Testimoni del risorto, speranza del mondo

Il convegno ecclesiale di Verona (16-20 ottobre 2006) sul tema «Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo» interpella gli istituti missionari in quanto ne tocca la propria identità di annunciatori di Cristo «nostra speranza». Nata nell’ambito della rivista «Ad Gentes», la seguente riflessione vuole essere uno stimolo offerto da missionari che lavorano per mantenere viva, all’interno della chiesa italiana, una sincera ed effettiva apertura alla missione universale.

Gli istituti missionari che hanno sedi in Italia, pur dipendendo giuridicamente dalla Santa Sede e rimanendo legati a tante chiese locali sparse nel mondo, riaffermano la loro appartenenza alla chiesa italiana nella quale molti di essi hanno avuto origine. Si sentono espressione di questa chiesa fra i popoli per l’annuncio del vangelo. Si rallegrano per il riconoscimento del loro carisma specifico di consacrazione a vita per la missio ad gentes e sono lieti di collaborare in questa missione con tante altre forze della chiesa italiana, che servono l’ad gentes con modalità e carismi loro propri (Cf. Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, n. 10).
Si rallegrano anche per tutto quello che la chiesa che è in Italia fa per la missio ad gentes e si impegnano a collaborare sempre meglio all’animazione missionaria della chiesa italiana, portando il contributo della loro lunga esperienza, della testimonianza di tanti confratelli e consorelle sparsi fra i popoli, della più diretta conoscenza delle giovani chiese con le loro ricchezze di fede e le loro necessità materiali e spirituali.
Prendono giorniosamente atto che è incominciata in Italia, fin dal Convegno di Palermo (1996), la cosiddetta conversione pastorale alla missione, diretta più immediatamente alla «nuova evangelizzazione» nel territorio, ma che non trascura la missio ad gentes e anzi trova in essa – come dicono gli stessi vescovi italiani (Cf. Comunicare il vangelo in un mondo che cambia, n. 32) – il suo costante orizzonte e il suo paradigma per eccellenza. La missione è unica e universale e, pur avendo in diversi contesti modalità e urgenze diverse, si avvantaggia dell’unica passione per la testimonianza della fede e per l’annuncio del vangelo di Gesù Cristo a tutti gli uomini.

Bisogno di conversione e di riforma

Nel prendere parte al «convenire» della chiesa italiana, gli istituti missionari sono consapevoli che devono essi stessi «partire» con una profonda revisione della loro vita personale e istituzionale. A livello personale si parlerà di «conversione» e a livello istituzionale di «riforma». Già dal 1999 si incontrano nei cosiddetti «Forum di Ariccia» per mettere a punto, unitariamente, lo spirito, il senso e le modalità della loro presenza nella chiesa italiana. Nel primo Forum (3-6 febbraio 1999) proposero a se stessi uno stile di presenza qualificato, che rispecchiasse anche in Italia quanto da essi vissuto nei territori lontani:
– missione nella debolezza: sì alla parola di Dio, allo Spirito, alle frontiere, alle periferie, alla precarietà; no a sicurezze, potere, prestigio, strutture pesanti, ecc.;
– missione nella povertà: riesame di opere e strutture; ridistribuzione delle comunità sul territorio nazionale; vicinanza, attenzione e preferenza per i poveri;
– missione nel martirio: serietà, radicalità, carità, dono della vita, continuità di donazione.
Nel secondo Forum (4-8 febbraio 2002) l’attenzione si appuntò sulla capacità di collaborazione degli istituti missionari fra loro e con gli altri soggetti della missione, nonché sulla loro «integrazione» nella chiesa locale in Italia. Si ribadì la fedeltà al carisma specifico («non negoziabile», si disse) dell’ad gentes, ad extra e ad vitam, ma sottolineando nello stesso tempo che i missionari non sono in Italia «di passaggio» o solo per compiti interni agli istituti, ma per una testimonianza e un’azione specificamente loro di «animazione missionaria delle chiese locali». Si disse fra l’altro: «Forse non lo sappiamo, ma abbiamo sulle spalle una grossa responsabilità. Siamo considerati gli esperti dell’annuncio e siamo chiamati ad animare la chiesa locale. Con tanta disinvoltura lo abbiamo fatto e lo facciamo in terre geograficamente considerate di missione. Con altrettanta timidezza, paura e ritrosia ci ritroviamo a farlo con la nostra gente». Essere profetici non significa fare i supplenti.
Oggi in Italia si stanno creando situazioni di missione… La nostra tentazione – e la tentazione della stessa chiesa locale – è di affidare agli «addetti del mestiere» quelle zone e situazioni. Da parte nostra è doveroso privilegiare tali servizi, ma è compito della chiesa locale far fronte a queste realtà, trovare risposte concrete: può certamente attingere dal «libro della missione» (e in questo dobbiamo certamente aiutarla), ma non può delegare ad altri i compiti che spettano ad essa.
Il terzo Forum (31 gennaio-4 febbraio 2005) ha voluto essere anzitutto un momento di «ascolto»: della chiesa locale italiana, della cultura che circola nella società che ci circonda, dei «movimenti» che prendono piede in ordine a un mondo nuovo e diverso. L’ascolto è necessaria premessa alla profezia. Il primo ascolto, infatti, rimane sempre quello del vangelo, che però dobbiamo far risuonare nell’oggi che Dio ci propone in Italia all’inizio di questo terzo millennio.
«Ci siamo sentiti piccoli di fronte a sfide che paiono a prima vista insormontabili, ma questo non ci ha tolto il coraggio di riaffermare la nostra missione di essere lievito, luce e sale, attraverso l’ascolto e la testimonianza profetica: due atteggiamenti nuovi per una società malata di solitudine esistenziale».

Convenire ascoltando

La prima «lezione» che i missionari ricevono dalle giovani chiese è che ogni programmazione ecclesiale, per essere veramente missionaria, deve partire dall’ascolto. Un convegno ecclesiale ha bisogno di un lungo tempo di ascolto per disceere l’oggi di Dio nella storia e udire quello che lo Spirito dice alla chiesa che è in Italia. Per essere un vero convenire della chiesa è necessario che tutte le sue componenti abbiano voce e che le loro attese, le loro esigenze, i loro propositi e le loro speranze costituiscano la trama su cui il convegno si costruisce. Anzi, la chiesa non deve ascoltare solo le proprie componenti, ma nella misura del possibile tutte le componenti della società, anche i cristiani non cattolici, i credenti di altre religioni, i non credenti. Ci pare che nell’Italia di oggi l’urgenza dell’ascolto sia soprattutto rivolta verso coloro – e sono grande maggioranza – che si dicono cristiani ma conservano con la chiesa solo rari momenti di contatto e non pongono più il vangelo a fondamento delle loro scelte.
Possono essere preziosi gli apporti degli esperti delle varie discipline teologiche e delle scienze umane, ma non devono chiudere la strada ai giudizi e ai sentimenti della «base». Lo Spirito si manifesta anzitutto nella voce dei piccoli e dei semplici. Non è cosa nuova, ma è certamente pertinente dire che il metodo del convegno – della sua preparazione, del suo svolgimento, della sua ricezione – ne definisce già gli orientamenti, ne condiziona i contenuti, ne pregiudica in senso positivo o negativo l’efficacia pastorale.
Seguendo l’itinerario di preparazione del convegno, ci poniamo alcune domande: è stato ascoltato a sufficienza il popolo di Dio? È stata ascoltata «la gente», anche quella che si ferma alle porte della chiesa? Sono stati interpellati «gli altri»? Non è necessaria l’unanimità che scende dall’alto, quanto la sinfonia di voci che la Parola illumina e raccoglie efficacemente in unità.

Il tema «speranza»

Si può ben capire come il tema del convegno di Verona sia «congeniale» ai nostri istituti. «Gesù risorto, speranza del mondo» è quanto siamo mandati ad annunciare. Ne siamo «testimoni» anzitutto fra le genti. Riverberiamo quindi sulle nostre chiese di origine – quelle da cui siamo inviati – la forza che i convertiti al vangelo trovano in Gesù Signore per superare difficoltà di vario genere, legate spesso alle situazioni di miseria, di oppressione, di sfruttamento, di emarginazione, di esilio, di persecuzione in cui si trovano i loro gruppi umani e/o le loro chiese.
È ammirevole la fiducia in Dio che i cristiani delle giovani chiese mantengono anche nelle circostanze più dolorose. Una grande fiducia, anche se non illuminata dalla fede nel Risorto, si incontra spesso anche in tanti fedeli di altre religioni e, in genere, nel mondo dei poveri.
In queste situazioni la speranza non può essere annunciata solo nell’orizzonte escatologico. Il Regno futuro è dono che i cristiani attendono con gioia e riconoscenza. Ma c’è una loro precisa responsabilità nel riconoscere il germe del Regno già in questo mondo e nel partecipare al suo dinamismo lottando per la giustizia, per il rispetto dei diritti dell’uomo, per la dignità di ogni persona, per la difesa di ogni forma di vita e per la salvaguardia del creato, in unità di intenti con quanti tendono verso gli stessi obiettivi, insiti nella stessa natura umana e sostenuti anche dal messaggio di molte religioni.
Ci pare che questo «impegno per il Regno che viene» non sia al centro della predicazione della chiesa italiana, così come lo era nella predicazione di Gesù. Se è ammirevole in Italia l’attività del volontariato, specialmente per il concorso dei cristiani, se è diffuso e concreto l’operare della Caritas, ci pare però che si collochino più sul versante dell’assistenza che non su quello di una solidarietà anche politica con i poveri, i disoccupati, gli immigrati, le famiglie numerose, gli sfruttati. Constatando il crescere dei settori deboli della popolazione, ci si aspetterebbe una più convinta mobilitazione della gerarchia cattolica al loro fianco.
Se ci sono dei magnifici esempi di «suscitatori di speranza» – talvolta anche martiri della speranza, come don Pino Puglisi, don Tonino Bello, Annalena Tonelli, e tanti altri – essi sembrano piuttosto marginali rispetto alla chiesa «ufficiale» e sono tardivamente riconosciuti come suoi rappresentanti. Perché la gerarchia ecclesiastica è così reticente rispetto a figure come don Oreste Benzi, Eesto Olivero, don Luigi Ciotti, Francuccio Gesualdi e tanti altri suoi figli fedeli, che raccolgono gli aneliti della popolazione italiana?

