1967-2007, l’attualità della Populorum Progressio

Fa un certo effetto rileggere oggi, a quarant’anni di distanza, l’enciclica Populorum progressio, promulgata da Paolo vi il 26 marzo, domenica di pasqua, del 1967. Essa rappresenta uno dei vertici più alti del magistero della chiesa, per certi versi segna uno spartiacque nel cammino della pastorale universale.
Lo sviluppo integrale dell’uomo, inserito nel più vasto sviluppo dell’umanità, viene indicato da papa Montini come via privilegiata verso la crescita della grande famiglia dei popoli e delle nazioni che abitano la terra e, in modo più specifico, vengono indicati i cammini da percorrere, per costruire questa nuova prospettiva internazionale. Il sollecito papale viene rivolto indistintamente sia alle ricche e opulente nazioni dell’Occidente come alle nazioni appena affrancate dal colonialismo, unitamente ad altre, imbrigliate dai legacci del sottosviluppo: tutte vengono indicate da Paolo vi come artefici di un nuovo cammino, in grado di cambiare il corso della storia.
Lo sviluppo è il vero nome della pace, recita il leit motiv, continuamente ripetuto dall’enciclica; ma accanto a questa felice espressione non mancano indicazioni concretissime perché questo principio, apparentemente astratto e irraggiungibile, si concretizzi nella vita dei cattolici e, più in generale, degli uomini di buona volontà. Paolo vi, difatti, lancia un appello alle coscienze degli abitanti dell’opulento mondo occidentale, che ci sembra opportuno ricordare. Dice papa Montini al numero 47: «È l’uomo (del Primo Mondo) pronto a sostenere col suo denaro le opere e le missioni organizzate in favore dei più poveri? A sopportare maggiori imposizioni affinché i poteri pubblici siano messi in grado di intensificare il loro sforzo per lo sviluppo? A pagare più cari i prodotti importati onde permettere una più giusta remunerazione per il produttore? A lasciare, ove fosse necessario, il proprio paese, se è giovane, per aiutare questa crescita delle giovani nazioni?».

S ono interrogativi di un’attualità sconvolgente, soprattutto se si tiene conto che a tutt’oggi si centellinano gli aiuti destinati allo sviluppo dei paesi poveri. I grandi della terra nei periodici incontri dei vari G7 e G8 (l’ultimo è stato in Germania lo scorso giugno ) si riempiono la bocca con affermazioni solenni di solidarietà verso i paesi emergenti, mentre poi, nel concreto della real-politik dei loro interessi, questi stessi capi di stato chiudono i cordoni della borsa.
A volte assistiamo, scoraggiati, alle uscite estemporanee di una certa classe politica nostrana, in cui si afferma che il non pagare le tasse non è proprio un delitto, anzi è consigliabile a chi vuole arricchirsi; così pure le politiche protezionistiche messe in atto per tutelare i prodotti del Primo Mondo, sono la vera causa dell’impossibilità di tante nazioni dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, di poter competere ad armi pari sul libero mercato internazionale.
Ultimo, il fatto di veder sempre più diminuire la propensione a un impegno di vita al servizio dei fratelli e sorelle più poveri la dice lunga su quanto il liberismo sfrenato sia entrato ormai nell’orizzonte di vita di molti giovani. Come si vede, sono appelli alla coscienza che diventano interrogativi stimolanti ancora oggi: rileggere la Populorum progressio, ma soprattutto per tradurla in scelte concrete di vita, ci sembra un cammino più che mai attuale da percorrere.

