitolo… o, al massimo, servircene per riempire le pagine delle nostre “avventure missionarie”».
Andammo un po’ di nascosto a visitare quei luoghi ed oggi, mentre scrivo, ritorno con la mia fantasia a rivederli: too a rivedere la capanna della kagita, gli antri della montagna in cui i futuri candidati alla circoncisione dovevano nascondersi, gli anziani njori vestiti nei loro caratteristici paludamenti, con la ncea (la corona dell’anziano), il meu (lo scopino scacciamosche), il bastone, lo sgabello a tre gambe significato della loro autorità, il manto di pelle di bue, il copricapo solenne fatto con la pelle della scimmia guereza, dalla coda bianco nera. E poi le zucche, le grandi e piccole zucche contenenti il vino di canna da zucchero e le zucchette del tabacco. Quanti grandi «ahh!» di soddisfazione si potevano ascoltare dopo le solenni bevute e i poderosi stauti che seguivano le abbondanti prese di tabacco…!
Battista prese a raccontare.
«La kagita era una grande capanna che fungeva da tribunale. Doveva essere costruita isolata, in una verde radura. Nessun boschetto, cespuglio e coltivazione poteva trovarsi nelle immediate vicinanze, affinché nessuno si accostasse ad origliare durante le sedute dei componenti del tribunale. Chi veniva scoperto su quello spiazzo rischiava quanto meno una feroce bastonatura. Il segreto era ciò che rendeva unito, forte e temuto il «consiglio degli anziani» che nella kagita si riuniva. Un membro che ne avesse svelato le decisioni importanti era condannato lui stesso a morte.
La kagita era il culmine di una piramide formata da una società detta njori, alla quale dovevano appartenere praticamente tutti gli uomini adulti poiché era una condizione indispensabile per fruire dei diritti della tribù.
Questi njori formavano il primo gradino, o base, di questa piramide. Un secondo gradino era formato dagli njori ncheke (letteralmente: njori ristretti o “magri”, nel senso che questo gruppo aveva un numero minore di appartenenti).
Il terzo gradino a cui si poteva accedere era quello finale degli njori-mpingiri (o “chiusi”, cioè una classe superiore, esclusa a chi, nella società, non avesse un grado elevato): questi ultimi costituivano il tribunale tradizionale della zona.
Sopra tutti quanti c’era la kagita, l’autorità suprema nel territorio.
Mio padre, ad esempio, era uno njori-mpingiri e uno dei pochissimi che appartennero nel passato alla kagita dell’Egembe. Se io ti dico queste cose è perché lui stesso me le ha confidate, quando sperava di fare anche di me un suo successore. Io, però, avevo ormai scelto di diventare maestro e cristiano».
Battista prese fiato e si accinse a continuare il suo racconto che, alle mie orecchie, stava diventando sempre più interessante.
«Le autorità inglesi hanno osteggiato la kagita pur avendone ricevuto a volte benefici molto utili alla loro politica di governo. In quella capanna diroccata che vedi lassù son successe tante cose… non tutte belle, per la verità».
Battista continuò, abbassando quasi istintivamente il tono della voce. «Mio padre un giorno mi raccontò che ricevette il messaggio segreto per un urgente raduno della kagita. Occorreva sistemare una grave questione intea alla comunità, senza che il governo inglese ne venisse a conoscenza. Un giovane della nostra tribù  nella regione dell’Egembe  ne aveva combinata una davvero troppo grossa. Secondo le nostre leggi tradizionali, la pena per certi delitti era quella capitale. Ma l’indiziato, secondo la tradizione doveva comparire di persona davanti a tutti i membri della kagita.
Bisogna dire che, in queste occasioni, le nostre donne si prodigavano nel rendere la capanna più accogliente possibile. Nel centro, in un incavo del terreno, trovava posto una grande zucca alla quale era stata tagliata la parte superiore, quasi fosse una grossa pentola. Le donne si incaricavano di portare anche un buon quantitativo di vino di canna da zucchero.
