Haiti / Il paese «suicida»

Senza legge: come nel Far West

Storia di ingerenze straniere e falsi messia. Il paese più povero delle Americhe è tornato nell’oblio. Un
governo che tarda ad affermarsi e lo strapotere delle bande armate
rendono la vita impossibile. Riforme radicali di polizia, sistema
giudiziario e rinnovo della classe politica sono necessari. Così come
veri programmi di sviluppo. Mentre un popolo tradito da tutti continua
la sua lenta discesa nel baratro.

Haiti:
un paese «suicida». Così gli esperti di cooperazione internazionale
classificano il piccolo stato caraibico. «Quello che si può tentare,
con gli aiuti, è frenae la lenta inesorabile discesa» confida un
esperto. Uno «stato in fallimento» secondo altri osservatori stranieri,
forse perché mancano alcuni degli elementi stessi costitutivi di uno
stato. Piccolo (poco più grande del Piemonte), ma sovraffollato (quasi
300 abitanti al km quadrato) e con una storia particolarmente
stravagante.
È qui che Cristoforo Colombo approda nel suo primo viaggio verso le
Indie e vi crea l’avamposto europeo nelle Americhe. L’intera isola
diventa spagnola  e i conquistatori ne massacrano gli indigeni
nativi. Nel 1697 la parte occidentale è ceduta alla Francia, che vi
instaura il suo sistema coloniale di sfruttamento. Vi importa centinaia
di migliaia di africani, in catene. Haiti diventa il più importante
produttore di zucchero per il mondo «civilizzato» di allora.
In una notte di agosto del 1791, con una cerimonia segreta sulle
montagne, il sacerdote vudù Boukman scatena l’impressionante rivolta
degli schiavi, che sarà guidata dal capo carismatico Toussaint
Louverture. Con la vittoria sulle truppe napoleoniche del generale
Leclerc, Haiti diventa il primo stato indipendente con popolazione nera
del mondo. È il gennaio 1804.

Ricorsi storici

Duecento anni dopo il popolo haitiano non festeggia: è di nuovo in
rivolta. Questa volta con la delusione e l’amarezza. Contro l’ex
salesiano Jean-Bertrand Aristide, che le comunità di base, soprattutto
della chiesa cattolica legata alla teologia della liberazione, avevano
portato alla presidenza con le prime elezioni democratiche (fine 1990).
Cacciato Duvalier, quattro anni prima, dopo tre decadi di feroce
dittatura, il movimento della società civile è forte e organizzato.
Haiti diventa un simbolo, anche per gli altri paesi latino americani.
Troppo per gli Usa di George Bush padre, che tramite la Cia,
organizzano il colpo di stato del generale Cédras. Altro sangue, ancora
violenza. La parola d’ordine è reprimere il movimento. Oltre 3.000 sono
i morti, molti i leader popolari. A fine ‘94 gli stessi Stati Uniti,
con Clinton, riportano Aristide al potere. L’ex prete è diventato molto
ricco, ha amici influenti tra i democratici Usa, incamera senza rendere
conto ingenti somme di aiuti inteazionali. Milioni di dollari. Quello
che resta degli intellettuali legati alla società civile haitiana
prende le distanze. Il suo entourage diventa composto da ex
duvalieristi, ex putchisti e personaggi di dubbia fama. Il paese
intanto va alla deriva, i poveri sono sempre più poveri. Le bidonville
della capitale Port-au-Prince si ingrossano di disperati. La gente,
soprattutto i contadini (oltre il 70%) sono disorientati. Si dice che
gli haitiani siano un popolo «messianico»: hanno bisogno di un leader
carismatico, un «messia». Aristide, il populista, l’imbonitore, ha
sempre incarnato questo ruolo. Riesce ancora ad alimentare un certo
sostegno con i discorsi. Ma quando questi non bastano più inizia a
distribuire armi e a organizzare bande armate a lui fedeli: nascono le
chiméres (chimere). Intanto si avvicina al narcotraffico: l’isola è
diventata uno dei corridoi preferenziali per la cocaina colombiana.

