Imperativo convivenza

Un «paese-messaggio» di libertà e tolleranza. Molto fragili.

È un auspicio, ma anche una necessità in un paese dove convivono 18 confessioni religiose differenti. Ma dove i cristiani si sentono sempre più minacciati ed emigrano.

Nicole è una giovane donna greco-ortodossa, mentre suo marito e suo figlio sono cattolici-maroniti. Zainab è musulmana sciita, ma è molto vicina al movimento del Focolare. Nada, invece, è armeno-cattolica ed è l’assistente del sacerdote maronita che dirige le Pontificie opere missionarie libanesi.
Al santuario mariano di Harissa, in mezzo a una folla festante di giovani cristiani, alcune donne musulmane accendono un cero alla Vergine…
Sono solo alcune immagini, molto quotidiane e comuni, di un Paese dove la convivenza tra differenze è più che un dato di fatto. È una necessità. Imposta dai numeri e dalla storia.
In questa terra minuscola, 10 mila chilometri quadrati (quanto la Basilicata), abitata da poco meno di 4 milioni di persone, convivono 18 confessioni religiose: 12 cristiane e 6 musulmane. Più, un tempo, la comunità ebraica.

DIALOGARE
Oggi il Libano è un paese che vanta di essere un «messaggio», come lo aveva definito Giovanni Paolo ii durante la sua visita nel 1997. Molti lo ripetono ancora oggi con orgoglio, quasi fosse uno slogan. Un messaggio per il Medio Oriente e per il mondo intero. Perché il Libano è – e potrebbe esserlo molto di più – terra di libertà, apertura, tolleranza. Un paese del dialogo e della convivenza tra comunità e religioni, in un contesto regionale e mondiale dove prevalgono le incomprensioni, le chiusure e gli scontri.
Ma, allo stesso tempo, le molteplici divisioni e rivalità intestine, tra cristiani e musulmani, tra le diverse confessioni cristiane e all’interno delle stesse comunità, rischiano di far implodere il paese. La commistione tra religione e politica certo non aiuta.
«Il Libano sta vivendo un momento molto critico», ha dichiarato con grande apprensione il cardinale Nasrallah Sfeir, patriarca della chiesa maronita. Massima autorità religiosa cristiana del paese, uomo autorevole e grandemente rispettato, continua con energica determinazione, nonostante i suoi 87 anni, a lottare per un Libano unito, libero e in pace. «Ci sono molte domande aperte che riguardano il futuro politico di questo paese e quello delle comunità cristiane. Occorre ritrovare la capacità di dialogare per ridare un soffio di speranza al Libano».
È un tema ricorrente negli interventi molto assidui del cardinale: ritrovare l’unità, superare le divisioni, rigettare il «fanatismo, il fondamentalismo e la violenza». E poi, «aiutare i cittadini a rimanere nel loro paese, malgrado le difficoltà economiche e politiche. La presenza cristiana è minacciata, a causa della divisione che regna dentro la comunità.

CONTENERE L’EMORRAGIA
«Ma il Libano senza cristiani non sarà più il Libano». È questo un altro dei ritoelli che ricorre ovunque nel paese. Tra i religiosi come tra i giovani, alla Caritas come tra gli intellettuali cristiani. L’instabilità politica, la difficoltà di trovare un lavoro, la paura di una nuova guerra spingono molti – soprattutto giovani e soprattutto cristiani – a lasciare il paese.
Anche il patriarca armeno-cattolico, Nerses Bedros iv, non può non fare a meno di dolersi di questa emorragia inarrestabile. La sua è una chiesa antichissima, nata nel 301 d.C. («prima che a Roma!», tiene a sottolineare), una chiesa dispersa nel mondo, soprattutto dopo il genocidio armeno del 1915, numericamente molto ridotta in Libano, ma che «sta alle radici della cristianità in Oriente».
Ci sono diversi giovani seminaristi, soprattutto libanesi e siriani, nel monastero di Notre Dame de Bzommar, dove dal 1742 ha sede il patriarcato, segno di una chiesa ancora feconda. «L’instabilità di questa regione spinge purtroppo molti cristiani ad andarsene. Si sta perdendo una grande ricchezza anche in termini di cultura e tradizioni».
Non è da oggi che i libanesi emigrano. Forse fa parte anche del Dna di un popolo affacciato sul mare e proteso da sempre verso l’altrove, al punto che oggi sono molto più numerosi i libanesi residenti all’estero di quelli che vivono in patria: almeno 10 milioni.