Mario Bandera

Mario Bandera




USA contro ONU

Il 7 marzo 2006 il segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan ha rilasciato un importante documento (1), che sarà fondamentale per implementare il prossimo processo di riforma della massima organizzazione internazionale.
Oggigiorno l’Onu sta perseguendo nuovi ed ambiziosi obiettivi, come per esempio quello del «peacekeeping», in una realtà geopolitica totalmente differente da quella del secondo dopoguerra, quando l’Onu fu fondata (1945). Questo documento sottolinea la fondamentale presenza delle Nazioni Unite in paesi in via di sviluppo ed in numerose aree di conflitto.
Il peacekeeping, ovvero le attività di mantenimento della pace, è proprio uno dei programmi che il segretario generale ha maggiormente a cuore e che ha illustrato nel suo documento di riforma.
Al 31 gennaio 2006 il Dipartimento di mantenimento delle operazioni di pace (Dpko) delle Nazioni Unite gestiva 18 missioni di pace, per un bilancio annuale superiore a 5 miliardi di dollari. Una cifra enorme se si pensa che la maggior parte delle Agenzie di cooperazione e sviluppo opera con bilanci sensibilmente inferiori (2). Eppure queste operazioni di pace, nonostante i lodevoli risultati raggiunti in ambienti ostili e pericolosi, sono sotto continua critica da uno dei suoi maggiori contribuenti (almeno teorici), ovvero gli Stati Uniti d’America. Questi infatti criticano fortemente i risultati operativi delle operazioni di peacekeeping e delle Nazioni Unite più in generale.

La volontà politica di ridimensionare, se non addirittura di «liquidare» (come sostengono i più pessimisti), in tempi rapidi l’Onu è evidente, e si è materializzata nell’agosto 2005 con la contestatissima nomina (effettuata direttamente da Bush durante la chiusura estiva del Congresso) (3) del nuovo ambasciatore americano all’Onu, John Bolton, da sempre nemico dell’organizzazione. La serie di proposte contenute nel documento H.R. 2745, relativo all’agenda di lavoro del senato americano nel giugno 2005, mette in discussione la credibilità delle Nazioni Unite, proponendo delle importanti revisioni al suo mandato, nonché sensibili riduzioni del suo bilancio operativo. A questo proposito, ed è triste a dirsi, l’unico paese occidentale che finora ha risposto a questa proposta finanziaria è stata proprio l’Italia. Il nostro paese ha infatti improvvisamente estinto, ad insaputa degli stessi addetti ai lavori (come, per esempio, il rappresentante permanente italiano all’Onu, l’ambasciatore Marcello Spatafora), i finanziamenti di natura temporanea delle principali Agenzie per lo sviluppo delle Nazioni Unite (Who, Unicef, etc.).
La critica e proposta del governo statunitense ha dell’incredibile se si pensa a quanto spende questo governo per sostenere le proprie «operazioni di pace» (in Iraq, in Afghanistan), che in termine tecnico sono chiamate «nation building», ovvero di costruzione di nazioni (termine molto discutibile se si vedono i risultati della politica estera americana degli ultimi 60 anni, ndr). A tutto questo si somma che i dati e le previsioni di micro e macro-economia americana non sono certo confortanti. Il bilancio dello stato è in profondo rosso, ed il suo governo invece di affrontare le vere priorità intee (cioè occupazione, educazione, sanità e pensioni) ha inventato la famosa «guerra preventiva», la quale ha letteralmente dissanguato le casse dello stato. Questa guerra è stata architettata per due finalità, ad immediato ed a lungo termine: rispettivamente quella di dare importantissime commesse (miliardi di dollari) all’industria militare statunitense e quella di preparare il successivo terreno esplorativo per l’industria petrolifera americana.
Per chi, come me, vive negli Stati Uniti è facile rendersi conto, attraverso i mass media, che il paese si considera a tutti gli effetti in guerra, anche se contro un nemico – il terrorismo – non ben identificato ed identificabile.

Conti alla mano, a quanto ammonta il bilancio annuale della difesa americano? Da stime approssimative, il costo annuale è 100 volte superiore a quanto spendono, in un anno, le Nazioni Unite per mantenere le loro 18 operazioni di pace (4).
La notizia allarmante è che la Casa Bianca ha recentemente richiesto un ulteriore aumento (+ 6.9%) del bilancio della difesa, ovviamente a scapito di altri capitoli di amministrazione civile del bilancio dello Stato (5). La richiesta del presente governo Bush è di avere un bilancio per la difesa pari a 439 miliardi di dollari, a cui si devono aggiungere altri 70 miliardi di dollari per il mantenimento delle guerre in Iraq ed Afghanistan.
A questo proposito vorrei raccomandare ai lettori di Missioni Consolata un interessantissimo documentario («Why we fight» di Eugenee Jarecky, 2006) (6), che descrive ed analizza l’incredibile impennata delle spese militari, la cui industria ha strettissimi legami con l’amministrazione Bush. Mi auguro che questo documentario possa essere tradotto e presentato anche in Italia, dove purtroppo una grande parte dell’opinione pubblica, come negli Stati Uniti, non è al corrente di questi fatti.