la «morte» dei diritti

È un periodo oscuro di brogli elettorali, minacce e omicidi politici.
Il 3 aprile del 2000 è assassinato Jean Dominique, decano dei
giornalisti haitiani e combattente per la democrazia. Aveva nel suo
cassetto alcuni dossier scottanti sull’ex salesiano. Il principale
indagato è il senatore Dany Toussaint, del partito di Aristide, suo ex
capo della polizia e sospettato di vari crimini. Quel che resta della
società civile ha un sussulto. La classe politica è all’impasse.
L’opposizione non ha figure di rilievo, ma chiede le dimissioni di
Aristide indicandolo come il responsabile del caos in cui versa il
paese. La comunità internazionale condiziona gli aiuti allo sblocco
della questione elettorale (le elezioni del ‘97 e del 2000 furono
contestate dall’opposizione e dagli osservatori): i rubinetti restano
chiusi.
E arriva il 2004: l’anno del bicentenario dell’indipendenza. All’inizio
di febbraio il malcontento crescente prende la forma dell’insurrezione
armata. Noti personaggi del passato, ex militari, ex golpisti e
squadristi, ma anche ex sostenitori di Aristide, tutti professionisti
della violenza non tardano a prendere la guida dei rivoltosi. Esiste
anche l’opposizione non violenta, delle organizzazioni politiche e
della società civile (riuniti nel Gruppo 184) che manifesta sotto i
tiri dei fucili mitragliatori in mano alle gang di Aristide. Gli Usa di
George W. Bush e la Francia tentano una mediazione: per evitare il
bagno di sangue fanno pressioni sul controverso presidente, affinché
lasci il paese. 
Aristide fugge il 29 febbraio e si instaura un governo di transizione
che porterà alle elezioni (rinviate ben cinque volte) a febbraio 2006.
La comunità internazionale invia un contingente di caschi blu, la
Minustah (Missione per la stabilizzazione di Haiti), inizialmente di
composizione Usa, Canada e Francia e poi sostituita da sudamericani,
sotto il comando brasiliano (circa 7.500 militari e 2.000 poliziotti
del Unpol).
Oggi il presidente è l’agronomo Réné Préval, già primo ministro di Aristide nel 1991, poi presidente dal 1996 al 2001.

Difficile guardare al domani

Secondo Gotson Pierre, giornalista haitiano del sito Alterpresse,
Préval di oggi è diverso dal fantoccio pilotato da Aristide di ieri:
«lo slancio autoritario del primo mandato sembra aver lasciato il posto
a un maggiore spirito di apertura e di consenso. A livello della sua
politica economica, però non sembra ci siano troppi cambiamenti: domina
la visione neoliberale. Il presidente ha già annunciato la
privatizzazione della compagnia telefonica». E i suoi legami con
Aristide? «Durante la campagna elettorale ha mostrato una certa
autonomia, e avrebbe manifestato in privato la sua distanza. In
pubblico, avvalendosi della costituzione che non prevede l’esilio, non
si oppone al ritorno di Aristide, ma neanche a un suo processo.
Nonostante questo, la denuncia contro l’ex presidente depositata presso
il tribunale di Miami dal governo di transizione è stata ora ritirata».

Préval è stato eletto con più del 50% dei voti, il che dimostra che ha
un certo sostegno popolare, «tuttavia la situazione potrebbe degenerare
rapidamente se il governo non otterrà dei risultati concreti nel medio
periodo a livello della sicurezza e a quello socio-economico» continua
il giornalista.
«La situazione è molto complicata – racconta un intellettuale haitiano
che vuole mantenere l’anonimato – c’è innanzitutto l’insicurezza. Ci
sono ancora molte armi in circolazione, quelle che furono distribuite
da Aristide alle bande da lui finanziate. Anche ai bambini. Il paese è
in mano alle gang armate. Alcune sono di origine politica, altre di
delinquenti comuni. Gli Usa hanno rispedito ad Haiti decine di banditi
che erano nelle loro prigioni e che avevano imparato i metodi della
gang da loro». La violenza, che da sempre caratterizza la storia del
popolo haitiano, è oggi ai suoi apici, in un teatro particolarmente
confuso.
Racconta un missionario italiano, da anni nel paese: «La gente vive
nella paura, nonostante lo spiegamento delle forze dell’ordine locali
ed inteazionali (Minustah e Unpol, ndr), anche se ci sono momenti di
tregua. Le bande di ogni tipo, rivali tra loro, hanno armi sofisticate»
.