BALUARDO DI UNITÀ NAZIONALE
Ciononostante, in Libano vive la più numerosa comunità cristiana presente in un paese arabo. Attualmente sarebbero meno del 40%; sino a pochi decenni fa erano il 51%. In mancanza di un censimento ufficiale (l’ultimo risale al 1932), le statistiche si basano sugli elenchi elettorali, secondo i quali il 41,23% dei cittadini con più di 21 anni è cristiano (22,4% maronita, 7,92% greco-ortodosso, 5,22% greco-cattolico, 3,07% armeno-gregoriano, e in percentuali minori tutti gli altri).
I musulmani sarebbero invece il 58,57% (26,15% sunniti, 25,96% sciiti, 5,64% drusi, e in percentuali minori alauiti e ismaeliti).
Nonostante il loro numero si stia assottigliando, i cristiani non rinunciano a essere baluardo dell’unità nazionale e punto di riferimento per le comunità ben più esigue che sono presenti negli altri paesi arabi.
Anche l’arcivescovo di Jbeil, Bechara Rai, altra voce autorevole della chiesa maronita, ribadisce l’importanza di essere «messaggio»: «I musulmani del Libano – sostiene – hanno rinunciato alla teocrazia e i cristiani hanno rinunciato al laicismo occidentale. Entrambi vogliamo convivere in un sistema civile che rispetti la dimensione religiosa dei cittadini. Perciò il Libano offre questo modello: si tratta non solo di un paese, ma di un “messaggio”, offerto sia all’Occidente sia all’Oriente. All’Occidente, immerso in un laicismo che non solo ha separato religione e stato, ma che ha diviso anche stato e Dio. È però un messaggio anche per l’Oriente, il quale dice che culture e le religioni possono convivere e formare insieme uno stato civile».
E tuttavia, anche mons. Rai è preoccupato del futuro dei cristiani nel suo paese. A suo avviso, l’incursione israeliana dello scorso anno non ha fatto che peggiorare le cose, provocando una «vera e propria crisi», che tocca indirettamente tutta la regione. Per questo, ricordando le parole di Giovanni Paolo ii, avverte: «La presenza cristiana in Libano è una condizione necessaria per salvare l’esistenza dei cristiani in Medio Oriente».

TRA PESSIMISMO E OTTIMISMO
Tuttavia, oggi, molti sono alquanto pessimisti: temono che ben presto in Libano di cristiani ne resteranno ben pochi e conteranno sempre meno. «I giovani cristiani emigrano, i musulmani fanno più figli – analizza il direttore di Caritas Libano, Georges Massoud Khoury -. Talvolta ci sentiamo abbandonati dai nostri fratelli d’Occidente, che non capiscono che se i cristiani del Libano soffrono, sono tutti i cristiani del Medio Oriente a soffrire. La nostra terra sta perdendo il valore di questa presenza, di questo patrimonio. Per questo chiediamo che gli altri cristiani e le altre chiese ci aiutino. Non tanto in termini di cibo o medicine. Abbiamo bisogno che ci sostengano nel creare un’atmosfera sicura, affinché noi stessi, con il nostro lavoro e il nostro impegno, possiamo far fronte ai nostri problemi e possiamo far tornare in patria i nostri figli, che rappresentano potenzialmente le forze vive di questo paese».
La sua vicenda familiare è emblematica di molte altre. Dei suoi figli e nipoti, 21 in tutto, figli di suoi fratelli e sorelle, solo 3 si trovano oggi in Libano, perché sono ancora minorenni. Gli altri, tutti altamente qualificati – ingegneri, psicologi, architetti… – sono all’estero e, vista l’instabilità, per il momento non intendono tornare.
«Le divisioni intee sono la nostra debolezza – dice affranto -, ma anche a livello internazionale l’atteggiamento nei nostri confronti è molto deludente. Stanno prosciugando tutto il nostro bagaglio culturale, spirituale e morale…».
È più ottimista, invece, Rosette Héchaimé, responsabile del net-work di Caritas per il Medio Oriente e il Nord Africa (Mona) con sede a Beirut. Laica, focolarina, la scorsa estate si è data molto da fare in prima persona per soccorrere e ospitare le famiglie musulmane fuggite dai quartieri sciiti di Beirut sud, bombardati dall’esercito israeliano. «Abbiamo potuto ospitare e curare moltissime persone – racconta – soprattutto grazie a tanti amici musulmani: sono stati loro ad aiutarci ad accogliere la gente che aveva perso le proprie case e spesso i propri cari. Quello che abbiamo fatto è stato possibile solo perché lo abbiamo fatto insieme, cristiani e musulmani».
Zainab annuisce e sorride. Lei è sciita, in testa porta il jihab e veste un lungo soprabito beige. È la segretaria di un importante leader sciita, Ibrahim Shamseddine (cfr p. 42), vive e lavora in un contesto musulmano molto tradizionale. Ma l’estate scorsa anche lei era lì, alla Mariapoli, a portare il suo sostegno e la sua solidarietà. Lo racconta con grande naturalezza, come se fosse la cosa più normale, semplicemente quella che andava fatta. «Con tanti amici, cristiani e musulmani, abbiamo aiutato quelli che avevano bisogno, che avevano perso tutto, senza pensare a chi e cosa era. Musulmani o cristiani… c’era la guerra e stavamo insieme. È stata un’esperienza dura, ma anche molto bella e significativa».