In quell’occasione i preparativi seguirono la solita procedura. Da tutti i clan arrivarono gli njori-mpingiri aventi diritto di partecipazione alla kagita».
«Mio padre – proseguì Battista – mi raccontò di come ciascun convenuto dovette sottoporsi al rito della “maschera dello njori” e, cioè, essere dipinto in faccia con ocra e burro, con i precisi disegni ricevuti quando furono eletti njori. Ognuno con il proprio sgabello a tre gambe, i manti tradizionali, il copricapo tradizionale, lo scopino-scacciamosche e il bastone del grande anziano, tutti presero posto intorno alla grande capanna, seduti sullo scranno dell’autorità.
Il mogà (stregone) stava già armeggiando attorno alla grande zucca. Sul suo fondo già aveva versato un liquido che lui stesso aveva ricavato dalla scorza di una pianta della foresta a lui conosciuta. Ora restava il compito delicatissimo di versare su questo liquido, il vino portato dalle donne. Occorreva una mano fermissima e tanta pazienza in modo da impedire che i due liquidi si mescolassero: il vino, più alcornolico, avrebbe galleggiato e coperto tutto. Un giovane seminudo e legato, intanto, venne fatto sedere non distante dalla zucca».
Battista continuò il suo racconto: «Il primo in dignità tra gli njori-mpingiri si alzò in piedi e proclamò solenne: “Sono del clan delle pietre; il mio popolo, che io qui rappresento, è innocente dell’accusa del delitto che dobbiamo giudicare. Ora bevo alla mia e vostra salute e di quelli del mio clan“. E così dicendo, con fare solenne ma attentissimo a non muovere il vino della zucca, prese con una mezza zucchetta, fungente da mestolo, un buon sorso della bevanda e la bevve d’un fiato, concludendo con un gran schiocco della lingua.  “Ho parlato”.  L’assemblea approvò:  “Ne bwega (va bene)”.  E l’anziano si sedette».
«Dopo di lui, in un silenzio di tomba, si alzò il secondo rappresentante.  “Io, njori-mpingiri del clan dell’acqua nera, dimostro che anch’io ed i miei sudditi siamo innocenti!”.  Stessa manovra, stessa somma attenzione nell’intingere ed alla fine la solenne approvazione dell’assemblea:  “Ne bwega”, va bene». Così, con calma, passarono tutti gli njori della kagita. Poi si fece avanti il mogà (stregone); rivolgendosi all’imputato gli disse: “Ora tocca a te, che sei stato portato qui a provare se anche tu sei innocente”. Con fare lesto immerse fino in fondo il piccolo mestolo e lo porse alle labbra dell’indiziato invitandolo a bere, operazione alla quale il giovane non poteva sottrarsi: dovette anch’egli bere dalla zucchetta che il mogà gli porgeva. Nel silenzio che seguì, cominciò dopo pochi minuti a sentirsi un sibilo come di persona che stesse per soffocare. Il condannato prese a un tratto a contorcersi come per liberarsi dai legami che lo tenevano prigioniero. Il veleno non gli aveva dato scampo. Fu questione di pochi minuti ed il “reo” giaceva stecchito sul pavimento. “La kagita ha giudicato e la verità ha colpito!”.
Su invito dello stregone, uno degli njori meno attempato si alzò e andò ad aprire un buco nella parete della capanna, proprio opposto all’entrata; un buco appena sufficiente per farci passare un corpo umano. Spinto con un bastone (nessuno avrebbe potuto toccare un morto neppure coi piedi) il giustiziato venne fatto passare attraverso quella feritornia e poi l’apertura fu chiusa con sterpi ed un po’ di fanghiglia. Il rituale era concluso».
Battista smise di raccontare e mi guardò, come per dirmi: «Così si usava fare. Era la tradizione che imponeva queste cose…».
E concluse: «Padre, io son grato al tuo predecessore, quello del tuo vecchio libro, perché è riuscito a mettere fine per sempre a queste cose del nostro passato».
La sera era ormai scesa ed in meno di dieci minuti sarebbe stato buio.
Guardai ancora una volta i resti di quella capanna e pensai a quelle quattro righe del vecchio diario. Piccolo mistero, che ora, non è più mistero né per me né per voi. 