Tra realtà e leggenda

Le gang armate sono conosciute, hanno capi storici, figure quasi
mitologiche, con storie di vendette, assassini e successioni violente.
Operano in quartieri il cui nome fa tremare. Come Amaral Duclona,
potente capo di una delle bande di Cité Soleil (enorme bidonville della
capitale Port-au-Prince): molto vicino ad Aristide, ha anche supportato
la campagna di Préval. È il successore di Tupac (soprannome ispirato da
un celebre rapper statunitense), ucciso da una banda rivale. La storia
di Tupac è già diventata un film.
Amaral, teoricamente ricercato dalla polizia, guida anche le
manifestazioni di piazza che invocano il ritorno di Aristide, e la
partenza della Minisutah, come nel 9 novembre scorso.
L’«esercito del piccolo macete», della zona Martissant – Carrefour ha
partecipato a due recenti sanguinosi massacri in agosto 2005 e luglio
2006, in scontri con la polizia o altre gang. O ancora l’«esercito
cannibale» che domina la città di Gonaives.
«C’è stata una tregua solo durante le votazioni, imposta da Préval, ma
ora le cose ritornano confuse, anche se i media non ne parlano. I morti
tra le diverse fazioni, forze dell’ordine, cittadini comuni, compresi i
bambini, davvero non si contano. Disordini e blocchi stradali, scioperi
a ripetizione, magazzini chiusi, ambulanti e dettaglianti che si danno
alla fuga, la gente nel panico». Continua il missionario. «Bel Air, nei
pressi della Cattedrale, rue Pavé, Poste-Marchand, (tutte zone centrali
della capitale, ndr) sono covi di banditi, che sparano all’impazzata e
lanciano sassi contro le macchine che si avventurano nei paraggi. Senza
parlare dei cumuli di spazzatura in decomposizione, che tappezzano le
strade di Port-au-Prince, dandone un’immagine deturpata e ributtante».

Quando non sai cosa fare …

Uno dei sistemi utilizzati dalle gang di ogni tipo per finanziarsi è il
rapimento a scopo di estorsione. Fenomeno comparso a fine 2004, conta
decine di vittime tutti i mesi, soprattutto nella capitale. Da un
minimo di 14 persone rapite al mese al picco di 115 dello scorso
agosto, secondo solo alle 241 del dicembre 2005. «Sono comprensibili i
disagi di chi è obbligato a spostarsi in città per acquisti, per
consultazioni o ricoveri in ospedale», dice il missionario.
La paura dei rapimenti, in molti casi anche per motivi politici, sta
causando la fuga di cervelli e la chiusura di esercizi commerciali.
«Molti professionisti (ingegneri, medici, bancari) sono fuggiti in Usa,
Canada, ma anche a Cuba. Molte ditte, imprese hanno chiuso i battenti».
Mentre continua la triste storia dei boat people: «A migliaia i poveri
varcano le frontiere di Haiti per la Repubblica Dominicana e spesso
sono malamente rimpatriati. Mentre altri in battelli di fortuna tentano
di raggiungere la Florida, ma solo pochi sono stati fortunati… ».
Questi fatti hanno un impatto negativo anche sull’economia, come
ricorda l’intellettuale haitiano: «Le casse sono completamente vuote.
Occorrono investimenti per rimettere il paese in piedi. Gli investitori
vedono interessante la possibilità dei bassi salari, ma senza sicurezza
e senza infrastrutture è impossibile lavorare. I rapimenti scoraggiano
ulteriormente. Occorre quindi il disarmo per poter sperare di
sviluppare il paese».
Ad Haiti la maggior parte delle strade sono disastrate (l’Unione
europea ne sta riasfaltando alcune), non ci sono i ponti e manca
l’elettricità perfinonella capitale.