L’orizzonte globale

Proprio perché presenti con i loro membri in tante parti del mondo, a contatto con tanti popoli, tante culture, tante religioni, tante travagliate storie, gli istituti missionari sentono l’urgenza che ogni chiesa locale si collochi in quell’orizzonte globale che è il segno più proprio di questo nuovo secolo. Ogni chiesa locale, pur radicata nel territorio e impegnata a testimoniare la fede e annunciare il vangelo al popolo nel quale è inserita, deve avere il mondo negli occhi e nel cuore, perché è mandata «a tutte le genti». In Italia si ha l’impressione di una cultura, di una politica e di un’informazione assai «provinciali».
Vengono ingigantiti i fatti locali e non si presta sufficiente attenzione a eventi globali, quali l’immensa moltitudine e la quotidiana sofferenza dei poveri, la fame, le guerre, le schiavitù, il progressivo degrado del pianeta, gli ingiusti rapporti Nord-Sud, lo sfruttamento dei lavoratori, il livellamento e l’omologazione progressiva delle culture, ecc. Solo quando questi eventi vengono a toccare le abitudini e il benessere del proprio gruppo – come nel caso dell’immigrazione o delle risorse energetiche (petrolio, gas, ecc.) – si prende coscienza di ciò che avviene, ma restando sempre confinati nel proprio «particolare». Sembra che a volte anche la chiesa italiana resti chiusa dentro queste mura. La connotazione di «cattolica» è più un riferimento alla tradizione che non un’assunzione del mandato che il Risorto le ha dato per tutte le genti. Gli istituti missionari sentono la loro responsabilità in questo campo, ma per quanto si sforzino, con la stampa e altri media (Fesmi, Emi, Misna), di aprire gli orizzonti, i loro sforzi non risultano abbastanza efficaci; soprattutto non trovano ascolto proprio in quel mondo «cattolico» (delle parrocchie, delle associazioni) che più dovrebbe essere pervaso dall’ansia dell’universalità.
Occorrerà sviluppare le collaborazioni e trovare le sinergie per sviluppare, sia nella società che nella chiesa, quello spirito di mondialità che da più di 50 anni gli istituti missionari coltivano in Italia e che rappresenta l’antidoto ideale alla globalizzazione di marca neoliberista.

«Il grido dei poveri»

La prima conseguenza di una visione globale a partire dal locale è la presa di coscienza della crescente povertà nel mondo, con 3 miliardi di poveri su 6 miliardi di abitanti del pianeta e con un miliardo e 200 milioni di «poveri assoluti» o schiavi della sopravvivenza (ultimi dati Onu). La vicinanza ai poveri è una necessità per la chiesa, perché solo a partire da essi si ha la percezione autentica del vangelo: «Ai poveri è annunciata la buona novella» (Mt 11, 5). Una chiesa che non ha coscienza della povertà nel mondo e che non sta concretamente dalla parte dei poveri, non è più la chiesa delle beatitudini, la chiesa che segue le orme di Gesù Cristo, così come recita il noto n. 8 della Lumen gentium: «… come Cristo ha compiuto l’opera della redenzione in povertà e nella persecuzione, così la chiesa è chiamata ad incamminarsi per la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Cristo Gesù“ pur essendo di natura divina… spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo” (Fil 2, 6-7) e per noi“ da ricco che era si è fatto povero” (2 Cor 8, 9): così la chiesa, quantunque abbia bisogno di mezzi umani per compiere la sua missione, non è fatta per cercare la gloria terrena, bensì per far conoscere anche con il suo esempio l’umiltà e l’abnegazione».
Il rischio per la chiesa italiana è duplice: che lasci i poveri del suo territorio «fuori dalla porta», perché composta in prevalenza da una classe media volenterosa, ma più che mai pervasa di consumismo e preoccupata del suo fragile benessere; e che dimentichi del tutto – salvo periodiche collette – i tre miliardi di poveri nel mondo. Al grido di tanti bisognosi sul territorio nazionale e nel Sud del mondo si risponde con gesti di una generosità che acquieta le coscienze, ma con poca attenzione al dovere di giustizia. Pare che negli ultimi documenti dell’episcopato italiano la parola «giustizia» risuoni con minore forza. Missione e nuova evangelizzazione passano, anche per la chiesa italiana, attraverso la scelta preferenziale dei poveri, chiamati nelle scelte pastorali a essere soggetti attivi nella società e, se cristiani, nella chiesa.

Missionari di ritorno

La maggior parte dei membri degli istituti missionari che si trovano attualmente in Italia è reduce dalle missioni. Il loro rientro è spesso traumatico. Partiti per «portare la fede della loro terra» ad altre terre, trovano che nel paese «cristiano» da cui sono partiti c’è meno fede, meno speranza e meno amore che nei paesi da cui rientrano. Si trovano immersi in una cultura del consumismo che troppo contrasta con le visioni di miseria e di sofferenza che hanno negli occhi. Meno profonda è l’intensità delle relazioni umane, diversi i ritmi del tempo, poco praticata l’ospitalità; superficiali, rapide e prevalentemente emotive le reazioni ai fatti anche più gravi… Diventa allora difficile per loro riprendere i contatti con «questa» realtà.
Pensano di farsi voce delle giovani chiese nella loro «antica chiesa», ma qui incontrano forse la più forte delusione. Perché di quelle esperienze di grazia sentono che si fa poco conto. Parlano di celebrazioni lunghe e festose, di piccole comunità cristiane o comunità di base, di una ricca manifestazione di carismi, di tanti ministeri esercitati con fervore e responsabilità, di impegno a fianco dei poveri, di lotte per la giustizia e i diritti umani, di fatica e bellezza dell’inculturazione, di severi catecumenati, di sofferenze e martìri di cristiani coerenti… e non trovano eco, come se quella non fosse vita, chiesa e patrimonio di tutta la famiglia dei credenti. «Qui è tutto diverso – si sentono dire -. Tutto questo non serve».

Nuovo modello di chiesa

I «missionari di ritorno» raccontano un nuovo modello di chiesa, che certo non può essere trasportato di peso nel nostro mondo – dove una chiesa dalle antiche radici ha il suo ricco patrimonio di tradizione, di teologia, di pratica pastorale – e tuttavia può offrire molti stimoli al rinnovamento in senso missionario della pastorale. Proviamo a enumerae alcuni.
1. La centralità del primo annuncio. Nelle giovani chiese si ha coscienza che Cristo, crocifisso e risorto, deve essere proclamato «agli altri» come principio di speranza. Si vive la gioia di quanti lo incontrano per la prima volta e trovano in lui la conoscenza del padre e la possibilità di una vita nuova.
2. La ricchezza dei carismi e dei ministeri, che rende sacerdoti, religiosi e laici corresponsabili della vita e della missione della chiesa. Si pensi ai catechisti, agli animatori delle piccole comunità cristiane, alle guide della preghiera. Le chiese dell’Estremo Oriente asiatico enumerano, per esempio, nei loro documenti ben 70 ministeri riconosciuti!
3. La bellezza e vitalità delle «Comunità ecclesiali di base» (America Latina) o «Piccole comunità cristiane» (Africa e Asia), dove il vangelo si coniuga con la vita e si fa esperienza di chiesa come frateità, condivisione, collaborazione, corresponsabilità… Sempre fragili, piccole e disperse, queste comunità rendono più solida la fede di quanti ne fanno parte e proclamano concretamente la risurrezione del Signore.
4. Il distacco dal potere e dalle sicurezze mondane. Non ci sono privilegi da difendere, non c’è ricchezza da mantenere, non c’è (e per fortuna spesso non è possibile!) nessun compromesso antievangelico con i potenti. Chiese deboli e povere, qualche volta anche perseguitate, ripongono la loro unica fiducia nella forza della Parola e dello Spirito. La chiesa istituzione evita intrusioni nel dibattito politico e lascia le scelte concrete al libero confronto delle opinioni e delle valutazioni dei cittadini, conservando così la sua libertà profetica, che diventa quando è necessario – e spesso è purtroppo necessario – ferma denuncia della corruzione, degli sfruttamenti, delle ingiustizie commesse dai pochi potenti contro i tanti deboli. Proprio per questo acquista autorevolezza fra la gente e viene allora chiamata, ma in «seconda istanza», a opera di pacificazione e/o di mediazione politica.
5. La «prossimità» con i poveri e i sofferenti, che sono spesso, come avveniva nella prima chiesa, la maggioranza dei credenti. La chiesa sta di più «tra la gente» e ne condivide spesso la povertà, i disagi, le debolezze.
6. Lo sforzo dell’inculturazione, che obbliga a ripensare l’immutabile messaggio per incarnarlo nella vita e nella cultura propria di un popolo o di un gruppo umano. Cultura che spesso va purificata, ma che pure rappresenta una ricchezza per la fede.
7. La lunga pratica del catecumenato, che prepara gli adulti ad assumere consapevolmente il battesimo e la vita nuova che da esso scaturisce.
8. Il dialogo ecumenico e quello con le altre religioni, che diventa spesso una necessità, in quanto si vive e si opera nello stesso ambito territoriale, ma che proprio per questo è anche uno stimolo a definire la propria identità sulla base originaria della Parola di Dio e non di tradizioni umane.
Affrontando oggi la chiesa di Dio che è in Italia, il passaggio dalla pastorale di conservazione alla pastorale di missione dovrebbe confrontarsi con queste dinamiche delle giovani chiese. Non significa che esse siano modelli da imitare, né che non abbiano in sé debolezze e umane miserie (di cui sono anche loro ricchissime: «Ecclesia semper reformanda»). Significa solo che in esse si sperimenta meglio la freschezza del vangelo, novità di vita e orizzonte di speranza per tutti.

