Alla ricerca della sovranità alimentare

Fsm e mondo contadino

E’ il diritto dei popoli definire cosa mangiano, chi lo produce e come. L’Africa è al 70% agricola, ma i governi non ascoltano i contadini. E le istituzioni inteazionali aprono i mercati africani mentre proteggono quelli dei paesi ricchi. Ma i produttori agricoli si organizzano, a livello mondiale.

BAMAKO. L’aula della Biblioteca Nazionale del Mali è gremita di folla. L’ampio palazzo è sede degli incontri sul tema «Questioni agrarie e contadine». Uno dei più frequentati a vedere il movimento di personaggi in grand boubou e di donne avvolte in panni colorati. L’Africa, e in particolare questa regione, conta tra il 65 e il 70% della popolazione come produttori agricoli. Ma, racconta Njogou Fall alla platea «noi contadini non siamo importanti nelle decisioni sulle politiche agricole, almeno questo è quello che pensano i nostri governi». E continua «dobbiamo interrogarci prima di tutto a livello nazionale nei nostri paesi e rispetto ai nostri governi, sulla maniera con cui portano avanti gli interessi degli africani». Fall, senegalese, corpulento ma gentile, è il presidente del Roppa (la maggiore rete di organizzazioni contadine e di base dell’Africa dell’Ovest). «In secondo luogo, chi decide per noi sono le istituzioni inteazionali». Fall dice che il movimento contadino non è contro l’integrazione regionale, ma che troppo spesso gli organi sovra nazionali (ad esempio Uemoa e Cdeao in Africa dell’Ovest), prendono il sopravvento sulla sovranità dei paesi e foiscono facili alibi ai governi su certe mosse impopolari.
Queste decisioni, prese in sede Omc (Organizzazione mondiale del commercio) fanno gli interessi dei paesi sviluppati: «Si chiede agli africani di aprire i propri mercati mentre ci si protegge il più possibile nei paesi ricchi e si danno pure sovvenzioni. A questo ci dobbiamo opporre, ed è qui che devono intervenire i nostri governi» continua Fall. L’Omc e i ministeri, inoltre, spingono verso l’agricoltura industriale di prodotti per esportazione verso mercati estei, mentre il Roppa promuove l’agricoltura familiare, orientata al soddisfacimento dei bisogni interni.

Assumersi le responsabilità

«Siamo la maggioranza della popolazione in Africa dell’Ovest, perché lasciamo decidere una minoranza delle nostre sorti senza reagire? Dobbiamo capire che la nostra inazione, disorganizzazione e fatalismo giocano contro di noi. La maggior parte delle volte qui in Africa siamo credenti e diamo la responsabilità a Dio di quello che ci capita, ma i problemi sono nostra responsabilità». Il presidente spiega che i contadini costituiscono la maggioranza dell’elettorato di queste nazioni e sono quindi in grado di fare pressioni.

L’Europa e gli Usa proteggono e sovvenzionano le loro agricolture. Perché in Africa Occidentale non si deve proteggere il riso, filiera ad alto potenziale per l’autosufficienza alimentare di questi paesi? «Non potremo competere con l’agricoltura americana o europea, abbiamo bisogno di orientare la nostra produzione verso la domanda intea, i bisogni di sviluppo e di vita migliore degli africani». Concetto, questo, che si riassume nel termine «sovranità alimentare».

Dal locale al globale

Paul Nicholson, rappresenta Via Campesina, la più grossa organizzazione contadina mondiale. «Il nostro è un movimento internazionale nato dal basso, che unisce una molteplicità di anime diverse, per dare una voce ai contadini e ai pescatori, con un carattere politico orizzontale, al contrario di alcune organizzazioni tradizionali gerarchiche o ad altre che ci trattano in modo patealistico». Nicholson spiega che la loro visione e proposta per la società è la sovranità alimentare. Si tratta di un diritto di cittadinanza – non solo contadino quindi – e principio sul quale tutti gli accordi inteazionali dovrebbero basarsi. Il diritto dei popoli a definire queste politiche di accesso alle risorse della terra, acqua, sementi. Il diritto del consumatore a definire cosa mangia, chi lo produce e come lo produce. Tutto questo, ricorda Nicholson, si contrappone alla sempre più forte aggressione al mondo rurale e alle risorse naturali.

Ecco perché sono in aumento le lotte locali che hanno influenza sul globale, magari poco conosciute ma sempre molto criminalizzate, alle quali occorre dare maggiore visibilità. Come ad esempio la lotta sugli Ogm (organismi geneticamente modificati). «Il nostro movimento vuole dare una prospettiva alternativa al modello neoliberista» conclude Nicholson.

Di Marco Bello

PARLA José Bové

José Bové ha lo sguardo soione e fuma la pipa sotto i folti baffi biondi. Si muove da prima donna il leader contadino francese, consapevole di essere uno dei personaggi più noti del Forum. Tranquillo e sempre disponibile, ci racconta i preparativi del Forum sulla sovranità alimentare che Via Campesina sta organizzando, proprio a Bamako per il 2007.

«Per la prima volta che il tema della sovranità alimentare sarà dibattuto a livello mondiale, e non solo, si parlerà dell’alternativa che pone Via Campesina all’Omc. Quando diciamo: l’agricoltura deve uscire dall’Omc è la questione della sovranità alimentare che si pone e il ruolo del mercato rispetto ad essa. Non deve essere il mercato che detta le politiche agricole dei paesi, ma esso deve essere organizzato nel rispetto all’obiettivo centrale dell’agricoltura che è l’alimentazione». Ma perché in Africa? «Perché no? È il continente più attaccato dal dumping (ribasso artificiale dei prezzi per penetrare un mercato, ndr.) dei paesi ricchi. Questo dibattito è più concreto se fatto qui. Il movimento contadino è ben organizzato e porta avanti una lotta importante».

Parlando del Forum sociale di Bamako Bové sottolinea come le organizzazioni africane non sono mai state assenti da queste iniziative, ma andare a Porto Alegre o in India sia molto costoso. Mentre questo incontro ha dimostrato che c’è una vera vitalità dei movimenti sociali africani, di tutta l’Africa. «Questo Forum ha messo in particolare risalto il fatto che il movimento sociale esiste, è forte, capace e agisce concretamente. Le rappresentazioni della società civile devono coalizzarsi per affermare bene la nozione di contropotere che devono avere di fronte a questo processo».

Ad ascoltare tutti questi discorsi, seppur di leader contadini, ma talvolta anche di teorici, nasce spontaneo il dubbio sull’impatto per il contadino africano medio. «La ricaduta concreta è l’insieme dei propositi delle organizzazioni contadine che sono presenti. A partire da questi costruiremo il Forum sulla sovranità alimentare. È un processo in divenire e per raggiungere l’obiettivo di sovranità occorre la riconquista dei mercati locali da parte dei contadini, far uscire l’agricoltura dal sistema dell’Omc e allo stesso tempo la riforma agraria, il controllo delle sementi da parte degli agricoltori. Tutti aspetti che interessano il produttore».

E a chi gli chiede quale spiritualità ha il Forum sociale risponde: «Oggi quello che ci anima qui, è portare avanti dei valori che permettano a ognuno di riconoscersi a partire dalla propria identità per cercare di costruire un mondo più giusto e più solidale».

Marco Bello




Forum Sociale Mondiale 2006: da Bamako a Nairobi

INTRODUZIONE
AFRICANI ED EUROPEI: TUTTI INSIEME PER CINQUE GIORNI

Bamako, polverosa e caotica capitale saheliana. Stretta tra l’altopiano mandingo e il fiume Niger, che scorre tranquillo, in questa stagione, lontana dalle piogge. Città prescelta per ospitare il primo Forum sociale mondiale (Fsm) in terra africana. Forse per la vivacità della sua società civile e dell’associazionismo maliano in genere.
Molti non ci credevano, neppure gli stessi organizzatori. Eppure ce l’hanno fatta: hanno messo in piedi un evento mondiale. Per la prima volta il Consiglio internazionale del Fsm ha deciso per la formula «policentrica». Tre eventi, in tre continenti, quasi contemporaneamente: Bamako (Mali), Caracas (Venezuela) e Karachi (Pakistan). Il primo si è svolto tra il 19 e il 23 gennaio, il secondo la settimana successiva, mentre l’asiatico si è tenuto a fine marzo a causa del terremoto che ha colpito il paese.
Il Fsm è nato a Porto Alegre (Brasile) dove si è svolto nella prima edizione 2001, e nelle successive 2002, 2003 e 2005. Mentre nel 2004 si è tentata la carta asiatica, con il grande successo di Mumbai (India). E ora l’Africa. Ma questa tappa si completerà a gennaio 2007 quando il Fsm – questa volta non policentrico – si svolgerà a Nairobi (Kenya). Ed è infatti un percorso che gli organizzatori africani seguono, da ovest a est, per coinvolgere più popoli africani possibile.
Ai precedenti Forum mondiali la delegazione dall’Africa è stata sempre presente, ma ridotta a causa dei costi. Difficile quindi un coinvolgimento e una ricaduta significativa. Ed è proprio questo uno degli obiettivi dell’evento: raggiungere una più larga fetta di popolazione anche di questi paesi.
Leader contadini, responsabili di associazioni di donne, giovani, sindacati, semplici cittadini venuti da tutto il Mali, ma anche molti dai paesi vicini e alcuni dalle altre aree africane. Tutti hanno riportato nei loro paesi, città, villaggi qualcosa di quanto ascoltato e costruito a Bamako. Al loro fianco molti europei. Bassa invece la partecipazione di asiatici e latino e nord americani, convogliati, piuttosto sugli altri due Forum policentrici.
Quest’anno i problemi non sono stati pochi. Soprattutto logistici e organizzativi. Ma anche finanziari. Gli organizzatori lo ammettono, se ne scusano chiamando in causa il Consiglio internazionale. È stato l’inizio di un cammino, dicono e promettono «a Nairobi sarà tutto migliorato».
La ricchezza tematica invece è stata grande. Come sempre. Molto importante è stato lo spazio preso
dall’immigrazione, migranti e clandestini. Problematica che tocca il nervo scoperto di molte famiglie africane, e segna la grande differenza tra chi sogna la vita in un paese ricco e chi invece già ci sta. Anche tra i partecipanti.

STRADE AFRICANE PER IL FSM

Quasi 20mila persone da 213 paesi. Per incontrarsi in oltre 800 attività tematiche. E progettare insieme, nella diversità, un mondo più equo. Problemi logistici, mancanza di fondi. A Bamako, Mali, sulla strada per Nairobi.

«Il Forum sociale mondiale policentrico di Bamako è stato realizzato, nonostante tutte le paure nutrite dagli stessi attori. Abbiamo dimostrato non solo che siamo capaci di organizzare l’evento ma anche di contribuire sul piano politico nella decisione per il prossimo Forum che si terrà a Nairobi».
Taoufik ben Abdallah, dell’Ong (organizzazione non governativa) Enda Senegal, è tra gli organizzatori del Forum. «Siamo riusciti nella sfida di far crescere la presa di coscienza dei nostri cittadini e della nostra società civile sull’impatto reale del sistema mondiale sulle società africane. Una spinta ad organizzarsi meglio e capire i problemi ai quali siamo confrontati».

Quest’anno il Forum è stato «policentrico» in quanto si è deciso di suddividere le attività in tre luoghi diversi del mondo: Caracas (Venezuela), Karachi (Pakistan) e Bamako (Mali) dal 19 al 23 gennaio. E non si tratta di Forum «regionali», come quello europeo, che si è tenuto ad Atene lo scorso marzo. È stato importante per gli africani, che agli altri Forum hanno sempre partecipato con delegazioni ridotte, soprattutto per difficoltà economiche, dimostrare che la società civile del continente è viva e capace di realizzare un incontro di questo livello.

Yaya Diakité, tra i principali organizzatori assieme a Mamadou Goita, spiega le dimensioni dell’evento. Sono 325 le strutture della società civile maliana che hanno fatto parte del comitato nazionale di organizzazione. Dal movimento contadino, ai sindacati, ong (organizzazioni non governative) nazionali, artigiani, associazioni culturali e sportive. Le attività tematiche previste superano le 800 mentre i partecipanti si valutano tra i 15 e i 20 mila, provenienti da 213 paesi.

«I costi affrontati sono di circa 700 milioni di franchi cfa (oltre un milione di euro, ndr.) e cercheremo di non lasciare debiti» dichiara Yaya parlando del finanziamento dei Forum. Le difficoltà ci sono state, e pochi mesi prima del previsto inizio non c’erano ancora i fondi necessari. La situazione si è sbloccata grazie ad alcuni finanziatori. In particolare la potente Ong Oxfam Olanda (con 230 mila euro) e il governo del Venezuela. Anche lo stato del Mali ha fornito infrastrutture e fondi. Ma «occorre ripensare la strategia di fund raising (raccolta fondi, ndr.) dei Forum» insistono i rappresentanti del comitato.

«Le associazioni maliane che si sono riunite intorno a questo progetto hanno avuto l’audacia di “prendere la coda del leone”. Ma questo non è che l’inizio perché, da noi si dice: “Occorre prendere la gola del leone per vincerlo”. E il popolo maliano ci ha aiutato in questo» continua Yaya.
Una delle questioni fondamentali di questi Forum in Africa, Bamako 2006 e il prossimo Nairobi 2007 è di permettere alle popolazioni africane di conoscere meglio il movimento: «Toiamo a casa dopo aver vissuto un’esperienza nuova ed esaltante. Abbiamo discusso con i popoli dei cinque continenti di tutte le questioni scottanti del momento. Oggi possiamo dire: siamo del mondo» sostiene l’organizzatore.

I POVERI HANNO PARLATO?

Non la pensa proprio così Daoda, venuto a dorso di cammello da Tombouctou. Un viaggio durato sei giorni e finanziato da un’associazione europea per il commercio equo. «Nel Forum si parla di tanta teoria, non della pratica, per i poveri. Tra i maliani ho visto sempre i soliti “ricchi” parlare». Lui, venditore di artigianato nel Nord del paese, ricco non è, ma sembra molto critico sull’evento. Si tratta della questione della reale partecipazione della massa povera, legata alla rappresentatività dei movimenti sociali e le associazioni della loro base.

Mentre a Mumbai (Fsm 2004 in India) importante è stata la partecipazione degli «intoccabili», a Bamako, ampio spazio è stato preso dai migranti e dai rimpatriati da Ceuta e Melilla. I paesi dell’Africa dell’Ovest e in particolare in Mali sono molto toccati dalla questione dell’emigrazione. Le associazioni europee e africane che lavorano sui flussi migratori hanno creato qui una piattaforma Europa – Africa. «Bamako è una tappa importante per la partecipazione: i candidati all’emigrazione, gli espulsi e i sans papier (clandestini nei paesi europei, ndr.) si sono potuti esprimere. Questo è stato già un ottimo risultato – sostiene Aminata Traoré – una pagina che continuerà fino a Nairobi. Mentre i paesi europei stanno elaborando nuove politiche, sempre più restrittive, noi abbiamo 12 mesi per dare voce all’Africa e analizzarle per tentare di influenzare le decisioni, almeno dal lato africano. Occorre una posizione dell’Africa, attualmente inesistente, rispetto ai flussi migratori».

Oltre all’immigrazione molti sono stati i temi trattati: debito e riforma delle istituzioni inteazionali, mass media in Africa e digital devide (divario tecnologico tra paesi ricchi e poveri), sovranità alimentare, cooperazione, acqua, commercio internazionale, guerre e militarizzazioni, ecc. Un importante spazio è stato consacrato alle attività delle donne, mentre il Campo Thomas Sankarà (dal nome del rivoluzionario presidente del Burkina Faso) ha accolto i giovani.

LOGISTICA…COMPLICATA

Purtroppo, non pochi sono stati i disagi dei partecipanti, causati da una organizzazione logistica approssimativa. Scarsa comunicazione sui frequenti cambiamenti di programma, dispersione dei siti, talvolta cattiva assegnazione delle sale, hanno creato frustrazioni. A sopperire alle deficienze della macchina organizzativa maliana è stata la buona volontà delle singole associazioni che hanno preparato gli incontri tematici, alcuni dei quali con successo.