VALE LA PENA SPERARE
Anche Rosette sorride e prova a rileggere la storia del Libano all’interno delle lotte che hanno coinvolto tutto il Medio Oriente. «Siamo una specie di cassa di risonanza di quello che avviene nel mondo arabo. È una grande sfida per noi». Contrariamente a molti altri, lei continua a credere che valga ancora la pena di sperare: «La società libanese è molto dinamica e generosa. Ci sono tante associazioni, gruppi, ong, sia a livello cristiano che musulmano. E tante iniziative di solidarietà in diversi ambiti. Dobbiamo mantenere viva la speranza».
La guerra della scorsa estate, è vero, ha provocato morte e distruzione, e tuttavia ha creato anche occasioni di solidarietà e vicinanza. La Caritas, da sola, ha assistito 91 mila persone, quasi tutte musulmane. Ma anche interi villaggi cristiani si sono mobilitati per accogliere gli sfollati musulmani, in fuga dalle bombe. «I cristiani – conferma Georges Massoud Khoury – hanno aperto le porte delle loro scuole, dei loro centri, anche delle loro chiese, per dare rifugio ai musulmani. Sono gesti che la gente non dimentica. E che aiutano a superare i pregiudizi e la diffidenza. È il dialogo della vita e della solidarietà».
Per i giovani sembra tutto più facile. È vero, la religione continua a rappresentare anche per i ragazzi un elemento identitario forte, poi però intervengono elementi culturali comuni, influssi occidentali, la scuola o l’università frequentata insieme, modelli e stili di vita condivisi, internet, il cinema, la musica, la voglia di divertirsi… E allora anche tra musulmani e cristiani diventa più facile condividere spazi e momenti di vita comune.
«La religione non è tutto», conferma Fadi Noun, giornalista di Orient-le-Jour, l’unico quotidiano francofono del paese. Pur essendo un maronita molto militante, ammette che nella personalità del libanese entrano molti elementi: «Uno spirito fenicio, commerciante, pagano, montanaro, tribale… E poi elementi culturali che si sovrappongono, arabi e mediterranei, orientali e occidentali. Tradizione e modeità che si incontrano e si scontrano. Tutto questo può essere segno di pluralismo o pretesto di divisione».
«Certo – ammette lo stesso Fadi Noun – la situazione è complessa. E quando tutto questo si mischia con la politica intea e internazionale, con gli interessi e i giochi di potere, la situazione diventa potenzialmente esplosiva. Noi libanesi portiamo la grande responsabilità di non essere uniti. Ma abbiamo comunque il diritto di esistere. Come paese e come popolo».

Di Anna Pozzi

Anna Pozzi

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