Primi in corruzione

La violenza è alimentata dall’impunità, che è la regola ad Haiti. E
questa è figlia della corruzione. L’Ong Transparency Inteational,
tutti gli anni pubblica la classifica dei paesi del mondo in base alla
corruzione. La classifica del 2006, resa nota a novembre, ha visto
Haiti ultimo classificato su 163 paesi valutati (l’Italia è 45sima),
subito preceduto da Guinea, Iraq e Myanmar a pari merito.
«La corruzione ha impregnato ogni settore socio, politico ed economico
del paese. Il sistema della giustizia è totalmente corrotto. Ecco
perché c’è un ritorno delle esecuzioni sommarie: se un ladro viene
scoperto, è immediatamente ucciso. In caso contrario, se arrestato se
la caverebbe pagando la polizia o il giudice e poi toerebbe a
vendicarsi su chi lo aveva fatto catturare» racconta il nostro
interlocutore.
In un recente rapporto l’Inteational Crisis Group (Icg, ottobre 2006)
esamina la situazione della sicurezza e mette in evidenza le debolezze
dello stato, come la mancanza di autorità e controllo. Raccomanda
nell’immediato una profonda riforma della polizia, con sostituzione di
ufficiali e uomini ai diversi livelli e del sistema giudiziario, per il
quale occorre formare una nuova classe di giudici. Fondamentale è lo
smantellamento delle bande armate e anche il controllo di frontiere e
porti, precisa il rapporto. «Haiti farà un passo avanti solo quando i
cittadini sentiranno una restaurazione dell’autorità dello stato e del
regno della legge nella vita quotidiana» ha dichiarato Mark Schneider,
vice presidente dell’Icg. «Questo esige un repulisti nella polizia,
l’eliminazione della percezione dello stato come sorgente
d’arricchimento personale e la creazione di prospettive per i poveri».
Il rapporto richiama, inoltre, la comunità internazionale a impegnarsi
nel medio e lungo termine ad appoggiare Haiti con investimenti su
educazione, sviluppo rurale e infrastrutture urbane. Ma anche
riforestazione e recupero ambientale sono essenziali.

Armi, rapimenti e … coca

Il tutto si intreccia con il crimine internazionale legato ai traffici.
«C’è la questione della droga. L’entourage di Aristide ne era
largamente coinvolto. Ad esempio il capo della sua guardia
presidenziale, Oriel Jean è oggi in prigione negli Usa per
narcotraffico» ricorda l’intellettuale anonimo. «Gli ingenti proventi
di questo commercio sono il veleno per Haiti. Il paese è un importante
crocevia per la cocaina proveniente dalla Colombia in direzione di Usa
e Canada». È stato stimato che un terzo della cocaina colombiana
destinata agli Usa passi da Haiti, mentre i tre quarti di quella
sequestrata negli aeroporti di Montreal tra il 2000 e il 2004 aveva la
stessa provenienza.
Il traffico divenne importante fin dai tempi del colpo di stato di
Cédras (1991) per continuare a crescere, protetto dall’instabilità
politica, e agevolato dalla «porosità» delle frontiere. I narcos usano
piccoli aerei che dalla Colombia atterrano su piste rudimentali, con la
connivenza di autorità locali e polizia. Anche nei pressi della
capitale c’è una di queste piste. La droga non è consumata in loco,
perché gli haitiani sono troppo poveri, ma il denaro del traffico
alimenta tutto il sistema della corruzione.

«Disarmare o morire»