«Ci siamo sentiti soli», si difende Mamdou Goita. «Questo è un Forum mondiale, non regionale. Abbiamo avuto difficoltà enormi a mobilitare gli altri livelli e ci siamo trovati noi comitato nazionale con il Forum sociale africano (Fsa) a preparare un evento mondiale». Goita rimprovera un mancato appoggio del segretariato internazionale del Fsm e un malfunzionamento della struttura di mobilitazione delle risorse economiche, che non ha funzionato. «È una responsabilità collettiva. Se non c’è un impegno di tutti, il Forum scomparirà» minaccia. «A Nairobi organizzeremo un evento molto più grande (non sarà un Forum policentrico, ma sarà unico per tutti i continenti come le passate edizioni, ndr.), e dovremo arrivarci avendo risolto queste contraddizioni».

UN PROCESSO COLLETTIVO …
PERMANENTE

Sull’approccio per il futuro l’intervento di Sergio Haddah, brasiliano, membro del Consiglio internazionale del Forum sociale mondiale: «Siamo troppo concentrati sulla resistenza, ora dobbiamo portarci di più sulle proposte, sulla costruzione della lotta collettiva». E continua: «Stiamo costruendo una nuova maniera di far politica, a partire dalla società civile. Innovativa per la grande diversità della base e per l’approccio non piramidale. Trasformiamo la diversità in reti di contatto, per moltiplicare l’energia nella lotta politica. Il Fsm è uno spazio forte di analisi della realtà per la ricerca di alternative».
Haddah sostiene che il Fsm deve radicalizzare la sua metodologia: «Dobbiamo costruire le tematiche a partire dagli attori sociali: i temi principali sono quelli delle lotte concrete dei movimenti». E suggerisce anche un metodo pratico, per cui i gruppi di lavoro si costituirebbero e lavorerebbero prima del Forum, a distanza, per poi incontrarsi in un momento di rafforzamento e continuare il lavoro in seguito. In modo che «il processo di costruzione collettiva diventi permanente».

Importante è anche rendere visibile questa lotta. Per questo occorre migliorare la comunicazione e gli strumenti interni per scambiare più informazioni tra i movimenti, lavorare con la stampa a diversi livelli.

L’ITALIA A BAMAKO

Andrea Micconi, cornordinatore del Consorzio Ong piemontesi, presente al Forum legge così la partecipazione italiana: «In un Forum africano uno degli obiettivi è promuovere il dialogo tra società civile e autorità istituzionali locali. L’apporto italiano in termini di esperienze di dialogo tra queste parti può essere significativo. Interessante, ad esempio, che la regione Toscana sia al Forum insieme a componenti della propria società civile e, in particolare associazioni di immigrati. Oppure la partecipazione della Rete dei comuni solidali (Recosol, che raggruppa 100 comuni italiani, con sede a Carmagnola) che ha progetti di cooperazione in Mali. Importanti anche le partecipazioni dei sindacati italiani e dell’Arci, sulla tematica dell’immigrazione».

«Il Fsm ha come sfida di creare agenti di trasformazione sociale. E questi non sono una manifestazione di quelli che ne parlano o ne scrivono ma di coloro che vivono nella realtà – urla l’energica Wahu Kaara, tra gli organizzatori del prossimo Fsm – Porteremo questa sfida a Nairobi per recuperare la sovranità della gente, perché quella degli stati non sta più funzionando».

DI MARCO BELLO


Marco Bello




Solidarietà in passerella

Ancora una volta Missioni Consolata dà spazio
alla manifestazione di AfroItalyFashion,
giunta alla sua quinta edizione. Tale iniziativa
va ben al di là di una frivola sfilata di moda: numerose persone, in collaborazione con associazioni italiane e africane, sono coinvolte
in tale manifestazione per fare cultura
e stimolare la solidarietà attraverso lo spettacolo, per poi promuovere progetti di impegno sociale
a favore del continente africano.

È sempre un grande piacere per me parlare di AfroItalyFashion, una manifestazione che seguo da molto tempo come addetto stampa. Seguire i preparativi che cominciano mesi prima, i contatti intercorsi tra gli organizzatori e i vari professionisti che, superati i primi momenti entrano subito nella magica atmosfera di un appuntamento molto atteso.
Per capire meglio quanto lavoro vi è dietro questa manifestazione, cominciamo col dire che AfroItalyFashion è organizzata dalla Associazione Culturale «Abissa» di Torino, di cui è presidente il dott. Diego Cudia, con il fine di sensibilizzare l’opinione pubblica e le persone più abbienti, verso una realtà molto diversa dalla nostra, eppure a noi molto vicina, in termini culturali e geografici.
La produzione esecutiva è affidata all’agenzia Didacus Communication di Milano, che si occupa dei contatti con stilisti italiani e stranieri, con indossatori e indossatrici, artisti e ospiti vari, rapporti con i vari mass media, con professionisti vari. Lo studio Area Fotografica di Torino ha curato i servizi fotografici e video, luci e direzione della fotografia, elementi scenografici e lo studio CD Comunicazione di Torino ha cornordinato i servizi pubblicitari, le sponsorizzazioni e marketing.
Motore della manifestazione è stata soprattutto l’associazione umanitaria Mission Sinan di Cuneo, la quale promuove progetti di cooperazione tra Italia e Africa, come la costruzione e mantenimento di un centro ginecologico moderno ed efficiente in Costa d’Avorio, ricerca fondi in denaro, attrezzature tecnologiche, mezzi per il commercio e persone volonterose affascinate dall’idea di un aiuto concreto al continente africano.
Nomi importanti, quindi, che muovono decine di persone verso una iniziativa che, anno dopo anno, acquista dimensioni sempre maggiori; persone che riescono a supportare una manifestazione che qualcuno ha definito «sincera e pulita», in riferimento all’idea di base: fare cultura e stimolare la solidarietà attraverso lo spettacolo.

Direttore artistico di AfroItalyFashion è il dott. Diego Cudia, che è anche presidente dell’Associazione Culturale «Abissa» (acronimo di Attività sociale, beneficenza, immobiliare, spettacolo, sport, arte). A lui rivolgiamo alcune domande sul significato della manifestazione.

Come si concilia la solidarietà verso un mondo di bisognosi e una manifestazione di moda, musica, spettacolo…?
Ogni anno cresce sempre più il consenso degli stilisti italiani e, soprattutto, stranieri verso la manifestazione AfroItalyFashion; i vari stilisti africani cedono gratuitamente i loro abiti (sopportando le spese di iscrizione, spedizione, assicurazione), questi abiti verranno venduti successivamente e metà del ricavato ritoerà in Africa sotto forma di aiuto verso quelle etnie più disagiate (se non è solidarietà questa…).
E vorrei ringraziare i vari stilisti che hanno partecipato, essi sono: Alfadi (Nigeria), con il suo pret-a-porter tradizionale; Cris Seydou (Mali), con i suoi abiti per il teatro, cinema, come fornitore ufficiale delle divise per le hostess di Air Afrique; Dramé (Costa d’Avorio), con la sua linea di abiti femminili; Fabiene (Costa d’Avorio), giovane stilista di abiti tradizionali da giorno e da sera, da cerimonia; Mirelle (Senegal), specializzata in abiti da matrimonio; Pathé (Burkina Faso), molto conosciuto dai vip tra cui Nelson Mandela.
Accanto a questi stilisti, molti dei quali presenti, il pubblico ha potuto ammirare le stupende creazioni per sposa di Claudio Ambrogio (Boutique sposa di Bene Vagienna, Cuneo), e di giovani creatori di moda italiana, freschi di studi accademici.

E il discorso culturale, l’impegno sociale, dove sono?
Chi assiste alla manifestazione AfroItalyFashion, oltre ad ammirare delle bellissime creazioni di moda multietnica, sente parlare di progetti di cooperazione, costruzione di ospedali e scuole, raccolta di attrezzature professionali, risorse umane operanti in luoghi difficili, malattie e condizioni di vita inconcepibili. I vari ospiti invitati parlano delle loro esperienze passate e presenti, a contatto con una realtà che spesso ci è difficile da immaginare; gli stessi artisti si esibiscono con musiche e brani coreografici, sono testimoni di una situazione di vita non proprio serena e felice. Tutti questi discorsi servono a ricordare che esistono persone che hanno fatto dell’impegno sociale una ragione di vita, che può dare grandi soddisfazioni morali. Discorsi che devono portare tutti alla convinzione che siamo un paese che può fare moltissimo per gli altri, senza grandi sforzi economici e organizzativi; che devono fare riflettere soprattutto i giovani, perché il loro futuro sarà sempre più influenzato dai problemi presenti a livello di politica comunitaria internazionale.

Prima Torino, dove è nata e cresciuta, poi Cuneo, con il pubblico in piazza. Dove sarà il prossimo appuntamento con AfroItalyFashion?
Torino e Cuneo sono le città dove «Abissa» è nata e si è fatta conoscere; era naturale pensare di realizzare la manifestazione prima a Torino (presso il teatro dei missionari della Consolata) poi a Cuneo (piazza Audifreddi); per la prossima edizione stiamo valutando le proposte di alcuni sponsor che la vorrebbero in una città della Lombardia (Brescia o Como), per estendere a un pubblico sempre diverso la conoscenza della nostra associazione e i suoi progetti.

A proposito di progetti, avete in cantiere qualcosa di cui parlare?
Stiamo lavorando alla realizzazione di «Il Canario», un calendario nazionale fotografico a colori, in cui i proprietari di cani possono comperare, per pochi euro, uno dei 288 spazi fotografici a disposizione, manifestando la loro solidarietà attraverso la pubblicazione di una fotografia in compagnia del fidato amico di vita. La somma raccolta con la vendita del calendario, sarà destinata all’acquisto di generi di conforto (alimentari, medicinali, cucce…) per i cani ospitati nei vari canili d’Italia.
A Il Canario aderiscono molti vip e personalità dei più disparati settori sociali, oltre a persone comuni, a riprova che l’amore di un cane verso l’uomo non è vincolato alla sua condizione umana, ma libero e sincero.

Di Dino Sassi

Per informazioni: Associazione Culturale Abissa onlus – V. Lancia 121/F – 10141 Torino – Tel 339.3701387.
Per Il Canario: Area Fotografica – Tel 011.704264.

Dino Sassi




La parabola del «figliol prodigo»

Un midrash di Geremia 31? (3)

«Dopo il mio smarrimento, mi sono pentito… Mi sono vergognato e ne provo confusione» (Ger 31,19)
«Allora rientrò in se stesso e disse: … Mi leverò e andrò da mio padre» (Lc 15,17-18).

Mentre Marco parla ai catecumeni che per la prima volta incontrano Gesù, Matteo ai catechisti che educano alla fede e Giovanni ai contemplativi della «Gloria», Luca scrive il suo vangelo come una catechesi per i discepoli, coloro che dal catecumenato sono passati alla scelta di testimoni del Risorto. Non c’è fede senza imitazione.

IMITAZIONE DI DIO

I l capitolo 15 di Lc è una proposta, descrizione di una vocazione: con le due parabole del pastore più la donna (vv. 4-10) e del padre che accoglie il figlio, i due figli (vv. 11-32), Gesù «chiama» i suoi uditori a imitare il comportamento di Dio e fae il fondamento del proprio. Tutto il vangelo di Lc ruota attorno all’idea del discepolo che segue il Maestro. Nessuno può vedere Dio (1Gv 4,12), ma ognuno può renderlo visibile vivendone il comportamento negli atteggiamenti e nello stile del cuore e della vita.
Matteo ci aveva prospettato la perfezione di Dio come orizzonte del vivere cristiano e Dio non è una qualsiasi mèta morale o ascetica, ma è la sua stessa natura che è sorgente e roccia della vita di chi crede: «Siate voi perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (5,48).
Lc fa un passo avanti, definendo il «discepolo» di Gesù come colui che è chiamato a vivere la sua vita come espressione visibile di quella di Dio. L’atteggiamento dell’uomo/pastore (completato dalla figura della donna) e quello del padre nei confronti del figlio minore (e anche del figlio maggiore) non sono un gesto sporadico di accoglienza, ma l’essenza stessa della natura di Dio. O Dio agisce come il pastore/donna e il padre dei due figli o non è Dio. O i credenti «imitano» nella loro esistenza il Dio che fa festa «per un solo peccatore che si converte» (v. 7. 10) o non sono credenti in Gesù Cristo. Potranno forse essere religiosi, ma non saranno mai credenti nel Dio di Gesù Cristo.
Lc 15 descrive e definisce la natura intima di Dio verso i peccatori, coloro che sono già morti perché esclusi dalla benedizione della toràh e dal vivere civile. Sono condannati a morte che camminano. Questa attitudine divina si chiama misericordia nel senso etimologico ebraico di generare di nuovo.

L’ANNO DI GRAZIE E DI VENDETTA

Lc fa iniziare il ministero di Gesù nella sinagoga di Cafaao con una citazione di Isaia, da cui però omette volutamente parte di un versetto: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore. Poi arrotolò il volume, lo consegnò all’inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. Allora cominciò a dire: “Oggi si è adempiuta questa scrittura che avete udita con i vostri orecchi”» (Lc 4,18-21; cf Is 61,1-2).
La citazione di Lc è molto importante non solo per quello che dice, ma specialmente per quello che non dice. Il v. 2 di Isaia (= v. 19 di Lc), infatti, dice testualmente «a promulgare l’anno di misericordia del Signore, un giorno di vendetta per il nostro Dio». Lc omette la seconda parte del versetto (un giorno di vendetta per il nostro Dio), per evidenziare l’atteggiamento favorevole con cui Dio in Gesù Cristo viene incontro agli esclusi dalla mensa della pienezza della vita.
Il primo atto pubblico di Gesù è un discorso programmatico di misericordia verso coloro che la società, religione, potere e perbenismo, anche in nome di Dio, giudicano feccia e spazzatura del mondo. Il mondo di oggi parlerebbe di perdenti per niente furbi.

LA MISERICORDIA COME SPERANZA DI VITA

Lc 15 descrive le due parabole (più le due aggiunte) come l’attuazione nella storia della chiesa del progetto programmatico di Dio, centrato su un nuovo ordine di giustizia. La misericordia è il nome nuovo della giustizia di Dio (Sal 33/32,5; 36/35,11); essa segna tutta la vita e il vangelo di Gesù:
– Gesù perdona e accoglie i peccatori (Lc 7,36-50: la peccatrice in casa del fariseo Simone; 22,48.61: Giuda e Pietro; 23,34. 43: i suoi crocifissori e il ladrone morente);
– Gesù accoglie poveri ed emarginati (Lc 6,20-24: beatitudini; 8,2-3: donne indemoniate; 10,30-35: il povero viandante soccorso dal samaritano; 11,14: il muto indemoniato; 13,12: la donna ricurva; 18,22: il ricco invitato a dare tutto ai poveri; 19,9: Zaccheo);
– Gesù accoglie le donne, emarginate, disprezzate (Lc 7,1∑-15.36-50; 8,2-3; 10,38-42; 13,10-17; 18,1-5; 23,27-28).
– Gesù accoglie i bambini e li presenta come modello (Lc 9,48; 18,15-17).
La vita di Gesù è una esemplare imitazione del Padre: non frequenta i salotti buoni della società del suo tempo, anche se accetta gli inviti dei ricchi, non per assecondarli nella loro ingiusta ricchezza (Lc 16,9-11), ma per proporre loro il cambiamento della vita (19,2-9: Zaccheo, il capo dei pubblicani; 7, 36-50: Simone il fariseo). Lui che non esita a svuotarsi di sé (Fil 2,7), dedica la sua vita e insegnamento a tutti coloro che la società del tempo giudica insalvabili, perduti, scomunicati, impuri.
Al tempo di Gesù, gli stessi farisei, che pure gli erano vicini, ritenevano che il popolo non potesse salvarsi perché la maggior parte della gente semplice era incapace di osservare tutti i 613 precetti prescritti dalla tradizione scritta e orale. In questo ambiente di disperazione diffusa e collettiva, Gesù si butta nella mischia della vita e si sporca non solo le mani e i piedi con le malattie e l’impurità rituale, ma si tuffa nell’orrido della vita, percorre i bassi della morale, penetra nei tuguri dell’indegnità, mangia con i contaminati, diventa impuro egli stesso, si lascia ungere dalle prostitute, si scontra con l’ipocrisia di una religione di facciata, fino a diventare «maledizione», per riscattare i maledetti dalla toràh e dalle convenienze sociali e religiose degli uomini (cf Gal 3,13).

Lc 15 UN «MIDRASH»?

