La parabola del «figliol prodigo» (8)

Il padre spezza la sua vita tra i due figli

L a parabola del figliol prodigo si divide in due parti: a) vv. 12-24: il figlio minore; b) vv. 12-25: il figlio maggiore. Il padre è il peo attorno a cui ruotano tutti e due, anche a loro insaputa. Molti sarebbero i modi di accostarci al testo, scegliamo quello lineare, seguendo l’ordine dei versetti come proposti da Lc.

1a parte: il figlio «più giovane» (vv. 12-24)
Dividiamo questa prima parte che si compone di 13 versetti in 6 piccoli frammenti letterari, così sintetizzati:
1) vv. 11-15: morte come distacco     ovvero rifiuto della famiglia
2) vv. 16-17: morte come condizione    ovvero mancanza della famiglia
3) vv. 18-19: coscienza della morte     ovvero desiderio della famiglia
4) vv. 20-21: decisione contro la morte     ovvero famiglia come progetto
5) vv. 22-23: morte sconfitta     ovvero rinascita nella famiglia
6) vv. 23-24: morte trasformata in vita     ovvero famiglia in festa
Di ogni unità riporteremo il testo integrale nella versione della Cei; ma nel commento seguiremo il testo originario greco e, quando sarà necessario suggeriremo, una traduzione quasi letterale che ci permetta di fare un confronto, ma anche di andare più a fondo, con lo scopo di alimentare in noi il desiderio di «ruminare» la scrittura, che non si esaurisce in un solo significato.
Di questa parabola, che costituisce «il vangelo del vangelo», con l’aiuto dello Spirito cercheremo di assaporare parola per parola, cercando di sentirne la dolcezza come il profeta Ezechiele dopo avere mangiato il rotolo della parola di Dio: «Mangiai e accadde che nella mia bocca fu dolce come il miele» (Ez 3,3).

V. 11b: «Un uomo aveva due figli»
Nel numero di febbraio di MC abbiamo iniziato a commentare la 1a parte del 1° versetto della parabola lucana (v.11a) «E disse», che ci ha permesso di mettere in evidenza in modo particolare l’importanza della «Parola» in sé nel contesto dell’anonimato delle persone protagoniste della parabola: «Un uomo aveva due figli» (v. 11b). Di questa espressione avevamo già anticipato sia l’anonimato che la struttura circolare, dandone anche lo schema circolare o a chiasmo che riprendiamo.
L’espressione generica, infatti, ci lascia così stupiti da pensare che sia una scelta consapevole dell’evangelista per darci un messaggio particolare. L’indicazione lucana non descrive una relazione affettiva, ma evidenzia una contrapposizione d’interessi. Riprendiamo lo schema osservando la posizione dei singoli termini:
 L’uomo anonimo, solo dopo l’intervento dei figli acquisisce la dimensione esistenziale di padre. Nessuno è chi è per se stesso, senza rapporto a un altro. La nostra identità dipende dalla relazione costitutiva del nostro essere.
L’immobilità del possesso del verbo «aveva» si rapporta alla dinamicità del verbo «disse», che movimenta il cammino del figlio verso il padre. Il nucleo centrale di questa breve frase di presentazione è dominato dalla presenza, anch’essa anonima, dei due figli, di cui uno resta sullo sfondo (assente-presente incluso nei due figli), mentre immediatamente entra in scena «il più giovane».
Luca è unico nel NT a usare l’espressione «ànthropos tis» che si può tradurre con «un uomo», ma anche e forse meglio in senso più indefinito «un tale», perché fa riferimento al genere umano indistinto (cf 10,30; 12,16; 14,2.16; 15,11; 16,1; 19,12; 20,9; At 9,33).
In greco esiste un’altra espressione più individualizzante e precisa: «anêr tis – un uomo» (Lc 8,27; At 5,1; 8,9; 10,1; 13,6; 16,9; 17,5;25,14) oppure «tis anêr» (At 3,2; 14,8; 17,34), che Lc usa da ottimo conoscitore della lingua greca. Questa seconda espressione, pur anonima, mette in evidenza la caratteristica sessuata dell’uomo, come dirimpettaio della donna e sarebbe stata più idonea a definire un padre. Lc preferisce la prima alla seconda forma, più logica, forse perché la riceve da una fonte precedente, che vuole fare risaltare, attraverso l’anonimato estremo, la vera ricchezza di quest’uomo: non è definito da sé, ma è identificato subito dopo dai due figli: egli è padre.

Il padre crocifisso tra due figli-ladroni
Quale ne è il senso? Solo nel versetto successivo (v. 12) quest’uomo è definito «padre» in rapporto al figlio «più giovane»: i figli definiscono se stessi in rapporto al «padre», perché senza di lui essi non esistono. Un padre/madre senza il riconoscimento della loro pateità/mateità da parte dei figli restano anonimi: «un tale». Figlio e padre esistono solo nella relazione. Il padre «aveva due figli», ma resta «un tale», senza nome: un innominato perché i due figli non hanno un padre.
Possiamo intuire che quest’uomo è «già» morto prima ancora che inizi la storia: immediatamente infatti siamo immessi in una storia di morte e di morti. I figli sono morti al padre e il padre è morto per i figli. Il padre è «crocifisso» con i due figli che lo sorvegliano, ciascuno da un lato, ma ambedue assetati della morte del padre.
Il minore lo uccide anzitempo per appropriarsi dell’eredità prima della morte del padre: «Dammi la parte del patrimonio che mi spetta» (v. 12). È come se dicesse: «Tu per me sei morto».
Il maggiore non è da meno, perché mette il padre sotto processo e lo giudica con una severità veemente, condannandolo inesorabilmente senza appello: «Egli s’indignò… tu non mi hai dato… questo tuo figlio» (vv. 28. 30).
Si potrebbe intitolare questa prima parte della parabola come «la parabola della morte preventiva». Quale tragedia per questo «uomo», che in un attimo apre gli occhi e si sveglia da un sogno per prendere coscienza di avere fallito tutto nella sua vita che ha dedicato ai suoi due figli, i quali ora gli negano la sua stessa «natura»: i figli hanno il potere di trasformare il «padre» in «un tale».

Nota. In Oriente, al tempo di Gesù (il costume esiste ancora oggi presso i palestinesi) quando nasce un figlio, sia il padre che la madre perdono il nome proprio per acquistare quello della pateità/mateità. Facciamo l’esempio di Gesù. Il padre legale, Giuseppe, e la madre, Maria, mantengono i loro nomi fino alla nascita del figlio e per tutti sono Giuseppe e Maria. Dal momento della nascita del figlio maschio (che eredita non solo i beni, ma anche il nome e quindi il casato), Giuseppe diventa per tutti «il padre di Gesù» (‘ab Jehoshuà; in arabo: abù Issàh) e Maria perde il suo nome proprio e diventa per tutta la vita «la madre di Gesù» (‘em Jehoshuà; in arabo: ummùn Issàh: Gv 2,1.3; 19,25; At 1,14). Il figlio determina la natura e la funzione del padre e della madre.
Vale anche il contrario: di norma i figli non vengono chiamati con il nome personale, ma con il nome che indica la relazione generativa, per cui Gesù non è il «figlio di Giuseppe» (Lc 3,23; 4,22; Gv 1,45; 6,42) oppure «il figlio di Maria» (Mc 6,3).
 
L’anonimato estremo della parabola mette in risalto in modo drammatico la tragedia di questo padre: «aveva» solo due figli, che erano tutta la sua vita e la sua ricchezza; ha vissuto per loro credendo di essere una vita donata. Un istante e tutto crolla; senza identità, senza funzione, senza più figli: una pateità strozzata, vilipesa e uccisa.
È il sentimento comune a tanti padri e madri che davanti all’autonomia dei figli, che prendono strade diverse da quelle che essi vorrebbero, si abbandonano allo sconforto e pensano di avere fallito tutto nella loro vita o di non essere stati capaci di trasmettere ai figli quel bagaglio necessario ad affrontare il viaggio dell’esistenza, mentre i figli pretendono il diritto di sbagliare da soli, attraverso le loro esperienze.
A questi padri e madri, piombati nell’anonimato della sterilità non resta che assumere questo stato innaturale e trasformarlo in un punto di forza, come fa il padre della parabola lucana: è un padre negato che non nega né rinnega i suoi figli. I figli lo uccidono lasciandolo ancora respirare, ma egli non rinuncia alla sua pateità generativa e continua ad amarli perché a un padre e a una madre nessuno può impedire di amare e continuare a generare i figli, anche contro la loro volontà, anche se non ne sono coscienti. Un figlio può rinnegare il padre; il padre non può rinnegare mai il figlio: padre e madre «sono condannati» a partorire i figli sempre. In questo contesto si capisce e si spiega l’espressione che tante volte abbiamo richiamato: «Dio è giusto perché salva, perché perdona».