Conclusione

Gli istituti missionari presenti in Italia e parte della chiesa italiana vivono con questa tutte le difficoltà del momento presente:
a) le difficoltà del popolo italiano in un’ora di grande «crisi» (sociale, politica, istituzionale), che è passaggio (pasquale) ad un nuovo modo di vivere la sua appartenenza all’Europa e al mondo, ad una società non più monolitica, ma multietnica, multiculturale, multireligiosa, nel quadro di una globalizzazione che resta inquinata da presupposti ideologici di individualismo, agnosticismo, relativismo e liberismo;
b) le difficoltà della chiesa, che deve conservare la ricchezza della tradizione religiosa del popolo italiano in un quadro completamente mutato. «Comunicare il vangelo in un mondo che cambia» è per questa chiesa un compito inedito. La missione in Italia (ed anche in Europa e in tutto il mondo post-cristiano) è tutta da inventare.
«Esperti di missione fra i popoli non cristiani», i missionari non sono né modelli, né maestri. Possono solo mettere a disposizione la radicalità del loro impegno per il vangelo e quello che apprendono sulle strade del mondo. Lo fanno come umili figli di quella chiesa di Dio che è chiamata a essere testimone del Cristo Risorto in Italia, in Europa e fino ai confini della terra.

Cimi, Suam, Ad Gentes




Al di là dei muri

C’ era una volta un muro, anzi «il muro». Sagomato nel cuore dell’Europa, parte integrante del panorama internazionale della guerra fredda, era il «muro della vergogna» il muro della «cortina di ferro», il muro di Berlino. Sotto certi versi era rassicurante: di qua c’erano i buoni e di là i cattivi, da una parte libero mercato e libertà, dall’altra dittatura e socialismo di stato… Poi nel novembre del 1989 quel muro è caduto e ci siamo sentiti tutti più sollevati, finalmente non c’erano più muri che dividevano il mondo.
Passata la sbornia di discorsi inneggianti alla tale caduta, eccoci a fare i conti con altri muri, che spuntano in varie parti del mondo, senza che nessuno dica niente. È vero che ogni tanto salta fuori qualche articolo o vignetta, che mette alla berlina il muro che in Terra Santa divide gli israeliani dai palestinesi; un’autentica vergogna, che però resta isolata nei commenti della stampa di casa nostra. Nessuno si sogna di mettere in evidenza come gli Stati Uniti, sempre pronti a esportare il loro sistema di vita, stanno erigendo un muro che separerà di netto l’America Wasp (White Anglo Saxon Protestant) dalla meticcia America Latina e dall’invadenza creola. Eppure si tratta di un’opera che arriverà a coprire quasi l’intero confine terrestre con il Messico; sarà lungo circa 3.300 km; verrà dotata di sofisticati sistemi elettronici, cellule fotoelettriche, cavalli di frisia e opportuni fossati in luoghi strategici, per scoraggiare l’immigrazione latinoamericana.
Nel silenzio generale, l’India sta erigendo due muri: uno separerà la sua frontiera sul fronte caldo del Kashmir, conteso allo storico rivale Pakistan; l’altro demarcherà il confine con il Bangladesh. Il Marocco da anni sta erigendo una barriera che perpetuerà l’occupazione del Sahara Occidentale, alla faccia delle prese di posizione dell’Onu sulla legittima sovranità del popolo saharawi. Sempre in Africa, con i soldi della Comunità europea, la Spagna sta fortificando le enclaves di Ceuta e Melilla con muri, reticolati di filo spinato e quant’altro, dato che a Bruxelles esse sono viste come la porta di servizio in cui i disperati del continente nero s’infiltrano nella vecchia Europa. E per restare nel contesto europeo, l’ultimo stato annesso all’UE, l’isola di Cipro, si è portato in dote un muro che la taglia in due, separando la comunità greca da quella turca, alla faccia dell’integrazione dei popoli. E che dire del muro di Belfast, nell’Irlanda del Nord, che separa i quartieri cattolici da quelli protestanti? Anch’esso ormai fa parte del paesaggio della verde Irlanda e più nessuno ci fa caso. Inoltre, vale la pena di ricordare che, a casa nostra, solo qualche anno fa fu abbattuto il muro che separava Gorizia da Nova Gorica.
Se poi consideriamo quello che, più di un muro, è una vera e propria barriera, eredità avvelenata della guerra fredda che taglia in due la Corea del Nord dalla Corea del Sud, ci rendiamo conto che anche di questa divisione si parla poco e, purtroppo, tale forma di separazione tra realtà omogenee fa scuola all’interno di generali prospettive politiche, tendenti sempre più a escludere che accogliere. Così l’Arabia Saudita, ritenuto paese arabo moderato, sta erigendo un muro nel deserto, che marchi la distanza e la differenza dal confinante Yemen, visto come uno stato dove prosperano bande di predoni beduini da cui difendersi. In Sudafrica, abbattuto il regime dell’apartheid, sono tutt’ora presenti nell’urbanistica di Soweto i muri e barriere di filo spinato che delimitavano l’area riservata alla gente di colore. In altre parti del mondo, altri muri sorgono in maniera surrettizia, come quelli nella ex-Jugoslavia tra Serbia, Croazia, Kossovo, Albania.

U no sguardo al passato aiuta a capire come l’ansia di erigere muri non sia tipica dei tempi nostri. I romani tagliarono in due la Britannia con il Vallo di Adriano; l’impero cinese eresse la Grande Muraglia; i francesi la linea Maginot; mura e fortezze medioevali ci rammentano, insieme ai ghetti, come l’erigere muri non sia servito molto a difendersi dai barbari, come pure il rinchiudere gli ebrei in quartieri distinti da quelli cristiani non ha aiutato a trovare punti d’incontro per favorire l’integrazione reciproca.
Oggi accanto a questi muri, ce ne sono altri più subdoli e pericolosi. La scarsa conoscenza degli altri porta a erigere muri interiori di fronte alla presenza di uomini e donne che arrivano da altri paesi e che stanno delineando una società sempre più multiculturale. Cadute le ideologie, ci si è affrettati a creare l’ideologia dello scontro di civiltà tra Occidente e islam, alimentando ansie e paure nell’opinione pubblica, che sono l’autentico brodo di coltura per i germi del più bieco razzismo nostrano. A fronte di queste considerazioni cresce e si fa strada più forte che mai nelle persone di buona volontà il desiderio di un più forte impegno, affinché non sorgano altri muri e si abbattano quelli esistenti; è utopia tutto questo? Noi crediamo di no e, come al suono delle trombe bibliche caddero le mura di Gerico, a maggior ragione crediamo che alla fine anche queste crolleranno.

Mario Bandera




1967-2007, l’attualità della Populorum Progressio

Fa un certo effetto rileggere oggi, a quarant’anni di distanza, l’enciclica Populorum progressio, promulgata da Paolo vi il 26 marzo, domenica di pasqua, del 1967. Essa rappresenta uno dei vertici più alti del magistero della chiesa, per certi versi segna uno spartiacque nel cammino della pastorale universale.
Lo sviluppo integrale dell’uomo, inserito nel più vasto sviluppo dell’umanità, viene indicato da papa Montini come via privilegiata verso la crescita della grande famiglia dei popoli e delle nazioni che abitano la terra e, in modo più specifico, vengono indicati i cammini da percorrere, per costruire questa nuova prospettiva internazionale. Il sollecito papale viene rivolto indistintamente sia alle ricche e opulente nazioni dell’Occidente come alle nazioni appena affrancate dal colonialismo, unitamente ad altre, imbrigliate dai legacci del sottosviluppo: tutte vengono indicate da Paolo vi come artefici di un nuovo cammino, in grado di cambiare il corso della storia.
Lo sviluppo è il vero nome della pace, recita il leit motiv, continuamente ripetuto dall’enciclica; ma accanto a questa felice espressione non mancano indicazioni concretissime perché questo principio, apparentemente astratto e irraggiungibile, si concretizzi nella vita dei cattolici e, più in generale, degli uomini di buona volontà. Paolo vi, difatti, lancia un appello alle coscienze degli abitanti dell’opulento mondo occidentale, che ci sembra opportuno ricordare. Dice papa Montini al numero 47: «È l’uomo (del Primo Mondo) pronto a sostenere col suo denaro le opere e le missioni organizzate in favore dei più poveri? A sopportare maggiori imposizioni affinché i poteri pubblici siano messi in grado di intensificare il loro sforzo per lo sviluppo? A pagare più cari i prodotti importati onde permettere una più giusta remunerazione per il produttore? A lasciare, ove fosse necessario, il proprio paese, se è giovane, per aiutare questa crescita delle giovani nazioni?».