DI BARBARA MINA

Note:
(1) Vedere: A/60/692; scaricabile dal sito internet delle Nazioni Unite: www.un.org.
(2) Per esempio, il bilancio annuale dell’UNDP (Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite) non supera 900 milioni di dollari.
(3) Agosto 2005.
(4) Queste impiegano circa 80.000 uomini di stati membri e 15.000 funzionari civili Onu.
(5) Fonte: Financial Times, Tuesday February 7, 2006.
(6) Sul sito www.whywefight.com è visibile un trailer molto significativo.

Barbara Mina




Curare ai confini della vita

Che fare quando non si può più arginare la malattia o farla regredire?
In questi casi (in rapida crescita) occorre cercare di controllare i sintomi
e di ridurre la percezione del dolore.

«Nella medicina modea – scrive Giovanni Paolo II – vanno acquistando rilievo particolare le cosiddette cure palliative, destinate a rendere più sopportabile la sofferenza nella fase finale della malattia e ad assicurare al tempo stesso al paziente un adeguato accompagnamento umano» (Evangelium vitae, n.65). Nell’assistere il paziente può giungere il momento in cui dal punto di vista terapeutico non si può più arginare la malattia o farla regredire, e in questa situazione ogni intervento rischia di essere eccessivo, non proporzionato.
Però la medicina anche in queste situazioni ha ancora delle risorse da impiegare e pertanto ha l’obbligo di ricorrervi, nei limiti del possibile, con atti non più rivolti esclusivamente alla guarigione e al prolungamento della vita, ma come un dovere nei confronti del paziente e della sua dignità.
Di fronte a un certo concetto della medicina che in questi casi afferma di non poter fare più nulla, si è fatto riferimento al termine latino pallium, cioè «mantello», volendo significare che anche in questa fase occorre «avvolgere» il malato di tutto l’amore, l’accompagnamento e la cura necessaria.

COSA SONO
LE CURE PALLIATIVE?

Per cure palliative si intendono pertanto quei trattamenti a favore di pazienti affetti da malattia ritenuta inguaribile, finalizzati al controllo dei sintomi più che della patologia di base, per mezzo dell’applicazione di procedure che consentano una migliore qualità di vita per chi soffre.
Secondo i dati registrati dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), nel prossimo futuro sarà sempre più impellente la necessità del ricorso a queste cure, proprio a causa della notevole incidenza di mortalità da cancro (circa 7 milioni di persone all’anno che in previsione verranno raddoppiati), da Aids, da malattie degenerative del sistema nervoso, come la sclerosi multipla e il morbo di Alzheimer.
L’Oms già nel 1990 ne ha dato la seguente definizione: «Le cure palliative sono la continua, attiva, integrale cura del paziente e dei suoi cari ad opera di un team interdisciplinare. L’obiettivo primario delle cure palliative è la più elevata qualità di vita del paziente così come per i suoi cari. Il paziente viene curato da un partner responsabile. La cura palliativa risponde ad esigenze spirituali ed essa dovrebbe estendere questi supporti».
Si può perciò affermare che si tratta di una «cura integrale», che abbraccia cioè tutte le dimensioni (fisica, psichica e spirituale) del malato.
L’équipe deve quindi essere obbligatoriamente multidisciplinare, composta cioè da medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, sacerdoti o operatori pastorali, ma anche volontari. Tutte le figure professionali coinvolte lavorano in sinergia tra loro, si alternano, cercando di venire incontro alle molteplici, articolate e sempre nuove necessità del sofferente.