V. 12b-c: 12bPadre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. 12cIl padre divise tra loro le sostanze
Il vocativo «padre» farebbe supporre un grado d’intimità confidenziale, invece mette ancor più in evidenza lo stridore tra questa parola pregna di affetto e la richiesta del figlio, che si rivolge al padre con un imperativo. Lc usa l’imperativo aoristo (dòs – dammi), che in greco esprime un comando che deve essere eseguito una sola volta, per cui potremmo tradurre: «dammi una volta per tutte/una buona volta» oppure «dammi definitivamente».
Usando il verbo in questo tempo il figlio vuole chiudere la partita col padre una volta per sempre, segno che la sua richiesta è frutto di una lunga gestazione e macchinazione. Forse da molto tempo fa le prove, ma non ha mai trovato il coraggio di affrontare il padre, mentre ora entra nella logica della rottura definitiva e quindi della lacerazione: «Padre, dammi…» nel senso di «facciamo i conti». Lo circuisce con una finta affettività (padre) per assestargli il colpo di grazia senza scampo (dammi).
Già nella quarta parola di libertà della Toràh (comandamento), Dio aveva scritto sulla pietra che una condizione per accedere all’alleanza era l’onore dei genitori: «Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dá il Signore, tuo Dio» (Es 20,12; cf Dt 5,16). La sanzione per chi non osserva questo obbligo è la morte: «Chiunque maltratta suo padre o sua madre dovrà essere messo a morte; ha maltrattato suo padre o sua madre: il suo sangue ricadrà su di lui» (Lv 20,9; cf Es 21,17). Il libro dei Proverbi caratterizza la fisionomia del figlio saggio e intelligente e quella del figlio stolto e disonorato: il primo onora il padre (Pr 15,20; 28,7; 10,1) il secondo lo rattrista (Pr 19,13.26; 17,25).
Il figlio più giovane con una sola parola (dammi)  abolisce la Legge, la Sapienza e qualsiasi principio che si basi sul dovere: abolisce semplicemente l’intera Toràh di Mosè. Egli è impaziente e in quanto giovanissimo non ha tempo per aspettare il suo tempo: accecato da se stesso, vuole il buio attorno a sé e tutto deve piombare nel silenzio della morte: «Dammi!». La figura del figlio più giovane risalta ancora di più, se messa a confronto con due simboli eccellenti di tutta la tradizione biblica giudaico e cristiana: Isacco e Gesù, i due figli esemplari.
 In Gen 22 incontriamo Isacco che sale accanto al padre Abramo verso la cima del monte Moira, dove egli figlio «unigenito» dovrà essere sacrificato. Lungo il cammino padre e figlio dialogano con intensità fino a identificarsi entrambi nell’obbedienza al loro Dio esigente. Isacco si rivolge ad Abramo, invocandolo con la dolce espressione «Padre mio!», a cui fa eco la risposta calda e traboccante di affettività del padre: «Eccomi, figlio mio» (v. 7).
Nel NT Gesù di Nazareth che la tradizione cristiana vede prefigurato in Isacco, nel momento supremo della sua morte, prende tutta la sua vita e la getta nel cuore del Padre: «Padre nelle tue mani depongo/affido (da paratìthemi) il mio spirito» (Lc 23,46). Isacco e Gesù hanno il rispettivo padre come mèta e fondamento della propria esistenza. Il «figlio più giovane» della parabola invece esige: «dammi» (da dìdomi); egli ha come scopo e confine della sua esistenza solo ed esclusivamente se stesso: egli vuole, esige e pretende. Il verbo greco dìdomi significa dare/donare/offrire, ma anche pagare (cf Lc 20,22; 23,2) per cui c’è una richiesta esigente, come se riscuotesse un pagamento.

«La parte del patrimonio che mi spetta»
La traduzione letterale quasi meccanica è: «Padre dammi la parte che è posta sopra della sostanza», perché esprime l’idea di una divisione e per dividere bisogna prima contare e quindi «porre sopra» il tavolo e fare i calcoli di quanto spetta a uno e quanto all’altro. Lc per indicare «il patrimonio» usa il sostantivo femminile «ousìa», derivato dal verbo eimì (io sono), che significa «sostanza/essenza/bene/patrimonio»; ma nel greco del 1° secolo (Platone e Plotino) significa anche «natura/esistenza», cioè la consistenza dell’essere. Il figlio non chiede solo «la roba» o il patrimonio, ma vuole di più: egli pretende la «natura» del padre suo, cioè la sua vita.
Il padre, infatti, capisce perfettamente la richiesta del figlio, perché l’evangelista si premura di dire che «divise tra loro» non le sostanze, come dice la traduzione della Cei, ma «ton bìon – la vita». Il padre prende la sua vita e la distribuisce, la divide, la spezza tra i due figli. Chiedere la vita del padre insieme agli averi, senza aspettare la morte naturale, significa volee la morte in anticipo. Con la sua richiesta il «figlio più giovane» uccide il padre in nome della sua autonomia e libertà.

Una vita… «a perdere»
Non si parla della reazione emotiva del padre, ma di ciò che fece: sa che come padre non ha una vita propria perché, avendo generato lui i due figli, spetta a lui dare loro la sua vita. Sono i padri che devono «donare» la vita ai figli e non viceversa: «Il padre divise tra loro la (sua) vita».
Nell’ultima cena Gesù compie lo stesso gesto: prese il pane, lo spezzò, lo diede (in greco dal verbo dìdomi) loro e disse: è il mio corpo… è il mio sangue (cf Lc 22,19). Chi ama oltre se stesso, dà la vita senza calcoli e senza misura. Solo Dio può fare questo e solo un padre/una madre sulla terra possono imitare Dio nel dare la vita «a perdere». Il padre avrebbe potuto appellarsi alla Legge e farlo condannare, metterlo in riga, diseredarlo, imporre la sua volontà e, se avesse voluto, avrebbe potuto distruggerlo, portandolo in giudizio ed esigendone la condanna: «Se un uomo avrà un figlio testardo e ribelle che non obbedisce… suo padre e sua madre… lo condurranno dagli anziani della città, alla porta del luogo dove abita… Allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno ed egli morirà» (Dt 21,18-21). Invece di avvalersi del suo diritto, il padre non solo vi rinuncia, ma divide la sua vita.
Con questo gesto il padre non dà solo la sua vita, ma annulla e svuota la richiesta e l’azione del figlio, perché adesso non è più il figlio che pretende, ma è il padre che «offre/dà» la sua vita. La situazione è capovolta. Se il padre avesse punito il figlio, lo avrebbe inchiodato alla sua responsabilità oscena, perdendolo per sempre e uccidendolo; ma svuotando il suo «imperativo» (dammi), spezzando la propria vita e donandola senza nulla pretendere ai figli, egli li salva ancora una volta preventivamente e li mette al riparo da se stessi, perché li custodisce al caldo della sua vita che ora è data per sempre perché data per amore.

Il padre «spezzato», figura di Abramo
Non è più l’uomo qualunque, «un tale», ora è a tutti gli effetti «il padre» e non tradisce la sua «natura», quella che il più giovane chiede per sé come garanzia della sua autonomia, perché la «natura» del padre è quella di essere «vita» per i figli: «divise la [sua] vita».
Il comportamento di questo padre «spezzato» è lo stesso di quello di Abramo, quando Dio lo chiama e gli ingiunge una separazione dolorosa, una frattura irreversibile con tutta la sua vita: Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria, da tuo padre (Gen 12,1-4): Abramo deve lasciare la sicurezza (paese), la storia (patria) e gli affetti (padri); con sé deve portare solo la sua sterilità, perché possa sperimentare che la vita donata è un dono ancora più grande, perché non dipende dalla sua virilità, ma dalla grazia di Dio.
Il redattore di Genesi fissa in un gesto la risposta di Abramo: «E Abramo partì» (Gen 12,4). La risposta degli uomini di Dio è sempre un gesto che dice più di qualsiasi parola. Lo stesso atteggiamento troviamo nel «padre» del figlio più giovane: «divise la [sua] vita». Non si limita a dare le sostanze del patrimonio a cui forse nemmeno pensa, ma dà tutto ciò che è: il suo essere padre non appartiene a lui, ma appartiene solo ai figli. Non un rimprovero, non un appunto né recriminazione, ma semplicemente un dono gratuito della sua vita.
Al padre interessa solo una cosa: salvare il figlio; per questo, invece di rischiare di mandarlo da solo, gli dà la sua vita come compagna di viaggio e la vita del padre lo custodirà e proteggerà anche contro la sua volontà e a sua insaputa: «Il padre divise la vita».                  (continua – 8)

Paolo Farinella

Paolo Farinella




Miracoli feriali

Presenza delle suore Marcelline nel «Paese delle aquile»

Sono arrivate nel paese quando molti albanesi si davano alla fuga; hanno aiutato famiglie e profughi negli anni di emergenza; e continuano a lavorare a fianco dei più bisognosi: cinque suore Marcelline raccontano le loro storie di amore a fianco di gente dimenticata e senza voce.

Ci sono luoghi nel mondo dove i miracoli hanno nomi, volti e raccontano storie. Storie bellissime, speciali, ma allo stesso tempo semplici, quasi «normali». Perché vissute ogni giorno e rinnovate con l’amore verso il prossimo, soprattutto se questo è indifeso, dimenticato, senza voce.
Saranda, cittadina del sud dell’Albania, è uno di questi luoghi e il miracolo che vi si compie ha il volto di cinque donne, tre italiane e due messicane: tutte appartenenti alla congregazione delle suore Marcelline. Suor Daniela e suor Lucia sono quelle che hanno aperto la strada della nuova missione, nel 1995. Suor Maricruz e suor Betty hanno lasciato Città del Messico qualche anno dopo, mentre suor Anna, giovanissima, è arrivata nel 2005.
Cinque donne e una grande storia da raccontare: quella che le ha portate, passo dopo passo, ad aprire un asilo, un centro medico, una mensa scolastica, un centro di formazione. Ma soprattutto, a guadagnare la fiducia della gente d’Albania, un popolo schivo e all’apparenza duro, dal passato oscuro e dal presente difficile, dove povertà e progresso sono due facce di una stessa medaglia.
Oggi le suore sono conosciute, rispettate e apprezzate da tutta Saranda. Autorità comprese: la loro presenza e il loro parere in consiglio comunale sono sempre ben accetti; la loro esperienza è sinonimo di affidabilità e saggezza.

STORIE DI EMERGENZA

Ma come si è arrivati a tutto questo? Piccoli miracoli di ogni giorno, si diceva. Con il volto e la storia di suor Daniela, che è arrivata in Albania quando tutti, anche gli stessi albanesi, si davano alla fuga. «Nei primi anni  ‘90 vivevamo a Lecce – racconta la suora, milanese di origine -.  Vedevamo passare centinaia di disperati in cerca di nuove speranze».
Erano gli anni delle navi mercantili sulle coste pugliesi, piene di albanesi in fuga dal proprio paese, dopo la caduta del rigido regime comunista. «Allora ci siamo dette – prosegue suor Daniela -: anziché aiutarli dando loro accoglienza, perché non andare nel loro paese e convincerli a rimanere?».
Detto fatto. Così nacque la prima casa delle Marcelline a Valona, appena 60 chilometri di mare da Brindisi. «Eravamo tre suore in una casa molto piccola – continua la suora -, ma da subito abbiamo attivato un piccolo asilo con 20 bambini, e l’aula era la nostra camera da letto». Un ricordo che ancora oggi le fa abbozzare un sorriso, assieme a quello dell’ambulatorio, «posto all’entrata dell’abitazione: un salottino senza finestre».
Ma erano tempi d’emergenza, che si sono poi aggravati nel marzo 1997, all’indomani della crisi finanziaria, che gettò sul lastrico migliaia di famiglie albanesi. In quel momento le suore si erano già trasferite a Saranda, dove la presenza internazionale era pressoché inesistente.
Suor Daniela ricorda il 1997 come un inferno, dal quale, però, non è voluta scappare. «Anche la polizia aveva abbandonato la città; tutti rubavano tutto; i ragazzini giravano in bande con i kalashnikov – racconta la suora -. Noi vivevamo rinchiuse nella nostra casa, ospitando più bambini possibile».
La normalità sarebbe tornata solo molti mesi dopo, ma un’altra emergenza era già alle porte: migliaia di sfollati dalla guerra del Kosovo inondavano l’Albania con le loro angosce. Siamo nel giugno 1999. Le Marcelline si rimboccarono subito le maniche e un altro miracolo si faceva strada, giorno dopo giorno. «Siamo riuscite ad accogliere 1.500 profughi – ricorda suor Daniela -; 600 di loro erano nell’hotel Butrint, che ancora oggi è l’alloggio più famoso della città».
Le suore erano aiutate dall’operazione Arcobaleno, ovvero decine di volontari che scaricavano container pieni di beni di prima necessità raccolti dal governo italiano. Alla fine, le suore ce l’hanno fatta. I kosovari sono poi rientrati nelle loro case e, con l’inizio del secolo xxi, una sorta di normalità ha preso piede in tutto il «paese delle aquile» (o Shiqperia, nome ufficiale dell’Albania; la bandiera nazionale è infatti una grande aquila nera su sfondo rosso).
Govei meno corrotti di un tempo, più relazioni paritarie con l’estero e lo sviluppo di un commercio interno hanno gettato le basi di una fragile, ma decisa democrazia, quella che tuttora vige nel paese.

