Le idee, prigioniere dei «brevetti»

La mercificazione della conoscenza

Che ci piaccia o no, la conoscenza è ormai diventata una merce. Ha
perso il carattere di bene pubblico, liberamente condivisibile, per
assumere i tratti di un bene privato, cui associare un valore monetario.
Le idee, una volta trasformate in merce, diventano proprietà di chi
riesce ad accaparrarsele per primo, anche quando gli «inventori» sono
altri: ed ecco che, con una sbalorditiva disinvoltura, grandi
multinazionali si impadroniscono di musiche di strada, suonate da
secoli dalla gente comune, oppure brevettano spudoratamente piante
medicinali esotiche, frutto di millenni di evoluzione. Un bene
vendibile poi, secondo meccanismi ben noti agli economisti, diventa più
prezioso se è anche scarso, dunque è bene che le idee rimangano ben
chiuse e sigillate, protette da eventuali malintenzionati.

Le trappole dei software proprietari
Qualcosa del genere sta accadendo con il software, uno dei prodotti più
puri e più complessi dell’ingegno umano. Nonostante la Convenzione di
Monaco, nel 1973, abbia stabilito che il software non si possa
brevettare, oggi, con una serie impressionante di provvedimenti
legislativi, si è riusciti a rendere legale il brevetto su una grande
quantità di programmi informatici. Il risultato è stato una crescente
diffusione dei «software proprietari», programmi chiusi non
modificabili dall’utente per essere adattati ai propri interessi e ai
propri bisogni. Parallelamente, si sono moltiplicati i divieti: per
esempio quello di accedere liberamente ad archivi digitali, dati di
biblioteche pubbliche e via dicendo.
Si comprende quanto questa tendenza sia dannosa, in modo particolare
per i paesi del Sud. Innanzitutto vengono vanificate le loro
possibilità di rilancio economico, legate proprio al software. Produrre
software, infatti, non richiede grosse infrastrutture e, soprattutto, è
legato ad investimenti in risorse umane, un elemento che è del tutto
abbondante nei paesi in via di sviluppo.
Inoltre per i più poveri, che dispongono soprattutto di computer
obsoleti, è diventato sempre più oneroso utilizzare software
proprietari, così come localizzare autonomamente i propri programmi
informatici, per adattarli alla propria lingua e alla propria cultura.
Non è più possibile accedere a pubblicazioni scientifiche online,
mentre quelle cartacee continuano a rimanere inaccessibili per motivi
di costo. Insomma, la conoscenza in formato digitale, che coincide
ormai con la quasi totalità della conoscenza disponibile al mondo, sarà
sempre meno accessibile. Le ragioni di tipo economico, come si vede, si
fondono con le esigenze di giustizia sociale: quando la proprietà
intellettuale viene estesa all’informazione, in gioco c’è un diritto
fondamentale come l’accesso all’informazione e la libertà di
espressione.

Le alternative del software libero
In queste condizioni lo sviluppo di standard tecnologici diversi è
ormai diventato un tema non più rinviabile. Negli ultimi anni è fiorito
un vero e proprio movimento alternativo: quello che si batte in favore
degli «standard aperti» (open source) e del «software libero» (free
software). Questo movimento è nato con un carattere del tutto
particolare, dato che è formato per lo più da tecnici e informatici, ma
ha assunto cifre talmente cospicue da non potersi più considerare un
semplice gruppo d’interesse settoriale: si tratta di circa 300.000
sviluppatori di software sparsi in non meno di 70 paesi. Il suo cavallo
di battaglia è costituito dall’idea che le risorse informatiche debbano
avere la massima circolarità e la massima accessibilità. Questa
singolare comunità di «programmatori idealisti» è animata da un’etica
nuova (ribattezzata «etica hacker»), un’etica di libertà, di altruismo
e di cooperazione. È la stessa etica che, in tempi passati, ha
consentito a internet (un tipico prodotto «open source») di svilupparsi
così rapidamente e di raggiungere la vastità delle dimensioni attuali.
Eppure il World intellectual property organization, l’organismo delle
Nazioni Unite che si occupa di proprietà intellettuale (www.wipo.int),
condizionato com’è dalle grandi corporations tecnologiche, si rifiuta
di riconoscere l’importanza del software libero (il software realizzato
secondo gli standard aperti) e di promuoverlo presso i paesi più
poveri. Al contrario, non fa che restringere ulteriormente, con
innumerevoli strumenti legali, la circolazione delle conoscenze
informatiche e la possibilità di accesso all’informazione digitale: per
questo motivo, è stato pesantemente criticato da un gruppo di paesi del
Sud (tra cui Brasile, Argentina e Sud Africa) che lo hanno richiamato a
perseguire gli obiettivi di sviluppo umano per i quali è stato fondato.

GianMarco Schiesaro

GianMarco Schiesaro

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