Di Giuseppe Quattrocchio

Giuseppe Quattrocchio




Cari missionari

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Conoscere l’Allamano

Caro Direttore,
congratulazioni per la bella rivista, che leggo sempre con tanto interesse e piacere. Ho appena ricevuto il numero di maggio 2007, insieme all’allegato Giuseppe Allamano, bella figura di missionario-fondatore-animatore di anime generose, consacrate e laici.
Vorrei conoscere più a fondo questa bella anima sacerdotale: approfitto dell’invito a pag. 5 dell’allegato, per chiedervi il libro «Così vi voglio».
Da qualche anno mi trovo a Verona, reduce dalla missione in Uganda, dove ho passato una quarantina di anni di vita missionaria. Oggi che si presenta l’occasione, vorrei proprio approfondire la vostra spiritualità, trasmessa «alla buona, ma con tanta incisività» dal beato Giuseppe Allamano. Sarà un lavorare un po’ più da vicino in questa meravigliosa avventura del regno di Cristo.
Padre Luigi Varesco
Verona

Grazie, padre Luigi, per la simpatia verso il nostro fondatore. Le assicuriamo che anche noi della Consolata vediamo in san Daniele Comboni una fonte d’ispirazione per la nostra «avventura» missionaria.

Diamanti… sporchi

Cari Missionari,
ho letto sul n.7/2007 di MC la lettera di Carlo Occhiena e la vostra risposta, relative all’operato della De Beers in Botswana e la joint venture tra la stessa e il governo. Non credo per nulla alla bontà della suddetta operazione, perché, come voi giustamente dite, la De Beers è campione nelle operazioni «diamanti insanguinati».
Per quanto riguarda la Central Kalahari Game Reserve, terra da sempre dei boscimani, oggi riserva, che si trova al centro del Botswana, dal 2002 è in corso una persecuzione da parte del governo, tesa ad allontanare con tutti i modi possibili e legittimi proprietari della terra a beneficio della De Beers e di chi godrà le royalties sull’estrazione dei diamanti.
Sono socia di Survival, l’Ong che difende i popoli tribali del mondo, portando a conoscenza dei propri soci e della società civile i soprusi, violenze, espropriazioni, quando non lo sterminio programmato, che molti gruppi subiscono dal governo del proprio paese o da chi, avendo interessi sulla zona, agisce col beneplacito o la noncuranza del governo stesso.
Ebbene è dal 2002 che è in corso la campagna di sostegno ai boscimani del Kalahari, ma i loro problemi continuano e la loro situazione rimane sempre drammatica. Lo scorso anno l’Unione europea ha pagato una cifra enorme affinché nella riserva venisse inviata l’acqua: il governo del Botswana, infatti, ha fatto distruggere tutte le fonti d’acqua. Il pretesto «ufficiale» del governo per il trasferimento forzato dei boscimani è che, essendo la zona diventata riserva, non è più possibile cacciare: i boscimani preleverebbero troppa selvaggina.
I diamanti della De Beers sono veramente sporchi!
Lelia Zizioli
Conegliano (TV)

La campagna di Survival in difesa dei boscimani e loro diritti continua. Per ulteriori notizie e per partecipare a tale campagna si può consultare il sito: http://italia.survival-inteational.org.

Caro Direttore,
desidero ringraziare per il prezioso servizio che svolge la rivista per aprire la mente e il cuore nei riguardi delle attività e problematiche missionarie; solo l’approfondimento delle questioni consente di conoscere, comprendere e condividere.
Colgo l’occasione per affidare alle preghiere della vostra comunità la mia adorata mamma, che è in precarie condizioni di salute e sta affrontando tante sofferenze… una persona che ha le caratteristiche delineate dalle beatitudini.
Ringrazio e auguro un buon proseguimento.
Milva Capoia
Collegno (TO)

Grazie per la stima e incoraggiamento. Coloro che sostengono il nostro lavoro con i loro sacrifici e preghiere sono sempre presenti nel nostro ricordo al Signore.

Cari Missionari,
ricevo con gioia la vostra rivista. Prego sempre per i missionari. Fino a poco tempo fa potevo inviare offerte per aiutare il loro lavoro; ma adesso non mi è più possibile e faccio fatica a provvedere a me stessa; sono molto malata e presto avrò 90 anni. Però… le preghiere continuano e continueranno sempre, qui… e quando sarò «di là». Grazie ancora e Dio vi benedica.
Giuliana Imperatori
Roma

Da parte nostra continueremo a inviare la rivista: la sua preghiera per i missionari è l’aiuto di cui abbiamo maggiormente bisogno.