NELLA GIUNGLA DI CEMENTO

L’Italia è il primo partner dell’Albania per tutto: import-export, aiuti umanitari residui, progetti di sviluppo. L’attività principale è ancora oggi quella che esisteva già ai tempi di Mussolini: la costruzione di strade. Appena fuori dalle città si possono leggere su enormi cartelli le scritte: «Strada realizzata grazie al contributo della Cooperazione italiana».
Così, chilometri e chilometri di asfalto rendono più veloci i collegamenti del paese; ma l’asperità del terreno fa di ogni viaggio una piccola odissea, permettendo, però, una lenta scoperta dell’Albania più profonda, quella dei piccoli paesi collinosi, dediti all’agricoltura e pastorizia, dove il tempo è fermo e lo rimarrà per chissà quanto ancora.
Tale è, per esempio, il paesaggio attraversato dalla strada che dalla capitale Tirana porta a Saranda: solo 120 chilometri, che con un maneggevole pulmino si coprono in «sole» sette ore. Dopo decine di colline, valli mozzafiato e quasi nessuna presenza umana (a parte alcune splendide cittadine come Argirocastro e il suo centro medievale, oggi sede di una grossa università), Saranda ti accoglie con la sua freschezza di città costiera, affacciata sul mar Mediterraneo e sull’isola greca di Corfù, meta migratoria agognata dagli albanesi tanto quanto l’Italia.
Grazie a Corfù e alla Grecia in generale, Saranda sta vivendo negli ultimi cinque anni un boom turistico senza precedenti: i 30 mila abitanti invernali triplicano d’estate. Molti rientri vacanzieri in famiglia di lavoratori albanesi, ma anche una crescente mole di turisti greci, che trovano alloggio in alberghi e appartamenti che spuntano come funghi in tutta la città.
Progresso, ma anche nuovi problemi, a cominciare dallo spazio. Non ditelo alle Marcelline e a Rocco, volontario italiano che da cinque anni vive con loro. Quando le suore sono arrivate nel quartiere, la loro casa era circondata da campi, e si vedeva il mare. Oggi tre dei quattro lati (il quarto dà sulla strada) sono coperti da palazzoni, due dei quali costruiti a metà. 
«Qui non c’è un piano regolatore e tutti costruiscono dove gli pare» dice Rocco, che si occupa dell’educazione di adolescenti albanesi tramite lo sport . «Poco tempo fa abbiamo avuto problemi con uno dei proprietari qui a fianco – continua il ragazzo pugliese – perché voleva che accorciassimo il campo di calcio per farci stare il suo appartamento».
Rocco e le Marcelline hanno dovuto accontentarlo, vista la sua prepotenza e l’assenza di regole. Lo stesso avviene nell’edificio dove le suore hanno adibito la mensa per bambini, che si trova a lato di un albergo che si espande sempre più, nonostante i pochi clienti che lo frequentano.

I SEGRETI DI SUOR LUCIA

Nonostante l’abusivismo edilizio, che sta trasformando e abbruttendo Saranda, la casa delle suore Marcelline rimane ancora oggi un punto di riferimento per tutta la città. Dal 2000, grazie al contributo economico della fondazione Pierfranco e Luisa Mariani, tutta la struttura ha subito un rinnovamento totale, e oggi risplende per ordine e semplicità.
All’interno del recinto in muratura si apre un mondo chiamato «Qendra sociale Santa Marcellina», un centro sociale composto da due grandi edifici, giardino con giochi per bambini, e un piccolo campo di calcio. Qui centinaia di persone si recano ogni giorno, per svariate ragioni.
La giornata al Qendra comincia prestissimo. Non sono ancora le otto, infatti, quando 150 bambini, accompagnati dai genitori, riempiono di colori e schiamazzi il cortile: ha così inizio l’asilo, la principale attività delle suore, aiutate da sei insegnanti albanesi, che ricevono regolare stipendio grazie all’impegno della stessa fondazione Mariani. Grazie all’asilo, le suore vengono a contatto con decine di famiglie in difficili condizioni economiche, che poi cercano di aiutare attraverso la condivisione dei loro problemi.
Suor Lucia è risoluta nel tracciare una profonda analisi della società albanese e non risparmia le critiche: «Violenza familiare, pregiudizi verso le persone con problemi di handicap, assenza quasi totale delle istituzioni, corruzione ancora molto viva: questi i maggiori problemi con cui abbiamo a che fare» enumera la suora, originaria di Tricase, paesino in provincia di Lecce.
Suor Lucia, oltre ad abile cuoca, è anche infermiera; è lei a gestire l’altra grossa attività del Qendra, l’ambulatorio di neurologia pediatrica, dove ogni pomeriggio arrivano le famiglie i cui bambini hanno problemi legati alle terminazioni nervose. «Esaurimenti ed epilessia sono le malattie più frequenti, e si presentano già dai primi anni di vita» spiega la suora.
Nell’area attorno a Saranda almeno 5 mila persone hanno problemi di natura epilettica, dicono gli ultimi studi. Una delle percentuali più alte d’Europa, superiore anche alle zone dove è alta la concentrazione di radiazioni. «A questi problemi se ne aggiungono altri, di natura psicologica, legati a quello che è successo nel 1997» continua suor Lucia.
Nell’ambulatorio, ad accogliere le centinaia di piccoli pazienti, lavorano vari pediatri ed esperti di neurologia; alcuni arrivano direttamente da Tirana almeno una settimana al mese. L’ambulatorio è l’ambito in cui la fondazione Mariani ha dedicato i suoi sforzi maggiori nell’aiuto alle suore. Per un semplice motivo: lo scopo principale della Mariani, da oltre 20 anni, è il sostegno a chi si dedica alla neurologia infantile, in Italia e nel mondo.
Quello delle Marcelline è l’unico centro medico specializzato del sud dell’Albania, anche perché l’ospedale cittadino è fatiscente e poco attrezzato, a cominciare dai medicinali.
Suor Lucia questo lo sa bene. Ciò che pochi sanno è che la religiosa ha il suo segreto-miracolo: una stanzetta, chiusa ermeticamente, adibita a dispensario medicinale. Centinaia di medicine diverse, di vario tipo, non solo neurologico, arrivate da varie donazioni italiane ed inteazionali. «Questo piccolo tesoro è vitale per molti albanesi – confessa la suora – anche perché molti di loro non si fidano a comprare medicinali fabbricati nel proprio paese».
La ragione? «A volte quello che c’è scritto sulla confezione non corrisponde alla realtà – spiega suor Lucia -. Le farmacie, forse approfittandosene un po’ troppo, consigliano alla gente di comprare quelle inteazionali, che però costano dieci volte tanto». Molte famiglie non ce la fanno, per questo la suora ha il suo «forziere», al quale attinge con molta cautela.

IL COMPUTER DI MARICRUZ

Anche suor Anna e le due suore messicane sono infermiere e sono un valido aiuto a suor Lucia. Ma oltre all’asilo e all’ambulatorio, le Marcelline a Saranda si occupano di formazione e promozione umana: corsi di artigianato, tessitura, turismo e informatica riempiono i pomeriggi al Qendra. Suor Maricruz è la responsabile e, da come si muove sul computer, si può dedurre la sua abilità d’insegnamento informatico. «Cerchiamo di dare ai giovani strumenti per trovare lavoro» dice la suora.
I risultati dei primi anni di corsi fanno ben sperare. Ad esempio, grazie al corso di operatore turistico, la 25enne Emirjeta Roboci lavora oggi come guida alle vicine rovine romane di Butrinto. La ragazza ha inoltre avviato la prima esperienza di turismo responsabile nella zona, ricevendo alcuni turisti italiani e portandoli nei luoghi che il turismo tradizionale non contempla.
Tra questi vi è il piccolo villaggio di Shendelli, situato in un lembo di terra vergine, tra due enormi laghi naturali, una visuale a 360 gradi, dalla quale si vedono le case di Corfù.
La particolarità di Shendelli, però, è nella sua gente: almeno cento famiglie rom, originarie del nord dell’Albania, arrivate in queste terre nel 1996.  Vittime di pregiudizi da parte dei locali, queste persone hanno vissuto per anni in baracche, fino a quando le suore Marcelline, tramite aiuti inteazionali, hanno dato loro quella dignità che era negata.
Ora, con case in muratura, piccole attività commerciali legate all’agricoltura e all’artigianato, riescono a vivere senza patire la fame. «Ma ora bisogna insegnare ai loro bambini a leggere e a scrivere», dice suor Daniela. Un altro piccolo miracolo da compiere. Un’altra bella storia da raccontare, un giorno non lontano.  