Il governo di Préval e del primo ministro Jaques-Edouard Alexis tenta
di intervenire, con apparente fermezza, ma troppo timidamente nella
realtà. «Il governo attuale non è in fase con le attese della
popolazione – sostiene Gotson Pierre – riscontriamo piuttosto un certo
lassismo e lentezza. Il perdurare dell’insicurezza e della violenza,
soprattutto a Port-au-Prince, e la gestione esitante, non trasmettono
un segnale positivo». Un programma di disarmo, smobilitazione e
reinserzione (sul modello di quelli attuati nei paesi in guerra) per
gli uomini delle gang è stato lanciato e una commissione nazionale
recentemente istituita. Gli ennesimi piani di ristrutturazione della
polizia e del sistema giudiziario sono in elaborazione, ma devono
essere attuate riforme radicali.
«Usano il bastone e la carota: si danno un’aria di fermezza ma poi
invitano i capi gang al palazzo presidenziale» osserva l’intellettuale.
«Disarmare o morire» aveva lanciato Préval lo scorso agosto sulle onde
radio. In effetti questo è il punto su cui il presidente si è più
investito, coadiuvato da Minsutah e Unpol (polizia internazionale) ma,
finora, senza troppo successo.
E il movimento popolare che era riuscito a liberarsi di Duvalier?
«La società civile ha poca influenza in questo momento. I contadini
sono stati delusi profondamente da Aristide, e non osano dirlo. Allo
stesso tempo la miseria li costringe a impiegare le loro energie più
per sopravvivere, trovare da mangiare, piuttosto che per organizzarsi a
partire da zero. Qualche segnale positivo c’è» continua
l’intellettuale.
«Spero che la società civile possa rimettersi in piedi, adesso è in “ibeazione”».
«Esiste ancora qualche rete, ma gli interventi sociali si manifestano
oggi più sotto la forma di lobbing e non di mobilitazione popolare»
osserva Gotson Pierre.
La chiesa, soprattutto alla base, è rimasta «bruciata» da una scelta,
quella dell’ex sacerdote salesiano, che la storia ha rivelato
fallimentare. «La chiesa haitiana tace. La Conferenza episcopale è
divisa, ancora oggi, tra pro e contro Aristide. Non c’è stato un
pronunciamento a favore delle vittime di sequestri, violenze carnali
alle donne, torture» racconta il missionario. «Nessuna presa di
posizione ufficiale per denunciare le ingiustizie che si perpetrano
continuamente. Un intervento, isolato, da parte del vescovo della
capitale, Mons. Sérge Miot, dopo il sequestro del missionario italiano
Gianfranco Lovera (agosto 2005, ndr), che invitava le autorità a
operare per debellare la violenza, diventata sistema, e la polizia a
intervenire con decisione per fermare i banditi».

Il grande manovratore

La debolezza, o talvolta la connivenza, delle istituzioni statali,
hanno lasciato spazio alle bande armate e alla loro violenza. Molte di
queste sono legate all’ex presidente Aristide, e c’è chi sostiene che
questi riesca a controllarle dal suo esilio dorato in Sud Africa. Molti
temono un suo ritorno, altri, soprattutto le chimères lo 
invocano. L’intellettuale: «Aristide sta cercando di prepararsi il
terreno per tornare. Agisce di nascosto, sotto, sotto. Questo è molto
pericoloso». Gotson Pierre: «Nelle strutture politiche e nello stato ci
sono ancora uomini di Aristide. Il suo partito Fanmi Lavalas pur
minoritario, è rappresentato in parlamento. Penso che non possa avere
un futuro politico ad Haiti, almeno non ufficiale, ma potrebbe
manovrare nelle retrovie».
«Haiti non è uno stato in fallimento, ma uno stato in grande
difficoltà» ha recentemente dichiarato Préval. Potrebbe apparire tale
ai tecnocrati perché è obbligato «a smantellarsi per finire di essere
uno strumento d’esclusione e oppressione». 

Marco Bello

Il volontario racconta …

Ritoo ad Haiti

Dajabon, frontiera nord tra la Repubblica Dominicana e Haïti. Un
placido rivolo separa i due paesi, qualche bambino sgambetta nell’acqua
per riempire le taniche, alcune donne si bagnano, altre fanno il
bucato, e non diresti mai che quel rigagnolo si chiama «Rivière du
Massacre». Il ricordo delle aspre battaglie con cui nel XVII secolo
spagnoli e francesi si contendevano la colonia, è stato sostituito
dalle più recenti centinaia di morti ammazzati o annegati, nella triste
guerra tra poveri tra dominicani e haitiani, in cerca di un posto
migliore in cui vivere.
Carichiamo le valigie su un carretto, unico mezzo per attraversare il
piccolo ponte presidiato dai militari dominicani. Il colore della mia
pelle e il mio passaporto ci salvano da strattoni, schiaffi e pugni che
poliziotti in borghese dispensano a chiunque sia in transito, perché
oltre che pagare il visto bisogna pagare il pizzo o comunque lasciare
qualcosa.
È questa la nostra porta d’ingresso in Haiti, essendo chiuso l’altro
principale passo frontaliero del sud, Malpasse. Ostaggio di una gang
armata che vuole controllare i traffici di chi, doganiere,
contrabbandiere, piccolo commerciante, camionista o conducente di
autobus, con la frontiera sopravvive.