Complimenti vari

Cari Missionari,
in questi giorni mi è capitato di leggere da un’amica la vostra rivista e sono rimasta felicemente impressionata. Ho trovato articoli molto interessanti; mi è piaciuto molto in particolare il servizio sul Benin. Devo dire che reportages come questi ormai sono rarissimi nelle riviste italiane, per non dire assenti. Credo che il vostro giornale sia molto di più che una rivista missionaria; è molto ricca in contenuti e in bellissime immagini. Mi piacerebbe leggere altri reportages se fosse possibile.
Stefania Brizzi
Via e-mail

Caro Direttore,
ho avuto l’onore di una sua risposta sul numero 9 di Missioni Consolata. L’ho letta con emozione e, lo ammetto, con una puntina di orgoglio. Devo fare una piccola precisazione, l’articolo è stato letto anche dal mio figliolo minore, e mi ha detto che vi è un errore; io scrivevo «i miei figli non sono dei geni»; lui vi manda questa correzione di suo pugno: «Io sono un genio», firmato Ermanno. Grazie!
Daniela Inzoli
Milano
Spett. Redazione,
da diversi giorni desidero scrivere, ma corri di qua, corri di là, il tempo passa… Voglio complimentarmi con Missioni Consolata, per il dossier sulle bidonvilles nel mondo. Sto leggendo il libro The planet of slums (Il pianeta di slums): una situazione terribile ed è bene che si conosca. Il vostro servizio è molto ben fatto.
Giulio Santosuosso
Caracas, Venezuela

Si può vivere…
senza Tv?

Cari Missionari,
ho letto la lettera di Gionata Visconti, intitolata «Vivere senza Tv… si può» (MC 6/2007, p.7), e vorrei rispondere ad almeno una delle domande da lui poste: «Sapere che in Indonesia, si è rovesciato un autobus causando decine di morti è importante per la mia informazione?».
Io rispondo sì, caro Gionata e cari missionari; rispondo sì perché credo che  sapere di un autobus che è precipitato in un burrone a Giava, di un jumbo jet che si è schiantato contro una montagna a Sumatra, di un altro jumbo che si è incendiato in un aeroporto dell’Angola, di un treno deragliato in Egitto, in India, in Pakistan, in Thailandia, in Russia o nel vicino Montenegro sia importante per voi, per me, per chiunque si riconosca nell’idea di fratellanza universale e, a maggior ragione per chi crede alla fratellanza non solo come a un bel concetto filosofico, ma come a qualcosa di profondamente connaturato all’essere figli di Dio e consanguinei di Cristo.
Sarei un tantino più cauto nel contrapporre la vita felice senza Tv a quella infelice con la Tv… Io concentrerei le critiche sui reality show e altri programmi sciocchi, frivoli, deleteri per l’anima e per il corpo, non sulla Tv in generale.
Sarei più cauto anche a bollare come «cronaca nera», come «spazio rubato alle tante cose buone che accadono, ma di cui nessuno parla», le notizie riguardanti le guerre, il terrorismo, ma anche le calamità naturali, le stragi dei fine settimana sulle strade, le sciagure ferroviarie e aeree. Per me il più delle volte non sono i giornalisti a esagerare, siamo noi che abbiamo un atteggiamento sbagliato verso le notizie. Sta a noi passare dalla tristezza all’indignazione, dall’assuefazione all’impegno, dal pessimismo alla partecipazione…
Francesco Rondina
Fano (PU)

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I rom, i rumeni e l’italia: molti muri, pochi ponti

Ogni crimine, ogni delitto, ogni omicidio è sempre un episodio sconvolgente, che dovrebbe far inorridire la coscienza di ciascuno. Tuttavia, quando a commettere un delitto sono dei rom, sembra che il crimine diventi particolarmente odioso e l’assassino si trasforma in un mostro da sbattere in prima pagina. I fatti di novembre, accaduti in una degradata periferia di Roma, sono lì a dimostrarlo.
Gli zingari (siano essi rom o sinti) da secoli sono discriminati ed emarginati, la loro semplice apparizione in un qualsiasi comune o borgata delle nostre città, scatena una repulsione immediata per la fama poco onorevole che li accompagna. Nell’immaginario collettivo essi sono visti come ladri o, peggio, rapitori di bambini, ma quello che sconcerta ancora di più è che i rom non sembrano preoccuparsi di questa nomea che si sono procurati con alcuni loro atteggiamenti ripugnanti come il furto o il mandare i bambini ad elemosinare lungo le strade, allontanando un difficile ma non impossibile inserimento nella nostra società. Nel passato molti governanti hanno tentato di porre soluzione al problema degli zingari, attraverso delle leggi che costantemente li mettevano al bando. Hitler, unitamente agli ebrei, attuò la soluzione finale anche nei loro confronti. La sconfitta del nazismo evitò che questo criminale disegno si compisse, ma è amaro scoprire, visitando i vari campi di sterminio, che ci sono lapidi e cippi a ricordo di tutte le vittime dei popoli soggiogati dal nazismo, ma stranamente non c’è nessun ricordo che faccia memoria delle migliaia di vittime del popolo zingaro.
Non è certamente facile il dialogo con chi vive ai margini della società e della legge. Tuttavia, in una società multietnica e multiculturale come quella europea, non si può pensare di erigere mura che separano o ghettizzano, ma deve essere un punto centrale delle istituzioni cercare di costruire ponti che favoriscano la conoscenza ed il dialogo reciproco. La comunità cristiana (al contrario del circostante mondo «celtico-padano» che invoca «soluzioni forti» nei confronti dei rom) ha il dovere di percorrere queste strade.