Di Daniele Biella

Daniele Biella




Malawi – strade africane (terza puntata)

L’arrivo del pick-up scatena sempre un assalto alla carovana. Da sopra la vettura la gente offre mani per appiglio e si stringe ulteriormente per fare spazio ai nuovi arrivati. Qualcuno viaggia in piedi, tenendosi alla cabina anteriore dell’autista. Chi mi colpisce sempre sono le donne anziane che si arrampicano con un’agilità che non ti aspetteresti vedendole passeggiare a terra. Sembra di essere parte di un enorme gioco di tetris vivente, dove le varie figure da incastrare sono corpi umani. Il peggio che ti possa succedere durante quello spostamento (del mezzo, non del tuo corpo sul cassettone) è che ti venga un crampo. Il peggio spesso si avvera. Cerchi una soluzione con un movimento disperato delle dita dei piedi, dei polpacci o, quando non c’e’ alternativa, con la forza del pensiero.
Arrivato a Milepa scendo dal pick-up cercando di riacquisire la posizione eretta, riassesto muscoli ed ossa e mi incammino verso l’unico ristorante del paese. Di fronte c’è una sorta di staccionata. Il paesaggio ricorda un po’ il Far West, il ristorante un vecchio saloon, ma alla staccionata non sono legati cavalli, bensì biciclette. Ebbene si, gli ultimi tre chilometri li faccio in taxi-byke. Una quindicina di ragazzi si piazza qui davanti con la propria bicicletta e campa trasportando la gente ai loro villaggi o al mercato, che di giorno in giorno si tiene in una località diversa. Io mi faccio trasportare a Ndanga, non prima di aver pagato i miei 100 Kwacha (60 centesimi di Euro) per la notte che trascorrerò in uno dei due “alberghi” del paese. Ma questa è un’altra storia, e ve la racconto la prossima volta.  
La pedalata fino al villaggio di Ndanga dura una ventina di minuti, tra i saluti delle tante persone che si incrociano sulla strada, bambini che escono dai campi di mais o di tabacco, donne con le loro semplici bancarelle ai bordi della strada e tanta, tanta gente in bicicletta, in questa sorta di Olanda tropicale con i baobab al posto dei mulini a vento. Tutti divertiti nel vedere il musungu in bicicletta, col naso arrossato dal sole, mentre scompare nella polvere della loro quotidianità. (fine)
Dario Devale

Dario Devale




Tra cielo  e … acqua

Nabasanuka: nuova missione alle foci dell’Orinoco

Nella missione di Nabasanuka, tra gli indios warao, nel delta del Río Orinoco, i padri Josiah K’okal (ugandese) e Vilson Jochem (brasiliano), hanno cominciato a sognare in grande, nonostante le sfide lanciate dalle difficoltà logistiche, studio della lingua e cultura indigena, povertà della gente… Stanno inseguendo lo stesso sogno di Dio.

Il 20 di giugno 2006,  festa della Consolata, abbiamo aperto ufficialmente la nuova missione di Nabasanuka, lungo il Río Adentro, uno degli innumerevoli rami che formano l’immenso delta del Río Orinoco. La scelta di questa nuova missione è avvenuta dopo un periodo di riflessione e di studio del luogo, a partire dalla fine del 2005, quando abbiamo iniziato a visitare il territorio, spendendo a più riprese alcune settimane con la gente.
Per avere un’idea di dove ci troviamo, basta dire che, partendo da Caracas o Barlovento dove lavoriamo da vari anni, occorrono 24 ore di viaggio: 17 sulla terra ferma per arrivare a Tucupita, sede dell’omonimo vicariato apostolico, e altre 7 per fiume, su barca a motore, per essere a destinazione. Ancora 40 minuti e si è in alto mare, in pieno Oceano Atlantico.
Naturalmente, per rispettare la tabella di marcia tutto deve filare liscio, il che non sempre accade. Nei primi viaggi, infatti, avevamo a disposizione una curiara (barca, canoa) con un motore vecchio di 30 anni: per la sua età faceva ancora miracoli, ma non sempre ci riusciva. Più di una volta ci ha lasciati in mezzo al fiume. Come quella volta che, partiti alle 2,30 della notte per andare a Tucupita, il motore cominciò a bloccarsi dopo un’ora di viaggio… e arrivammo in città alle 4,30 del pomeriggio.
Ma non sono esperienze che ci scoraggiano. Anzi, diventano occasioni per gustare la bellezza del creato. Ci sentiamo immersi in un altro mondo, un paradiso terrestre, tra cielo e… acqua, circondati dalla lussureggiante vegetazione della fitta foresta tropicale, popolata da miriadi di uccelli e altri animali acquatici e terrestri: siamo nell’immenso delta del fiume Orinoco (vedi riquadro).

Il territorio della missione di Nabasanuka misura oltre 15 mila kmq (pari all’Abruzzo e Molise messi assieme), in buona parte coperto di acqua; la terra ferma, in quanto tale, è molto scarsa.
Tutto il delta dell’Orinoco è abitato dagli indios dell’etnia warao, che vivono sparsi nel vasto territorio in piccole comunità, 63 delle quali sono comprese nei confini della nostra missione.
Tradizionalmente i warao si dedicavano alla caccia, pesca e raccolta di frutta e vegetali commestibili, offerti dalla natura circostante. Col tempo, però, i mutamenti climatici e geografici li hanno costretti a cambiare alcune abitudini di vita; hanno incrementato la pesca, principale fonte di alimentazione, e si sono dedicati anche all’agricoltura. Si tratta di agricoltura di sussistenza: unico prodotto coltivato è l’ocumo, una pianta erbacea con tuberi commestibili.
Anche nell’ambito dell’artigianato, la produzione è limitata alle necessità immediate della vita: amache, ceste, utensili vari.
Sotto l’aspetto materiale, quindi, i warao sono gente povera; vivono in fatiscenti palafitte di legno, piantate lungo le sponde dei fiumi. Eppure la scarsità delle risorse li ha portati a  sviluppare, fin dai primi anni di età, tutte le doti necessarie per la sopravvivenza. Basta guardare i bambini che, a 4 anni, nuotano come pesci e solcano le correnti dei fiumi in canoa con estrema maestria. Sembrano nati nell’acqua.
Ancor più ricco e sorprendente è l’aspetto umano e sociale dei warao. Anche se, come missionari, ci consideriamo stranieri, ospiti e pellegrini, fin dai primi incontri essi ci hanno accolto con tale semplicità e schiettezza da farci sentire subito in famiglia. Sorprendente è il modo con cui si riferiscono a noi: non ci chiamano «preti» o «missionari», ma fratelli. I giovani si rivolgono a noi con il termine «daje» (fratello maggiore), gli anziani con la parola «daka» (fratello minore). Questo ci fa sentire la missione come costruzione di legami di fratellanza.
Altrettanto stupenda è l’espressione usata per indicare il regno di Dio: «Dioso a Janoko», che letteralmente vuol dire «la casa di Dio». Anche questo ci fa vedere come Dio è in azione anche in questa sperduta parte del globo e, soprattutto, ci indica la natura della missione appena iniziata: trasformare il mondo per fae una casa, una famiglia dove tutti possono appendere il proprio chinchorro (amaca) e condividere il poco e il molto che si ha.

Costruire la Dioso a Janoko è, quindi, la grande sfida della nuova missione tra le 63 comunità warao che ci sono state affidate. E abbiamo già cominciato a stendere i progetti e fissare le priorità, tenendo conto della situazione religiosa della gente. Le comunità della missione, infatti, possono essere suddivise in tre gruppi: quelle già evangelizzate, dove la fede cristiana è radicata; quelle che hanno avuto contatti sporadici con i missionari, per cui la vita cristiana non è ancora impiantata; quelle che non hanno ancora avuto alcun contatto con il vangelo.
Per rispondere alla sfida, ci siamo gettati a capofitto nell’apprendere la lingua dei warao: senza di essa è impossibile entrare nel loro mondo culturale e trasmettere il messaggio del vangelo; anche perché buona parte delle comunità parla solo il warao e non conosce lo spagnolo.
Di pari passo con lo studio della lingua procede la visita alle comunità, intrattenendoci con loro per meglio conoscerle e farci conoscere. È una sfida che assorbe molto tempo, non solo per raggiungere le varie località, ma anche per l’approvvigionamento del carburante. In Venezuela la benzina costa poco, ma il rifoimento più vicino si trova a Tucupita: ciò significa sette ore di curiara nell’andata e altrettante nel ritorno.
C onsiderando il numero di comunità e le distanze da percorrere per raggiungerle, ci è impossibile visitarle con frequenza e svolgervi un lavoro in profondità. Per questo abbiamo scelto come priorità assoluta la preparazione di animatori e catechisti, i quali, in nostra assenza, assicurino l’assistenza religiosa ai gruppi cristianamente già formati e promuovano l’annuncio del vangelo in quelli ancora da evangelizzare.
Tale priorità fa parte anche del programma pastorale del vicariato apostolico di Tucupita. Non ci resta che inserirci nel progetto. Anzi, abbiamo già iniziato con la formazione di catechisti in tre comunità: Nabasanuka, Bononia e Araguabasi. Abbiamo circa 40 persone, uomini e donne, che frequentano il centro di Nabasanuka, che stiamo attrezzando con computer, fotocopiatrice e materiale didattico vario. Ma il problema più grande rimane quello del trasporto: abbiamo creato un piccolo fondo per fare fronte ai viaggi dei catechisti, senza pesare sulle loro tasche vuote. E fino ad ora la Provvidenza non vi ha fatto mancare nulla per coltivare i nostri sogni.
Altri sogni nel cassetto riguardano la promozione umana. Alla povertà economica, infatti, si aggiunge quella scolastica e sanitaria: il governo venezuelano ha praticamente lasciato gli abitanti del delta in uno stato di abbandono.
Sotto l’aspetto sanitario il discorso è molto breve: in tutta la regione (15 mila kmq) c’è un solo dispensario, con un solo dottore residente, che si è offerto volontariamente di prendersi cura di questa gente.
Per quanto riguarda l’istruzione, in tutto il territorio ci sono solo due scuole secondarie. Ciò significa che la stragrande maggioranza dei giovani si fermano alle elementari, senza la possibilità di completare il ciclo della scuola secondaria, che qui chiamano liceo.
Per di più,  anche l’insegnamento nella scuola elementare non eccelle per serietà e rendimento, per la mancanza di insegnanti professionalmente qualificati. Ed è comprensibile: quale insegnante o professore (e dottore) è disposto a vivere su una palafitta, isolato dal resto del mondo, in piccoli villaggi privi di ogni comodità e in un ambiente totalmente estraneo alla propria cultura?
Il vicariato apostolico di Tucupita ha dato vita a una bella iniziativa, in collaborazione con l’Università pedagogica Libertador (Upel) di Maracay di Caracas: due volte al mese, durante il fine settimana, alcuni professori di questa università vengono a Nabasanuka per svolgere un programma di formazione professionale per insegnanti warao. Nel giro di tre anni essi dovrebbero essere preparati per assumere la responsabilità di tutti i settori della scuola.
Intanto, a partire da ottobre 2006, con l’inizio dell’anno scolastico, anche noi missionari siamo coinvolti nell’insegnamento nelle classi del liceo di Nabasanuka, l’unico in tutto il territorio della missione, dove confluiscono studenti provenienti da una quindicina di comunità. Ce lo ha chiesto la comunità e abbiamo accettato volentieri. La presenza nella scuola secondaria, oltre all’opportunità di contribuire alla loro preparazione accademica, ci offre l’opportunità di entrare nel mondo dei giovani warao e di accompagnare la loro crescita umana, culturale e religiosa.
Tale formazione sta diventando un problema sempre più preoccupante. Il bombardamento dei canali televisivi riversa sui giovani warao i nuovi modelli di vita dalla globalizzazione, erodendo i loro valori culturali e provocando un senso di inferiorità di fronte alla cultura dominante.
Per noi è un compito in più, che si aggiunge a quello prettamente di evangelizzazione, ma siamo convinti che anche questo contribuisce al processo di autornaffermazione e di sviluppo della popolazione warao. I giovani mostrano molto entusiasmo e voglia di imparare; ma, anche in questo ambito, mancano spesso gli aesi del mestiere: cioè i libri di testo. Per questo anno abbiamo bisogno di 800 testi, e ci stiamo organizzando per raccattarli, sempre confidando nella Provvidenza.