Per trasmettere questo messaggio, Lc struttura il cap. 15 del vangelo come un commento al capitolo 31 del profeta Geremia, vissuto nel sec. vii a.C. e noto per la sua delicatezza d’animo e per essere stato la figura che ha ispirato in parte la vicenda del Servo di Yhwh descritta da Isaia (42,1-4; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12). Gesù non rompe con la tradizione biblica, ma la riporta alla sua genuina interpretazione.
Lc 15 ha solo un parziale parallelo in Mt, che riporta solo la parabola del pastore che va in cerca della pecora smarrita (18,12-24). La parabola della donna con la dramma e quella del padre con i due figli sono esclusivi di Lc, ma non sono «invenzione» lucana, perché l’evangelista s’inserisce nella più ampia strategia della alleanza nuova, preannunciata da Geremia 31, a cui Gesù ha dato un disegno e una prospettiva definitivi: la «misericordia» come cifra del regno di Dio che Cristo inaugura, rivelando il volto del Padre (Gv 1,18).
Leggendo l’AT i primi cristiani annotavano in margine riferimenti alla vita di Gesù e al suo insegnamento e applicavano le conoscenze e i metodi usati dall’esegesi giudaica. Uno di questi metodi è il «midrash», che in parole semplici si può definire: il metodo che spiega la scrittura con la scrittura.
In ebraico midrash (plurale midrashim) deriva dal verbo daràsh, che nell’AT e a Qumrân significa ricercare, scrutare, esaminare, studiare. La tradizione rabbinica poi l’ha utilizzato come metodo d’interpretazione della scrittura: si parte dal senso letterale per giungere a quello profondo e nascosto per attualizzarlo, adattandolo ai bisogni nuovi e trae applicazioni pratiche per la vita.
In altre parole, si legge la sacra scrittura alla luce della situazione nuova che si viene a creare attraverso il richiamo di una parola, di un detto.
Lc 15 è dunque un midrash di Ger 31 o, se si vuole, una omelia che commenta il testo profetico. La comunità cristiana delle origini prima e Lc successivamente hanno riletto il capitolo 31 del profeta Geremia con gli occhi fissi su Gesù, tanto che l’evangelista nel redigere il capitolo, ha mantenuto lo stesso ordine dei personaggi come si trovano nel profeta: un pastore, una donna, un padre con un figlio. Per potersi rendere pienamente conto di quanto profondo e attualizzante sia il rapporto tra Lc 15 e Ger 31, è necessario leggere il testo del profeta Geremia e quello di Lc in sinossi, cioè in modo speculare, come riportato di seguito.

IL PASTORE OVVERO LA GIOIA DEI RADUNATI

Ger 31,10-14 presenta il Signore come un pastore premuroso alla ricerca delle pecore «disperse», per radunarle in un solo ovile con un cambiamento radicale della situazione: il lutto è cambiato in gioia e tutti partecipano al nuovo «Eden» (Ger 31,12).
Ispirandosi a questo testo Lc 15,4-7 parla di un pastore che va alla ricerca di una pecora perduta, per riportarla nel gregge messa al sicuro. Nel profeta e in Lc esplode la gioia dei radunati (Ger 31,12) e del pastore che festeggia la salvezza della pecora ritrovata e l’unità del suo gregge. Ecco i due testi a confronto:

UNA MADRE PIANGE, UNA DONNA GIOISCE

Il profeta parla della matriarca Rachele che piange i suoi figli perduti come esuli in terra d’esilio, dove moriranno. Il disegno di Dio, però, non è questo: i figli dispersi ritoeranno e compiranno così la speranza della madre: rivederli di nuovo dentro i confini della casa/Israele. L’immagine di afflizione disperata diventa in Lc la donna che perde un «tesoro», ma non dispera di ritrovarlo fino a quando non lo avrà trovato.

DUE FIGLI PER UN PADRE

Il profeta Geremia parla di Efraim, il figlio minore di Giuseppe e Asenèt, sua sposa egiziana (Gen 41,52; 46,20; Nu 26,28). Efraim riceve la primogenitura al posto del fratello maggiore Manasse (Gen 48,1-22, specialmente vv. 14.17-19). Questo procedimento secondo cui il figlio minore subentra al fratello maggiore, ribaltando i diritti naturali della primogenitura, è una costante nella bibbia, da formae una ossatura (esamineremo questo aspetto più avanti, nel commento della parabola del padre e dei due figli). Inoltre Efraim dichiara il suo smarrimento e il desiderio di ritornare, pieno di vergogna e confusione. A tutto ciò Dio-Padre risponde con accenti di tenerezza, dichiarandolo non solo «figlio prediletto» (v. 20), ma evidenziando la commozione delle sue viscere.
Allo stesso modo il figlio minore della parabola lucana si pente, si vergogna e ritorna alla casa patea, mentre il padre, alla vista del figlio ancora lontano, sente dentro di sé lo scuotimento delle viscere che quel figlio hanno generato (v. 20b).

In Geremia la conclusione di questo nuovo modo di agire di Dio porta a una alleanza nuova (Ger 31,31), perché non più scritta sulla freddezza della pietra, ma dentro il calore del cuore, l’unico che sappia cogliere la novità della vita e l’aspetto sponsale dell’amore: «Io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo» (Ger 31,33); un amore generante e liberante che non solo dà la vita, ma la ridona anche a coloro che l’hanno perduta, perché l’amore è generativo o è solo una mano di vernice buonista che oggi c’è e domani scompare:
«Ecco verranno giorni – dice il Signore – nei quali con la casa di Israele e con la casa di Giuda io concluderò una alleanza nuova. Non come l’alleanza che ho conclusa con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d’Egitto, una alleanza che essi hanno violato, benché io fossi loro Signore. Parola del Signore. Questa sarà l’alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato» (Ger 31,31-34).
Lc per spiegarci l’agire di Dio come è descritto in Ger 31 e per prospettarci che anche noi siamo parte della predilezione di Dio, qualunque sia lo stato della nostra condizione, ci ha regalato il capitolo 15 del suo vangelo, la perla del NT, il monumento al Dio giusto perché ama.

Ger 31,10-14

10bChi ha disperso Israele lo raduna e lo custodisce come un pastore il suo gregge, 11perché il Signore ha redento Giacobbe, lo ha riscattato dalle mani del più forte di lui.

12Verranno e canteranno inni sull’altura di Sion… Essi saranno come un giardino irrigato, non languiranno più. 13Allora si allieterà la vergine della danza; i giovani e i vecchi giorniranno.

Io cambierò il loro lutto in gioia, li consolerò e li renderò felici, senza afflizioni.
14Sazierò di delizie l’anima dei sacerdoti e il mio popolo abbonderà dei miei beni.

Lc 15,4-7

4Quale uomo di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?

5Ritrovatala, se la carica sulle sue spalle tutto contento, 6va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: «Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la mia pecora perduta».

7Io vi dico che così vi sarà gioia in cielo per un solo peccatore che si converte, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.

Ger 31,15-17

15Una voce si ode da Rama, lamento e pianto amaro: Rachele piange i suoi figli, rifiuta d’essere consolata perché non sono più.

16Dice il Signore: «Trattieni la voce dal pianto, i tuoi occhi dal versare lacrime, perché c’è un compenso per le tue pene;

essi toeranno dal paese nemico.

17C’è una speranza per la tua discendenza: i tuoi figli ritoeranno entro i loro confini».

Lc 15 8-10

8 Oppure quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova? 9 E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine dicendo:

«Rallegratevi con me,

perché ho ritrovato la dramma perduta».

10 Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte.

Ger 31,15-17

18Ho udito Efraim rammaricarsi: Tu mi hai castigato e io ho subito il castigo come un giovenco non domato. Fammi ritornare e io ritoerò, perché tu sei il Signore mio Dio.

19Dopo il mio smarrimento, mi sono pentito; dopo essermi ravveduto, mi sono battuto l’anca. Mi sono vergognato e ne provo confusione, perché porto l’infamia della mia giovinezza.

20«Non è forse Efraim un figlio caro per me, un mio fanciullo prediletto? Infatti dopo averlo minacciato, me ne ricordo sempre più vivamente.

Per questo le mie viscere si commuovono per lui, provo per lui profonda tenerezza». Oracolo del Signore.

Lc 15 8-10

12Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze.

17Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; 19non sono più degno di esser chiamato tuo figlio.

22Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. 23Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato.

20b Quando era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.

Di Paolo Farinella
(3 – continua)

Paolo Farinella




SILENZIO! Il padrone ti ascolta

Alteando pugno di ferro e patealismo, il governo ha fatto di Singapore una delle più floride economie dell’Asia, a scapito di libertà politiche, valori sociali e ideali umani. Dietro lo scintillio dei grattacieli, si nascondono sacche di emarginazione, soprattutto tra gli immigrati, aiutati dalla chiesa cattolica e altre associazioni umanitarie.
Nella babele di lingue, culture e religioni, il governo cerca di costruire l’identità nazionale, usando anche le canzoni patriottiche.

Gli Annali Malesi del xvi secolo, raccontano che il governatore di Palembang, Sri Tri Buana, navigando nelle acque dell’attuale Stretto di Malacca, fu sorpreso da una tempesta, che lo costrinse a cercare rifugio su una piccola isola pressoché disabitata, chiamata dai cinesi Pu-luo-chang (isola alla fine della penisola). Qui, mentre aspettava che l’uragano si calmasse, il funzionario credette di aver avvistato, tra la fitta vegetazione, un leone, cosa alquanto rara, se non impossibile.
Si era nel xiii secolo e, da allora, i leoni nessuno più li ha visti. A dir la verità, anche il racconto degli Annali non sembra avere molta attinenza con la realtà; con tutta probabilità, l’animale che Sri Tri Buana intravide era forse un daino, un tapiro o anche una tigre, allora comune nella giungla tropicale.
La leggenda, però, non morì; anzi, il racconto del governatore divenne così popolare e affascinò talmente il sultano, che lui stesso decise di battezzare il minuscolo villaggio dell’isola di Pu-luo-chang col nome di Singha Pura, Città del Leone.
E fu a Singapura che sir Stamford Raffles, nel gennaio 1819 mise piede per fondare un avamposto commerciale per la Compagnia delle Indie Occidentali, dando inconsapevolmente il via a una delle più incredibili e stupefacenti storie di sviluppo economico del mondo.

BENESSERE SÌ, OPINIONI NO

Alteando, in perfetto stile confuciano, pugno di ferro e patealismo, Lee Kuan Yew è riuscito a compiere quello che la maggior parte degli osservatori politici avevano dichiarato impossibile a farsi: costruire una delle economie più floride dell’Asia (sviluppatasi il 6% nel 2005) e dove ogni cittadino, in media, guadagna più di un lavoratore del Regno Unito, a cui Singapore è appartenuta come colonia per più di un secolo.
I costi sociali che hanno permesso un tale sviluppo sono però stati assai pesanti: eliminazione di ogni opposizione intea, soppressione della libertà di stampa e di parola, perdita di valori e di ideali.
Turisti e uomini d’affari, sin dal loro arrivo all’aeroporto di Changi, vengono immersi in una città ovattata, in cui tutto è controllato e programmato. Sul pullman che mi porta dal terminal al centro, una targa scritta nelle quattro lingue ufficiali (mandarino, malay, tamil e inglese), informa che chiunque venga sorpreso a lordare la città, verrà multato e costretto a un periodo di servizi sociali obbligati.
Più severe sono le leggi che puniscono i possessori di droga, la cui pena prevede anche la morte. L’ultimo a essere stato impiccato è Nguyen Tuong Van, un venticinquenne australiano di origine vietnamita, ucciso il 2 dicembre 2005 perché trovato in possesso di 400 grammi di eroina.
Le regole ferree che controllano ogni aspetto della vita dei cittadini di Singapore vengono ridicolizzate con battute da parte degli stranieri. Mentre ceno al ristorante con Reiko, una giornalista che lavora presso un’importante agenzia di stampa giapponese, questa si mette a raccontare una barzelletta: «Un europeo, parlando con un russo, un bengalese e un singaporeano, si lamenta di quanti soldi occorrano per comprare del cibo a Singapore e chiede l’opinione dei suoi tre interlocutori. Il russo domanda: “Cosa sono i soldi?”. Il bengalese chiede: “Cosa è il cibo?”. E il singaporeano: ”Cosa è un’opinione?“».
Solo dal novembre 1990, con la volontaria consegna di Lee dei poteri di primo ministro al delfino Goh Chok Tong, il governo della città-stato, accortosi che la mancanza di libertà e di espressione alla fine si traduceva in perdita d’iniziativa e di inventiva in campo economico, ha ammorbidito la linea, permettendo timide critiche al suo operato.
La parentesi di Goh, però, sembra già essere tramontata, da quando alla poltrona di primo Ministro è salito Lee Hsien Loong, 54 anni, figlio di Lee Kuan Yew. Neppure il parziale flop delle elezioni generali dello scorso 6 maggio, sembra abbia scalfito la leadership di Lee: il Partito di azione popolare (Pap), al governo ininterrottamente dall’indipendenza, è calato dal 75% del 2001 al 67% attuale.
«Vista con gli occhi di un occidentale può sembrare che viviamo in una sorta di dittatura, e in effetti, in un certo senso, lo è. Ma è un dispotismo illuminato, accettato dalla maggior parte dei cittadini come controparte per la stabilità sociale ed economica» dice Liu Kuang-chou, proprietario di un negozio di computer al Raffles City. E come Liu molti altri suoi connazionali giustificano il rigore con cui il loro governo ha condotto la sua politica negli anni passati. Insomma, meglio vivere in una prigione sicura, che liberi ma insicuri.

EQUILIBRIO MULTIETNICO

Nella piccola città-stato, la molteplicità di lingue, etnie, religioni, volti, è la caratteristica che più risalta agli occhi di noi stranieri. I quattro milioni e mezzo di singaporeani si dividono essenzialmente tra cinesi (76%), malay (13,9%) e indiani (7,9%), ma ognuno di questi gruppi propone varianti linguistiche e religiose che spezzettano ulteriormente il mosaico sociale.
Nelle edicole, tra le strade, nei cinema, nei ristoranti, si mischia teochew, mandarino, inglese, hokkien, cantonese, malay, tamil, mentre le litanie buddiste, islamiche, taoiste, hindu e cristiane si intrecciano tra loro nei luoghi di culto. Ma l’equilibrio multietnico è tanto difficile a creare quanto facile a sbilanciare.
«Singapore è una società multietnica e non possiamo permettere che le diverse razze che la compongono lottino tra loro – afferma la suora canossiana Janet Wang, una delle persone più informate e impegnate sulla realtà del Paese -. Quello che tutti noi siamo riusciti a costruire, è qualcosa di meraviglioso: razze di diverse etnie, tradizioni, culture, religioni, lingue, si sono riunite e convivono pacificamente».
La paura di un equilibrio funambolico, ha però sclerotizzato il sistema, come arguisce Sinapan Samydorai, del Think Centre, un gruppo di studio che promuove il multipartitismo e una maggiore apertura politica: «Non è solo questione di libertà civili: il governo considera ogni cosa che può costare la stabilità del sistema sociale, politico ed economico come una minaccia per l’esistenza stessa di Singapore. Ha quindi sempre cercato di eliminare o sedare rivolte sociali e chi le fomentava. Per questo la gente ancora oggi ha paura di parlare. E un popolo che ha paura di parlare non è creativo. L’economia di Singapore risente di questa mancanza d’immaginazione».