Rieccoci in Haiti, dove le poche ore previste per il viaggio si sono
già trasformate in una settimana di vana attesa alla frontiera chiusa,
e poi in tre giorni di autobus e jeep per percorrere trecento
chilometri. Questo peregrinare è reso meno faticoso dall’ospitalità
straordinaria di chi si fida di te, non perché ti conosce, ma perché
gli fai il nome di un amico comune. Allora ti dà da mangiare, ti mette
una camera a disposizione o ti procura un passaggio in auto.
Dopo colline a perdita d’occhio, finalmente il mare, con la sagoma
soiona della leggendaria isola della Tortuga: è l’inconfondibile baia
di Port-de-Paix. La lontananza anche fisica dalla capitale ha permesso
a questa città di essere un vero «porto di pace», senza i disordini e
le violenze dovuti alle varie crisi politiche. Tranquillità pagata
tuttavia con una totale dimenticanza e abbandono da parte delle
istituzioni centrali e dai vari programmi di sviluppo.
Fondata dai bucanieri, la città non ha perso la tradizionale vocazione
«piratesca» ed è sopravvissuta grazie al contrabbando, alla tratta dei
disperati in partenza verso le Bahamas come boat-people, e ora al
traffico della droga.
Capita così che dove c’erano soltanto vecchie case o baracche troviamo
ora villette. Un po’ ovunque: per costruire hanno mangiato la spiaggia,
scavato le colline. Hanno edificato perfino su uno stretto istmo di
sabbia che divide il mare da una palude, bonificata con
approssimazione. Ogni volta che piove un po’ di più, si intuisce quella
che sarà una strage annunciata.
La popolazione è cresciuta. Molti sono quelli che hanno preferito
ritornare a casa, abbandonando il lavoro o gli studi che avevano
trovato nella capitale Port-au-Prince, divenuta invivibile a causa
delle violenze.
Altri ancora arrivano da Gonaives, altra città del paese politicamente
molto calda e funestata due anni fa da un’inondazione che causò più di
4 mila vittime.

Il quartiere di Myriam sembra essere sempre lo stesso. Soffocata dalle
case, la stessa strada impossibile da percorrere si abbarbica su per la
collina. Dalla terra affiorano i tubi dell’acqua, vecchie scarpe,
rifiuti, copertoni. Sembrano gli stessi di due, quattro, quindici anni
fa.
Le traballanti bancarelle del mercatino, i banchetti per giocare al
lotto, le casette di legno dei piccoli spacci alimentari. La vecchia
carcassa del pullman di Sonson, ancora lì, parcheggiata sul ciglio nel
punto di pendenza massima, sempre ciondolante di bambini giocosi.
I cortili delle case, gli stessi consunti tavoli da domino all’ombra
delle piante, i galli da combattimento legati, i panni stesi sulle
aiuole di piante spinose. La stessa risata fragorosa di Emilién è il
benvenuto del quartiere, e anticipa l’abbraccio di parenti e amici.
Anche i nipotini mi sembrano sempre gli stessi, mi chiedo per un
attimo: non crescono mai? Poi mi rendo conto che non sono più venti, ma
ventiquattro, e quella che pensavo fosse Charlanda in realtà è la
sorellina più piccola… mi ci vuole qualche giorno, e recupero la
dignità di un buon zio che sa riconoscere tutti.

Gli stessi aquiloni ingarbugliati ai fiacchi fili della luce, spesso
inutili. Le serate a raccontarsela tra vicini, dopo l’eterno miracolo
di arrivare alla fine della giornata con poco. Perché se molto è
rimasto uguale, quello che continua a cambiare sono i prezzi,
soprattutto degli alimenti di base: riso e prodotti orticoli stanno
diventando un lusso senza alternativa, e il commercio è limitato dai
costi enormi e dalle difficoltà degli spostamenti.
Passa un funerale: la sfilata di ottoni della banda, uniformi pesanti
sotto il sole, ombrelli, vestiti a balze di organza. Anche questo non è
cambiato. Si muore, tanto, per nulla. O, meglio, non esistono diagnosi
e chi di «guaritore» ha solo il nome è ancora considerato meglio che un
medico.
Per questo molti non ci sono più. Rimane il coraggio e la forza di chi
resiste in un paese dove nulla al momento può far presagire un domani
migliore, se non il fatto di esserci, comunque.