L’ESPERIENZA
DEGLI «HOSPICES»

L’organizzazione di tali attività avviene sia in strutture specialistiche chiamate «hospices», sia in reparti ospedalieri, sia infine in ambito domiciliare. La promotrice di questa autentica svolta del pensiero medico moderno è stata Cecily Saunders, la quale, prima infermiera e poi medico, nel 1967 poté aprire il St. Christopher’s Hospice a Londra come luogo di cura incentrato sull’assistenza dei malati terminali. L’idea di questo hospice si è rivelata vincente diffondendosi prima negli Usa e poi in Europa.
Importante è stata infine la costituzione di un vero e proprio «Movimento Hospice», differenziato a seconda dei paesi e delle connotazioni religiose. L’obiettivo è l’evoluzione del concetto di «cura palliativa», che ha sviluppato un intento formativo per affrontare la grande tematica della sofferenza e della morte in corsi per operatori sanitari e volontari, nonché la gestione di «unità palliative», sia come strutture simil-ospedaliere che come team operativi, anche in cooperazione con i servizi sanitari nazionali.
A conferma del successo di queste iniziative, negli ultimi anni è stata fondata la «Società europea di cure palliative», che raccoglie le già esistenti società nei diversi paesi del continente.
In Italia, dopo un primo periodo di sospetto nei confronti degli hospices si è avuta una diffusione di questo tipo di medicina, sia a livello ospedaliero, sia a livello domiciliare.

LA TERAPIA DEL DOLORE

Oggi le cure palliative comprendono principalmente:
• la terapia oncologica, cioè l’insieme delle applicazioni delle classiche terapie oncologiche (chirurgia, radioterapia, chemioterapia) destinate a pazienti in cui si ricerca il controllo dei sintomi;
• le cure di supporto, cioè l’uso di analgesici al fine di ridurre o abolire la percezione del dolore; la valutazione nutrizionale e la regolazione idro-elettrolitica; il trattamento delle infezioni opportunistiche; le procedure fisioterapiche di riabilitazione; il sostegno psicologico a cui spetta un posto di particolare rilievo sia per il paziente che per i familiari; la sorveglianza psicologica della équipe degli operatori sanitari, che in questa delicata fase della malattia cronica è fondamentale per l’ottimizzazione terapeutica.
Il controllo del dolore e degli altri sintomi associati, quali la nausea, il vomito, l’astenia, nonché dei problemi psicologici, sociali e spirituali rappresentano comunque il punto focale delle cure palliative, il cui obiettivo primario è quello di garantire la migliore qualità di vita possibile al paziente.
Le cure palliative affermano il valore della vita, considerano la morte come un evento naturale, offrono un sistema di supporto per aiutare il malato a vivere dignitosamente e la famiglia a convivere prima con la malattia e poi con il lutto.
L’etica medica impone di valorizzare le cure palliative. Esse si pongono tra l’accanimento terapeutico e l’eutanasia. Costituiscono la cosiddetta «terza via» da perseguire in modo privilegiato con i malati terminali o comunque cronici. L’impossibilità della guarigione non deve far desistere dalla volontà di curare. Tuttavia, da una medicina ai confini della vita non possono che scaturire inevitabilmente molteplici problematiche bioetiche di non sempre univoca interpretazione e risoluzione.

ESISTONO DEI LIMITI?

I problemi di fondo riguardano da un lato la terapia antalgica, che mira ad eliminare il dolore fisico, percepito come inaccettabile e lesivo della dignità; dall’altro lato vi è lo sforzo di aiutare il malato a trovare un senso alla sofferenza e alla morte.
Le questioni morali inducono a considerare il morente non soltanto dal punto di vista delle sue condizioni fisiche, ma anche come persona con esigenze psicologiche, spirituali e religiose; una prospettiva che non può che rendere maggiore l’attenzione e la capacità di aiuto nei confronti di chi si trova al termine della vita.
In tale contesto sorge, tra gli altri, il problema della liceità del ricorso ai vari tipi di analgesici e sedativi per alleviare il dolore, quando ciò comporta il rischio di accelerare la morte. Se infatti può essere considerato degno di lode chi accetta volontariamente di soffrire rinunciando a interventi antidolorifici per conservare la piena lucidità, tale comportamento non può essere ritenuto doveroso per tutti. Già Pio XII aveva affermato che è lecito sopprimere il dolore per mezzo di narcotici, pur con la conseguenza di limitare la coscienza e di abbreviare la vita, «se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali». In questo caso, infatti, la morte non è voluta o ricercata, nonostante che per motivi ragionevoli se ne corra il rischio: semplicemente si vuole lenire il dolore in maniera efficace, ricorrendo agli analgesici messi a disposizione dalla medicina. Non si può parlare quindi di eutanasia attiva, ma di una cura appropriata e proporzionata ad un quadro clinico grave ed irreversibile.
Tuttavia, «non si deve privare il moribondo della coscienza di sé senza grave motivo»: avvicinandosi alla morte, gli uomini devono essere in grado di poter soddisfare ai loro obblighi morali e familiari e soprattutto «devono potersi preparare con piena coscienza all’incontro definitivo con Dio».