IN DIFESA DEGLI SFRUTTATI

La fobia del comunismo e delle tensioni razziali, ha portato i leaders della nazione a sospettare di chiunque difendesse i diritti dei più deboli, giungendo nel 1989 ad accusare la chiesa cattolica stessa di essere portavoce di istanze marxiste.
«La chiesa di Singapore ha sempre lavorato con quelli che in Italia chiamate “sfruttati” – afferma suor Janet – e fino a che si limita a svolgere lavoro pastorale, non ha alcun problema, ma quando invade il campo della giustizia, del sociale, dei diritti, allora ecco che il governo si mette in allarme».
Non per questo, comunque, la chiesa locale ha rinunciato al suo impegno sociale, dimostrando anche ai governanti più scettici la validità dei suoi progetti e, soprattutto, guadagnandosi la loro fiducia. Lee Hsien Loong è stato educato in scuole cattoliche, mentre lo stesso ministro della Pubblica istruzione ha recentemente elogiato il lavoro svolto dalle scuole cristiane nel proporre alle nuove generazioni quei valori che colmino quel vuoto creato dall’eccessivo consumismo e materialismo.
Già, perché la Singapore più conosciuta, quella dei luccicanti centri commerciali e parchi di divertimento, ne cela un’altra meno pubblicizzata, ma non meno reale. Nelle zone più periferiche della città, i palazzoni dell’Housing Development Board nascondono sacche di povertà e di emarginazione che alimentano la crescente microcriminalità.
«Non siamo a livelli europei o nordamericani, ma anche qui a Singapore abbiamo le nostre bande giovanili, formate soprattutto da adolescenti che la società ha escluso, in parte per la crisi economica, in parte perché essi stessi hanno rifiutato le regole che venivano loro imposte» rivela suor Gerard del convento del Buon Pastore, che assiste i detenuti cattolici nella prigione di Changi.
La crisi economica del dopo 11 settembre, a Singapore si è ripercossa nel campo edilizio, un settore dove trovano occupazione la maggior parte dei lavoratori immigrati: una volta persa la fonte del loro reddito, essi acquisiscono automaticamente lo stato di illegalità. Per questi disoccupati particolarmente disagiati, le organizzazioni sociali, sia religiose che laiche, hanno istituito centri di ascolto e di aiuto che cercano, con ogni mezzo a loro disposizione, di ridare fiducia e sostentamento a chi è in condizioni di bisogno.
«Ma la paura di uscire allo scoperto, la mancanza di personale, di strutture e, non ultima, la differenza di credo, riducono di molto le potenzialità di questi progetti» mi confida Maya, una volontaria che lavora al Catholic Welfare Centre di Waterloo Street; e aggiunge che più dell’80% degli stranieri da loro assistiti è formato da lavoratori filippini di estrazione cattolica.
«La nostra speranza è quella di poter raggiungere anche gli immigrati indonesiani, bengalesi e pachistani, che a Singapore sono la parte più consistente dei lavoratori di manovalanza. Ma per coronare questo sogno sappiamo che dovranno passare ancora molti anni» conclude la ragazza.

CONTRO LA CRISI DI VALORI

Oggi l’80% dei reclusi è reo di aver commesso reati comuni come furti, scippi, traffico di droga. E se all’inizio il problema era circoscritto a singole persone che operavano per proprio conto, ora si è creata una rete malavitosa, che comprende anche bande di adolescenti emarginati.
«Il problema della delinquenza non è solo dovuto a mancanza di beni materiali; anzi, se mai è l’opposto – spiega suor Janet Wang -. La società è prosperata sulle basi del materialismo, portando a identificare il successo di una persona con la marca dell’abito o la macchina che possiede. Tutto questo ha mortificato la spiritualità e la morale umana, creando enormi scompensi etici. La crisi che stiamo attraversando non è solo materiale, ma è essenzialmente spirituale».
Lo stesso Lee Hsien Loong, dopo che suo padre ha spinto per anni i suoi connazionali a lavorare per la prosperità economica del paese, ha iniziato a chiamare a raccolta le associazioni di impegno sociale e umano, perché aiutino a ridare valori a una popolazione troppo protesa al successo e al profitto.
I piani del governo, comunque, non sono dettati solo da esigenze umanitarie: l’espulsione di migliaia di lavoratori clandestini, ha creato un’allarmante penuria di manodopera, che il governo non riusciva a colmare. I piani di sovvenzionamento sociale sono sufficienti per evitare che il 3,3% dei disoccupati venga improvvisamente emarginato e molti singaporeani senza lavoro rifiutano di coprire ruoli considerati «poco dignitosi».

TIGRI IN COMPETIZIONE

La competitività di Singapore è ancora elevata, nonostante gli alti costi di produzione, grazie al passaggio di Hong Kong alla Cina: molte delle compagnie inteazionali che avevano la loro sede asiatica nell’ex colonia britannica, hanno preferito trasferirsi a Singapore piuttosto che rischiare di incappare nelle maglie della burocrazia di Pechino.
«Singapore può ancora contare su una produzione di qualità eccellente, nettamente superiore a quella degli altri paesi della regione e questo lo rende ancora competitivo. Per il momento» spiega Chow Hung-t’u, della Camera del commercio cinese. La domanda, quindi è: quanto durerà questo momento?
La Malesia, ha già costruito la sua «Silicon Valley» nell’isola di Penang e molte aziende hanno cominciato a guardare alla vicina nazione con ingordigia.
In altri periodi, sotto la guida di Lee Kuan Yew, Singapore avrebbe risposto alla minaccia dei vicini con aggressività, utilizzando la sua esperienza e i legami con gli istituti finanziari a mo’ di artigli, non esitando a imprimere un’accelerata alla filosofia economica del laissez-faire che, assieme alla stabilità sociale e politica, è stata il leit motive della storia del paese sin dai tempi di Raffles.
Ma Singapore e l’economia mondiale devono fare i conti con nuove sfide: la globalizzazione ha rotto ogni schema, rendendo le economie dei singoli paesi interdipendenti l’una con l’altra. Inoltre al governo della piccola isola non c’è più il duro e dispotico Lee Kuan Yew, ma il più malleabile figlio. Il quale ha capito che il suo paese non avrebbe sostenuto, a lungo andare, il confronto con i giganti di cui è circondato. E allora, piuttosto di riproporre una sorta di konfrontasi economica, il governo ha preferito cercare un accordo che possa avvantaggiare tutti, sfruttando le migliori opportunità che Malesia, Indonesia e Singapore possono offrire al mercato.
Lo aveva già azzardato Goh Chong Tong: far nascere un «Triangolo di Crescita», un’area geografica che ha gli epigoni tra la città di Johor, in Malesia, Singapore e l’isola indonesiana di Bintan, la più settentrionale dell’Arcipelago delle Riau. Johor potrebbe offrire terreno per nuovi insediamenti industriali con regole ambientali meno ferree; l’Indonesia potrebbe coprire il fabbisogno di manodopera a basso costo e Singapore garantirebbe tecnologie, infrastrutture, collegamenti inteazionali di prim’ordine.
«Per ora il Triangolo di Crescita rimane solo sulla carta: l’instabilità politica indonesiana e la crescente islamizzazione della società malese, rappresentano sfide che nessun imprenditore di buon senso avrebbe il coraggio di affrontare» conclude Sinapan Samydorai.
E così, Singapore continua per la sua strada. Coraggiosamente, così come coraggiosamente il 9 agosto 1965 si era distaccato dalla Federazione Malese. Anche quel giorno, Singapore, se ne andò per la sua strada.

Di Piergiorgio Pescali

SINGAPORE IN MUSICA

Sin dal giorno della sua indipendenza, avvenuta il 9 agosto 1965 con l’abbandono della Federazione Malese, il governo di Singapore ha profuso notevoli sforzi perché indiani, cinesi, malay, europei aventi passaporto della città-stato, ponessero in secondo piano la propria identità etnica per sentirsi tutti singaporeani. Una sfida improba che, forse, non raggiungerà mai una soluzione definitiva, anche se oggi l’80% della popolazione è nata dentro i confini dell’isola.
Nel 1991 il primo ministro Goh Chok Tong, conscio di tali difficoltà, affermava: «Fino a quando l’economia è in fase di crescita e c’è ricchezza per tutti, non penso che la gente abbia voglia di lottare per affermare la propria etnicità. Ma se non vi sarà sufficiente torta da spartire per tutti, allora ci troveremo di fronte al test decisivo per verificare se siamo davvero coesi e solidi».
Il governo deve quindi continuamente proporre nuovi spunti, affinché il trapianto del Dna della «singaporeanità» nei tre milioni di cittadini abbia successo. Una delle difficoltà maggiori riguarda il modo in cui è possibile raggiungere la sfera psichica di ogni singola persona; trovare cioè un linguaggio semplice e accessibile a tutti, quale che sia la razza, religione, grado di cultura, età.
Ecco allora affacciarsi la musica e le parole che, combinati assieme e diretti verso un fine ben preciso, riescono a far suscitare emozioni e sensazioni altrimenti impossibili ad altri mezzi.
Non è un caso che tutte le rivoluzioni siano accompagnate da canti che perpetuano la memoria di chi le ha vissute. E chi più di altri ha bisogno di una rivoluzione interiore, se non stati multietnici come Singapore?
Così il ministero della Comunicazione e dell’Informazione ha pubblicato una serie di motivi orecchiabili, elevandoli a titolo di Canzoni Nazionali e raggruppandole in un Cd dal titolo «Sing Singapore».

I testi, abilmente scritti in modo semplice, così da essere facilmente assimilati nella mente (e nel subconscio), sembrano avvalorare la fama di patealismo, a volte così ossessivo da sfociare quasi in una sorta di dittatura, che viene addossata al governo di Singapore:
«Caro pedone, quando scendi dal marciapiede
e attraversi la strada, segui le strisce zebrate,
rispetta i semafori» si canta in Road Safety for you.
Tale apprensione può essere vista da due angolazioni differenti: in segno positivo potrebbe rappresentare un particolare modo d’insegnamento del codice stradale; nell’accezione negativa potrebbe essere vista come una sorta di ossessivo controllo sul popolo.
Ma il vero obiettivo a cui mirano le Canzoni Nazionali rimane il senso della nazionalità. Nella canzone più nota e più trasmessa da radio e televisione, We are Singapore, la strofa più dirompente esclama:
«Noi, cittadini di Singapore
ci consideriamo come un popolo unito
a prescindere dalla razza, lingua o religione
per costruire una società democratica
basata sulla giustizia e l’eguaglianza…
Noi siamo Singapore, Singaporeani…
Singapore, per sempre una nazione forte e libera».
Durante la festa del Gioo dell’Indipendenza di quest’anno, migliaia di persone intonavano questa canzone, tenendosi per mano e sventolando bandierine bianche e rosse con la mezzaluna e cinque stelle. Uno spettacolo nello spettacolo, se non altro perché è una delle poche volte in cui ho visto cinesi, indiani, europei, malay mischiarsi, bere e mangiare assieme al di fuori dei luoghi di lavoro. Un ennesimo esempio, se ve n’era bisogno, di quanto sia difficile dimenticare le proprie origini e rivestirsi di nuovi abiti.
E nell’occasione del National Day ogni finestra degli appartamenti costruite dall’Housing Development Board, in cui abita l’80% della popolazione, ha esposta una bandiera singaporeana:
«C’è una nuova luna
che sorge dal mare in burrasca…
Ci sono cinque stelle
che sorgono dal mare in burrasca.
Ognuna è una fiaccola
che guida la nostra via…
C’è una nuova bandiera
che sta sorgendo dal mare in burrasca.
Rossa come il sangue
di tutto il genere umano,
ma anche bianca,
pura e libera» (Five Stars Arising).
Rossa, come il sangue di tutto il genere umano per accomunare tutte le razze in un’unica nazione.

È però anche vero che, contrariamente alle prospettive poco rosee lanciate dagli economisti all’indomani della separazione di Singapore dalla Federazione Malese, lo sviluppo che Lee Kuan Yew è riuscito a imprimere alla nazione, ha qualcosa di eclatante, di cui gli stessi abitanti possono andar fieri. E non esitano a rinfacciare a questi Soloni dell’epoca che predicevano un futuro di miserie, la loro prosperità attuale:
«C’era un tempo in cui la gente diceva
che Singapore
non sarebbe mai potuto essere
una nazione,
ma noi l’abbiamo resa una nazione.
C’era un tempo in cui i problemi
sembravano troppo grandi
per essere affrontati,
ma noi li abbiamo affrontati.
Abbiamo costruito una nazione forte e libera
raggiungendo insieme la pace e l’armonia.
Questo è il mio paese, questa è la mia bandiera,
questo è il mio futuro, questa è la mia vita,
questa è la mia famiglia,
questi sono i miei amici» (We Are Singapore).
Il paragone alla famiglia implica anche un impegno di ogni suo singolo componente, per far sì che la sua conduzione sia coronata da successo:
«Riconosci che devi giocare il tuo ruolo…
Sii preparato a dare qualcosa in più…
Per Singapore» (Stand up for Singapore).
Un passo in perfetto stile confuciano, dove ogni cittadino, o meglio, ogni componente della «famiglia Singapore» deve svolgere un compito ben preciso occupando un ruolo ben preciso nella ferrea gerarchia comunitaria,
«per mostrare al mondo cosa Singapore può essere…
Conta su di me, Singapore, conta su di me
per dare il mio meglio e ancora di più» (Count On Me Singapore).

Q uesta filosofia, tipica delle società asiatiche, ha trovato piena attuazione nella minuscola nazione, favorendo la trentennale permanenza al potere di un governante dispotico, ma che sa anche essere benevolo, come Lee Kuan Yew. Grazie alla sua guida «illuminata»,
«in Singapore puoi trovare felicità per tutti» (Singapore Town).
Ma questo benessere deve essere difeso sia dagli attacchi speculativi di operatori finanziari che tentano di assaltare l’economia di Singapore dall’esterno, sia da improbabili, ma non impossibili, attacchi militari dalle nazioni vicine. La «sindrome Kuwait» è assai viva tra il governo, che destina il 5% della finanziaria alle proprie forze armate, tra le meglio addestrate nella regione.
Ma i leaders sanno bene che il minuscolo territorio non potrà essere difeso a lungo in una guerra convenzionale; quindi, anche in caso di invasione dall’esterno,
«C’è una parte per ognuno
in questa terra a cui apparteniamo.
C’è una parte per ognuno e per tutto
per mantenere la pace che vogliamo.
Anche se non tutti con le armi,
per aiutare a difendere la nostra terra
dobbiamo far tutto quello che possiamo
insieme, mano nella mano…
Abbiamo marinai, aviatori,abbiamo soldati,
impavidi uomini addestrati e pronti…
Aiutali ad aiutare tutti noi»
(There’s a Part for Everyone).
Parole dure, sferzanti, che si spera non dovranno mai trovare impiego nella realtà. Già, perché alla fin fine la multietnicità che caratterizza Singapore può essere di esempio anche per gli stati europei che si trovano a fronteggiare, spesso con intolleranza e xenofobia, l’arrivo di rappresentanti di altre culture.
E si potrebbe terminare questa cartolina di Singapore in musica, con le strofe forse più significative di One People, One Nation, One Singapore:
«Abbiamo costruito una nazione con le nostre mani,
con la fatica di gente da una dozzina di terre.
Stranieri quando arrivammo,
ora noi siamo Singaporeani…
Un popolo, una nazione, un Singapore».


Piergiorgio Pescali




Tanti «saponi» per un sogno

Paulina e Paola hanno la stessa età e il tesoro di una grande amicizia, nata per le strade di Madrid.
Paulina, ecuadoriana, venuta in Spagna in cerca di lavoro, ha una storia nel cassetto e la voglia di narrarla: la sua storia di emigrata.
Paola, italiana, ama chi si racconta e pensa che la vita della gente ha sempre molto da insegnare. La storia di Paulina rispecchia situazioni, problemi e sentimenti di ogni migrante, con la nostalgia di ciò che ha lasciato e un futuro da inventare.

A maggio ho compiuto sei anni da quando ho lasciato la mia patria, la mia famiglia, gli amici, il lavoro… tutto; non con il fine di conseguire il «sogno europeo», ma obbligata dalle difficili circostanze della mia famiglia, dovute alla crisi economica e politica che attanaglia l’Ecuador.
Sono arrivata in Spagna, il «paese dell’accoglienza», con paura, incertezza e tanta voglia di lavorare. Nella valigia portavo con me anche briciole di speranza, fiducia, innocenza e volontà. Inoltre, non mi mancava il desiderio di farcela.
Appena l’aereo toccò terra, il mio cuore iniziò a battere all’impazzata; ero nervosa perché temevo che qualche poliziotto dell’immigrazione potesse fermarmi e iniziare a fare domande. Grazie a Dio varcai la porta di uscita senza problemi e tirai un grande sospiro di sollievo.