D iverso il discorso relativo ai rumeni. Il fatto che la Romania sia entrata a far parte dell’Unione europea, li pone nella condizione di potersi muovere senza nessun problema all’interno degli stati membri. In Italia essi sono già la prima comunità straniera e, purtroppo, stando alle statistiche, anche la prima comunità per numero di reati. Il fatto che il presidente rumeno Calin Popescu Tariceanu, dopo i fatti di Roma si sia affrettato a venire in Italia (lo scorso 7 novembre) a discutere con Prodi i problemi legati alle relazioni tra i due paesi, la dice lunga sulla posta in gioco. Se la presenza dei rumeni in Italia ha raggiunto cifre ragguardevoli, garantendo attraverso le rimesse degli emigranti entrate sostanziose al bilancio rumeno, va anche tenuto presente che sono oltre 20.000 le imprese italiane operanti in Romania.
Il cammino dell’integrazione è difficile da percorrere, soprattutto tenendo conto che chi ha vissuto per anni sotto il tallone di Ceausescu ha sviluppato un senso di rifiuto per le leggi e questo ha portato a una forma mentis collettiva che relativizza di molto i principi morali. Tutto ciò non per giustificare chi delinque, ma per comprendere che alla base di tutto c’è il bisogno immenso di costruire non solo la nostra cortese tolleranza, ma un cammino pedagogico di formazione delle coscienze a cui tutti sono chiamati e in modo particolare il mondo istituzionale.
Alla luce di questi fatti, possiamo dire che la presenza del male nel mondo va contrastata vivendo fino in fondo la logica del Vangelo, e forse è il caso di ricordare che esso si basa sull’amore e non sull’odio, sull’accoglienza e non sul rifiuto dell’altro. Chiunque esso sia.

Di Mario Bandera

Mario Bandera




Una rivoluzione in tonaca rossa

Reportage dal paese asiatico

Una delle più longeve dittature del mondo è stata messa in crisi dalla protesta, pacifica ma determinata, dei monaci buddisti (mezzo milione su 54 milioni di abitanti). Questo reportage nasce da un viaggio effettuato durante le prime manifestazioni di agosto e settembre. Poi la situazione
è precipitata.  La giunta militare del generale Than Shwe ha risposto con la forza, sparando sui monaci e sulla gente, cingendo con filo spinato le pagode, incarcerando i dissidenti. La rivoluzione in tonaca rossa per ora è finita nel sangue. 