S ono interrogativi di un’attualità sconvolgente, soprattutto se si tiene conto che a tutt’oggi si centellinano gli aiuti destinati allo sviluppo dei paesi poveri. I grandi della terra nei periodici incontri dei vari G7 e G8 (l’ultimo è stato in Germania lo scorso giugno ) si riempiono la bocca con affermazioni solenni di solidarietà verso i paesi emergenti, mentre poi, nel concreto della real-politik dei loro interessi, questi stessi capi di stato chiudono i cordoni della borsa.
A volte assistiamo, scoraggiati, alle uscite estemporanee di una certa classe politica nostrana, in cui si afferma che il non pagare le tasse non è proprio un delitto, anzi è consigliabile a chi vuole arricchirsi; così pure le politiche protezionistiche messe in atto per tutelare i prodotti del Primo Mondo, sono la vera causa dell’impossibilità di tante nazioni dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, di poter competere ad armi pari sul libero mercato internazionale.
Ultimo, il fatto di veder sempre più diminuire la propensione a un impegno di vita al servizio dei fratelli e sorelle più poveri la dice lunga su quanto il liberismo sfrenato sia entrato ormai nell’orizzonte di vita di molti giovani. Come si vede, sono appelli alla coscienza che diventano interrogativi stimolanti ancora oggi: rileggere la Populorum progressio, ma soprattutto per tradurla in scelte concrete di vita, ci sembra un cammino più che mai attuale da percorrere.

Mario Bandera

Mario Bandera




USA contro ONU

Il 7 marzo 2006 il segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan ha rilasciato un importante documento (1), che sarà fondamentale per implementare il prossimo processo di riforma della massima organizzazione internazionale.
Oggigiorno l’Onu sta perseguendo nuovi ed ambiziosi obiettivi, come per esempio quello del «peacekeeping», in una realtà geopolitica totalmente differente da quella del secondo dopoguerra, quando l’Onu fu fondata (1945). Questo documento sottolinea la fondamentale presenza delle Nazioni Unite in paesi in via di sviluppo ed in numerose aree di conflitto.
Il peacekeeping, ovvero le attività di mantenimento della pace, è proprio uno dei programmi che il segretario generale ha maggiormente a cuore e che ha illustrato nel suo documento di riforma.
Al 31 gennaio 2006 il Dipartimento di mantenimento delle operazioni di pace (Dpko) delle Nazioni Unite gestiva 18 missioni di pace, per un bilancio annuale superiore a 5 miliardi di dollari. Una cifra enorme se si pensa che la maggior parte delle Agenzie di cooperazione e sviluppo opera con bilanci sensibilmente inferiori (2). Eppure queste operazioni di pace, nonostante i lodevoli risultati raggiunti in ambienti ostili e pericolosi, sono sotto continua critica da uno dei suoi maggiori contribuenti (almeno teorici), ovvero gli Stati Uniti d’America. Questi infatti criticano fortemente i risultati operativi delle operazioni di peacekeeping e delle Nazioni Unite più in generale.

La volontà politica di ridimensionare, se non addirittura di «liquidare» (come sostengono i più pessimisti), in tempi rapidi l’Onu è evidente, e si è materializzata nell’agosto 2005 con la contestatissima nomina (effettuata direttamente da Bush durante la chiusura estiva del Congresso) (3) del nuovo ambasciatore americano all’Onu, John Bolton, da sempre nemico dell’organizzazione. La serie di proposte contenute nel documento H.R. 2745, relativo all’agenda di lavoro del senato americano nel giugno 2005, mette in discussione la credibilità delle Nazioni Unite, proponendo delle importanti revisioni al suo mandato, nonché sensibili riduzioni del suo bilancio operativo. A questo proposito, ed è triste a dirsi, l’unico paese occidentale che finora ha risposto a questa proposta finanziaria è stata proprio l’Italia. Il nostro paese ha infatti improvvisamente estinto, ad insaputa degli stessi addetti ai lavori (come, per esempio, il rappresentante permanente italiano all’Onu, l’ambasciatore Marcello Spatafora), i finanziamenti di natura temporanea delle principali Agenzie per lo sviluppo delle Nazioni Unite (Who, Unicef, etc.).
La critica e proposta del governo statunitense ha dell’incredibile se si pensa a quanto spende questo governo per sostenere le proprie «operazioni di pace» (in Iraq, in Afghanistan), che in termine tecnico sono chiamate «nation building», ovvero di costruzione di nazioni (termine molto discutibile se si vedono i risultati della politica estera americana degli ultimi 60 anni, ndr). A tutto questo si somma che i dati e le previsioni di micro e macro-economia americana non sono certo confortanti. Il bilancio dello stato è in profondo rosso, ed il suo governo invece di affrontare le vere priorità intee (cioè occupazione, educazione, sanità e pensioni) ha inventato la famosa «guerra preventiva», la quale ha letteralmente dissanguato le casse dello stato. Questa guerra è stata architettata per due finalità, ad immediato ed a lungo termine: rispettivamente quella di dare importantissime commesse (miliardi di dollari) all’industria militare statunitense e quella di preparare il successivo terreno esplorativo per l’industria petrolifera americana.
Per chi, come me, vive negli Stati Uniti è facile rendersi conto, attraverso i mass media, che il paese si considera a tutti gli effetti in guerra, anche se contro un nemico – il terrorismo – non ben identificato ed identificabile.

Conti alla mano, a quanto ammonta il bilancio annuale della difesa americano? Da stime approssimative, il costo annuale è 100 volte superiore a quanto spendono, in un anno, le Nazioni Unite per mantenere le loro 18 operazioni di pace (4).
La notizia allarmante è che la Casa Bianca ha recentemente richiesto un ulteriore aumento (+ 6.9%) del bilancio della difesa, ovviamente a scapito di altri capitoli di amministrazione civile del bilancio dello Stato (5). La richiesta del presente governo Bush è di avere un bilancio per la difesa pari a 439 miliardi di dollari, a cui si devono aggiungere altri 70 miliardi di dollari per il mantenimento delle guerre in Iraq ed Afghanistan.
A questo proposito vorrei raccomandare ai lettori di Missioni Consolata un interessantissimo documentario («Why we fight» di Eugenee Jarecky, 2006) (6), che descrive ed analizza l’incredibile impennata delle spese militari, la cui industria ha strettissimi legami con l’amministrazione Bush. Mi auguro che questo documentario possa essere tradotto e presentato anche in Italia, dove purtroppo una grande parte dell’opinione pubblica, come negli Stati Uniti, non è al corrente di questi fatti.

DI BARBARA MINA

Note:
(1) Vedere: A/60/692; scaricabile dal sito internet delle Nazioni Unite: www.un.org.
(2) Per esempio, il bilancio annuale dell’UNDP (Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite) non supera 900 milioni di dollari.
(3) Agosto 2005.
(4) Queste impiegano circa 80.000 uomini di stati membri e 15.000 funzionari civili Onu.
(5) Fonte: Financial Times, Tuesday February 7, 2006.
(6) Sul sito www.whywefight.com è visibile un trailer molto significativo.

Barbara Mina




Curare ai confini della vita

Che fare quando non si può più arginare la malattia o farla regredire?
In questi casi (in rapida crescita) occorre cercare di controllare i sintomi
e di ridurre la percezione del dolore.

«Nella medicina modea – scrive Giovanni Paolo II – vanno acquistando rilievo particolare le cosiddette cure palliative, destinate a rendere più sopportabile la sofferenza nella fase finale della malattia e ad assicurare al tempo stesso al paziente un adeguato accompagnamento umano» (Evangelium vitae, n.65). Nell’assistere il paziente può giungere il momento in cui dal punto di vista terapeutico non si può più arginare la malattia o farla regredire, e in questa situazione ogni intervento rischia di essere eccessivo, non proporzionato.
Però la medicina anche in queste situazioni ha ancora delle risorse da impiegare e pertanto ha l’obbligo di ricorrervi, nei limiti del possibile, con atti non più rivolti esclusivamente alla guarigione e al prolungamento della vita, ma come un dovere nei confronti del paziente e della sua dignità.
Di fronte a un certo concetto della medicina che in questi casi afferma di non poter fare più nulla, si è fatto riferimento al termine latino pallium, cioè «mantello», volendo significare che anche in questa fase occorre «avvolgere» il malato di tutto l’amore, l’accompagnamento e la cura necessaria.

COSA SONO
LE CURE PALLIATIVE?

Per cure palliative si intendono pertanto quei trattamenti a favore di pazienti affetti da malattia ritenuta inguaribile, finalizzati al controllo dei sintomi più che della patologia di base, per mezzo dell’applicazione di procedure che consentano una migliore qualità di vita per chi soffre.
Secondo i dati registrati dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), nel prossimo futuro sarà sempre più impellente la necessità del ricorso a queste cure, proprio a causa della notevole incidenza di mortalità da cancro (circa 7 milioni di persone all’anno che in previsione verranno raddoppiati), da Aids, da malattie degenerative del sistema nervoso, come la sclerosi multipla e il morbo di Alzheimer.
L’Oms già nel 1990 ne ha dato la seguente definizione: «Le cure palliative sono la continua, attiva, integrale cura del paziente e dei suoi cari ad opera di un team interdisciplinare. L’obiettivo primario delle cure palliative è la più elevata qualità di vita del paziente così come per i suoi cari. Il paziente viene curato da un partner responsabile. La cura palliativa risponde ad esigenze spirituali ed essa dovrebbe estendere questi supporti».
Si può perciò affermare che si tratta di una «cura integrale», che abbraccia cioè tutte le dimensioni (fisica, psichica e spirituale) del malato.
L’équipe deve quindi essere obbligatoriamente multidisciplinare, composta cioè da medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, sacerdoti o operatori pastorali, ma anche volontari. Tutte le figure professionali coinvolte lavorano in sinergia tra loro, si alternano, cercando di venire incontro alle molteplici, articolate e sempre nuove necessità del sofferente.