DUE MONDI ALLO SPECCHIO

Presi la metropolitana e poi il pullman, per raggiungere un paese vicino a Madrid, dove sarei stata ospite di una figlia di amici di mio padre. Il percorso per arrivare nella mia nuova casa mi sembrò eterno: non pensavo che Madrid fosse così grande. La paura mi ha accompagnato per molto tempo; temevo che la polizia, o chi per essa, avrebbe potuto fermarmi per strada in qualsiasi momento, chiedendomi di esibire documenti e permessi di soggiorno e di lavoro. Ogni volta che scorgevo una qualsiasi uniforme cambiavo di marciapiede. Per questo motivo uscivo poco di casa e, quando lo facevo, ero sempre accompagnata dalla mia amica con il suo figlio più piccolo.
Per prima cosa ho dovuto imparare a gestire i mezzi di trasporto: fermate fisse, orari fissi, divieti di sovraccarico di gente: tutte cose inesistenti nei servizi di trasporto ecuadoriani. Per non parlare della metropolitana, le cui mappe rappresentavano per me soltanto un intreccio di linee colorate, zeppe di simboli di cui non conoscevo il significato.
Ben presto ho scoperto che l’affitto in questa città è molto caro; per questo la mia amica, i suoi figli e io abitavamo tutti in una stanza. L’altro locale del mini appartamento era affittato da un’altra coppia di immigrati. Tutto era in comune; ognuno aveva il suo spazio riservato nel frigo, nella dispensa e ciascuno si arrangiava nel preparare i propri pasti.
Quante volte, incontrandomi con altri immigrati, ho dovuto ascoltare storie sulla difficoltà di vivere ammucchiati, dormire per terra e dover pagare anche per un bicchiere di acqua! In alcuni casi erano proprio i nostri connazionali ad approfittarsi della situazione di bisogno, anche se va detto, questo non è stato il mio caso.
Il fatto di condividere in più famiglie uno stesso alloggio rappresenta una vera avventura: da una parte si ha la possibilità di conoscere persone diverse, con le loro abitudini ed esperienze, di non sentirsi troppo soli. Si perde però la propria intimità, non si ha uno spazio personale; non si riesce a riposare bene e quello che al principio può sembrare un’ avventura persino divertente si converte ben presto in seri problemi di convivenza. Questo tipo di co-abitazione «forzata» mi ha aiutata a vincere la solitudine, ma nello stesso tempo ha fatto emergere la nostalgia per le relazioni che sono state recise nel momento in cui ho dovuto lasciare l’Ecuador per venire a vivere qui.
Insomma, i primi tempi mi sentivo come una pecorella smarrita; non riuscivo neppure a entrare in sintonia con una comunità parrocchiale. Entravo e uscivo da una e dall’altra chiesa, tentando ogni volta di risollevare il mio spirito e cercando di incontrare nelle celebrazioni una qualche somiglianza con quelle che vivevo in Ecuador.
Sono rimasta sorpresa nel vedere così poche persone (per la maggior parte anziane) partecipare alla messa. La liturgia mancava di animazione e il ricordo della mia parrocchia d’origine mi riempiva di tristezza; più di una volta mi sono messa a piangere. Dovettero passare tre anni prima che potessi ritornare finalmente all’«ovile»: adesso faccio parte di una comunità cristiana che vive e celebra cercando di riscattare le tradizioni della chiesa latinoamericana, partecipando anche della ricchezza di quelle della Spagna.

I PRIMI PASSI

Avevo voglia di lavorare e mi misi subito alla ricerca di un impiego; iniziai a pubblicare annunci di lavoro in un quotidiano della capitale. Fermate di mezzi pubblici, centri commerciali e consultori si trasformarono in altrettanti punti di riferimento per lasciare bigliettini che dicevano: «Ragazza seria e responsabile si offre per lavorare come balia, badante o persona delle pulizie».
Ai colloqui di lavoro andavo sempre accompagnata dalla mia amica, che mi elargiva consigli per l’eventuale impiego, visto che alcuni colloqui potevano nascondere proposte indecenti o contratti capestro, con paghe infime e senza giorno libero.
Impiegai tre mesi per trovare occupazione. Non conoscevo ancora nulla della Spagna: abitudini, modo di mangiare, ritmo di lavoro; perfino certe espressioni nel parlare, tipicamente spagnole, mi erano del tutto sconosciute. Devo ringraziare una famiglia, che, conoscendo un po’ la realtà latinoamericana, insieme al lavoro mi offrì l’opportunità di imparare a condividere il loro modo di vivere. Con il lavoro ho appreso nuovi termini per definire i vari utensili per le pulizie della casa, che da noi hanno tutti altri nomi; ho imparato a distinguere la miriade di saponi e detersivi: quello per i vetri e l’altro per i pavimenti, l’uno per vestiti e l’altro per lavastoviglie, e ancora quello per lavare le stoviglie a mano… In Ecuador è più semplice: un solo sapone funziona bene per tutto. Per non parlare degli elettrodomestici che ho dovuto imparare a maneggiare: vetroceramica, minipimer, microonde… tutte cose di cui ignoravo completamente l’esistenza.
Naturalmente ho dovuto imparare a preparare il cibo alla spagnola. Ma ciò che più mi ha impressionato è l’attenzione che gli spagnoli hanno per i bambini e animali domestici: gli uni come gli altri hanno medico, vaccini, letto, giocattoli, shampoo, cibo speciale e lo stesso diritto di uscire a sgambettare tre volte al giorno.
Non riuscivo a capire come mobili, computer, vestiti venivano scartati e portati in strada solamente perché avevano un piccolo difetto o non servivano più. Questo particolare mi ha fatto riflettere sulla grande differenza che esiste fra questi due mondi: quello che ho lasciato e quello che ho incontrato. Per esempio, il bambino di cinque anni che accudivo era perennemente annoiato e insensibile a ogni provocazione dei genitori. Che contrasto con la gioia di vivere dei bambini nel mio rione a Quito. È proprio vero che «non è felice colui che possiede più cose, ma colui che ne ha bisogno di meno».
Tutto ciò che vivevo era in aperto contrasto con la realtà dalla quale provenivo. Sentivo di dovermi adattare a questa nuova forma di vita, anche se non l’approvavo. Ho preso un impegno con me stessa: non lasciarmi assorbire dal materialismo esistente, cercando di mantenere il più possibile il mio essere autentico.

«ODISSEA LAVORO»

Dopo alcuni mesi di lavoro al servizio della prima famiglia, iniziò a funzionare il «passa parola» che avevo attivato e, grazie alle referenze e all’esperienza maturata, riuscii ad avere un impiego migliore. Ma dovevo al tempo stesso ottenere i permessi di lavoro e di residenza. Il 14 agosto del 2001, iniziai le pratiche per ottenere un documento che certificasse la mia situazione lavorativa. In quegli anni le file agli sportelli per ottenere informazioni e kit di documentazione erano interminabili, anche se non si era costretti a passare la notte all’addiaccio per conquistarsi il tuo, come succede oggi. Il 7 agosto del 2002 notificarono al mio datore di lavoro la non concessione dei permessi, cosa che mi obbligò a fare ricorso.
Passati tre anni di permanenza in Spagna, tempo sufficiente per richiedere il certificato di residenza per arraigo, cioè per radicamento nel paese, decisi di contattare una donna avvocato. Mi assicurò che tutto si sarebbe risolto celermente e che per la fine dell’anno avrei potuto viaggiare tranquillamente in Ecuador e, altrettanto tranquillamente rientrare in Spagna, perché munita di regolari documenti di residenza.
Ero piena di entusiasmo e illusioni quando, come una doccia fredda, mi notificarono che avrei dovuto giustificare l’arraigo, comunicando i dati dei familiari (genitori, coniuge, figli) presenti in Spagna. Tutte le mie speranze crollarono di botto, visto che, non vivendo con me nessun membro della mia famiglia, ero impossibilitata a dare risposta alle richieste dell’Ufficio immigrazione. Tempo, fatica e soldi sprecati inutilmente.
Riassumere in poche righe il mio cammino nei labirinti della burocrazia spagnola non è impresa facile. È una storia lunga, fatta di grandi illusioni e tante repentine delusioni, di lunghe code davanti agli sportelli degli uffici competenti, di ritardi burocratici e inspiegabili «silenzi» amministrativi. A volte io stessa ho commesso errori, che sarebbero stati evitabili con una maggior informazione e conoscenza del sistema giuridico spagnolo. Ma la delusione più cocente la ebbi quando l’ennesimo iter burocratico fu interrotto bruscamente a causa della situazione fiscale irregolare del mio datore di lavoro. Che beffa arrivare a toccare il cielo con un dito per poi vederselo portar via all’ultimo istante.
Grazie a nuovi datori di lavoro e all’esperienza acquisita, sono riuscita a consegnare a tempo tutti i documenti necessari: ora attendo fiduciosa di ottenere, finalmente, i tanto agognati permessi di lavoro e residenza. Con questi documenti in mano mi si apriranno nuove prospettive, tra le quali anche la possibilità di tornare in Ecuador ad abbracciare, dopo sei anni, la mia famiglia.
Sicuramente esistono innumerevoli casi simili al mio. Personalmente, ringrazio il Signore di aver incontrato una donna avvocato capace di aiutarmi a conoscere i miei diritti e a muovermi con sicurezza nel mondo della burocrazia spagnola. La mia esperienza e il suo aiuto mi hanno anche aperto gli occhi e spinta a lottare per quello che sento essere un diritto di tutti; anche se c’è, e ci sarà sempre, qualcuno che pensa di avere il diritto di approfittarsi di altri, solo perché questi sono indifesi o fuori legge, essendo privi dei dovuti documenti.

Di Paulina Ceballos

UN SOGNO DALLE MILLE FACCE

Agli occhi del turista, Madrid si presenta come un intreccio logico di vie oate da palazzi chiari. Orientarsi è semplice, grazie all’ottima metropolitana che con le sue dodici linee urbane e i collegamenti ai frequenti treni interurbani, conduce da una parte all’altra della città in tempi brevi e a prezzi modici.
Signorine sorridenti all’ingresso della metropolitana consegnano foglietti su cui l’amministrazione comunale «si scusa per aver temporaneamente sospeso il servizio tra Plaza de Castilla e Fuencarral», sostituito da un servizio autobus, e le scritte sui cartelloni pubblicitari di quello spazio sotterraneo assicurano a ogni cittadino la possibilità di essere operato entro trenta giorni dalla domanda di ricovero. Incentivi all’imprenditoria giovanile e femminile vengono promessi dagli spot mandati in onda per tenere compagnia ai passeggeri in attesa, e facce di ogni colore si mischiano nel vieni e vai di una mappa che si muove e fa muovere a un ritmo intenso, ma per fortuna ancora umano: c’è sempre tempo per fermarsi a bere un paio di cervezas (non importa che ora del giorno sia, una birra si beve sempre volentieri), accompagnate da qualche tapas, spuntini di pane, prosciutto e salse.
Le vie sono invase da gente che transita, ma che spesso si ferma, si siede e chiacchiera godendo l’aria, mite o fredda che sia: a Madrid il conversare non è questione di stagione. I giovani si ritrovano la notte per le tradizionali bevute in mezzo alla strada, nelle piazze e per le scalinate, tirando fuori dai sacchetti di plastica innumerevoli bottiglie di tinto (vino rosso) e di cerveza.
Madrid è una città che invoglia a fermarsi, che offre teatri, cinema e musei a prezzi modici, e che ha il piacere di essere vissuta.

LA GRANDE CASA

Per molti latinoamericani rappresenta «el sueño», il sogno, la possibilità di riscattarsi. Scelta per motivi geografici e linguistici, soprattutto dopo le molte restrizioni che il governo statunitense ha posto all’immigrazione, la Spagna è diventata uno dei punti di maggior convoglio dei flussi migratori, provenienti in particolar modo dall’Ecuador.
Ben un terzo della popolazione dell’Ecuador è emigrata e attualmente l’economia del paese si basa per il 51% sulle rimesse che i residenti all’estero inviano ai familiari rimasti a casa. La lontananza comporta lo sviluppo di fenomeni particolari, ad esempio lo sfaldamento dei legami tra il migrante e la famiglia di origine (spesso «integrata» o addirittura sostituita con una nuova, creata nel paese di arrivo), o il diradamento della fascia dei trentenni-quarantenni, con conseguente distribuzione nella popolazione di vecchi e bambini.
Sono proprio i bambini a essere chiamati a gestire le rimesse di denaro inviate dai genitori lontani, che devono servire per il sostentamento, ma soprattutto per la «grande prova», per quel segno tangibile di sé che resisterà nel tempo: la costruzione di una casa. L’Ecuador è un paese pieno di case enormi in stile nord americano, con colonne bianche e porticato, costruite come prova di esistenze generate da lì, ma destinate a non tornare: case fantasma, incarnazioni di miti e nulla più.
A Madrid, gli immigrati che mandano soldi in Ecuador per costruire enormi case-fantasma, vivono stipati in piccoli appartamenti della periferia, condividendo in sette, otto, persino in dieci persone, spazi di settanta metri quadrati. Spesso sono i connazionali ad accogliere i nuovi venuti, con lo scopo di estorcere loro un affitto non compatibile con la bassa qualità della sistemazione offerta.
«El sueño» diventa la realtà quotidiana della sopravvivenza, delle difficoltà a trovare lavoro, permesso di soggiorno o la carta sanitaria. Diventa un atteggiamento di diffusione identitaria, che porta a due tipi di reazioni possibili: alla chiusura nella propria comunità di origine, con rafforzamento dei tratti culturali comuni, o al rifiuto degli stessi, con conseguente aderenza superficiale agli stili di vita del paese di arrivo.
Paulina viene da Quito, la capitale dell’Ecuador. Volò in Italia sei anni fa nella speranza di fermarsi nel Veneto ma, non trovando lavoro, fu costretta a tentare la carta della Spagna.
«El sueño» per lei si tradusse in un lavoro di pulizia a ore e in spazi di vita così ristretti da impedire l’intimità. Per Paulina imparare a orientarsi a Madrid non fu certo facile, così come richiese impegno abituarsi alle parole e ai modi di dire che condividono la madre lingua comune agli spagnoli e ai latini, ma non la coloritura culturale che si portano appresso.
Madrid vista con gli occhi di Paulina non è la città dei bei palazzi chiari, della cerveza e delle tapas. Non è la città dei musical, i cui biglietti, rapportati al suo stipendio, diventano proibitivi e persino un po’ offensivi. Non è la città della sanità che funziona e degli incentivi all’imprenditoria femminile: per Paulina Madrid è la coda infinita al Ministero del lavoro che quasi ogni settimana è costretta a fare, per sapere se la sua domanda di residenza è stata accettata o ancora una volta respinta.
Madrid è il negozietto vicino alla stazione, dove un colombiano amico suo importa prodotti latini di cui può riconoscere l’odore e il gusto. Madrid è il parco del Retiro, dove la domenica mattina incontra i connazionali che passeggiano con l’illusione di tranquillizzante omogeneità, è il call center dove telefonare a casa, a Quito, costa meno di un’interurbana a Siviglia.
Camminando accanto a Paulina per le strade di Madrid, si incontrano fiumi di occidentali che comprano un detersivo diverso per ogni tipo di sporco, mentre in Ecuador un sapone basta per tutto. Accanto ai cassonetti della spazzatura si vedono materassi dove ci si potrebbe dormire ancora per anni, e nei menù appesi fuori dai ristoranti si legge che la banale frittata di uova è diventata una ben più chic «tortilla francesa».
Le strade sono ostiche, piene di elementi da decifrare, riconoscere, inglobare nella ricerca di una ridefinizione di sé che fatica ad arrivare. È la nostalgia il sentimento dominante di Paulina. Il termine nostalgia deriva dalle parole greche nostos e algos, cioè «ritorno in patria» e «dolore, tristezza».
Introdotto nel ‘700 dal medico svizzero J. Hofer per indicare il sentimento che i suoi connazionali provavano quando erano lontani dalla loro patria, cioè una sorta di malattia, una vera e propria sofferenza per la sottrazione del paesaggio d’origine, la nostalgia è tanto più intensa quanto più è profondo il legame con i luoghi che hanno contribuito a strutturare l’identità individuale e sociale.
Come dice lo scrittore libanese Amin Maalouf, prima di diventare un immigrato, si è un emigrato, e prima di arrivare in un paese, si è dovuto abbandonae un altro: solo considerando i due lati della questione si capisce come i sentimenti di una persona verso la terra abbandonata non siano mai semplici.
Se si è partiti, vuol dire che si è rifiutato delle cose: la repressione, l’insicurezza, la povertà, la mancanza di orizzonti. Ma è frequente che tale rifiuto si accompagni a un senso di colpa per la terra, la casa, le persone che ci si rimprovera di aver abbandonato; senso di colpa che spesso si accompagna alla nostalgia. In questi casi è importante che gli individui possano rivisitare i paesaggi interiori, grazie ai quali riscoprire le radici che permetteranno la ripresa del processo di crescita.
Paulina prova a cercarsi nelle lunghe passeggiate alla scoperta di Madrid, aprendosi al nuovo e allo stesso tempo imparando a non perdersi. Camminando mi racconta il suo sueño, quello nuovo: sentirsi a casa propria. E non importa in che parte del mondo.