Mandalay, agosto 2007. A 698 chilometri da Yangon, verso nord, distesa su un’assolata pianura, c’è Mandalay, la seconda città del Myanmar. Vivace e vitale, è considerata il centro del buddismo birmano. Si calcola che, su oltre mezzo milione di monaci, circa il 60 per cento viva in questa città, cresciuta sulle rive del Ayeyarwaddy (già Irrawaddy).
Dall’alto della storica collina di Mandalay, la vista sembra confermare le informazioni. Il fiume scorre lento tra pagode e monasteri. Più lontane ci sono le colline di Sagaing e Mingun, anch’esse ricoperte di templi e pagode. Ma una conferma viene anche dai visitatori, molti dei quali sono proprio monaci.
Mentre ammiriamo i colori che il calar del sole dona al panorama, iniziamo a conversare con un gruppo di loro. Tonaca rossa e testa rasata a zero, si intrattengono volentieri. Sono studenti ed uno parla inglese.
 In Myanmar, per i maschi di fede buddista è consuetudine entrare per qualche tempo – sia da ragazzi (come novizi) che da adulti (dopo i 20 anni) – in monastero, per apprendere i principi fondamentali del buddismo, per acquisire meriti (che serviranno per una rinascita più felice) o semplicemente per un periodo di studio e meditazione.
Chiediamo come si svolge la loro vita di monaci e studenti: se ogni mattina vanno a bussare alle porte della gente per riempire di cibo (quasi sempre riso) le loro ciotole; se è duro rispettare la proibizione di mangiare dopo mezzogiorno; cosa studiano in monastero. Ma quando cerchiamo di andare sull’attualità, sulle proteste di questi giorni, la nostra guida ed interprete dà segni di impazienza, inusuali per lei. Dice che è buio e che occorre salutare ed andarsene.  Le obbediamo, promettendo ai monaci un improbabile contatto via internet. Lasciamo la collina di Mandalay, interdetti rispetto allo strano comportamento della guida.   
«C’era un militare in borghese che ascoltava la vostra conversazione», ci spiega. «In Myanmar, è preferibile evitare qualsiasi riferimento alla politica e ad altri problemi del paese».

Le pagode e le foto
dei generali

Rispetto ad una volta, negli ultimi anni l’esercito birmano – noto come Tatmadaw – aveva assunto un atteggiamento molto più discreto, meno visibile, pur mantenendo uno  stretto controllo sul paese. Ora la situazione è di nuovo in ebollizione, inizialmente a causa di una motivazione economica: l’aumento vertiginoso del prezzo del carburante avvenuto questo agosto.
Il Myanmar è molto ricco e tra l’altro non sovrappopolato come altri paesi vicini: come si giustificano aumenti di questa entità? Probabilmente c’entrano l’ingordigia e la corruzione dei generali al potere. Un comportamento il loro che, tra l’altro, stride con l’incredibile gentilezza e cordialità della popolazione.
La giunta dei generali birmani è al potere ininterrottamente dal 1962. Dal 1997 si chiama «Consiglio di stato per la pace e lo sviluppo» (State Peace and Development Council). 
La giunta – in un modo o nell’altro, con il bastone e la carota – è riuscita a tenere unito un paese con decine di etnie diverse e a tenere il Myanmar lontano dalle guerre che hanno insanguinato i paesi vicini (Cambogia, Vietnam), ma ha represso qualsiasi opposizione politica, in particolare la Lega nazionale per la democrazia (National League for Democracy), riunita attorno ad Aung San Suu Kyi, 62 anni, premio Nobel per la pace nel 1991, che ha trascorso in carcere o agli arresti domiciliari 14 degli ultimi 19 anni.
Sulla prima pagina de The New Light of Myanmar (La nuova luce del Myanmar) le foto sono sempre e soltanto quelle dei generali: un incontro, una inaugurazione, un successo economico della giunta militare. Ma le foto dei generali si incontrano anche in altri luoghi, ben più importanti di uno spazio sul quotidiano governativo. Sono nelle pagode, in teche di vetro, non lontane dalle statue del Budda: il generale Than Shwe che fa un’offerta, che si genuflette, che è in raccoglimento, che è in posa accanto ad un monaco. Un segno di rispetto per la religione buddista? Oppure un modo per ingraziarsi i monaci e di conseguenza la popolazione che verso di loro ha grande rispetto e devozione? Certamente la seconda motivazione prevale sulla prima.
I rapporti tra la giunta e la sangha, la comunità buddista, sono sempre stati appesi ad un filo, come la storia testimonia. Sul finire degli anni Ottanta, ad esempio, ci fu una forte contrapposizione perché i monaci appoggiavano le manifestazioni studentesche. Nel 1990, a Mandalay e poi nel resto del paese, i religiosi buddisti attuarono un temibile boicottaggio: non accettavano le offerte dalle famiglie dei soldati e non officiavano i loro matrimoni e funerali. Un’umiliazione inaccettabile per i militari, che infatti risposero con durezza. Centinaia di monasteri vennero occupati e molti religiosi incarcerati.