L’ESPERIENZA
DEGLI «HOSPICES»

L’organizzazione di tali attività avviene sia in strutture specialistiche chiamate «hospices», sia in reparti ospedalieri, sia infine in ambito domiciliare. La promotrice di questa autentica svolta del pensiero medico moderno è stata Cecily Saunders, la quale, prima infermiera e poi medico, nel 1967 poté aprire il St. Christopher’s Hospice a Londra come luogo di cura incentrato sull’assistenza dei malati terminali. L’idea di questo hospice si è rivelata vincente diffondendosi prima negli Usa e poi in Europa.
Importante è stata infine la costituzione di un vero e proprio «Movimento Hospice», differenziato a seconda dei paesi e delle connotazioni religiose. L’obiettivo è l’evoluzione del concetto di «cura palliativa», che ha sviluppato un intento formativo per affrontare la grande tematica della sofferenza e della morte in corsi per operatori sanitari e volontari, nonché la gestione di «unità palliative», sia come strutture simil-ospedaliere che come team operativi, anche in cooperazione con i servizi sanitari nazionali.
A conferma del successo di queste iniziative, negli ultimi anni è stata fondata la «Società europea di cure palliative», che raccoglie le già esistenti società nei diversi paesi del continente.
In Italia, dopo un primo periodo di sospetto nei confronti degli hospices si è avuta una diffusione di questo tipo di medicina, sia a livello ospedaliero, sia a livello domiciliare.

LA TERAPIA DEL DOLORE

Oggi le cure palliative comprendono principalmente:
• la terapia oncologica, cioè l’insieme delle applicazioni delle classiche terapie oncologiche (chirurgia, radioterapia, chemioterapia) destinate a pazienti in cui si ricerca il controllo dei sintomi;
• le cure di supporto, cioè l’uso di analgesici al fine di ridurre o abolire la percezione del dolore; la valutazione nutrizionale e la regolazione idro-elettrolitica; il trattamento delle infezioni opportunistiche; le procedure fisioterapiche di riabilitazione; il sostegno psicologico a cui spetta un posto di particolare rilievo sia per il paziente che per i familiari; la sorveglianza psicologica della équipe degli operatori sanitari, che in questa delicata fase della malattia cronica è fondamentale per l’ottimizzazione terapeutica.
Il controllo del dolore e degli altri sintomi associati, quali la nausea, il vomito, l’astenia, nonché dei problemi psicologici, sociali e spirituali rappresentano comunque il punto focale delle cure palliative, il cui obiettivo primario è quello di garantire la migliore qualità di vita possibile al paziente.
Le cure palliative affermano il valore della vita, considerano la morte come un evento naturale, offrono un sistema di supporto per aiutare il malato a vivere dignitosamente e la famiglia a convivere prima con la malattia e poi con il lutto.
L’etica medica impone di valorizzare le cure palliative. Esse si pongono tra l’accanimento terapeutico e l’eutanasia. Costituiscono la cosiddetta «terza via» da perseguire in modo privilegiato con i malati terminali o comunque cronici. L’impossibilità della guarigione non deve far desistere dalla volontà di curare. Tuttavia, da una medicina ai confini della vita non possono che scaturire inevitabilmente molteplici problematiche bioetiche di non sempre univoca interpretazione e risoluzione.

ESISTONO DEI LIMITI?

I problemi di fondo riguardano da un lato la terapia antalgica, che mira ad eliminare il dolore fisico, percepito come inaccettabile e lesivo della dignità; dall’altro lato vi è lo sforzo di aiutare il malato a trovare un senso alla sofferenza e alla morte.
Le questioni morali inducono a considerare il morente non soltanto dal punto di vista delle sue condizioni fisiche, ma anche come persona con esigenze psicologiche, spirituali e religiose; una prospettiva che non può che rendere maggiore l’attenzione e la capacità di aiuto nei confronti di chi si trova al termine della vita.
In tale contesto sorge, tra gli altri, il problema della liceità del ricorso ai vari tipi di analgesici e sedativi per alleviare il dolore, quando ciò comporta il rischio di accelerare la morte. Se infatti può essere considerato degno di lode chi accetta volontariamente di soffrire rinunciando a interventi antidolorifici per conservare la piena lucidità, tale comportamento non può essere ritenuto doveroso per tutti. Già Pio XII aveva affermato che è lecito sopprimere il dolore per mezzo di narcotici, pur con la conseguenza di limitare la coscienza e di abbreviare la vita, «se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali». In questo caso, infatti, la morte non è voluta o ricercata, nonostante che per motivi ragionevoli se ne corra il rischio: semplicemente si vuole lenire il dolore in maniera efficace, ricorrendo agli analgesici messi a disposizione dalla medicina. Non si può parlare quindi di eutanasia attiva, ma di una cura appropriata e proporzionata ad un quadro clinico grave ed irreversibile.
Tuttavia, «non si deve privare il moribondo della coscienza di sé senza grave motivo»: avvicinandosi alla morte, gli uomini devono essere in grado di poter soddisfare ai loro obblighi morali e familiari e soprattutto «devono potersi preparare con piena coscienza all’incontro definitivo con Dio».

LA NUTRIZIONE E L’IDRATAZIONE

La questione nodale consiste in questo: è sempre necessario nutrire ed idratare il paziente terminale? Da un lato l’alimentazione fa parte dell’assistenza cosiddetta ordinaria, però in un morente la necessità e il desiderio di alimentarsi diminuisce gradualmente fino ad annullarsi.
Il problema è perciò quello della nutrizione e dell’idratazione artificiale, che di per sé è una terapia e richiederebbe pertanto il consenso informato. A tal proposito la «Carta degli operatori sanitari» afferma: «L’alimentazione e l’idratazione, anche artificialmente amministrate, rientrano tra le cure normali dovute sempre all’ammalato quando non risultino gravose per lui: la loro indebita sospensione può avere il significato di vera e propria eutanasia».
La questione oggi è più che mai dibattuta e rimane aperta, prestandosi a diverse interpretazioni, come ha dimostrato il caso di Terry Schiavo negli Stati Uniti.
L’Organizzazione mondiale della sanità, in un documento-manuale del 1998 ha ribadito: «La nutrizione intravenosa è controindicata nei pazienti terminali. Non migliora l’aumento ponderale e non prolunga la vita. La nutrizione enterale ha un ruolo molto limitato nella malattia terminale. Dovrebbe essere usata solo nei pazienti che ne hanno un chiaro beneficio. La nutrizione artificiale non dovrebbe essere usata nei pazienti moribondi». In tali casi si può parlare, non impropriamente, di accanimento terapeutico.

IL DIRITTO ALL’INFORMAZIONE

Una problematica specifica è rappresentata dalla questione se, e in che modo, si deve dire al paziente la verità riguardo alla diagnosi e alla prognosi.
«C’è un diritto della persona ad essere informata sul proprio stato di vita. Questo diritto non viene meno in presenza di diagnosi e prognosi di malattia che porta alla morte, ma trova ulteriori motivazioni» (Carta degli operatori sanitari n.125).
In passato, soprattutto nei paesi latini, si era portati a non dire la verità o a dirla non completamente, per non privare il malato della speranza di guarigione. Oggi invece, mutando il contesto socio-culturale, si è maggiormente propensi a comunicarla, pur valutando attentamente ogni singolo caso.
La sensibilità dell’operatore sanitario e la sua capacità di comunicare e di relazionarsi con il malato ed i suoi cari rappresenta forse la risposta più convincente per risolvere questo eterno dilemma.
Le cure palliative costituiscono un’espressione profonda nel percorso di umanizzazione della medicina, come una risposta alla richiesta drammatica e sempre crescente di eutanasia, che non è altro che sintomo di una società in cui si rimane soli davanti alle domande angoscianti sulla morte e di una scienza non solo troppo tecnologica e avulsa dai veri problemi del malato, ma anche assolutamente priva di autentica relazionalità umana.
L’eutanasia legalizzata è un sistema per sfuggire all’approccio delle cure palliative, che richiedono mezzi economici, personale specializzato, tempo e formazione adeguata. È un modo per non riconoscere che la vita del malato ha un valore fino all’ultimo istante, se sorretta da una presenza umana, motivata, preparata e solidale.
In netta contrapposizione con ogni atto deliberato del medico volto a porre immediatamente fine a una vita, le cure palliative possono aiutare realmente a migliorare le condizioni dei morenti e, alleviando le loro sofferenze, portare ad una drastica riduzione delle richieste di eutanasia.
A tal proposito, l’«Istituto dei tumori» di Milano ha condotto recentemente un’indagine sui malati terminali, che ha evidenziato come dopo un’adeguata terapia antalgica, dalle iniziali 996 richieste di eutanasia, si è passati a cinque sole richieste.
Di fronte al dolore, alla sofferenza e alla morte gli operatori devono essere tutti maggiormente impegnati non solo a garantire «fredde» soluzioni tecniche, ma anche ad instaurare un approfondito rapporto con il malato e con chi lo circonda. È un compito sicuramente gravoso, emotivamente stressante, ma che ripresenta tutto il fascino dell’originario modo di far medicina, che è saper di nuovo stare vicino a chi soffre per lenire il dolore, con tutto il bagaglio tecnico delle più aggiornate conoscenze, ma anche e soprattutto con una piena, ampia e cristiana partecipazione umana.
«Molto spesso – ha scritto Cecily Saunders – si può tradurre la domanda “fatemi morire” con “alleviate il mio dolore e ascoltatemi”. Se soddisfate questi due bisogni, la domanda in genere non sarà ripetuta».