Alla fine del 2006 sono arrivate a Nabasanuka quattro suore della Consolata, completando così il quadro del personale programmato per questa nuova avventura missionaria. Ma siamo in contatto anche con alcuni laici, che un giorno potrebbero venire a condividere la nostra avventura.
Oltre a dare nuovo impulso alle nostre attività di evangelizzazione e promozione umana, continuiamo a sognare nuovi progetti. Uno dei quali riguarda la costruzione di un salone multiuso, per facilitare la formazione degli agenti di pastorale, il cui numero continua ad aumentare, e dare vita a nuove iniziative per accelerare il processo di recupero della cultura della popolazione warao.
Il progetto è ambizioso e costoso; ma abbiamo pazienza. In queste terre del delta, terre di pura acqua, continuiamo a coltivare il sogno di Dio: «Che tutti giungano alla conoscenza della Verità» senza perdere i valori della propria cultura. 

Di Josiah K’okal

Il Delta dell’Orinoco

Il più grande del Venezuela e terzo dell’America del Sud, l’Orinoco è uno dei fiumi più ricchi d’acqua del mondo, con una porta media di 38 mila litri al secondo. Nasce vicino al confine con il Brasile nella parte meridionale del Venezuela e scorre per 2.150 km; attraversata Ciudad Guayana, si dirige verso l’Oceano Atlantico, trasformandosi in una complessa rete idrografica, dividendosi in numerosi rami, canali, lagune, che s’intrecciano tra loro fino a raggiungere, dopo oltre 200 km, l’Oceano Atlantico, con una superficie approssimativa di 22 mila kmq.
Gli ecosistemi terrestri e acquatici sono caratterizzati da una grande diversità biologica. L’area terrestre è coperta da una fitta foresta tropicale che conta circa 2 mila specie  di piante, poi: ricchezza di uccelli (464 specie), rettili (76 specie), anfibi (39 specie), mammiferi (151 specie), pesci (410 specie). Una grande quantità di invertebrati.
Le terre del Delta del RÍo Orinoco sono abitate da tempi remoti da una etnia indigena, i warao, che significa «gente di curiara» (canoa). Sono oltre 100 mila. Vivono in villaggi, formati da famiglie unite fra loro da forti legami di solidarietà e mutuo aiuto. La direzione e il controllo della comunità è affidato al più anziano, chiamato «aldamo».
I warao sono esperti pescatori con varie tecniche e metodi di pesca, la quale costituisce la principale fonte della loro alimentazione. Sono poi cacciatori, esercitando una caccia di sussistenza. L’agricoltura è esercitata in piccole aree (conuchi) e si basa sulla coltivazione dell’«ocumo», una pianta erbacea con tubercoli commestibili, che rappresentano attualmente il «pane» dei warao.

Giuseppe Bono

Josiah K’okal




Quale spiritualità per un altro mondo possibile?

Forum mondiale di teologia e liberazione

In che condizioni versa oggi la teologia della liberazione? 250 teologi, professionali e non, si sono incontrati a Nairobi per tastarle il polso e valutae l’impatto che ha oggi sul mondo contemporaneo.

La teologia della liberazione è ancora capace di produrre riflessioni che puntano a sovvertire uno status quo iniquo e ingiusto per milioni di persone? Può infiammare i cuori di tanti cristiani e spingerli a lottare a colpi di parola di Dio contro questo sistema, o si è anch’essa ridotta a pura conversazione accademica, tomba di tante teologie?
È ancora capace di chiamare «amici» o «fratelli» le vittime della storia o tende ad analizzarle asetticamente, mettendole in provette da laboratorio? Si alimenta ancora del sogno di Dio? Si lascia sfidare, assumendole come proprie, dalle provocazioni che vengono dai «grassroots movements» (movimenti di base), o ha perso lo slancio delle origini? In altre parole: è ancora viva la teologia della liberazione?
Queste e altre domande sottostavano alla celebrazione del secondo «Forum mondiale di teologia e liberazione», che si è tenuto presso il Carmelite Centre di Langata,  quartiere di Nairobi che ospita un alto numero di congregazioni religiose e centri di studio teologici importanti come il Tangaza College e l’Università cattolica dell’Africa Orientale (Cuea).
Dal 16 al 19 gennaio si sono riuniti circa 250 partecipanti provenienti da tutto il mondo, pronti a ribadire la vitalità della teologia che, senza dubbio, ha rappresentato una delle più evidenti novità della chiesa post-conciliare, una chiesa che si vuole incarnare nelle sofferenze di tutte le genti che attendono, già in questo mondo, un segno di liberazione.

DA PORTO ALEGRE A NAIROBI

La prima edizione si era tenuta due anni fa a Porto Alegre (Brasile) e, come in questo caso, la riunione dei teologi aveva preceduto la celebrazione del World Social Forum. L’idea di fondo era la seguente: se il motto «un altro mondo è possibile» ispirava la riflessione e l’azione di tanti gruppi e movimenti che operano nel sociale, tanto più doveva animare coloro che, per fede, credono veramente che questa utopia possa realizzarsi.
Il titolo che il comitato organizzatore aveva scelto per l’incontro di Porto Alegre era: «Teologia per un altro mondo possibile». Lo sforzo era stato, allora,  quello di riunire insieme un panel di teologi della liberazione di prim’ordine che potessero offrire un quadro il più possibile esauriente dello stato della riflessione teologica a livello mondiale. Molte conferenze, quindi, e poco spazio era stato riservato al contributo dei partecipanti.
Quest’anno si è cercato di dedicare buona parte del tempo a seminari e gruppi di discussione e limitando così lo spazio dedicato alle esposizioni degli esperti. Il tema, inoltre, si prestava maggiormente alla condivisione delle esperienze di tutti, essendo dedicato alla individuazione di una «spiritualità per un altro mondo possibile».
Altra nota positiva è stato organizzare questo secondo Forum in Africa e in modo particolare a Nairobi. Innanzitutto per l’importanza che la capitale del Kenya riveste oggi a livello teologico, grazie alla presenza di tante istituzioni accademiche e di ricerca, non soltanto cattoliche; ma anche perché Nairobi è in grado di offrire utilissimi spunti di riflessione a una teologia che vuole far partire la sua riflessione dal basso, da quegli anfratti del mondo che rimangono inesplorati a causa della miseria e del disagio che li invade. Non vi è città al mondo, oggi, che vive il dramma di un’urbanizzazione selvaggia, forzata e rapida, come quella che riempie quotidianamente le già traboccanti baraccopoli della capitale kenyana.
TEOLOGIA AFRICANA
Un altro punto positivo è rappresentato dallo spazio che la teologia africana ha avuto all’interno del Forum. Le presentazioni degli studiosi del continente hanno seguito due cornordinate principali: l’incontro del mondo africano e della sua religiosità con le grandi religioni e il dialogo che con esse può nascere.
La seconda cornordinata era orientata al sociale e soprattutto alle domande alle quali la teologia è chiamata a dare risposta oggi in Africa. La difesa dell’ambiente, il cappio del debito estero, la pandemia Hiv/Aids, il perdurare di situazioni di grave conflitto, come in Sudan o nel Coo d’Africa, sono veri e propri «luoghi teologici» che interpellano la teologia e la sfidano sul piano della coerenza e del senso.
Come ha sostenuto il sociologo e intellettuale belga Francois Houtart, l’Africa è il continente più intrinsecamente connesso con la globalizzazione e con il modello capitalista neoliberale imperante, proprio in ragione dei benefici che tutto il mondo trae dallo sfruttamento della sua gente e della sua terra.
Come unire queste due cornordinate in un unico flusso di pensiero, fedele alle radici culturali, aperto alle sfide di un mondo in perenne cambiamento e nello stesso tempo attento alle esigenze di chi soffre?
Laurenti Magesa, sacerdote cattolico e teologo tanzaniano di fama, autore fra l’altro di un recentissimo saggio sul modo di ripensare la missione in Africa ai nostri giorni (Rethinking Mission: Evangelization in Africa in a New Era, Aamecea, Eldoret-Kenya, 2006), ha ribadito come il cristiano africano di oggi debba imparare a dissetarsi nuovamente alla fonte di una spiritualità propria. È questo il primo passo di un viaggio verso un vero e proprio esodo mentale ed emozionale, dalla situazione attuale di schiavitù spirituale, sfruttamento e miseria, verso una nuova terra promessa. Un cammino di liberazione integrale verso la giustizia, la libertà, una patente di «credibilità» anche spirituale cui l’Africa anela.

GUARDARE LA VERITÀ

Il punto centrale del Forum (e in una certa misura anche il suo nervo scoperto) è stato il tentativo di individuare punti di contatto tra ricerca e prassi. Più volte è stato ribadito uno dei principi basilari della teologia della liberazione, cioè che il punto di partenza è la realtà vista da un’angolatura particolare: il mondo degli oppressi. Lo ha rimarcato con forza uno dei suoi padri storici, il gesuita salvadoregno Jon Sobrino, ricordando come «le vittime e solo le vittime aprono gli occhi alla realtà», una realtà spesso ovattata, camuffata da chi vuole difendere privilegi usurpati.
Giovanni nel suo vangelo scrive che il maligno è assassino e bugiardo. Se si vuole costruire un mondo alternativo e se si vuole affermae davanti a tutti la sua possibilità occorre vincere questo modello di menzogna e ricorrere a chi ti può presentare un quadro della realtà veritiero e affidabile. La vittima appare per quello che è, con il suo bagaglio di povertà, crudeltà e morte, incapace di nascondere una realtà che la umilia e la ferisce.
Uno dei momenti più importanti del Forum è stato il pomeriggio dedicato alle visite di alcune realtà significative di Nairobi: gli slums di Kibera e Korogocho, alcuni ostelli per l’accoglienza dei bambini di strada e, infine, un progetto di sviluppo comunitario, iniziato e portato avanti dalla comunità della parrocchia St. Joseph the Worker. Kibera, quartiere dormitorio di Nairobi in cui vivono, ammassate come formiche circa 800 mila persone, è lo slum più grande dell’Africa. Le vittime appaiono nude ai nostri occhi, sono lì, basta avere il coraggio di guardarle.