Alessandro Demarchi*

*Volontario ad Haiti dal ‘93 al ‘96 dopo un primo viaggio nel 1991, non
ha mai cessato di seguie le vicende, anche con frequenti visite. Vive
con la moglie, originaria di Port-de-Paix, e due figli a Torino, dove
lavora per una Ong piemontese come esperto di fund raising.

Cronologia essenziale

1492 Cristoforo Colombo sbarca
nel nord ovest dell’isola, vi installa il primo insediamento europeo
del nuovo mondo. Inizia la decimazione della popolazione autoctona, i
Taino. La colonia si chiama Hispaniola.
1697 Con il trattato di Ryswick la Spagna cede alla Francia la parte occidentale dell’isola che prende il nome di Saint Domingue.
1791 Inizia la rivoluzione degli schiavi guidata da Toussaint Louverture.
1804 Proclamazione
d’indipendenza, e sconfitta dell’armata napoleonica. Durante la guerra
muoiono 100 mila ex schiavi e 20 mila francesi. Il Paese prende il nome
di Haiti. La popolazione bianca fugge all’estero.
1915-1934 Occupazione Usa.
1957-1986 Dittatura dei Duvalier: François «Papa Doc» e Jean Claude «Baby Doc» che fuggirà dal paese, a causa del sollevamento popolare.
1986-1990 Periodo di giunte militari e presidenti de facto. Tentativi, falliti, di elezioni.
1990 16 dicembre: elezioni con
osservatori Onu. Vittoria popolare del movimento Lavalas: Jean-Bertrand
Aristide presidente con il 67% dei voti.
1991 30 settembre: dopo soli 7
mesi colpo di stato militare. Il generale Cédras si autonomina
presidente. Aristide in esilio. Oltre 1.500 assassii in una settimana.
Smantellamento del movimento popolare. I militanti di Lavalas sono
costretti alla resistenza passiva e alla clandestinità.
1991-1994 Dittatura militare
capeggiata da Raul Cedras. L’Onu decreta l’embargo verso Haiti.
Aristide è riportato dai marines Usa (20 mila unità) nell’ottobre del
’94.
1995 dicembre: nuove elezioni
e vittoria del candidato del partito Lavalas, Renè Préval. Aristide non
può candidarsi  perché la costituzione non prevede due mandati
consecutivi. Préval resta in carica fino a febbraio 2002.
2001 Aristide diventa, per la seconda volta, presidente della Repubblica.
2004 29 febbraio il presidente
Aristide, a causa delle forti  pressioni intee ed inteazionali
(Francia, Usa, Canada), lascia il potere e parte in esilio, prima in
Centrafrica e poi in Sudafrica.
2004 1 marzo: il Consiglio di
Sicurezza dell’Onu approva l’invio di una forza internazionale (Usa,
Francia e Canada) che verrà rimpiazzata nei mesi successivi dai caschi
blu delle Nazioni Unite (Minustah). 
2004 17 marzo: G. Latortue (ex
ministro degli Affari esteri, 1988) diviene il Primo ministro di un
governo di transizione incaricato di organizzare le elezioni generali.
2004 30 settembre: alcuni
sostenitori dell’ex presidente Aristide reclamano il suo ritorno e
lanciano una serie d’attacchi violenti, sono più di 400 i morti fino al
gennaio 2005.
2005 31 maggio: un attacco nel
centro della capitale, attribuito a partigiani dell’ex presidente
Aristide, fa almeno 10 morti tra la popolazione civile.
2005 ottobre-dicembre: nella capitale drammatica escalation della violenza e dei rapimenti a scopo d’estorsione.
2006 7 febbraio: dopo essere
state rimandate per cinque volte, si svolge il primo tuo delle
elezioni presidenziali e parlamentari. Préval dichiarato vincitore, si
insedia il 14 maggio. A dicembre amministrative e legislative parziali.

Marco Bello