Di Paola Cereda

RITROVARE LA STRADA

La strada è sempre stata un luogo tradizionale di incontro e di scambio. Quando si arriva in una nuova città o in un nuovo paese, le prime impressioni sono date dalla strada, che è un insieme di persone, mestieri, storie, oggetti, case, uffici, negozi, direzioni, mete, divieti di accesso, regole e pregiudizi. La strada racconta una storia che è sempre in movimento: l’architettura e l’urbanistica mostrano le origini, i cambiamenti, le evoluzioni, le involuzioni e rispondono a esigenze umane e sociali che non sono soltanto mere risposte a bisogni materiali, ma che rispecchiano soprattutto i mutamenti relazionali.
Il primo passo per conoscere un luogo è l’orientamento, cioè la progressiva acquisizione di dati e punti di riferimento, con cui «un luogo» è trasformato e diventa «il luogo». Le cornordinate spazio temporali prendono forma in base a esigenze personali e a vissuti di attaccamento e radicamento. Con il tempo e l’abitudine «quella» strada diventa «la» strada: la strada di casa, il tragitto per andare a lavorare, il percorso per arrivare al ritrovo di ogni sera… Questa acquisizione di senso permette il passaggio dal sentimento di estraneità all’appropriazione del territorio, dal sentirsi straniero al sentirsi «parte di».
In ogni città esistono luoghi tradizionali di ritrovo per chi «è appena arrivato»: la stazione, il parco, un certo quartiere, un punto di aggregazione religiosa…
I fenomeni migratori hanno disegnato nuove mappe possedute e vissute da chi, straniero, arrivava per necessità nelle grandi città.
Uno dei luoghi che maggiormente raccontano un paese è il mercato, dove si assiste alla circolazione non solo monetaria, ma anche di merci che rispondono a bisogni aggregativi. È sempre più facile incontrare banchi che vendono il tradizionale platano latino americano o le spezie arabe, segno di una sensibilità ai cambiamenti sociali, sia dal punto di vista della domanda e della risposta che della gestione economica, non più a esclusiva conduzione locale.
In alcuni strati sociali, specialmente in quelli più storicamente radicati nel territorio, la strada perde la caratteristica di luogo di incontro e diventa semplicemente luogo di transito, che fa paura per i possibili pericoli che nasconde o palesa, che stressa per i suoi ritmi frenetici, che separa dai rifugi privati, in cui la gente si chiude per stare «bene, al sicuro». In questo caso la domanda principale è quella della sicurezza: «Voglio essere sicuro che per la strada non mi succeda niente». Il tradizionale gioco del pallone, che ha cresciuto generazioni di bambini nelle strade di tutto il mondo, ora rischia di diventare un fatto privato da gestire in spazi ristretti o in luoghi predisposti.
Per chi non può o non vuole godere di «rifugi privati», la strada è ancora l’unica alternativa possibile. Essa è casa, espediente, sede di lavoro, risorsa di sopravvivenza e risposta ai bisogni. È «il gruppo», quella dimensione sociale e identitaria che permette di riconoscersi e di essere riconosciuti. Sulla strada si possono vedere i tentativi di adattarsi al nuovo ambiente, che si sposano con la necessità di ricostruire elementi che appartenevano alla propria terra di origine. La strada dà l’opportunità di riflettere sugli argini: le case, chi le abita, come vengono vissute.

Di Paola Cereda

Paulina Ceballos e Paola Cereda




«Il matrimonio? Meglio combinato!»

Pensi di trovare il fatidico «velo». Invece la maggioranza delle ragazze sono truccate e vestono all’occidentale. I fidanzati girano mano nella mano, cosa impensabile in altri paesi arabi. I problemi poi sono gli stessi dei giovani occidentali, innanzitutto il lavoro che non c’è. Dipinto di un Marocco che non t’aspetti.

Da Marrakech a Rabat, da Rabat a Tangeri. Sana’a viaggia con il padre, un imprenditore, sul treno che da Marrakech la sta portando a Rabat, dove abita. Ha diciassette anni e frequenterà l’ultima classe del liceo (che dura soltanto 3 anni, dopo i 9 della scuola dell’obbligo): è bellissima nel suo viso ovale dal profilo regolare e dai grandi occhi neri. Vestita con pantaloni aderenti, camicetta sbracciata, scollata e stretta, capelli sciolti, sandali da spiaggia con infradito, chiacchiera allegra con l’amica che li ha accompagnati nella settimana di vacanze nel caos della più famosa delle città marocchine. «Dopo le superiori farò l’università, la facoltà di lingue forse. In famiglia abbiamo studiato tutti».
«E il matrimonio?», domandiamo. Arrossisce, a dimostrazione che, nonostante la moda e i veloci cambiamenti, certi argomenti rimangono nella sfera del privato e del pudore: «Più in là». «Ma esistono ancora quelli combinati?», insistiamo. A questo punto interviene il padre, simpatico, cordiale, ma protettivo: «Certo, e sono una grande istituzione. Solo le madri conoscono bene i propri figli e possono capire quale partner è più indicato per il successo della vita comune. Mia figlia maggiore si è sposata con un matrimonio combinato: le due mamme si sono accordate nel presentare i due ragazzi, che si sono piaciuti e che, dopo qualche settimana, hanno deciso di sposarsi. È una bella coppia, felice».

Tangeri. Alcuni ragazzi sorseggiano bibite e tè alla menta seduti ai tavolini di un bar, in Avenue d’Espagne, a ridosso delle mura della caotica e affascinante medina. Sedie allineate una a fianco all’altra verso la strada, come è d’uso in Marocco, chiacchierano e ridono. Ciò che colpisce subito è l’abbigliamento: sono vestiti alla moda, in jeans e magliette firmate (Nike, Calvin Klein, Versace, Diesel, ecc.). Indossano cappellini da baseball e occhiali scuri molto fashion. Non appartengono a famiglie facoltose – frequenterebbero altre zone della città meno popolari di questa – ma, come molti della loro età, sono attenti alla moda, soprattutto occidentale, e investono i soldi di qualche lavoretto o dei regali in abiti o oggetti del consumismo made in Usa o in Europe. Non sembrano affatto diversi dai ragazzi delle nostre città italiane: oltre ai commenti divertiti o curiosi sui turisti che sfilano davanti a loro, i discorsi ruotano intorno a scuola, lavoro, divertimenti. Questo, almeno, per i più fortunati, coloro che non sono stati costretti a svolgere umili mansioni subito dopo o, in certe aree più arretrate, al posto delle scuole primarie.
Le ragazze, in giro, non sono da meno: magliette attillate che si fermano all’ombelico, jeans o gonnelloni a vita bassa, scarpe a punta e con tacchi alti, piercing, capelli colorati o con la piega appena uscita dal coiffeur, trucco marcato su occhi e labbra, aria sicura e provocante. Decollété, miniabiti e così via: nel bene e nel male, un altro mondo rispetto alle comunità islamiche d’Europa, che si dibattono su «velo sì, velo no» e sulla sua lunghezza. Non che da noi manchino le ragazze musulmane dall’abbigliamento moderno e sportivo. È solo che qui in Marocco sono la maggioranza!
Anche le abitudini musicali e il divertimento sono simili: dalla techno al rap, dal rock arabo alle «contaminazioni» musicali, dal raï ai cantanti più in voga negli Stati Uniti o in Europa e alla musica latino-americana, i maghrebini amano ballare e cantare, dai più piccoli ai più grandi, dalle città al deserto. I grandi centri urbani offrono discoteche e divertimenti d’ogni sorta destinati ai turisti e alla popolazione che può permetterseli. L’hashish è una presenza costante e diffusissima in quasi tutto il Marocco, ma anche le colle, che vengono sniffate quasi pubblicamente da bambini e adulti nei quartieri più poveri e degradati delle metropoli.
Per molti teenagers (e oltre) marocchini, certe tradizioni sono una noia da cui liberarsi al più presto. Anche nei rapporti di coppia sono un po’ più «disinibiti» di qualche tempo fa: vanno in giro a braccetto o mano nella mano, si guardano negli occhi con tenerezza, si abbracciano. Un gran bel balzo in avanti se paragonato a paesi come l’Egitto, dove i fidanzatini non s’azzardano neanche a sfiorarsi e camminano ben separati, e dove una coccola in pubblico può costare cara.
Nonostante il perdurare dei matrimoni combinati – sia all’interno del clan familiare sia nella cerchia di amici e conoscenti dei genitori -, i giovani stanno cercando con sempre più determinazione di acquisire libertà ormai garantite ai loro coetanei occidentali. Sono tante, infatti, le coppiette formatesi tra i banchi di scuola o all’università, o in discoteca o nelle compagnie di amici. E anche nelle chat-line, usatissime dai quindici-trentenni.

Ouarzazate. La città, a ridosso delle montagne dell’Alto Atlante e alle porte delle spettacolari valli del Drâa e di Dadès, è chiamata la «Hollywood del Deserto»: è infatti diventata un importante centro di produzione cinematografica. Nei suoi studios hanno girato molti colossal, tra cui il recente Alexander.
Hakim, 24 anni e una laurea in legge conseguita un paio di anni fa, lavora con il padre negli «Atlas corporation studios» come aiuto scenografo.
Look sportivo e aria simpatica, racconta delle difficoltà che un giovane marocchino, con un ottimo curriculum scolastico, incontra nell’inserimento professionale:
«I posti pubblici, molto ambiti, sono saturi. Siamo tantissimi, ormai, a possedere titoli di studio elevati, e il mercato del lavoro non offre grandi possibilità. Come in altri paesi del Mediterraneo, qui vale la regola delle amicizie influenti. Chi non trova l’occupazione giusta, quella per cui ha investito anni di studio, e soldi, si deprime. Tanti miei coetanei si trovano in questa situazione e sognano di andare lontano, in America o in Europa. Ma io non lo ritengo giusto: si deve lottare e vincere là dove si vive. Eppoi, lo stile di vita frenetico, stressato dell’Occidente non mi interessa. Comunque, mi ritengo fortunato: non esercito la professione di giurista, ma faccio un bellissimo mestiere, creativo e a contatto con registi, attori, persone di tutto il mondo. Guadagno bene e ho molto tempo libero a disposizione per gli amici, le letture e per girare il paese».

Hakim è fortunato. La vita dei ragazzi marocchini può cambiare radicalmente a seconda delle zone e, ovviamente, del livello economico e sociale di appartenenza: nei monti dell’Alto Atlante, nelle meravigliose oasi che si dischiudono dopo centinaia di chilometri di paesaggi aridi o desertici, i ragazzi sono più vincolati ad abbigliamenti e tradizioni locali e la povertà impone loro un ingresso precoce nel mondo del lavoro.
Tuttavia, se non ci si ferma all’apparente spensieratezza e cordialità che caratterizza il Paese, si scoprirà che la situazione sociale è complessa e dura. La disoccupazione imperversa su diplomati, laureati e incolti. Su tutti coloro che non abbiano risorse familiari o amicizie da spendere per trovare un buon posto di lavoro, magari governativo, o per aprire attività autonome. Sono tantissimi i giovani con ottimo curriculum scolastico o universitario che brancolano nel buio di un futuro senza prospettive che li relega in mestieri umili, manuali, mal pagati. Molti cadono nella depressione e nell’uso delle droghe o dell’alcornol (acquistato clandestinamente). Prostituzione, spaccio e tratta degli esseri umani attraverso il mercato dei clandestini, costituiscono l’unica risorsa per gli strati più disperati, soprattutto lungo la costa mediterranea, e una grande ricchezza per i racket mafiosi, locali e inteazionali.
Le riforme sociali stanno attraversando il paese, mutando realtà che sembravano etee.
I giovani marocchini aspettano il loro tuo.

Di angela Lano


LIBRI, FILM, SITI INTERNET

Libri:
«Il pane nudo», Mohammed Choukri, edizioni Theoria, Milano 1993
«Soco Chico», Mohammed Choukri, edizioni Jouvence, Roma 1997
«Gli straordinari viaggi di Ibn Battuta», Ross E. Dunn, Garzanti, Roma 1993
«La terrazza proibita. Vita nell’harem», Fatima Meissi, Giunti editore, Firenze 1996
«I ragazzi dei vicoli», Abdelhak Serhane, edizioni Theoria, Roma 1992
«Favole del deserto», a cura di Ettore Fasolini, Emi editrice, Bologna 1995
«Onze histornires marocaines», a cura di Mohammed Saad Eddine El Yamani, Institut du Monde Arabe, Paris 1999
«Il tè nel deserto», Paul Bowles, Garzanti, Milano 2003

Film:

«Hideous Kinky – Un treno per Marrakech», di Gillies Mackinnon (1998)
«Door to the sky», di Farida Ben Lyzaid (1989)
«Le coiffeur du quartier des pauvres», di Mohammed Reggab (1985)
«Casablanca», di Michael Curtiz (1942)

Siti:

· www.al-bab.com/maroc
Sito che offre collegamenti dove trovare notizie di varia utilità.
· www.maghrebarts.ma
Si trovano informazioni su cinema, musica, teatro, spettacoli, feste, ecc.
· www.mincom.gov.ma
Sito governativo dove trovare informazioni su molti aspetti della vita sociale, politica e culturale del Marocco.
www.cia.gov/cia/publications/factbook/geos/mo.html Sito della Cia e contiene una dettagliata descrizione del Marocco.

Angela Lano




Ebrei del borgo rosso

Inviati dagli imperatori persiani, fin dal secolo vi,
a popolare le regioni orientali del Caucaso, gli ebrei si erano integrati negli usi e costumi degli altri abitanti, che i russi, arrivati all’inizio del xix secolo, chiamarono «ebrei della montagna». La fine del regime sovietico e libero mercato hanno rinfocolato la loro intraprendenza. Ma rimangono soggetti a paure e diffidenze, soprattutto da parte degli azeri musulmani, rimasti economicamente al palo.

Un tempo dovevano avere lo stesso aspetto dimesso i due insediamenti sulla riva destra e su quella sinistra del fiume. Il primo si chiama Quba, ed è abitato da azeri, l’altro Krasnaja Sloboda, ed è abitato da ebrei.
Sono arrivata a Quba in un sonnolento pomeriggio di sabato. Per strada pochi passanti e ancora meno macchine. Ho cercato invano un luogo di ritrovo, una piazza centrale dove ci fosse un po’ d’animazione. Non ho visto che case basse, a un piano, massimo due, per lo più in cattivo stato, e vie silenziose. Tanto valeva andare subito dall’altra parte del fiume, a Krasnaja Sloboda: quella era la meta, il vero motivo per cui ero giunta fin lì, a quattro ore di autobus da Baku.
La cittadina azera, difatti, non presenta particolari motivi di attrazione, ma un paese abitato esclusivamente da ebrei in un territorio musulmano e turco, ebbene, quella è cosa più unica che rara. Così ho attraversato il piccolo parco cittadino e sono scesa per l’ampia scalinata, costeggiata da statue argentee di atleti e atlete palestrati – un commovente kitsch sovietico – che porta al ponte pedonale di collegamento tra le due sponde del fiume.
Prima ancora che mi si spalancasse alla vista, tuttavia, ho avuto del luogo dove ero diretta una percezione sonora. Da dietro gli alberi del parco ho sentito a un certo punto un diffuso picchiar di martelli provenire proprio da quella parte. Lo sguardo, invece, è stato subito attratto dalla mole squadrata di un edificio che, primo ad accogliere il pedone al di là del ponte, con le sue sgraziate dimensioni nasconde alla vista un bel pezzo di paese.
Una volta lasciatolo alle spalle, mi sono trovata all’imbocco della strada principale del paese e ho finalmente scoperto perché i martelli non cessavano di picchiare. L’intera via era costellata di cantieri; ad una ad una le modeste case a un piano vengono sostituite da palazzine di due, tre piani, dall’aspetto solido e pretenzioso, tutte coicioni, architravi, colonnine e torrette. Ne ho subito riconosciuto lo stile: quello dei nuovi palazzi di Mosca, che l’occhio vede crescere in grandezza e numero senza mai abituarsi; uno stile che pare voler dire: «Guardatemi, quanto sono potente e quanto valgo».
Ma qui perché questa ostentazione d’arte architettonica?