DALLA VERITA’ ALLA CON-PASSIONE

Ma guardare non è sufficiente. Bisogna passare dalla contemplazione della verità, resa manifesta dalle vittime, a una prassi che le liberi dalle catene che le opprimono. «Se il maligno – ricorda Sobrino – non solo è bugiardo, ma anche assassino, alla verità che smaschera la menzogna deve accompagnarsi allora una prassi di compassione capace di generare vita».
Nella compassione, intesa come una condivisione nel dolore e, quindi, una forza generatrice di giustizia e liberazione, può incontrarsi, secondo il teologo latinoamericano, il terreno per costruire una spiritualità per un mondo alternativo. Una spiritualità che deve essere comune, in dialogo con fedi e culture diverse, con le teologie delle grandi religioni, come quelle delle religioni tradizionali che cercano con decisione il loro spazio anche perché espressione di culture marginalizzate o oppresse.
Il discorso vale per le teologie tradizionali africane come per la teologia afro e quella india, tutte presenti con loro rappresentanti al Forum di Nairobi.
Sebbene il tema generale del Forum verteva sull’individualizzazione di una spiritualità per il mondo «altro», che si sta cercando di costruire, ciò che alcuni hanno notato e rimarcato è stato il carattere poco «religioso» del Forum, come se invece di camminare nel dialogo rispettando le proprie differenze, si cercasse di costruire una spiritualità senza religione, a-confessionale. Uno degli appunti fatti dalla platea al Forum è stato: «Qui si sta facendo molta teologia e poca liberazione», criticando così l’incapacità di liberarsi da schemi teologici fissi, vincolanti, senza immaginazione e profezia.
In realtà, a parere di chi scrive, non si è fatta neppure tanta teologia. Si è parlato di movimenti, si è disquisito di organizzazioni, di coscienza e di lotta, di chiesa e di religione, ma si è parlato poco di Dio. E una teologia che lasci Dio ai margini non solo non può esistere, ma è una contraddizione in termini.
L’intento di dare più spazio a laboratori di gruppo e seminari, sullo stile applicato al World Social Forum, è stato lodevole, ma le conclusioni sono risultate molte volte scollate dalle riflessioni presentate nelle conferenze e, spesso, dal tema generale del Forum. Anche l’apporto dei teologi professionali si è limitato in massima parte alla presentazione di un elaborato che non teneva conto degli spunti che arrivavano dai lavori di gruppo e che avrebbero meritato una più attenta lettura teologica.
Forse, per la prossima occasione, bisognerà pensare a qualche cosa di diverso, magari a organizzare questo Forum di teologia dopo il Social Forum, in modo da attingere spunti e provocazioni provenienti dal basso, dal mondo delle organizzazioni, dei movimenti, delle chiese o, soprattutto, da coloro che soffrono sulla loro pelle una forma di oppressione che non aspetta altro che di essere rimossa e chiedersi: «Dio, a questo grido, come risponderebbe?».
Non è una domanda che prevede una facile risposta. Tanto meno un Forum, proprio per le sue caratteristiche, poteva offrie una. Ne è prova la difficoltà che si è avuta nel redigere una dichiarazione conclusiva da presentare al World Social Forum.
In realtà, un tentativo lo aveva fatto la professoressa Mary Getui, presidente del comitato di organizzazione locale, suggerendo quello che poi è diventato il motto della manifestazione: «I am somebody and I can do something» (sono qualcuno e posso fare qualche cosa).
Restano profetiche, a questo riguardo, le parole con le quali Desmond Tutu ha chiuso il Forum, ricordando la sua esperienza in Sudafrica e la lotta senza tregua di un popolo oppresso per ottenere la propria libertà. Lo ha fatto comparando quei tempi con la situazione del Sudafrica odierno e delle sue chiese, che hanno perso la freschezza, la spontaneità e la genuinità della testimonianza, frutto della persecuzione e della lotta.
Il cammino della liberazione era chiaro negli anni dell’apartheid; oggi lo è molto meno, in Sudafrica come altrove. Forse troverebbe nuovamente il suo senso, se la teologia venisse nuovamente fatta a partire da Kibera e dagli altri innumerevoli luoghi che umiliano milioni di persone in tutto il mondo.

Di Ugo Pozzoli


Intervista con Maricel Mena Lopez

UNA TEOLOGIA DAI TANTI VOLTI

Terminati gli studi teologici di base presso l’università Javeriana di Bogotà (Colombia), hai proseguito il tuo iter accademico in Brasile, dove hai conseguito il dottorato in sacra scrittura. Da un po’ di tempo sei tornata alla Javeriana, questa volta come insegnante. Sei afro-colombiana e ti dedichi con passione alla ricerca nell’ambito della teologia etnica e all’accompagnamento pastorale di comunità afro-discendenti. Ti ho presentato, adesso raccontami qualcosa di questo tuo amore per la teologia afro.
Mi interesso delle teologie afro e della liberazione dagli anni ’80; da quando,cioè, ho iniziato a lavorare più direttamente con gruppi giovanili e comunità di base. Ma l’inizio delle mie inquietudini «teologiche» è coinciso con il lavoro nel barrio San Martín, un quartiere molto povero di Cali, popolato per il 95% da persone afro-discendenti. La maggior parte della gente veniva dalle comunità negre del Pacifico, esattamente come la sottoscritta. Insieme abbiamo iniziato a pensare come recuperare canti, tradizioni delle comunità di origine. La domanda che sottostava a tutto questo lavoro era: «Sarà possibile esser negra e cristiana nel medesimo tempo?».

E che risposta vi siete dati?
È stato l’inizio di una ricerca, di un lungo processo. Nei nostri paesi dell’America Latina abbiamo assunto un cristianesimo di stampo molto europeo. Si trattava di vedere come. Noi abbiamo solo cercato di dargli un volto e un corpo più afro; siamo partiti dall’esperienza di fede, che trascende il puro discorso teologico. L’esperienza è aperta, mentre la teologia tende a chiudersi dentro un linguaggio molto dotto, per addetti ai lavori; così facendo, ha finito con il rinchiudere l’esperienza che la gente aveva di Dio dentro una determinata tradizione. In Colombia, per esempio, la maggioranza degli afro-discendenti è cristiana. Nonostante in passato il cristianesimo abbia cercato di fare piazza pulita delle religioni tradizionali africane, noi ci troviamo nei ritmi, nei canti, nel modo di celebrare degli afro discendenti della costa pacifica che tiene molte radici comuni con la Madre Africa.

Come viene recepita in ambiente accademico questa nuova sensibilità religiosa e teologica?
L’impatto sui seminaristi è buono. Vi sono quelli più aperti al dialogo, altri più radicati su posizioni conservatrici. In tutti, però, l’interesse è alto e c’è dibattito, il che è positivo. È una sfida non facile. È una ricerca che va portata avanti con serenità e senza forzature, ma chiedendosi onestamente: «Perché dopo secoli e secoli di evangelizzazione la gente afro o quella indigena vivono facendo coesistere senza nessun problema la fede in Gesù con quella nelle proprie divinità? O partecipano con ugual fede a un candomblé e a una celebrazione eucaristica?». La nostra ricerca punta a dare alla nostra fede un volto latinoamericano, con tutte le sue diverse sfumature. Chiaramente sono temi che creano dibattiti anche accesi, soprattutto con parte dell’istituzione accademica e gerarchica, che si rifiuta di ammettere che possa esistere un altro tipo di teologia. Eppure, passi in avanti possono essere fatti. Per esempio, in maggio vi sarà ad Aparecida, in Brasile, la v edizione della Conferenza dell’episcopato latinoamericano. Non che nutra molte speranze, ma una piccola aspettativa ce l’ho: che ci si interroghi seriamente sul tema del dialogo fra le religioni. A Santo Domingo ci fu un’apertura verso le culture, ad Aparecida spero che emerga invece l’aspetto più spiccatamente religioso del dialogo, soprattutto con le tradizioni religiose afro e indigene. È importante sottolineare questo aspetto, perché a volte anche tra membri della stessa cultura vi possono essere casi di chiusura o di rigetto. Per esempio, alcuni afro-discendenti appartenenti a certe frange pentecostali sono molto ostili verso un lavoro di recupero delle tradizioni proprie. Senza contare che in molti è forte la difficoltà del sentirsi nero e di riconoscerlo con orgoglio davanti agli altri, soprattutto in un paese come la Colombia, in cui il razzismo è molto più diffuso di quanto si possa pensare.

Come vedi l’impegno pastorale della chiesa latinoamericana nei confronti delle minoranze etniche (che però in alcune regioni del continente sono numericamente delle «maggioranze» assolute) come quella afro o indigena? La teologia della liberazione è ancora viva?
Manca un lavoro più profondo e continuo a livello di comunità. Direi che la teologia della liberazione è viva, ma stiamo vivendo in un tempo totalmente diverso rispetto a quando è nata. È forte l’opzione per i poveri, non tanto quella verso le culture differenti. Dobbiamo imparare a dare al povero il volto che gli compete: afro o indio che sia.

Intervista con suor Jane Muguku

Teologia… della strada

Sister Jane, ho visto parecchie suore della Consolata al Forum… Tre di voi hanno anche guidato altrettanti workshops. Complimenti.
È stata una scelta mirata, essere lì dove la gente discute, organizza e soprattutto pensa teologicamente.

Cosa ti è piaciuto di più di questo Forum?
Il metodo. I molti workshops hanno aiutato a incarnare gli spunti teologici nella vita di tutti i giorni. È stato un bell’incontro fra teologi professionisti e noi, poveri teologi jua kali, come diciamo noi in Kenya, teologi «sotto il sole», della strada.

Qual è stato il messaggio più importante di questo Forum, quello che ti porti via in valigia?
Senz’altro la necessità di creare dialogo fra le nostre religioni. Se vogliamo veramente immaginare un mondo diverso e creare una spiritualità che possa animare questo mondo, dobbiamo renderci conto che il dialogo è un’esigenza imprescindibile. Allo stesso tempo,mi ha molto colpito, durante l’ultima assemblea plenaria, quanto ha detto un partecipante dell’India, cosa ribadita anche da una donna africana, che, cioè, se vogliamo creare un mondo diverso, fondato sul dialogo interculturale e religioso, dobbiamo iniziare dalle scuole. Soprattutto a livello religioso è fondamentale avere uno studio comparato serio delle altre religioni, almeno nelle linee fondamentali, condizione indispensabile per iniziare un dialogo su basi di parità.