Di Enrico Larghero

Enrico Larghero




In attesa di terapie

Ogni anno la leishmaniosi colpisce due milioni di persone, e ne uccide decine di migliaia.

Una diagnosi rapida, non dolorosa, economica, realizzabile anche nelle zone più sperdute, senza luce elettrica e senza ospedali. Queste le promesse di un nuovo test rapido per la diagnosi della leishmaniosi viscerale (o kala azar), malattia causata da un parassita (leishmania donovani), che infetta ogni anno 500 mila persone e ne uccide 50 mila.
La notizia è arrivata nei primi mesi di quest’anno dall’India, più precisamente dall’Istituto di scienze mediche (All Indian Institute of Medical Sciences): un passo in avanti per una delle quattro forme di leishmaniosi diffuse nel mondo, quella più grave, con una mortalità altissima (85-100%) se non trattata, che scende al 5% se vi è disponibilità di farmaci.

Moscerino pericoloso

La leishmaniosi è una malattia infettiva, causata da un parassita di nome leishmania, trasmesso all’uomo dalla puntura di un moscerino o mosca della sabbia, di cui esistono circa trenta specie. È un insetto di piccole dimensioni, color sabbia appunto, che vive in zone con foreste, in cavee e in tane di roditori di piccole dimensioni.
La leishmaniosi è una zoonosi, cioè si trasmette dall’animale all’uomo: colpisce in particolare cani e roditori, e il trasferimento all’uomo avviene attraverso la puntura della femmina della mosca della sabbia. È anche possibile il passaggio da uomo a uomo, sempre con il tramite della mosca o anche, visto il passaggio del parassita con il sangue, attraverso siringhe contaminate o trasfusioni. Raramente, è possibile la trasmissione dalla madre al feto.

Diversa specie, diversa malattia

Del parassita esistono diverse sottospecie, responsabili di differenti forme della malattia. La forma cutanea, causata dalla leishmania major, presente soprattutto in Africa, Asia ed Europa, è quella più diffusa, caratterizzata da numerose lesioni, anche più di 200 in un solo malato. Le ulcere si presentano sulle parti del corpo esposte, braccia, gambe e volto. Possono guarire spontaneamente nel giro di alcuni mesi, ma possono rimanere cicatrici evidenti, che condizionano la vita di relazione delle persone e sono causa di pregiudizio sociale. Vi è anche una forma cutanea diffusa, in cui le lesioni sono più estese, simili alla lebbra: non guariscono in assenza di trattamento e tendono a riformarsi.
La leishmania brasiliensis è responsabile invece della forma mucocutanea, presente nelle Americhe: in questi casi le ulcere cutanee, anche molto estese, distruggono i tessuti sottostanti, in particolare le mucose di naso, bocca e gola. Anche in questi malati, i danni causati dalla malattia possono portare alla loro emarginazione sociale.
Infine, la forma di leishmaniosi più grave è quella viscerale, causata dalla leishmania donovani. Chiamata anche kala azar, se non viene curata, porta a morte il paziente entro due anni.
Il parassita, in questa forma di leishmaniosi, penetra nei vasi linfatici del paziente, arriva fino alla milza e al fegato, ingrossandoli, causa anemia, perdita di peso e febbri ad andamento irregolare e improvvise.

Due milioni di malati ogni anno

La leishmaniosi è presente in 88 paesi, ma il maggior numero di casi si concentra in poche zone geografiche. Infatti, il 90% dei malati con la forma cutanea si trova in Afghanistan, Algeria, Arabia Saudita, Brasile, Iran, Perù, Siria; il 90% di quelli con la forma mucocutanea in Bolivia, Brasile e Perù; infine il 90% di quelli con la forma viscerale è in Bangladesh, Brasile, India Nepal e Sudan.
Ogni anno vengono registrati circa un milione e mezzo di casi di leishmaniosi cutanea e 500 mila di viscerale, per un totale di circa 2 milioni; i morti sono 59 mila. Complessivamente, le persone che rischiano di ammalarsi sono 350 milioni e al momento si pensa che le persone con il parassita siano 12 milioni.
Ma si tratta di stime: non è nota la reale diffusione della malattia, perché i dati clinici a disposizione sono scarsi. Spesso i pazienti vivono in zone isolate, non raggiungibili facilmente e dove l’accesso alle cure sanitarie è difficile e inadeguato: è troppo il tempo impiegato dai malati con leishmaniosi viscerale per raggiungere un ambulatorio oppure, una volta giunti in ospedale, non vi trovano le medicine necessarie. Molti decidono quindi di non affrontare neppure il viaggio per curarsi: preferiscono morire nella loro casa, nel proprio villaggio. Per questo non vi sono certezze sulla diffusione dell’infezione e sul numero reale di morti.

Leishmaniosi e Aids

Nell’ultimo decennio, fra l’altro, il numero di nuovi casi di leishmaniosi è aumentato. Fra le possibili cause identificate alla base di tale maggiore diffusione del parassita vi è la nascita di nuovi centri abitati, la penetrazione umana nella foresta primaria, la deforestazione, la migrazione dalle campagne verso le città, una veloce e poco pianificata urbanizzazione, la costruzione di dighe e nuovi piani di irrigazione.
Ma un elemento importante è anche la maggiore facilità all’infezione negli abitanti delle zone in cui è diffusa la malattia: il rischio di leishmaniosi aumenta con la malnutrizione e la concomitante presenza di virus dell’Aids, che riduce le difese dell’organismo.
Infatti, la forma più grave di leishmaniosi, quella viscerale, tende a manifestarsi soprattutto nelle persone con le difese immunitarie ridotte a causa dell’Hiv. Si verifica un’alleanza mortale, analogamente a quanto succede con la concomitanza di Hiv e altre malattie infettive, come la tubercolosi: la malattia parassitaria facilita la strada al virus dell’Aids e accelera il decorso dell’infezione. Al tempo stesso, l’Aids aumenta il rischio di prendere la leishmaniosi di 100-1000 volte nelle zone ove il parassita è presente.
I danni prodotti sul sistema immunitario dalle due infezioni, infatti, si sommano, dato che la leishmania e l’Hiv distruggono lo stesso tipo di cellule. Le difese del paziente, di fronte a un’infezione contemporanea, sono ancora più compromesse e la leishmaniosi rappresenta, in diverse zone, la causa principale di morte in pazienti con Aids.

Trattare la forma più grave

Le possibilità terapeutiche, in particolare per la forma più grave, quella viscerale o kala azar, non sono brillanti. I farmaci disponibili sono tossici, costosi o di complessa somministrazione. Il farmaco più utilizzato ha ormai quasi 70 anni e causa effetti collaterali gravi in tre pazienti su dieci, oltre a essere troppo caro per la maggior parte dei malati.
Inoltre, il parassita sta diventando resistente al farmaco, che non riesce più a ucciderlo e a guarire il malato. In India, per esempio, in alcune zone la resistenza arriva al 70%, come dire che il trattamento è inefficace in 7 pazienti su 10.
Vi sono poi altre soluzioni terapeutiche, ma considerate di seconda scelta. Difficile anche la prevenzione, per la quale possono essere utilizzati repellenti e zanzariere trattate con insetticida, mentre sono in corso ricerche per lo sviluppo di un vaccino.
Il quadro non è positivo dunque, e la leishmaniosi viscerale continua a uccidere più di quanto dovrebbe. Nell’attesa di nuovi farmaci, il test proposto dall’Istituto di ricerca indiano, di cui si parlava all’inizio, potrebbe semplificare e anticipare la diagnosi, aumentando, se non altro, il numero di persone che possono essere curate.
Rispetto infatti ai metodi di diagnosi finora a disposizione, dovrebbe essere più rapido (8 minuti), indolore, utilizzabile anche in zone sperdute ed economico: meno di due dollari, un quinto rispetto agli altri. Secondo i ricercatori indiani, il nuovo test sarebbe in grado di scovare il parassita entro 15 giorni dall’infezione, anticipando la diagnosi, dato che i sintomi in genere non compaiono prima di tre mesi.
Viene anche sostenuta un’efficacia del cento per cento nell’identificazione dell’infezione, ma saranno necessarie verifiche sul campo, nei diversi paesi ove la leishmaniosi è presente. Il tempo foirà la risposta.
Intanto, i ricercatori hanno chiesto al ministro della Salute dell’India di includere il nuovo test nel programma di eradicazione entro il 2012 della leishmaniosi e all’Organizzazione mondiale della sanità di utilizzarlo anche in altri Paesi.