Qui vive la più grande comunità di «ebrei di montagna»: così furono chiamati dai russi questi ebrei, che parlano un dialetto persiano e che nelle abitudini e nell’aspetto non si distinguono in nulla dagli altri abitatori del Caucaso. Sulla loro origine circolano le ipotesi più disparate, alcune decisamente leggendarie, come quella che vi vedrebbe le perdute tribù d’Israele, o l’altra che li farebbe un resto del popolo turco dei khazari, che occuparono il Daghestan nei secoli vi-x e che avevano il giudaismo come religione di stato.
Secondo un’altra tradizione sarebbero un ramo degli ebrei di Babilonia. Tuttavia, l’ipotesi più accreditata è che siano i discendenti degli ebrei persiani, mandati dai Sasanidi nel vi secolo a popolare il Caucaso orientale, estrema periferia del loro impero e regione di grande importanza strategica. Quel primo nucleo avrebbe poi raccolto nel corso dei secoli flussi migratori di ebrei provenienti sempre dalla Persia, soprattutto dalla regione caspica del Gilan, e da altre parti del Caucaso.
Non si sa quante migliaia di «ebrei di montagna» vivessero nel territorio degli attuali Azerbaigian e Daghestan, quando i russi vi arrivarono all’inizio del xix secolo. Un volonteroso ricercatore ne contò circa 21 mila nel 1888, di cui 6 mila solo a Evrejskaja Sloboda, il Borgo Ebraico, diventato Rosso, Krasnaja, dopo la rivoluzione del 1917.
Alla fine degli anni Settanta del secolo scorso erano, secondo stime approssimative, 50-52 mila. Con la perestrojka, però, molti cominciarono a trasferirsi in Israele, in America, o in Germania. Ve ne sono tuttora dei nuclei a Mosca e in altre città della Russia e c’è anche una grossa comunità a Baku.
Con la fine dell’Urss e l’introduzione del libero mercato, hanno avuto modo di manifestare appieno il proprio spirito imprenditoriale, si sono dati al commercio su larga scala; e le cose devono andare abbastanza bene, a giudicare dalle palazzine che stanno sorgendo nel «Borgo Rosso».

Nonostante l’alacre attività che si sospettava nei cantieri, sebbene fosse sabato, giorno del riposo (che fossero muratori azeri?), per strada di passanti ce n’erano pochi; così per scambiare due parole ho pensato di andare alla chaikhane, dove gli uomini si trovano a bere il tè, chai, a fumare, o a giocare a nardi, una sorta di dama mediorientale.
Gli avventori erano per lo più signori anziani; uno di loro, che nel frattempo aveva fatto arrivare al mio tavolo una teiera bollente, mi ha spiegato che tanti giovani del paese sono in giro per il mondo; i suoi figli, ad esempio, vivono a New York, lui, però, non ha nessuna voglia di lasciare la sua casa per raggiungerli.
Eravamo ormai al tramonto, ma nessuno degli avventori pareva intenzionato ad andare alla funzione del sabato sera; io, invece, avrei voluto assistervi, così ho chiesto al mio ospite di indicarmi la strada per la sinagoga.
L’ho visto imbarazzato. «Nel Borgo ce ne sono sette, mi ha spiegato, ma solo una è aperta e non la più interessante». Ci potevo andare, naturalmente, ma poi mi consigliava di fare un salto a una delle due feste di matrimonio che si preparavano per la serata. Come straniera avrei dovuto considerarmi invitata. Sarebbero state feste ricche, con molti invitati provenienti da ogni parte e cantanti azeri fatti venire apposta da Baku. Era chiaro che, a suo avviso, quella parte della serata sarebbe stata per me di maggiore interesse.
Mentre seguivo le indicazioni per l’unica sinagoga aperta, sono riuscita a individuae altre due, alquanto decrepite. Un tempo a Krasnaja Sloboda le sinagoghe erano 11 – ogni quartiere ne aveva almeno una – tanto da meritare al paese l’appellativo di «Gerusalemme del Caucaso». Poi erano venuti gli anni dell’ateismo di stato: qualche sinagoga fu abbattuta, le altre andarono in rovina o furono adibite ad altri usi. Ora, con la libertà di culto e la nuova prosperità economica della comunità, le cose sono migliorate e si è provveduto a restaurae qualcuna. Gli ebrei del Borgo, tuttavia, non sembrano brillare per zelo religioso.

Davanti alla sinagoga ho trovato solo un gruppetto di uomini in attesa della funzione. Io ero l’unica donna. Siccome alle donne non è consentito pregare assieme agli uomini, per farle in qualche modo partecipare alla funzione la fantasia degli architetti locali ha escogitato un sistema ingegnoso: la stanza loro riservata ha una finestra che dà su un corridoio di separazione, proprio in corrispondenza di un’altra finestra che dà sul locale principale. Grazie a questo gioco di finestre le donne possono seguire la preghiera.
Mi è stato detto che mi sarei potuta fermare nel corridoio, così da vedere meglio. Ne ho approfittato per guardare alcune fotografie lì appese, che documentavano i buoni rapporti della comunità con le autorità azerbaigiane: visite ufficiali di alti funzionari di Baku alla sinagoga e, viceversa, di notabili ebrei ai funzionari di Baku.
Al calar del sole i fedeli sono entrati, togliendosi le scarpe come in una moschea, e la funzione ha avuto inizio. Dal mio punto d’osservazione ho visto gli uomini muoversi al canto della preghiera, passarsi il Libro per leggerlo a tuo, e inchinarsi ai rotoli della Torah, esposti a occidente.
È per questo motivo, oltre che per le differenze nel rito e nelle parole delle preghiere, che quando gli ebrei europei cominciarono ad arrivare nel Caucaso, a seguito della conquista russa, non si mischiarono ai loro fratelli «di montagna», ma si costruirono sinagoghe separate.
Nel quartiere ebraico di Baku i templi delle due comunità si trovano in due vie adiacenti, orientati rigorosamente in direzioni opposte. Il diverso orientamento fa memoria delle diverse direzioni prese dalla diaspora ebraica. Coloro che andarono a occidente rivolsero le loro sinagoghe a est, dove avevano lasciato Gerusalemme, e il contrario fecero coloro che andarono a oriente.
Tra le due comunità non c’era molta simpatia. Gli «europei» snobbavano i «montanari», che quasi non si distinguevano tra la massa degli «incolti asiatici»; questi ricambiavano la diffidenza dei correligionari europei e sembravano trovarsi più a loro agio con i vicini musulmani, con i quali, fuorché la fede, condividevano tutto, perfino l’architettura dei loro luoghi di culto.
Me ne sarei resa conto il giorno dopo andando a spasso per Quba. Per un attimo, nel passare accanto a una moschea di quartiere, ho creduto di aver trovato un’altra sinagoga: la stessa forma a casetta bassa, la stessa torretta sul cucuzzolo. Solo che, a ben guardare, al posto della stella di David, appariva una discreta mezzaluna.

Quando sono uscita dalla sinagoga già imbruniva. Ora in strada c’era animazione. Il martellare era cessato, in compenso si sentivano le note di un’orchestra.
Mi sono ricordata dei due ricchi matrimoni e anche, chissà perché, che non avevo pranzato. Avevo una gran voglia di mettere qualcosa sotto i denti, ma, con i due banchetti di nozze in pieno svolgimento nei due unici ristoranti del paese, non sarebbe stata cosa facile.
Sono tornata un po’ delusa verso il ponte e mi si è nuovamente parato davanti lo sgraziato edificio che avevo notato all’inizio. Era uno dei ristoranti. Al primo piano, dietro il parapetto dell’enorme terrazza coperta, si vedeva un pullulare di teste, in un angolo s’intuiva la presenza dei musicisti, davanti a loro emergevano i mezzibusti dei cantanti.
Non mi aveva un signore per strada appena confermato che avrei dovuto considerarmi invitata alla festa? Così ho fatto un timido tentativo di avvicinarmi alle scale, ma l’ingresso era guardato da due solidi ragazzotti in giacca e cravatta, che non avevano un’aria incoraggiante.
Lì, sul ponte, tra gli sfaccendati venuti a guardare da lontano la festa, ho riconosciuto alcuni ragazzi che avevo visto in sinagoga. Sono stati loro a ridarmi speranza. Esattamente dall’altro capo del ponte, nascosto tra il verde della riva c’era un ristorantino. Si sono offerti di accompagnarmi, perché conoscevano bene il padrone, un azero piccolo e mite, e gli avrebbero detto di trattarmi bene. Nell’attesa che arrivasse la mia cena si sono trattenuti a chiacchierare con me, poi si sono dileguati, nonostante il mio invito a restare. Non volevano disturbarmi mentre mangiavo.

Rimasta sola, mi sono messa a riflettere sul caso singolare di quelle due comunità che da secoli si guardano da una sponda all’altra del fiume. Come in tutto il mondo islamico, anche nel Caucaso gli ebrei non avevano gli stessi diritti dei musulmani, erano soggetti a maggiori obblighi e tasse.
Tuttavia, la loro posizione era qui migliore che altrove. Veniva loro perfino riconosciuto il diritto di portare il pugnale, accessorio indispensabile dell’abbigliamento di un montanaro. Il pugnale nel Caucaso non era solo un’arma, aveva anche un valore simbolico, perché era lo strumento con cui si stipulava un patto di sangue tra due membri di clan diversi; in questo modo si diventava fratelli per elezione, pur non essendolo per nascita, e ci si impegnava a comportarsi in tutto e per tutto come i figli di un’unica madre. Ci furono casi in cui un simile patto unì musulmani ed ebrei. Ma ciò avvenivano soprattutto nei villaggi sparsi tra i monti.
A Evrejskaja Sloboda, ai piedi delle montagne, il rapporto con i vicini turchi era, invece, piuttosto freddo. Gli ebrei avevano potuto insediarsi in quel luogo solo per volere del Khan di Quba, che intorno al 1730 aveva loro concesso un lembo di terra su cui costruirvi il villaggio. Non avevano diritto di occupare i terreni circostanti, motivo per cui, con l’arrivo di nuove famiglie e il crescere della comunità, le case si erano sempre più infittite.
Raramente gli ebrei si arrischiavano ad andare sulla riva opposta, per paura di essere aggrediti o derubati. È significativo che il ponte sia stato costruito solo nell’Ottocento e che, anche in seguito, il traffico tra le due sponde fosse minimo.
Ora, però, i destini delle due comunità sembravano invertirsi: grazie alle doti nel commercio dimostrate dai suoi abitanti, Krasnaja Sloboda prosperava, le case crescevano in altezza, la via principale era appena stata riasfaltata, e le numerose auto vi correvano senza fare la gimcana tra le buche, o sobbalzare sui grossolani rattoppi del fondo stradale.
Speriamo, mi dicevo, che tutta quella mostra di ricchezza non susciti cattivi sentimenti nei vicini azeri, evidentemente non così abili nell’adattarsi ai nuovi tempi.
In Azerbaigian la ricchezza che viene dal petrolio si vede solo in centro a Baku, non arriva neanche alla periferia della capitale, figuriamoci a Quba. Qui, non diversamente che in tante altre parti dell’ex Urss, bisogna conoscere l’arte di arrangiarsi, oppure avere parenti all’estero che mandano di tanto in tanto un po’ di valuta pregiata. Se non si hanno né l’uno, né gli altri, la vita è grama. Speriamo, dunque, che la miseria non sia cattiva consigliera.
Questo pensavo, mentre le note delle canzoni azere mi giungevano da oltre il fiume, così come qualche ora prima il picchiettio dei martelli.

di Bianca Maria Balestra

Bianca Maria Balestra




Angeli con un’ala rotta

Giovane dentista, cresciuto nello spirito missionario frequentando i nostri gruppi giovanili, Daniele ha deciso di spendere alcuni mesi come volontario in un ospedale del Cottolengo in Kenya, per mettere
a servizio dei più poveri la sua specializzazione professionale. Le riflessioni sulla sua esperienza insegnano che occorre poco per essere felici: basta fare felici gli altri. Provare per credere.

«Ed è subito sera». Credo sia una poesia di Quasimodo. È diventata un po’ il motivo portante di questa mia vita qui, a Chaaria. Mi accorgo di quanto sia vero proprio in questo posto, proprio adesso in cui rubo qualche minuto alla routine in ospedale per scrivere.
Non me ne sono accorto, ma quasi due mesi sono passati. Un giorno per volta, un passo dopo l’altro, mi sembra di aver fatto tanta strada e nello stesso tempo di essere fermo.
Sembra incredibile, il giorno scorre come un torrente, a volte placido, a volte come imbizzarrito. E veloce. Cavoli com’è veloce!
Dalla mia camera vedo l’alba. Ogni mattina spengo la sveglia (maledico la sveglia) e, ancora sdraiato, 6 e 20, apro le tende. Apro anche la finestra: mi piace il fresco del mattino, mi aiuta a svegliarmi. È tutto tranquillamente in ombra, le vacche dormono, il bananeto non si muove. E di colpo esce fra le foglie di banana un disco arancione.
Sembra che quella palla rossa, enorme, sia lì apposta per me, a guardarmi in faccia per dirmi che sono vivo, e se mi sbrigo a saltare fuori dalle lenzuola è meglio. Non capisco cosa ci sia di diverso nel cielo; è come se fosse pronto a piombarti sulla testa, è come se fosse piegato ad abbracciarti. Probabilmente sarà per la diversa curvatura della terra all’equatore. Non mi interessa. Mi piace pensare che sia Dio che stringe al petto con amore i suoi figli prediletti: i miserabili, i sofferenti che abitano qui. E che sono quelli che ama di più, non perché sono più buoni, ma perché sono poveri.
Così comincia un’altra giornata. La messa come prima cosa. Per dare energia, per trovare un motivo per tutto quello che ci circonda. O almeno dovrebbe essere. In realtà ho talmente sonno, che tante volte riprendo conoscenza quando qualcuno seduto vicino a me mi scrolla per darmi il segno della pace.
Di lì in poi si comincia a correre. Perché, ha detto Madre Teresa, «non sia mai che qualcuno venga da voi e non se ne vada migliore di com’era quando è venuto, più felice». Questo cerco di propormi ogni mattina. Spesso non ci riesco.

È difficile spiegare Chaaria. Perché è difficile spiegare i sentimenti a parole. E i sentimenti sono forti; e sono in contrasto fra di loro. Sono occhi, grida, sorrisi, lacrime. Sono volti, nomi, odori.
Chaaria è Glory: non sa perché, ma a 12 anni ha un tumore. Troppi soldi per operarsi. Maledetti soldi. Sempre loro. Troppo tardi per cercare una soluzione. C’è un angelo in più, adesso, in cielo. Un angelo troppo piccolo per capire, troppo lontano adesso dal suo papà che piange.
Chaaria è Susan: non ha fatto niente di male. Ha l’Aids. Senza colpa. Semplicemente, è nata dove non doveva. Susan sorrideva, sempre, mi salutava con la mano sinistra. Mi ha anche ringraziato perché le ho tolto un dente che le faceva male.
Non è una bambina, è un fiore, dolce come un bacio. Mi sorrideva anche la sera se passavo a toccarle una mano. Ma è fragile, Susan. Troppo il peso della sofferenza sulle sue ossa leggere.
Susan è una fiammella che si allontana sempre più. Susan è un angelo con un’ala rotta, è scesa per farci capire quale preziosa meraviglia sia la vita.

Stasera, proprio mentre scappavo dall’ospedale per venire a scrivere, si sentiva da una radio quella canzone, di non so più chi, che dice «… but if God was one of us…». Già, se Dio fosse uno di noi, cosa gli direi…
Lo ringrazierei per l’alba, i fiori del frangipane, gli alberi di banana, i mango. Per la risata di Makena, le gambe di Kanana, il sorriso di Beppe, la voce di Lorenzo. Perché respiro. Forse ci litigherei. Gli urlerei in faccia. Come Vecchioni che canta: «Ora facciamo due conti io e te, Signore!». Perché non fai qualcosa?
In questa mia fede traballante mi convinco sempre più che, se Dio c’è, è qui, con i poveri, con quelli che soffrono. Non fa quello che vorrei io. Non è un Dio prestigiatore, che fa i miracolini per far vedere che può. È un Dio che sta con gli ultimi. Anzi, sta proprio in fondo alla fila. Lui era lì. Con Glory. A tenerle la mano, in silenzio. Lo so.