La «signora Bianca»,
un nome da tacere

Nella hall dell’albergo, da una poltrona all’altra, commentiamo ad alta voce alcuni articoli pubblicati da The New Light of Myanmar, il quotidiano governativo ha anche una versione in lingua inglese. Ad un certo punto, nella foga della discussione, uno di noi cita Aung San Suu Kyi. All’udire quel nome i due inservienti dell’hotel, che lì accanto stanno sistemando le piante, si girano di scatto e, per pochi secondi, guardano chi ha osato pronunciare quel nome ad alta voce. Noi, capita la situazione, ci scusiamo, cercando subito di stemprare la gaffe in una risata che però non riesce a nascondere l’imbarazzo. 
Siamo più discreti quando dobbiamo chiedere come andare al luogo in cui si esibiscono i Moustache Brothers, un gruppo di artisti popolari caduto in disgrazia. I taxisti ufficiali preferiscono evitare di avvicinarsi al luogo delle loro esibizioni, ma a questo si può rimediare.

A casa dei «Fratelli baffoni»,
artisti coraggiosi

La strada è buia, perché l’illuminazione pubblica è quasi inesistente. Ma il nostro improvvisato taxista sa dove fermarsi. Le insegne sono quelle di un negozio. Sì, siamo arrivati: ecco il teatro dei Moustache Brothers, i «Fratelli baffoni». In realtà, non è un vero e proprio teatro, ma una sorta di garage adibito a teatro. Non sarà un teatro, ma certamente è un luogo che colpisce appena si entra. Una struttura in legno, che si alza qualche centimetro sopra il pavimento, funge da palco. Attoo ad esso una ventina di sedie di plastica, a disposizione del pubblico. La parete dietro il palco è piena di splendide marionette di legno e di cartelli con frasi o singole parole – in inglese, francese, tedesco, italiano -, che fanno riferimento ai servizi segreti, al potere ed ai suoi «vizi»: Cia, Mossad, Guardia Civil, Most wanted, Moustache Brothers are under surveillance, e via dicendo. Un’altra parete è zeppa di manifesti, articoli di giornale, fotografie. La più grande ritrae Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, che – come recita la didascalia – nel giugno 2002 visitò i Moustache Brothers. E nella foto accanto la stessa è immortalata con i tre artisti.  Mentre osserviamo le immagini, si avvicina per salutarci un uomo mingherlino, con baffoni bianchi, una maglietta gialla con la foto del gruppo, il tipico longyi (1) e le ciabatte infradito, che in Myanmar indossano tutti. Sprizza energia ed entusiasmo. Si chiama Lu Maw ed è uno dei tre «fratelli».
Il 4 gennaio 1996, giorno dell’anniversario dell’indipendenza birmana, i fratelli fecero uno spettacolo nel giardino di Aung San Suu Kyi, come ricorda lei stessa in un suo libro (Letters from Burma, 1995). Presero in giro anche la giunta e i suoi generali. Che non risero affatto. Due dei fratelli – Par Par Lay (2) e Lu Zaw – vennero arrestati e condannati a sette anni di lavori forzati. Uscirono nel 2002, con la proibizione di fare spettacoli in luoghi pubblici. Oggi i Moustache Brothers si esibiscono nella loro casa di Mandalay al cospetto di piccoli gruppi di stranieri.
L’esibizione inizia con Lu Maw che, inginocchiato sulla vecchia moquette del palco, parla a raffica (in inglese) dentro un vecchio microfono. Lo spettacolo, tipicamente birmano, è un insieme di danza, teatro, musica e satira, chiamato a-nyeint. Ad assistere alla rappresentazione ci sono una ventina di persone, tutte straniere.  Non tutto è comprensibile per degli occidentali, ma il loro racconto servirà per far conoscere l’attività di questa compagnia di artisti coraggiosi.