LA NUTRIZIONE E L’IDRATAZIONE

La questione nodale consiste in questo: è sempre necessario nutrire ed idratare il paziente terminale? Da un lato l’alimentazione fa parte dell’assistenza cosiddetta ordinaria, però in un morente la necessità e il desiderio di alimentarsi diminuisce gradualmente fino ad annullarsi.
Il problema è perciò quello della nutrizione e dell’idratazione artificiale, che di per sé è una terapia e richiederebbe pertanto il consenso informato. A tal proposito la «Carta degli operatori sanitari» afferma: «L’alimentazione e l’idratazione, anche artificialmente amministrate, rientrano tra le cure normali dovute sempre all’ammalato quando non risultino gravose per lui: la loro indebita sospensione può avere il significato di vera e propria eutanasia».
La questione oggi è più che mai dibattuta e rimane aperta, prestandosi a diverse interpretazioni, come ha dimostrato il caso di Terry Schiavo negli Stati Uniti.
L’Organizzazione mondiale della sanità, in un documento-manuale del 1998 ha ribadito: «La nutrizione intravenosa è controindicata nei pazienti terminali. Non migliora l’aumento ponderale e non prolunga la vita. La nutrizione enterale ha un ruolo molto limitato nella malattia terminale. Dovrebbe essere usata solo nei pazienti che ne hanno un chiaro beneficio. La nutrizione artificiale non dovrebbe essere usata nei pazienti moribondi». In tali casi si può parlare, non impropriamente, di accanimento terapeutico.

IL DIRITTO ALL’INFORMAZIONE

Una problematica specifica è rappresentata dalla questione se, e in che modo, si deve dire al paziente la verità riguardo alla diagnosi e alla prognosi.
«C’è un diritto della persona ad essere informata sul proprio stato di vita. Questo diritto non viene meno in presenza di diagnosi e prognosi di malattia che porta alla morte, ma trova ulteriori motivazioni» (Carta degli operatori sanitari n.125).
In passato, soprattutto nei paesi latini, si era portati a non dire la verità o a dirla non completamente, per non privare il malato della speranza di guarigione. Oggi invece, mutando il contesto socio-culturale, si è maggiormente propensi a comunicarla, pur valutando attentamente ogni singolo caso.
La sensibilità dell’operatore sanitario e la sua capacità di comunicare e di relazionarsi con il malato ed i suoi cari rappresenta forse la risposta più convincente per risolvere questo eterno dilemma.
Le cure palliative costituiscono un’espressione profonda nel percorso di umanizzazione della medicina, come una risposta alla richiesta drammatica e sempre crescente di eutanasia, che non è altro che sintomo di una società in cui si rimane soli davanti alle domande angoscianti sulla morte e di una scienza non solo troppo tecnologica e avulsa dai veri problemi del malato, ma anche assolutamente priva di autentica relazionalità umana.
L’eutanasia legalizzata è un sistema per sfuggire all’approccio delle cure palliative, che richiedono mezzi economici, personale specializzato, tempo e formazione adeguata. È un modo per non riconoscere che la vita del malato ha un valore fino all’ultimo istante, se sorretta da una presenza umana, motivata, preparata e solidale.
In netta contrapposizione con ogni atto deliberato del medico volto a porre immediatamente fine a una vita, le cure palliative possono aiutare realmente a migliorare le condizioni dei morenti e, alleviando le loro sofferenze, portare ad una drastica riduzione delle richieste di eutanasia.
A tal proposito, l’«Istituto dei tumori» di Milano ha condotto recentemente un’indagine sui malati terminali, che ha evidenziato come dopo un’adeguata terapia antalgica, dalle iniziali 996 richieste di eutanasia, si è passati a cinque sole richieste.
Di fronte al dolore, alla sofferenza e alla morte gli operatori devono essere tutti maggiormente impegnati non solo a garantire «fredde» soluzioni tecniche, ma anche ad instaurare un approfondito rapporto con il malato e con chi lo circonda. È un compito sicuramente gravoso, emotivamente stressante, ma che ripresenta tutto il fascino dell’originario modo di far medicina, che è saper di nuovo stare vicino a chi soffre per lenire il dolore, con tutto il bagaglio tecnico delle più aggiornate conoscenze, ma anche e soprattutto con una piena, ampia e cristiana partecipazione umana.
«Molto spesso – ha scritto Cecily Saunders – si può tradurre la domanda “fatemi morire” con “alleviate il mio dolore e ascoltatemi”. Se soddisfate questi due bisogni, la domanda in genere non sarà ripetuta».