Di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




Tra fede dialogica e religioni

La terra brucia e i popoli scrivono con il sangue la loro carta di identità, non nella tessitura di un’autobiografia, ma nella stesura di una controbiografia: io trovo la mia identità nella contrapposizione con la «tua» storia, invece che nel vissuto della «mia» storia.
Di fronte a questa dilagante ondata di violenza che percorre la terra da nord a sud e da est a ovest, nelle megalopoli dei paesi supersviluppati come nelle immense discariche urbane dei paesi sottosviluppati, c’è da chiedersi: «Come mai? Dove ricercare le radici di questi cruenti rigurgiti d’intolleranza e fanatismo? Donde questa sete di sangue e di vendetta, che ristruttura l’uomo moderno sulla fisionomia del vampiro?».
Dopo le grandi guerre, i progrom e gli olocausti dello scorso secolo, dopo i bui e accecanti bagliori atomici di Hiroshima e Nagasaki, credevamo di esserci lasciati alle spalle la lunga, ininterrotta tradizione di violenza che ha caratterizzato la storia dell’uomo sin dall’età della pietra. Avevamo sognato di aver debellato definitivamente la ragione della forza con la forza della ragione, nella convinzione di aver maturato, nella coscienza morale prima che nelle strutture politiche, il salto di qualità agognato dai profeti della nonviolenza e sancito dallo Statuto dell’Onu.
Pensavamo, con il Concilio Vaticano ii e nell’abbraccio ecumenico che ne seguì, di aver liberato le diverse tradizioni morali dall’involucro di aggressività che le aveva contaminate, riconsegnando le religioni alla loro originaria innocenza.
Non avremmo mai immaginato di doverci ritrovare, all’inizio del terzo millennio, con nelle mani niente altro che le ceneri di sogni svaniti. L’«homo absconditus» sognato da Gandhi e cantato dai figli dei fiori, l’«uomo inedito», come amava chiamarlo Eesto Balducci, è rimasto seppellito sotto le macerie delle grandi ideologie e delle calde utopie.

Si è iniziato stupidamente, già negli anni ‘80, in una volgare ondata riduzionistica. A livello filosofico, la grande tradizione del pensiero marxista la si è voluta degradare a semplice «ideologia». Da più parti si è osannato alla morte delle ideologie, dopo i cui funerali si è voluto innalzare sul trono della «ragione» la «leggerezza dell’essere» ed il suo «pensiero debole». Il successivo passo, dal pensiero debole al pensiero unico, non è stato altro che un passaggio logico.
A livello socio-politico, si è voluto far coincidere tutta la ricca esperienza del socialismo nella triste e parziale esperienza del comunismo reale, nella versione sovietica. In questo calderone si è riversato tutto il male possibile e immaginabile, identificando tout-court comunismo-dittatura-gulag. Berlusconi, che continua a suonare i suoi deliri su questa unica corda, non è altro che la deriva populista di questa operazione.
A livello religioso, è stato messo il bavaglio al Concilio, derubricandolo dal calendario della chiesa universale e di quella italiana in particolare. Nella generale indifferenza di molti, le figure più avanzate ed esposte tra i vescovi, sono state sostituite con personaggi grigi e ultraconservatori, «polonizzando» la chiesa e consacrandone le anime più retrive di certi movimenti ecclesiali. Il discorso che si è voluto far passare come «moderno» è stato quello di una religione tutta e solo intimistica, legata a figure problematiche di «santi» quali Padre Pio e Josemarìa Escrivà de Balaguer. I «teocon» e gli «atei devoti» non sono altro che figli legittimi di questa gestazione.
Sarebbe interessante portare avanti, con sistematica puntigliosità e con severità di ricerca e di riflessione, l’approfondimento di questi tre itinerari.
Personalmente non sono un filosofo, né un politico pur seguendo con interesse e la filosofia e la politica. Tuttavia come cristiano e come sacerdote, non posso non rilevare, per tornare alle domande iniziali, come una certa religiosità possa essere essa stessa fattore di violenza nell’attuale contesto storico.

Il noto aforista Jonathan Swift ebbe a scrivere: «Abbiamo abbastanza religione per odiare il prossimo, ma non per amarlo». Gabriel Ringlet, prete belga, rettore dell’Università di Lovanio, gli fa eco: «Esiste, al centro stesso delle religioni, in particolare delle religioni monoteiste, un’aggressività, un orgoglio, un esclusivismo che talvolta danno i brividi!».
Personalmente sono convinto che la religione non riscattata dalla fede è come una mina vagante; la religione, non fermentata dalla fede diventa insolente.
La fede convince dall’interno, la religione costringe dall’esterno. La fede propone, la religione impone. Fede e religione sono tra loro in un rapporto dialettico ad alta tensione che, comunque, va mantenuto, ma sempre in riferimento alla fede, mancando la quale la religione degrada a devozionismo paganeggiante e fanatismo di presunzione.
Nella storia del mondo le religioni sono state spesso specialiste in arroganza, intolleranza e repressione. Nessuna delle grandi religioni è stata totalmente estranea, nemmeno il nostro cristianesimo, a un certo spirito guerriero provocato dalla malattia del dogmatismo e pretesa di imposizione a tutti.
Lo scontro si verifica sempre quando la Verità viene condensata in un libro. È successo con la bibbia, che è stata usata come un’arma; è successo non molto tempo fa con il libretto rosso di Mao; è successo con il Mein Kampf di Hitler, succede con il Corano. Questi non sono che esempi di quello che succede quando si impongono limiti alle verità plurali: sì, perché la Verità è plurale e non monocroma. La Verità è sinfonica, fatta di molte voci che, ascoltate nel dialogo e nel confronto, liberano dalla presunzione spocchiosa della dittatura del pensiero.
Non si dimentichi, poi, che per i cristiani la «Verità» non è un concetto né un’idea, ma una Persona: Gesù di Nazareth, la sua vita, il suo messaggio.
Egli si propone, non s’impone. A coloro che incontrava soleva dire: «Se vuoi…». Nel suo vocabolario non esiste il verbo «devi!».
Rabindranath Tagore, premio Nobel per la letteratura 1913, in un discorso pronunciato a Calcutta nel 1937 ebbe a dire: «Quando la religione ha la pretesa di imporre la sua dottrina all’umanità intera, si degrada a tirannia e diventa una forma di imperialismo».

Di Aldo Antonelli

Aldo Antonelli




Quel mazzolino … di viole

Nel «Rapporto della commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo» (Milano 1988), si legge che ogni essere umano ha il diritto fondamentale di vivere in un ambiente adatto alla sua salute e al suo benessere. Oggi, dopo quasi 20 anni, questo enunciato è avvertito e condiviso da tutti: non solo dagli esperti, ma anche la gente comune è in grado di dire la sua, sulla base di un flusso informativo continuo e mirato.
La crescita demografica, il dato certo che le risorse del pianeta non sono inesauribili, la scarsa attenzione agli eventuali danni d’impatto ambientale rappresentano, in prospettiva, grossi nodi da sciogliere. Specie se ciò che tutti vogliono è un autentico recupero del rapporto con la natura, e non piuttosto il comportarsi come quel personaggio di Milan Kundera che, per non patire gli odori della strada, si teneva costantemente sotto il naso un mazzolino di violette.
Le esigenze della politica e dell’economia, tuttavia, pare vadano in tutt’altra direzione. Nonostante il referendum popolare dell’87, per esempio, sembra che l’Italia torni a guardare al nucleare e l’Enel, grazie alla legge Marzano, acquisterebbe impianti nucleari in Slovacchia per 840 milioni di euro. Cheobyl è archiviato. La risposta a chi obietta è che non si può fermare il tempo, perché il mondo va avanti.
Quello del nucleare è però solo un tassello dell’intero mosaico. Esistono nel nostro paese la questione dei trasporti, il giudizio sugli Ogm (organismi geneticamente modificati), la cementificazione delle coste, l’inquinamento idrico, il problema della produzione e dello smaltimento dei rifiuti.
Una progressiva erosione della sovranità statale, sostiene il sociologo Zygmunt Bauman, non può che determinare la caduta verticale dei più elementari diritti della persona umana. Pertanto, dove e come sviluppare valori che si oppongano ai paradigmi della cultura dominante? Siamo tutti all’interno del processo di globalizzazione e la logica vincente è quella del mercato, per cui il liberismo selvaggio e la cieca fiducia nel progresso danno vita a una sorta di illuminismo tecnologico. I parametri vincenti sono la rendita produttiva e l’utile da ricavare.
Come persone e come cristiani, questo ci sta bene? Non bisogna dimenticare che non esiste un’economia che possa definirsi neutrale e che, dietro ciascuna di essa, si cela sempre e comunque una particolare concezione antropologica.
Nella Sollicitudo rei socialis (1988) Giovanni Paolo ii identifica la «preoccupazione ecologica» con «la maggiore consapevolezza dei limiti delle risorse disponibili, la necessità di rispettare l’integrità e i ritmi della natura e di tenee conto nella programmazione dello sviluppo, invece di sacrificarlo a certe concezioni demagogiche dello stesso» (n. 26).