Dal teck al gas,
le grandi ricchezze del paese

Verso l’altopiano dello Shan.  Da Bagan per arrivare a Kalaw, cittadina di villeggiatura già ai tempi della dominazione inglese, si percorre una strada sconnessa e piena di buche. Il nostro autobus non incrocia auto, ma decine di grossi camion, carichi all’inverosimile di enormi tronchi. Sono tronchi di teck,  un albero dal legno pregiatissimo per la sua durezza, impermeabilità e bellezza.
La guida ci spiega che tutto il legno viene esportato verso la Cina, sempre più ingorda di materie prime. Se si proseguirà con questa velocità di disboscamento, le foreste pluviali del paese rischiano di estinguersi nel giro di pochi anni.
Ma non ci sono soltanto le foreste. il sottosuolo del paese è ricco di ogni genere di minerali. Negli ultimi anni si è poi scoperto che i giacimenti di gas della zona sud-occidentale  del Myanmar, nello stato Rakhin (Arakan), sono tra i più cospicui dell’area. Già rifoiscono la vicina India, la Cina e la Thailandia. Mentre sono in fase di progettazione oleodotti verso lo Yunnan cinese e verso l’India.
La giunta militare ha potuto rimanere al potere dal lontano 1962, perché ha saputo trovare importanti partners commerciali, Cina, Thailandia ed India sopra tutti, come abbiamo visto. In questo modo, ben difficilmente questi paesi sceglieranno di schierarsi contro i generali al potere.
È certo che la giunta militare e le lobby ad essa legate si sono arricchite enormemente alle spalle delle popolazioni birmane. Rispetto alle altre accuse non c’è invece certezza assoluta. Negli anni passati il regime è stato accusato di usare lavoro forzato (donne, bambini, anziani) nella costruzione di strade, oleodotti ed altre opere pubbliche. La giunta sostiene di aver abolito il lavoro forzato nel 1999, ma esistono segnalazioni di diverso avviso. Sarebbe coinvolta anche la Total, la multinazionale francese dell’energia, che da anni ha investito nello sfruttamento del giacimento gassifero di Yadana.
Altra accusa pesante nei confronti dei generali riguarda il loro coinvolgimento nel narcotraffico. Il Triangolo d’oro, territorio montagnoso dove si coltiva il papavero da oppio, rientra in buona parte nello stato birmano di Shan (dell’etnia shan, ma anche di quella wa, la più indiziata per il narcotraffico). Tuttavia, la giunta si vanta di aver risolto il problema, arrestando nel 1996 Khun Sa, conosciuto come il «re dell’oppio», che da allora si è ritirato a vita privata. Invero, la produzione continua. Secondo le Nazioni Unite (3), per la prima volta dopo anni, nel 2006 il Myanmar ha incrementato le proprie coltivazioni di papavero, divenendo – con il 5% – il secondo produttore mondiale di oppio dopo l’Afghanistan (90%).

Il volere del popolo
(secondo la giunta)

Yangon, settembre 2007.  Atterriamo a Yangon (Rangoon), la ex capitale del paese, verso sera. Sulla strada che conduce dall’aeroporto all’hotel, passiamo l’incrocio che porta ad University Avenue, dove al numero 54 vive – reclusa e guardata a vista – Aung San Suu Kyi.
In hotel girano voci di nuove proteste avvenute il 5  e il 6 settembre a Pakokku, cittadina non lontana da Bagan. Prendiamo il quotidiano della giunta per vedere se e come ha trattato l’argomento. The New Light of Myanmar ne parla. A suo modo, ovviamente. Dice che le stazioni televisive straniere hanno esagerato le notizie sulle proteste e che alle dimostrazioni hanno partecipato soltanto una o due persone ed una cinquantina di monaci. Dice che i monaci sono stati incitati da esponenti locali della Nld (Lega nazionale per la democrazia). Dice che la gente ha compreso l’atteggiamento del governo ed apprezzato la sua magnanimità nei confronti dei religiosi. 
Yangon sembra tranquilla. La gente affolla la grande pagoda di Shwedagon, i mercati, i marciapiedi del centro. E, nonostante tutto, non dimentica mai di mostrare il proprio sorriso.
È ormai tempo di ripartire. Mentre andiamo verso l’aeroporto, ad un incrocio ci imbattiamo in un gigantesco cartellone rosso che, in lingua inglese, pubblicizza il people’s desire, il volere del popolo. Secondo la giunta militare, i quattro desideri della gente birmana sarebbero i seguenti:  «opporsi a quanti prestano ascolto ad elementi estranei, fantocci che sobillano il popolo diffondendo opinioni disfattiste: opporsi a quanti tentano di compromettere la stabilità dello stato e il progresso della nazione; opporsi alle nazioni straniere che interferiscono negli affari interni dello stato; annientare ogni elemento nocivo, interno ed esterno, in quanto nostro comune nemico».
No, i popoli del Myanmar non meritano di vivere sotto un simile regime.  

Di Paolo Moiola

Paolo Moiola