Di Enrico Larghero

Enrico Larghero




In attesa di terapie

Ogni anno la leishmaniosi colpisce due milioni di persone, e ne uccide decine di migliaia.

Una diagnosi rapida, non dolorosa, economica, realizzabile anche nelle zone più sperdute, senza luce elettrica e senza ospedali. Queste le promesse di un nuovo test rapido per la diagnosi della leishmaniosi viscerale (o kala azar), malattia causata da un parassita (leishmania donovani), che infetta ogni anno 500 mila persone e ne uccide 50 mila.
La notizia è arrivata nei primi mesi di quest’anno dall’India, più precisamente dall’Istituto di scienze mediche (All Indian Institute of Medical Sciences): un passo in avanti per una delle quattro forme di leishmaniosi diffuse nel mondo, quella più grave, con una mortalità altissima (85-100%) se non trattata, che scende al 5% se vi è disponibilità di farmaci.

Moscerino pericoloso

La leishmaniosi è una malattia infettiva, causata da un parassita di nome leishmania, trasmesso all’uomo dalla puntura di un moscerino o mosca della sabbia, di cui esistono circa trenta specie. È un insetto di piccole dimensioni, color sabbia appunto, che vive in zone con foreste, in cavee e in tane di roditori di piccole dimensioni.
La leishmaniosi è una zoonosi, cioè si trasmette dall’animale all’uomo: colpisce in particolare cani e roditori, e il trasferimento all’uomo avviene attraverso la puntura della femmina della mosca della sabbia. È anche possibile il passaggio da uomo a uomo, sempre con il tramite della mosca o anche, visto il passaggio del parassita con il sangue, attraverso siringhe contaminate o trasfusioni. Raramente, è possibile la trasmissione dalla madre al feto.

Diversa specie, diversa malattia

Del parassita esistono diverse sottospecie, responsabili di differenti forme della malattia. La forma cutanea, causata dalla leishmania major, presente soprattutto in Africa, Asia ed Europa, è quella più diffusa, caratterizzata da numerose lesioni, anche più di 200 in un solo malato. Le ulcere si presentano sulle parti del corpo esposte, braccia, gambe e volto. Possono guarire spontaneamente nel giro di alcuni mesi, ma possono rimanere cicatrici evidenti, che condizionano la vita di relazione delle persone e sono causa di pregiudizio sociale. Vi è anche una forma cutanea diffusa, in cui le lesioni sono più estese, simili alla lebbra: non guariscono in assenza di trattamento e tendono a riformarsi.
La leishmania brasiliensis è responsabile invece della forma mucocutanea, presente nelle Americhe: in questi casi le ulcere cutanee, anche molto estese, distruggono i tessuti sottostanti, in particolare le mucose di naso, bocca e gola. Anche in questi malati, i danni causati dalla malattia possono portare alla loro emarginazione sociale.
Infine, la forma di leishmaniosi più grave è quella viscerale, causata dalla leishmania donovani. Chiamata anche kala azar, se non viene curata, porta a morte il paziente entro due anni.
Il parassita, in questa forma di leishmaniosi, penetra nei vasi linfatici del paziente, arriva fino alla milza e al fegato, ingrossandoli, causa anemia, perdita di peso e febbri ad andamento irregolare e improvvise.