Nel libro della Genesi, il fatto che il mondo in cui l’uomo è immerso venga definito come «creazione», e non come natura o cosmo, sottolinea decisamente l’immediata relazione che lo unisce al Creatore; una relazione di «dominio» e di «custodia» (Gen 2,15). Il mistero pasquale, cioè la morte e risurrezione di Gesù, instaura anch’esso una nuova forma di alleanza tra Dio e l’uomo e coinvolge l’intera creazione in un processo di liberazione integrale, che è compito dell’uomo portare a termine. Il dove rinnovare i nostri stili di vita, allora, è il nostro quotidiano.
È l’agire di tutti i giorni, in famiglia, sul lavoro, con gli amici. La strada da imboccare è la rinuncia alla moltiplicazione dei bisogni, specie se indotti e non reali. Il risveglio della coscienza deve spingerci a fare nostri e contrapporre, a quelli correnti, parametri diversi: gratuità, solidarietà, rispetto dell’alterità, senso del mistero, apertura al non prevedibile e non programmabile. Questi sentimenti, cosa più importante, non possono essere occasionali, ma devono riuscire a determinare quello che si definisce un cambiamento culturale, una mentalità nuova.
Il come fare equivale a restituire centralità e autorevolezza alla politica, per costruire una vera democrazia economica. Anche le cosiddette catastrofi «naturali» (come tsunami), non sono uguali sul nostro pianeta. Il sisma di Bam, in Iran, del dicembre 2003 ha provocato più di 30 mila morti. Ma tre mesi prima, il 26 settembre 2003, una scossa sismica di 8 gradi della scala Richter, sull’isola di Hokkaido, ha fatto solo qualche ferito e nessun morto. Tremila sono stati i morti per un terremoto in Algeria, il 21 maggio 2003; mentre pochi giorni dopo, un sisma più violento scuoteva tutto il Giappone nord-occidentale senza fare vittime.
Perché tali differenze? Occorrono certamente norme e mezzi per realizzare delle politiche di prevenzione. Ma è indispensabile la volontà politica, al di là dei fiumi d’inchiostro dei rapporti e delle chiacchiere dei summit.
Politicamente, è fondamentale saper distinguere tra crescita e sviluppo: la prima è il puro incremento produttivo; il secondo include ideali e aspirazioni, che hanno a che fare con l’identificazione di una società giusta e una sempre più alta qualità della vita. Omissioni, colpe e volontà sono sempre individuali; ma, senza mettere la testa sotto la sabbia, non si può dimenticare che, a qualunque latitudine, siamo tutti pellegrini verso un mondo nuovo: i cieli nuovi e la nuova terra che ci sono stati promessi.
Collettivamente si può e si deve fare in modo che l’ecologia divenga solidarietà e la moderazione nel consumo condivisione. Altrimenti, come dice la nota scienziata indiana Vandana Shiva, lo tsunami è solo un avvertimento di ciò che succederà se non ci prepariamo, se continuiamo ad agire per il profitto immediato e non guardiamo più avanti.
Ciò che ci deve unire non è il denaro, ma il senso di responsabilità.

Di Marianna Micheluzzi

Marianna Micheluzzi




Verso Nairobi

La signora Wahu Kaara è una delle principali organizzatrici del Fsm
che si terrà a Nairobi (Kenya) a gennaio 2007.
A Bamako ha preso il testimone. Di seguito fa il punto per MC sull’organizzazione.

L’obiettivo del Fsm è quello di mostrare la forza delle organizzazioni di base che sono i veri agenti di trasformazione sociale. Questo non può essere distorto perché i movimenti hanno la loro storia e un impegno per mutare la realtà affinché ci sia giustiza per tutti. Sarà l’occasione per mostrare le nostre lotte globali e celebrarle tra cittadini di tutto il mondo. Mostreremo che non esiste una forza in grado di cambiare il percorso della storia.
L’unicità dell’Africa farà la differenza. Non un continente senza speranza, dilaniato dalle guerre, povero e perso. L’Africa è viva! Rifiutiamo la vittimizzazione. Demistificheremo miti e differenze sulla gente africana.
Mostreremo anche che non siamo solo noi ad avere a che fare con le esigenze della globalizzazione ma siamo tutti cittadini globali.
Con la nostra elasticità e le strade innovative che percorriamo per controbattere le strutture dominanti mostreremo che la questione principale che tutti dobbiamo affrontare è una: distribuzione e gestione delle risorse in equità. Abbiamo quindi bisogno di organizzarci come cittadini utilizzando la nostra diversità come una forza.
A livello pratico stiamo seguendo il modello delle passate edizioni, in termini di pianificazione orizzontale. Cerchiamo di raggiungere più possibili gruppi organizzati e associazioni a livello nazionale e regionale, ma anche di coinvolgere singoli individui impegnati nel cambiamento politico.
La più grossa difficoltà è la ricerca dei fondi. Riceviamo molte offerte e promesse, ma in termini reali stiamo ancora aspettando. Questo rallenta molto il processo e la nostra paura è che i partner vogliano liberare le risorse solo a fine anno, a ridosso del Fsm. Ma sarà tardi, perché molto del lavoro organizzativo va fatto prima. Noi abbiamo già il budget e la pianificazione pronta. Il rischio è che così anche lo spirito dei volontari che animano questa struttura si affievolisca perché non si riescono a realizzare le azioni previste.
La gente e le organizzazioni di base sono la manifestazione dello spirito del Fsm. Questo sarà effettivo se saremo capaci di stimolare continuamente le azioni di queste gruppi inducendoli a fare le loro richieste e a prendere il loro spazio nel Fsm. Le condizioni sono mature.

Di Wahu Kaara da Nairobi

Wahu Kaara




Orgoglio africano

Il personaggio (2): Aminata Traoré

Aminata Traoré è uno dei personaggi storici del Forum Sociale Mondiale. Da Porto Alegre a Mumbai e finalmente qui, nel «suo» Mali. Donna, africana, ex ministro della cultura, Aminata sprigiona una grande energia, e allo stesso tempo ispira saggezza e rispetto. Con la sua associazione Foram, si batte da anni per un’alternativa tutta africana alla globalizzazione e anche per questo è tra gli organizzatori del Fsm policentrico di Bamako. Le abbiamo posto qualche domanda.

Qual è la sua impressione su questo Forum e che lezioni si possono dedurre per la preparazione di quello di Nairobi?
Penso che abbia il merito di essersi svolto, il che è una buona cosa per l’Africa. Ha mostrato che i problemi africani non hanno nulla di così specifico all’Africa nell’epoca della globalizzazione. Il fatto che centinaia di organizzazioni si siano incontrate a Bamako per constatare la stessa devastazione del sistema neoliberale, è una maniera di interpretare la storia e i problemi africani senza discriminazione. Questa porta a far credere che gli africani siano responsabili di tutto quello che viviamo in Africa, e che sia essenzialmente dovuto alla povertà, come se questa fosse generata in modo spontaneo, senza delle precise cause. Possiamo, ad esempio, constatare che i flussi migratori sono le conseguenze degli stati liberali in Europa e del Nord in generale. Penso che il gioco politico debba avere altri contenuti, non solo la questione delle elezioni organizzate bene o male, ma l’occasione di dire che il mondo intero è in fase di ristrutturazione e questo si fa sovente con l’esclusione e a scapito dei popoli.

Pensa che potrete influenzare i decisori africani?
I dirigenti africani sono gli allievi, ma bisogna chiamare in causa i loro maestri. Localmente noi ci battiamo nelle elezioni per i nostri governanti, ma qualsiasi essi siano, hanno sempre una potenza internazionale dietro che chiede loro di mettere in opera una certa politica economica. Dobbiamo quindi batterci su due punti: all’interno per dire ai nostri governi che si sbagliano sulla scelta delle priorità, all’esterno per dire ai dirigenti dei paesi ricchi di agire in modo diverso rispetto ai governi africani altrimenti sono inevitabili questi flussi migratori, causati dalla sofferenza per la miseria nei nostri paesi, creata dalle loro politiche.

Quali sono stati i temi principali di questo Forum?
Tutti i temi. Perché, come un rullo compressore, la globalizzazione ha toccato tutto: agricoltura, commercio, educazione, donne, giovani. Su tutte queste questioni si è discusso. Compresa l’immigrazione. Il Mali è un paese di origine di migranti, e come gli altri paesi limitrofi, è particolarmente toccato dalle politiche migratorie scelte dall’Unione europea. È quindi legittimo che ci appropriamo di questa problematica e la interpretiamo in maniera che non ha nulla a che vedere con l’approccio dell’Europa.

Qualcuno dice che i Forum sono per le élite africane, per i ricchi. Secondo lei è vero?
Mi faccia vedere i ricchi. Io sono originaria di una famiglia povera. Non è perché io scrivo libri o mi esprimo correttamente in francese che sono parte di un’élite. Questo è un approccio miserabilistico all’Africa: si preferisce che gli africani che non sono in grado di esprimersi siano presi in carico dalle istituzioni del Nord, ma quando c’è un africano che sembra conoscere quello di cui parla, lo si chiama ricco.
Abbiamo fatto tutto il possibile per coinvolgere la popolazione: i contadini sono rappresentati, hanno uno spazio tutto per loro, i sindacati pure, i giovani hanno il campo dei giovani, le donne sono mobilitate. È la prima volta che un Forum di questo tipo ha avuto luogo e ha innanzitutto il merito di essere stato realizzato, nonostante le difficoltà. Le persone che sono venute divulgheranno quanto si è detto, e continueremo a batterci. Se si vuole vedere in questo un approccio d’élite, posso dire lo stesso per il movimento del Nord.

Ma chi sono stati i partecipanti?
Molti sono arrivati dall’interno del Mali. L’appoggio dello stato ci ha permesso di far venire delegazioni da tutte le regioni del paese. Altri sono venuti via terra da Niger, Burkina Faso, Guinea, Senegal, Mauritania. Gli occidentali vorrebbero che prendessimo i loro soldi e non quelli dei nostri stati. Ma questi sono i soldi dei contribuenti che pagano le tasse, preferisco prendere queste risorse piuttosto che continuare a dire «grazie» al Nord.
L’apporto dello stato maliano è stato molto importante: 150 milioni di franchi cfa (circa 230 mila euro, ndr.) e tutte le infrastrutture. Senza di esso non ci saremmo riusciti. Le risorse che i partner estei hanno fornito ci hanno permesso di far venire partecipanti da diversi paesi, come dall’Africa dell’Est. L’importanza è anche politica, perché vuol dire che non siamo combattuti, sono pronti ad ascoltarci. In effetti oggi, più che in passato, hanno capito che le nostre critiche sono fondate.

Di Marco Bello

Marco Bello