Qualche elemento negativo?
Uno soltanto, a livello di percezione. Mi è sembrato che nell’assemblea si tendesse troppo a fare l’inchino al «dio» della liberazione sociale, dimenticandosi che l’uomo ha bisogno di essere liberato integralmente. Forse le altre dimensioni non hanno avuto uguale spazio e attenzione. Si vuole costruire una spiritualità per un mondo alternativo, ma se il rapporto con Dio viene limitato soltanto alla dimensione orizzontale e non si esplora sufficientemente quella verticale, sarà poi molto difficile trovare dei punti che ci accomunano, che ci rendano «fratelli e sorelle».

Ugo Pozzoli




L’Abbé Pierre e altri profeti inascoltati

Lungo l’Avenida Carlos Maria Ramires, una strada che taglia in due la periferia di Montevideo, nel cuore del barrio «La Teja», là dove le case in muratura lasciano intravedere misere catapecchie di legno e lamiera, sorge la parrocchia «Sagrada Familia». Negli anni ‘70-‘80 era affidata ai missionari Fidei donum di Novara. L’edificio religioso, sorto grazie alla genialità di un architetto squattrinato e alla povertà di mezzi del quartiere, era un po’ atipico rispetto alla tradizionale architettura montevideana: pensata per avere splendide vetrate colorate, la chiesa era costretta al recupero dei più umili vetri di uso domestico. Al di là della povertà di tale struttura, la parrocchia de La Teja divenne subito il punto di riferimento per tante persone schiacciate dalla situazione politica ed economica del piccolo paese sudamericano. L’ampia piazza antistante la chiesa era il punto di partenza dei vietatissimi cortei di protesta, che, snodandosi lungo tutta l’arteria principale, arrivano al cuore della città, sfidando repressione e violenza.
Grazie anche all’opera dei preti novaresi, la parrocchia diventò in breve tempo la base per due istituzioni di risonanza mondiale, che si inserirono in maniera formidabile nel tessuto sociale di quella gente: «Paz y Justicia», fondato dal premio Nobel argentino Adolfo Pérez Esquivel, e movimento Emmaus, fondato dal compianto Abbé Pierre. In breve tempo, le due realtà raccolsero un numero sempre crescente di simpatizzanti e aderenti. Paz y Justicia, con una capillare e intensiva azione di raccordo con moltissime persone, faceva passare l’ideale di un ritorno alla democrazia attraverso la lotta non violenta: una originalità di pensiero nel contesto delle dittature latinoamericane, che portò il suo fondatore a ricevere il premio Nobel per la Pace. L’azione creata dal gruppo Emmaus trascinò un numero sempre crescente di persone a coinvolgersi sul riutilizzo di beni e strumenti da rimodeare e riattivare, al fine di elevare le condizioni di vita della gente del quartiere. Queste attività materiali si intrecciarono in maniera splendida con tutto un lavoro di impegno per il futuro e di attenzione alle persone toccate nella loro carne dalla dittatura militare; anche nei periodi più duri, nella parrocchia della Teja brillava una fiammella di speranza.

I due carismatici fondatori erano di casa alla Teja. Esquivel fece visita più volte, grazie alla vicinanza geografica con l’Argentina; mentre le visite dell’Abbé Pierre furono più centellinate. Una sera, nei lontani anni ‘70, in un freddo inverno australe, queste due figure straordinarie, impegnate  a trecentosessanta gradi per la promozione dei diritti dell’uomo, per la giustizia e la pace, credenti dalla fede cristallina, conversando con gli amici novaresi e montevideani presenti, sottolinearono come il seme della speranza, gettato anche nel solco della dittatura più nera, alla lunga porta i suoi frutti.
Non si evidenzia a sufficienza cosa ha significato non solo la figura dell’Abbé Pierre, ma anche di Perez Esquivel, dom Helder Camara e tanti altri protagonisti della missione; soprattutto non si parlerà mai abbastanza di ciò che essi hanno saputo seminare e alimentare nelle zone più depresse del terzo mondo, nei cuori delle persone che vivevano situazioni disperate. In particolare, le comunità Emmaus non si limitarono a soccorrere il ferito giacente sulla strada, come il buon samaritano della parabola, ma crearono le condizioni perché coloro che venivano a contatto con il carisma dell’Abbé Pierre e di tanti altri profeti inascoltati e osteggiati sulle frontiere missionarie, diventassero a loro volta seminatori di speranza, operatori di giustizia e costruttori di pace: un processo che ha prodotto risultati incredibili.
Aver conosciuto persone di questa statura, aver goduto della loro stima e simpatia, averli a più riprese avuti come ospiti e testimoni nelle nostre chiese ci dà una consapevolezza maggiore nel prendere la fiaccola accesa da loro, per consegnarla alle giovani generazioni. Un impegno, alla luce della recente scomparsa dell’Abbé Pierre, da onorare con quella carica d’umanità che ha saputo trasmetterci.

Di Mario Bandera

Mario Bandera




Ho visto morire Saddam (italiano/ français)

Il nostro mondo ha una visione Nord-centrica. L’Italia, gli Usa,
oggi anche un po’ l’Europa. È questo «il mondo che conta». Esistiamo,
quindi pensiamo, solo noi. L’Africa, sono le guerre, i massacri,
l’Aids, talvolta gli elefanti e le giraffe. L’America Latina ci porta
samba e merengue, spesso il calcio. L’Asia, è la Cina, soprattutto,
perché qualsiasi cosa tocchiamo è stato fabbricato lì. Poi ci sono gli
stranieri, di tutti i colori, che «invadono» la nostra vita.

Eppure in Africa esistono popoli, culture, modi di essere e di vivere.
Nel quotidiano. Gioali, radio, televisioni, siti internet. Una
società ricchissima di varietà, giovane e in cammino costante. Con i s

uoi personaggi di riferimento: politici, di chiesa, di cultura.

Con questa nuova rubrica abbiamo l’ambizione di portare nelle vostre
case almeno un po’ della visione africana del mondo e degli
accadimenti. Un piccolo segno per dire: un altro mondo è possibile, un
altro mondo già esiste. A volte basterebbe ascoltarlo.

Marco Bello

Saddam Hussein è stato impiccato il 31 dicembre scorso. Il giorno della
Tabaski (Aid-el-Kébir, festa del sacrificio di Abramo, durante la quale
si sgozza il montone, ndr). La sua esecuzione è stata largamente
mediatizzata e ha profondamente scioccato l’opinione pubblica
internazionale e, in particolare, in Africa. Lo spettacolo del Rais, in
giacca scura, la corda al collo, che parla ai suoi boia era
particolarmente toccante e rivoltante, anche se non si perdono di vista
i gravi crimini che pesavano sull’uomo. Le reazioni alla sua
impiccagione sono state varie. Qualcuno metteva in causa le condizioni
poco degne della sua esecuzione a dir poco sbrigativa, quando avrebbe
dovuto rispondere a numerosi altri crimini durante il suo regno
sanguinoso, sui quali si sperava di fare luce. Secondo altri, le
immagini insopportabili mostrate alla televisione sono giustamente la
prova che la pena di morte è una pratica di un’altra epoca e che
bisogna bandirla per sempre dal diritto penale. Naturalmente le
reazioni in Africa si sono divise su queste linee, dimostrando anche
che tutti i luoghi del mondo sono entrati in una fase d’uniformazione,
realizzando così il villaggio planetario annunciato da Mac Luhan.
Questi avvenimenti di Baghdad ci danno l’occasione di guardare
l’evoluzione della pena di morte come sanzione penale in Africa.
Prendiamo il caso del Burkina Faso.

Non c’è dubbio che, come tutte le società umane, le società africane
tradizionali considerano la vita come un valore sacro, come del resto
lo dimostra la sorte riservata alle donne, ai bambini e alle persone
anziane durante i conflitti armati tra etnie rivali. La morte non è mai
stata un fatto banale. Essa è inflitta solo in casi eccezionali. Nella
zona mossì (etnia maggioritaria in Burkina Faso, ndr), una pena
intermedia è stata prevista per evitare di giustiziare certi individui
destinati alla pena di morte. Si tratta della castrazione. Questi
uomini castrati restavano a palazzo dove si mettevano al servizio del
re. L’assassinio appariva nelle società tradizionali come il fatto più
grave. In questo caso la sanzione penale è generalmente la morte. Anche
in questo caso poteva applicarsi una pena compensatoria diversa da
quella capitale. Ad esempio tra gli anyanga del Togo, la famiglia
dell’assassino, se voleva salvargli la vita, doveva fornire sette
persone come compensazione. Questi diventano schiavi al servizio della
famiglia della vittima. Nell’ampia scelta di sanzioni in vigore tra i
mossì, le multe sono le meno pesanti, seguono le sevizie corporali
(come l’incatenamento) e la morte. Per quanto riguarda la pena
capitale, una piazza speciale, chiamata boegtoèga era riservata alle
esecuzioni a Ouagadougou, attuale capitale e sede del Moro Naba,
l’imperatore dei mossì. I giustiziati erano in generale delle persone
vicine al re che avevano avuto relazioni colpevoli con le sue spose. Il
boia si chiamava dapoéramba. Bisogna sapere che i condannati a morte
erano trattati in modo diverso a seconda se erano prìncipi o gente
comune. Questi ultimi prima di essere condotti al patibolo venivano
legati con delle corde, mentre per gli altri un pezzo di stoffa era
sufficiente. Questa differenza si spiega con il fatto che davanti alla
morte, il prìncipe a causa della sua nobiltà, deve restare degno per
accogliere la sentenza del reame. Poteva capitare che nelle contese che
opponevano capi tra di loro, l’arbitraggio del Moro Naba portasse alla
pena di morte per il colpevole. In questo caso preciso non c’era
bisogno del plotone d’esecuzione. L’imperatore invitava il colpevole ad
«andarsene», ovvero a darsi la morte. La vittima si suicidava,
piantandosi una freccia avvelenata nel petto o facendosi strangolare da
una banda di cotone bianco. Nel reame mossì di Ouagadougou, Naba Warga
(1666 – 1681) ha la reputazione di essere stato l’imperatore che meglio
ha organizzato la giustizia penale tradizionale.