Due milioni di malati ogni anno

La leishmaniosi è presente in 88 paesi, ma il maggior numero di casi si concentra in poche zone geografiche. Infatti, il 90% dei malati con la forma cutanea si trova in Afghanistan, Algeria, Arabia Saudita, Brasile, Iran, Perù, Siria; il 90% di quelli con la forma mucocutanea in Bolivia, Brasile e Perù; infine il 90% di quelli con la forma viscerale è in Bangladesh, Brasile, India Nepal e Sudan.
Ogni anno vengono registrati circa un milione e mezzo di casi di leishmaniosi cutanea e 500 mila di viscerale, per un totale di circa 2 milioni; i morti sono 59 mila. Complessivamente, le persone che rischiano di ammalarsi sono 350 milioni e al momento si pensa che le persone con il parassita siano 12 milioni.
Ma si tratta di stime: non è nota la reale diffusione della malattia, perché i dati clinici a disposizione sono scarsi. Spesso i pazienti vivono in zone isolate, non raggiungibili facilmente e dove l’accesso alle cure sanitarie è difficile e inadeguato: è troppo il tempo impiegato dai malati con leishmaniosi viscerale per raggiungere un ambulatorio oppure, una volta giunti in ospedale, non vi trovano le medicine necessarie. Molti decidono quindi di non affrontare neppure il viaggio per curarsi: preferiscono morire nella loro casa, nel proprio villaggio. Per questo non vi sono certezze sulla diffusione dell’infezione e sul numero reale di morti.

Leishmaniosi e Aids

Nell’ultimo decennio, fra l’altro, il numero di nuovi casi di leishmaniosi è aumentato. Fra le possibili cause identificate alla base di tale maggiore diffusione del parassita vi è la nascita di nuovi centri abitati, la penetrazione umana nella foresta primaria, la deforestazione, la migrazione dalle campagne verso le città, una veloce e poco pianificata urbanizzazione, la costruzione di dighe e nuovi piani di irrigazione.
Ma un elemento importante è anche la maggiore facilità all’infezione negli abitanti delle zone in cui è diffusa la malattia: il rischio di leishmaniosi aumenta con la malnutrizione e la concomitante presenza di virus dell’Aids, che riduce le difese dell’organismo.
Infatti, la forma più grave di leishmaniosi, quella viscerale, tende a manifestarsi soprattutto nelle persone con le difese immunitarie ridotte a causa dell’Hiv. Si verifica un’alleanza mortale, analogamente a quanto succede con la concomitanza di Hiv e altre malattie infettive, come la tubercolosi: la malattia parassitaria facilita la strada al virus dell’Aids e accelera il decorso dell’infezione. Al tempo stesso, l’Aids aumenta il rischio di prendere la leishmaniosi di 100-1000 volte nelle zone ove il parassita è presente.
I danni prodotti sul sistema immunitario dalle due infezioni, infatti, si sommano, dato che la leishmania e l’Hiv distruggono lo stesso tipo di cellule. Le difese del paziente, di fronte a un’infezione contemporanea, sono ancora più compromesse e la leishmaniosi rappresenta, in diverse zone, la causa principale di morte in pazienti con Aids.