Certo, la rabbia a volte è tanta. Non so se la notizia sia arrivata in Italia, ma qui la scarsa stagione delle piogge ha portato la carestia. Giustamente, persone di buon cuore si sono attivate per portare sollievo a una popolazione sofferente. Così una dolce vecchietta neozelandese, amministratore delegato di una multinazionale che produce alimenti per animali, ha offerto in dono diversi quintali di mangime per cani, «per alleviare la fame dei bambini del nord del Kenya». Complimenti! È grazie a iniziative costruttive come questa che Beppe Grillo può mantenere attivo il suo blog.
L’Undp (United Nations Development Programme) ha calcolato che basterebbero 40 miliardi di dollari, lo 0,1% del prodotto interno lordo mondiale, per garantire a tutti, in tutto il mondo, i servizi sociali di base. Ogni anno spendiamo circa 1.000 miliardi di dollari in armi, quasi 500 in pubblicità, 50 in sigarette, 11 in gelati. E circa 20 in cibo per animali. Guardando tutto da quaggiù, non mi sento per niente fiero di essere un abitante di questo pianeta.
Ma non vorrei che con tutto questo mi pensaste triste o scoraggiato. L’unica cosa è che ho tanto sonno. Ma sento verissimo quello che dice Frei Betto: «Nella vita per essere felici serve solo un po’ di pane, del buon vino e un grande amore». La vita semplice, come dice Gesù: beati, sì, beati i cuori semplici. È la semplicità che fa scoprire una libertà interiore.
È di questa libertà del cuore che, credo, tutti abbiamo sete. Una mia grande amica mi ha detto una volta che i poveri sono una straordinaria ricchezza. Credo sia vero.
E poi non ci sono solo Glory e Susan. Solo che spesso spendo più tempo a pensare alle ombre che alle luci. Capita anche a voi?
Vorrei raccontarvi di William, che lavorando si è distrutto una mano. Con Gian l’abbiamo ricostruita, e ho visto ieri che riesce di nuovo a muovere il pollice.
Potrei raccontarvi di Kangai, che ha partorito, dopo un bruttissimo intervento, una bimba che sarà una fotomodella o almeno un premio Nobel. La settimana scorsa è andata a casa, mi ha salutato con quel suo orrendo sorriso sdentato, bellissimo.
O di Isidoro, uno dei nostri «buoni figli», un dolce vecchietto di 5 anni che non dimostra per niente i suoi 60; che salta di gioia quando lo portiamo in macchina a bere una cocacola in «città»; che mi ferma per mostrarmi orgoglioso la sua tartaruga che ha chiamato Brother Moris.
Ma non c’è più tempo, vi parlerò ancora di loro. Adesso è tardi, devo tornare in ospedale. Poi bere una birra e poi andare a dormire. Magari dopo avee cantate un paio con Andrea. Canzonacce da osteria o canzoni d’amore, con la chitarra. Come se fossimo da sempre in vacanza.

Ho sentito in un film una frase dura, che mi ha colpito. Diceva circa così: faranno vedere tutte queste cose al telegiornale, la gente dirà «che vergogna». Poi prenderà in mano la forchetta e ricomincerà a mangiare cena. Forse è proprio così.
Ma non dobbiamo rassegnarci. Non dobbiamo abituarci. Si può cambiare. «Il sole nasce anche d’inverno. La notte non esiste: guarda la luna» diceva una canzone qualche anno fa. Il mondo può cambiare.
Siamo noi che possiamo cambiarlo. Noi, tutti insieme. Un pezzo alla volta. Non so se il Signore mi ha voluto qui per cambiare il mio pezzettino. Credo che ci proverò. Di sicuro sono felice.

Di Daniele Pecorari

Daniele Pecorari




Uniti per … trasformare il mondo

«Trasformazione» è stata la parola d’ordine risuonata nell’Assemblea del Consiglio mondiale delle chiese (Cmc), tenuta a Porto Alegre (Brasile) dal 14 al 23 febbraio scorso. Vi hanno partecipato quasi 4 mila persone, provenienti da tutto il mondo, rappresentanti di 348 chiese membro. Era presente, come membro della delegazione vaticana, anche padre Piero Trabucco, che condivide con noi la sua esperienza.

Con scadenza settennale, il Consiglio mondiale delle chiese (Cmc) celebra la sua assemblea generale. Essa costituisce un momento importante di incontro per i rappresentanti di varie comunità cristiane, nell’intento di costruire nuovi ponti fra le innumerevoli chiese cristiane, fare un consuntivo del cammino compiuto verso l’unità dei cristiani e per programmare ulteriori tappe verso la realizzazione dell’ideale voluto da Gesù stesso, che tutti i credenti «siano una cosa sola» (Gv 17, 21).
Nel mese di febbraio 2006, per 10 giorni, in Porto Alegre (Brasile), si sono dati appuntamento 3.838 rappresentanti di chiese cristiane, di cui 691 erano delegati ufficiali e con diritto al voto, mentre i restanti 3.147 partecipavano a vari titoli, quali osservatori ufficiali, giornalisti, rappresentanti dei giovani o di altre categorie all’interno del popolo cristiano.
Tra questi osservatori ufficiali c’erano i membri della delegazione del Vaticano, comprendenti vari rappresentanti del «Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani» e altri invitati, come religiosi e religiose, membri di movimenti ecclesiali, vescovi e sacerdoti.
Come segretario dell’Unione superiori generali, ho avuto il privilegio di essere invitato a fare parte della delegazione vaticana e così di poter vivere all’interno e in maniera molto intensa questo evento. Ho potuto così scoprire, poco a poco, cosa significa per la chiesa cattolica, oggi, vivere l’impegno di lavorare per l’unità dei cristiani nel grande movimento ecumenico.

Un po’ di storia

Per comprendere meglio l’importanza di questo evento, è forse opportuno ricordare come è nato e come si è sviluppato il Consiglio mondiale delle chiese.
La prima Conferenza mondiale della missione, tenutasi a Edimburgo, viene celebrata nel 1910 ed evidenzia con molta forza il bisogno di lavorare per l’unità della chiesa, se si vuole essere efficaci annunciatori del vangelo ai popoli. Da quella assise nascono il «Consiglio internazionale della missione», «Fede e costituzione» e «Vita e lavoro».
Alla vigilia della seconda guerra mondiale, alcuni capi delle chiese cristiane «storiche» propongono di costituire il Consiglio mondiale delle chiese. L’idea si potrà concretizzare soltanto nel 1948, quando i rappresentanti di 147 chiese si riuniscono in Amsterdam e danno vita al Cmc.
In seguito le assemblee verranno celebrate in varie parti del mondo, con tematiche specifiche e per affrontare questioni particolarmente sentite dalle varie chiese.
L’Assemblea di Nuova Delhi, nel 1962, offre al Consiglio una struttura solida e un’apertura a tutti i continenti. In quell’occasione un buon numero di chiese ortodosse decide di aderire al Consiglio mondiale delle chiese.
Negli anni ‘70 e ‘80, si affrontano temi teologici quali l’eucaristia, il battesimo e i ministeri della chiesa. Negli anni ‘90, si presta una particolare attenzione ai temi della pace e della giustizia.
Ad Harare, nel 1998, si fa una seria riflessione sulla tensione ecumenica del Consiglio stesso. Viene dato voce a un diffuso malessere delle chiese ortodosse, a causa dell’eccessivo frazionamento dei rappresentanti delle chiese membri.

La chiesa cattolica non ne è membro: perché?

La domanda è stata ripetutamente posta a noi, membri della delegazione vaticana, nel corso dell’Assemblea di Porto Alegre. Il Pontificio consiglio per l’unità delle chiese ha voluto allora ricordare i motivi principali per cui la chiesa cattolica, pur essendo un attivo partner, non ne fa giuridicamente parte.
Fin dalla sua nascita nel 1948, nel Cmc predomina una ecclesiologia prevalentemente protestante. Gli ortodossi sono sempre stati una minoranza e la loro posizione teologica non viene presa molto in considerazione. L’auspicio che anche la chiesa cattolica entri a far parte del Cmc viene ripetutamente ribadito. La chiesa cattolica si troverebbe molto a disagio con l’ecclesiologia vigente oggi nel Consiglio.
Secondo l’attuale costituzione del Cmc, le chiese membri sono le chiese nazionali. Esse si presentano all’assemblea a titolo individuale, per cui all’interno della stessa chiesa (es. anglicana) le posizioni possono essere molto diversificate. La chiesa cattolica, come chiesa universale, non può essere accettata dall’attuale struttura del Cmc.
La costituzione attuale del Cmc prevede che il numero complessivo dei fedeli di una chiesa determini il numero dei delegati all’Assemblea. Se la chiesa cattolica dovesse entrare nel Consiglio, essa avrebbe il numero doppio di delegati di tutte le altre chiese assommate assieme, che è invece di 560 milioni.
Il tema dell’autorità è centrale nella chiesa cattolica. Senza dubbio, il modo di intenderla costituirebbe un ostacolo non indifferente alle chiese protestanti e anche a quelle ortodosse.
Per questi e altri motivi, la chiesa cattolica, pur essendo presente nel Cmc attraverso una viva collaborazione con le sue attività e soprattutto negli approfondimenti teologici, in vista di un cammino comune verso l’unità, non ne fa parte giuridica.
Il suo ruolo nel Cmc, sebbene discreto, resta un punto di riferimento per tutte le chiese cristiane, senza però avere un’autorità decisionale. In altre parole, essa mira a condividere gli impegni piuttosto che avere un’appartenenza a pieno titolo.

Svolgimento dell’assemblea

Attoo al tema scelto per la nona Assemblea («Dio, nella tua grazia, trasforma il mondo»), hanno preso vita una miriade di attività. Più che un incontro di specialisti che riflettono attorno a temi importanti, l’Assemblea ha avuto invece il carattere di una festa. Il segretario generale, dott. Samuel Kobia (kenyano), l’ha voluta chiamare in portoghese: «A festa da vida» (la festa della vita).
L’organizzazione, sebbene molto elaborata e complessa, è stata perfetta. L’accoglienza cordiale e festosa, ha riflettuto bene il calore latinoamericano. Molto viva e attiva nell’organizzazione di tutta l’assemblea è stata la chiesa cattolica, nella persona dell’arcivescovo di Porto Alegre e di tanti laici e membri di movimenti ecclesiali.
I lavori di assemblea occuparono quasi tutte le giornate dei delegati ufficiali e nostre, quali delegati ufficialmente invitati. Qui venivano affrontati temi precedentemente discussi ed elaborati da commissioni ad hoc.
Il grande numero di partecipanti ha reso particolarmente impegnativo il lavoro e difficile la moderazione. Per la prima volta si è voluto procedere, non per votazione, ma per mezzo del «consenso», per venire così incontro allo scontento manifestato ripetutamente dagli ortodossi nella precedente Assemblea di Harare.
Questo metodo ha forse penalizzato il dibattito in aula, ma ha reso più spediti i lavori. D’altronde, come si avrebbe potuto prendere in considerazione e approvare vari documenti in un’assemblea di 700 persone?
Momenti di culto e di preghiera si svolgevano all’inizio delle attività della giornata e alla sera, sotto una grande tenda capace di contenere 3.000 persone. Non è stato possibile celebrare un’eucaristia assieme, data la grande disparità di posizioni teologiche all’interno delle chiese membri del Cmc.
Altro momento particolarmente significativo di riflessione e preghiera è stato lo studio biblico, fatto a gruppi misti di 10-12 persone, ogni mattina, dopo la preghiera nella grande tenda. È qui che ognuno ha potuto sentire forte il richiamo a lavorare per l’unità della chiesa e anche il dolore per le divisioni.
Nel mio gruppo, una signora luterana della Namibia ha ripetutamente detto: «Se attorno alla parola di Dio ci sentiamo in questo momento così uniti, sebbene appartenenti a ben 9 chiese diverse, perché non lo possono essere tutte le nostre chiese?».
Tre mattinate sono state dedicate alle conversazioni ecumeniche attorno a 23 temi diversi. Ognuno poteva scegliere il tema che considerava di maggiore interesse. Purtroppo i risultati di tali conversazioni, ricche di spunti e suggerimenti, non hanno potuto essere presentati a tutta l’Assemblea. Si spera ora in una efficace divulgazione dei risultati di tali conversazioni ecumeniche.
La parola portoghese mutirão designava gli innumerevoli incontri, variegati nei temi e nello svolgimento, portati avanti dai numerosissimi partecipanti non delegati. Essi avevano un carattere informativo sopra temi importanti o realtà particolari, che toccavano la vita delle chiese cristiane nelle varie parti del mondo. Particolarmente evidenziati sono stati i temi riguardanti la pace, la giustizia, la salvaguardia del creato, i malati di Aids, le minoranze emarginate.
Non mancarono visite importanti. Il presidente Luis Inácio Lula da Silva è venuto appositamente a Porto Alegre a salutare l’assemblea. Il card. Walter Kasper ha letto un messaggio speciale del papa. L’arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, ha esortato con parole forti le chiese a prendere a cuore l’ecumenismo. L’arcivescovo Desmond Tutu del Sudafrica ha ribadito a sua volta che «l’unità delle chiese non è un’opzione extra, ma è indispensabile per la salvezza del mondo».

Sentimenti e impressioni

Le due settimane vissute a Porto Alegre hanno generato in me molteplici sentimenti. Di gratitudine, innanzitutto, per l’opportunità di fare una forte esperienza di riflessione, di preghiera e comunione con tanti fratelli di fede attorno al tema dell’unità della chiesa.
Ho condiviso in maniera profonda un tempo prolungato di convivenza con la delegazione della Santa Sede, composta da vescovi, sacerdoti, religiosi e membri di movimenti ecclesiali: è stato un arricchimento grande e abbiamo potuto creare tra noi un clima molto bello di frateità, ascolto e dialogo.
Ho potuto pure condividere con tante persone di differenti denominazioni cristiane la sofferenza nel constatare come l’obiettivo dell’unità della chiesa si allontani sempre più, a causa della crescita esponenziale, nel sud del mondo, di nuove chiese, soprattutto pentecostali ed evangeliche, che paiono avere poca sensibilità verso il movimento ecumenico.
Il Cmc stesso sembra attraversare un momento cruciale. Le sue attività si sono moltiplicate eccessivamente, al punto da oscurare la finalità prima e fondamentale per cui il Consiglio stesso è nato, cioè l’unità di tutte le chiese cristiane. Forse esso ha dato troppo spazio ad attività parallele, soprattutto nel campo della giustizia e della pace, a scapito forse di una seria indagine teologica, o di un cammino unitario di fede delle varie chiese.
Porto Alegre ha percepito l’urgenza di una inversione di rotta, ma sembra che non sia riuscito a compiere delle scelte, tali da imprimere un andamento diverso al movimento ecumenico.
Apprezzamenti per l’«ecumenismo della vita» sono risuonati più volte in aula e nei gruppi di lavoro e menzione esplicita è stata fatta per gruppi e movimenti particolarmente attivi in quest’area (es. Focolari, Sant’Egidio).
Quest’ecumenismo viene visto non in opposizione ad altre iniziative e non è considerato una scelta alternativa. Esso mira piuttosto a creare un clima di amore reciproco, di frateità, di collaborazione tra tutti i cristiani, dove la figura di Cristo emerge come fermo e costante punto di riferimento. Partendo dall’amore fraterno, dove la presenza di Cristo è fortemente sentita, qualsiasi iniziativa ecumenica porterà allora risultati positivi.

Un bilancio del lavoro e della presenza della chiesa cattolica nell’assemblea è stato fatto da Samuel Kobia, segretario generale del Cmc: incontrando un gruppo di 200 cattolici, ebbe parole di encomio per il servizio offerto dalla chiesa cattolica nella preparazione e durante tutta la celebrazione dell’evento. Diceva loro: «Le relazioni con la chiesa cattolica avranno ora una nuova qualità e profondità. In questi giorni ci siamo accorti veramente chi era cattolico e chi non lo era».
Mi viene spontaneo ripetere ancora una volta la preghiera-tema dell’Assemblea: «Dio, nella tua grazia, trasforma il mondo».

di Piero Trabucco

Piero Trabucco