La legge dei costumi (tradizionale) ha cessato di esercitare molto
prima dell’indipendenza. Il Burkina Faso ha adottato un codice penale
che all’articolo 9 prevede la pena di morte. È prevista l’esecuzione
per fucilazione in un posto designato dal ministero pubblico. Nessuna
esecuzione può essere fatta nei giorni di festa legale né la domenica.
L’esecuzione di una donna condannata a morte è subordinata al rilascio
di un certificato di non gravidanza. Notiamo tuttavia che la
giurisdizione burkinabè non sembra troppo invogliata ad applicare la
pena capitale. L’ultima esecuzione risale al 1988, quando sette
militari furono fucilati dopo essere stati condannati da un tribunale
militare rivoluzionario per aver ucciso, nel novembre di quell’anno, un
ufficiale dell’esercito e sua moglie. Il 12 giugno 1984, l’esecuzione
di cinque militari e due civili fu ordinata sempre da un tribunale
militare, per complotto contro il governo. Altre condanne ci sono
state, pronunciate dalla camera criminale della Corte d’Appello di
Ouagadougou nel 2003 in contumacia per assassinio e mutilazione. Ma il
fatto che è stato al centro della cronaca è l’assassinio nel 2004 di
due ragazze da parte di un giovane. Questi confessa di averlo fatto con
l’obiettivo di raccogliere il loro sangue  per un rito con il
marabut (sacerdote musulmano, ndr) che gli avrebbe procurato ricchezza
e prestigio sociale. Il giovane fu giudicato e condannato a morte, ma
la pena non è stata ancora eseguita. La cosa più interessante è il
dibattito che ha seguito il processo. L’opinione pubblica s’è
appassionata al caso, per la crudeltà del crimine commesso dall’uomo,
le cui vittime erano per di più due amiche.
Due campi si sono allora costituiti sulla questione della pena di
morte. I favorevoli stimano che la criminalità si sia sviluppata perché
la pena capitale non è applicata in tutto il suo rigore. Questa
opinione è condivisa da un magistrato che constata come i mezzi per
combattere il crimine siano insufficienti. Occorre dunque, stima, che
le pene siano abbastanza dissuasive per scoraggiare i malintenzionati.
Questa opinione è contraddetta da un avvocato della parte civile di
questo ultimo caso. Secondo lui la pena capitale è uno spreco umano. Se
lo scopo della giustizia è permettere a una persona di pentirsi e
correggersi, allora la pena di morte non ha senso. Il dibattito è
ancora aperto.
Su 53 stati africani, 13 hanno abolito la pena capitale e 20 la mantengono ma non la applicano.

Germain Bitiu Nama
(tradotto e adattato da Marco Bello, per la versione originale in francese si veda oltre)

Germain Nama è uno dei più noti
intellettuali del Burkina Faso. Ha 57 anni ed è padre di 4 figli.
Professore di filosofia di formazione e giornalista impegnato per i
diritti umani. Ha collaborato con Norbert Zongo, il celebre giornalista
assassinato nel 1998, fin dalla creazione dell’Indépendant nel 1993.
Settimanale di cui è diventato condirettore alla morte di Zongo fino al
2002. È membro fondatore del Movimento burkinabè dei diritti dell’uomo
e dei popoli, nel quale è stato per oltre 10 anni presidente della
commissione arbitrale (struttura di consiglio e studio che assiste il
comitato esecutivo). Nama è direttore del giornale l’Evénement dalla
sua creazione (2001). Il bimensile di attualità politica più seguito
del paese, di cui è co-fondatore. (Per la versione completa online www.evenement-bf.net)
Ha un impengo nella commissione nazionale burkinabè per l’Unesco dal
1993, nel quale è capo divisione. Nel suo paese è molto apprezzato,
dagli amici e dai nemici, per il suo equilibrio e la sua correttezza.
Bitiu significa «legno sacro» e si tratta di un albero feticcio protettore. È il soprannome di Germain Nama.

La peine de mort en Afrique

Saddam Hussein a été pendu le 31 décembre deier, le jour de la
Tabaski. Sa mise à mort fortement médiatisée a profondément choqué
l’opinion inteationale et en particulier en Afrique. Le spectacle du
Raïs, en costume sombre, la corde au cou, parlant à ses bourreaux était
particulièrement saisissant et révoltant, même quand on ne perd pas de
vue les lourdes charges qui pesaient sur l’homme.  Les réactions
consécutives à sa pendaison ont été diverses. Les uns mettaient en
cause les conditions très peu dignes de son exécution du reste
expéditive, alors qu’il devait répondre de nombreux autres crimes dont
on espérait qu’il en sorte une lumière sur les dessous de son règne
sanglant. Pour les autres, les images insupportables montrées à la
télévision sont justement la preuve que la peine de mort est une
pratique d’un autre âge qu’il faut bannir à jamais du droit
pénal.   Naturellement, les réactions en Afrique ont aussi
épousé cette ligne de partage, démontrant ainsi que toutes les contrées
du monde sont entrées dans une phase d’uniformisation, réalisant ainsi
le village planétaire annoncé par Mac Luhan. Ces événements de Bagdad
nous fouissent l’occasion de jeter un regard sur l’évolution de la
question de la peine de mort comme sanction pénale au Burkina Faso

Il n’y a pas de doute qu’à l’instar de toutes les sociétés humaines,
les sociétés africaines traditionnelles tiennent elles aussi la vie
pour une valeur sacrée, comme du reste en témoigne le sort qui est fait
aux femmes, aux enfants et aux personnes âgées pendant les conflits
armés entre tribus ou ethnies opposées. La mort n’a jamais été un fait
banal. Elle n’est prononcée que dans des circonstances exceptionnelles.
En pays mossi, une peine intermédiaire a été prévue pour éviter
d’exécuter certains individus normalement destinés à la mort. C’est le
cas de la castration. Ces hommes castrés restaient dans l’entourage du
palais où ils se mettaient au service du roi. Le meurtre apparaissait
dans les sociétés traditionnelles comme la faute la plus grave. Dans
ces cas de figure, la sanction pénale est généralement la mort. 
Même là, il arrive qu’on applique une peine compensatornire autre que la
mort. C’est ainsi que chez les Anyanga du Togo, la famille du
meurtrier, si elle tient à épargner la vie de son membre, elle doit
fouir sept personnes en guise de compensation. Ces personnes ont
vocation à être des esclaves au service de la famille de la
victime.  Dans la panoplie des sanctions en vigueur en pays mossi,
les amendes apparaissaient comme les plus douces, à côté des sévices
corporelles (dont la mise aux fers) et la mort. En ce qui concee la
peine de mort, une place spéciale appelée boegtoèga était réservée à
l’exécution de la sentence à Ouagadougou où siège le Moro Naba,
l’empereur des mossis. Les suppliciés étaient en règle générale des
proches du roi qui ont entretenu des relations coupables avec ses
épouses. Les bourreaux s’appelaient les « dapoéramba.» Il faut
savoir que les condamnés à mort étaient traités différemment selon
qu’ils sont princes ou roturiers. Ces deiers avant d’être conduits à
la potence se voient attachés les mains à l’aide de cordes, tandis que
pour les princes, un morceau de tissu suffisait. Cette différence
s’explique par le fait que devant la mort, le prince en raison de sa
noblesse, doit rester digne pour accueillir la sentence du royaume. Il
arrive que dans les litiges qui opposent les chefs entre eux,
l’arbitrage du Moro Naba conduise à la sanction de mort contre le
fautif. Dans ce cas précis, il n’est point besoin d’un peloton
d’exécution. L’empereur invite le fautif à « s’en aller »
c’est-à-dire à se donner la mort. La victime se donne elle-même la
mort, soit en se plantant une flèche empoisonnée dans le mollet, soit
en se faisant étrangler avec une bande de cotonnade blanche. Dans le
royaume mossi de Ouagadougou, Naba Warga (1666-1681) est réputé être
l’empereur qui a le mieux organisé la juridiction pénale coutumière.
Le droit modee burkinabè prévoit la peine de mort
La loi coutumière a cessé de s’exercer bien avant l’indépendance. Le
Burkina Faso a adopté un code pénal qui prévoit la peine de mort en son
article 9. Celle-ci s’exécute par fusillade en un lieu désigné par le
ministère public (art15). Aucune exécution ne peut avoir lieu les jours
de fête légale ni le dimanche (art 18). L’exécution d’une femme
condamnée à mort est subordonnée à la délivrance d’un certificat de non
grossesse.  On note cependant malgré ces dispositions que les
juridictions burkinabè ne semblent pas pressées d’appliquer la peine de
mort. Les deières exécutions en date remontent à 1988 où sept
militaires ont été fusillés après avoir été condamnés la veille par un
tribunal militaire révolutionnaire pour avoir tué en novembre de la
même année un officier de l’armée et son épouse. Le 12 juin 1984,
l’exécution de cinq militaires et deux civils fut ordonnée, également
par un tribunal militaire, pour complot contre le gouveement.
D’autres condamnations eurent lieu, cette fois prononcées par la
chambre criminelle de la Cour d’appel de Ouagadougou notamment en
2003 par contumace pour meurtre et mutilation. Mais l’affaire qui
défraya la chronique, c’est le meurtre en 2004 de deux filles par un
jeune homme. Ce deier avoua l’avoir fait dans le but de recueillir
leur sang en vue d’un rite maraboutique censé lui procurer richesses et
considération sociale. Le jeune fut jugé et condamné à mort, mais la
peine n’a pas encore été appliquée. Le plus intéressant, c’est le débat
qui a suivi ce procès. En effet, l’opinion publique se passionna pour
cette affaire, en raison de la cruauté du crime commis par un jeune
homme dont les victimes étaient de surcroît ses amies. Deux camps se
sont constitués autour de la question de la peine de mort. Ceux qui
sont favorables estiment que si la criminalité se développe, c’est
parce que la peine de mort n’est pas appliquée dans toute sa rigueur.
Cette opinion est du reste partagée par un magistrat qui constate à son
tour que la criminalité est très développée alors que les moyens
manquent pour la combattre. Il faut donc estime t-il que les peines
soient suffisamment dissuasives pour décourager les gens à commettre
les crimes graves, passibles de la peine de mort. Cette opinion se
trouve contredite par un avocat de la partie civile de cette deière
affaire en date. En effet pour lui, la peine capitale est un gâchis
humain. Si le but de la justice c’est de permettre à une personne de se
repentir et de se corriger, alors la peine de mort n’a pas sa raison
d’être.» Le débat est donc toujours ouvert.
Notons que sur les 53 Etats africains, 13 ont aboli la peine de mort
pour tous les crimes, 20 la maintiennent mais ne l’appliquent pas.

Germain Bitiu Nama

Germain Bitiu Nama