Trattare la forma più grave

Le possibilità terapeutiche, in particolare per la forma più grave, quella viscerale o kala azar, non sono brillanti. I farmaci disponibili sono tossici, costosi o di complessa somministrazione. Il farmaco più utilizzato ha ormai quasi 70 anni e causa effetti collaterali gravi in tre pazienti su dieci, oltre a essere troppo caro per la maggior parte dei malati.
Inoltre, il parassita sta diventando resistente al farmaco, che non riesce più a ucciderlo e a guarire il malato. In India, per esempio, in alcune zone la resistenza arriva al 70%, come dire che il trattamento è inefficace in 7 pazienti su 10.
Vi sono poi altre soluzioni terapeutiche, ma considerate di seconda scelta. Difficile anche la prevenzione, per la quale possono essere utilizzati repellenti e zanzariere trattate con insetticida, mentre sono in corso ricerche per lo sviluppo di un vaccino.
Il quadro non è positivo dunque, e la leishmaniosi viscerale continua a uccidere più di quanto dovrebbe. Nell’attesa di nuovi farmaci, il test proposto dall’Istituto di ricerca indiano, di cui si parlava all’inizio, potrebbe semplificare e anticipare la diagnosi, aumentando, se non altro, il numero di persone che possono essere curate.
Rispetto infatti ai metodi di diagnosi finora a disposizione, dovrebbe essere più rapido (8 minuti), indolore, utilizzabile anche in zone sperdute ed economico: meno di due dollari, un quinto rispetto agli altri. Secondo i ricercatori indiani, il nuovo test sarebbe in grado di scovare il parassita entro 15 giorni dall’infezione, anticipando la diagnosi, dato che i sintomi in genere non compaiono prima di tre mesi.
Viene anche sostenuta un’efficacia del cento per cento nell’identificazione dell’infezione, ma saranno necessarie verifiche sul campo, nei diversi paesi ove la leishmaniosi è presente. Il tempo foirà la risposta.
Intanto, i ricercatori hanno chiesto al ministro della Salute dell’India di includere il nuovo test nel programma di eradicazione entro il 2012 della leishmaniosi e all’Organizzazione mondiale della sanità di utilizzarlo anche in altri Paesi.

Di Valeria Confalonieri

Valeria Confalonieri




Tra fede dialogica e religioni

La terra brucia e i popoli scrivono con il sangue la loro carta di identità, non nella tessitura di un’autobiografia, ma nella stesura di una controbiografia: io trovo la mia identità nella contrapposizione con la «tua» storia, invece che nel vissuto della «mia» storia.
Di fronte a questa dilagante ondata di violenza che percorre la terra da nord a sud e da est a ovest, nelle megalopoli dei paesi supersviluppati come nelle immense discariche urbane dei paesi sottosviluppati, c’è da chiedersi: «Come mai? Dove ricercare le radici di questi cruenti rigurgiti d’intolleranza e fanatismo? Donde questa sete di sangue e di vendetta, che ristruttura l’uomo moderno sulla fisionomia del vampiro?».
Dopo le grandi guerre, i progrom e gli olocausti dello scorso secolo, dopo i bui e accecanti bagliori atomici di Hiroshima e Nagasaki, credevamo di esserci lasciati alle spalle la lunga, ininterrotta tradizione di violenza che ha caratterizzato la storia dell’uomo sin dall’età della pietra. Avevamo sognato di aver debellato definitivamente la ragione della forza con la forza della ragione, nella convinzione di aver maturato, nella coscienza morale prima che nelle strutture politiche, il salto di qualità agognato dai profeti della nonviolenza e sancito dallo Statuto dell’Onu.
Pensavamo, con il Concilio Vaticano ii e nell’abbraccio ecumenico che ne seguì, di aver liberato le diverse tradizioni morali dall’involucro di aggressività che le aveva contaminate, riconsegnando le religioni alla loro originaria innocenza.
Non avremmo mai immaginato di doverci ritrovare, all’inizio del terzo millennio, con nelle mani niente altro che le ceneri di sogni svaniti. L’«homo absconditus» sognato da Gandhi e cantato dai figli dei fiori, l’«uomo inedito», come amava chiamarlo Eesto Balducci, è rimasto seppellito sotto le macerie delle grandi ideologie e delle calde utopie.

Si è iniziato stupidamente, già negli anni ‘80, in una volgare ondata riduzionistica. A livello filosofico, la grande tradizione del pensiero marxista la si è voluta degradare a semplice «ideologia». Da più parti si è osannato alla morte delle ideologie, dopo i cui funerali si è voluto innalzare sul trono della «ragione» la «leggerezza dell’essere» ed il suo «pensiero debole». Il successivo passo, dal pensiero debole al pensiero unico, non è stato altro che un passaggio logico.
A livello socio-politico, si è voluto far coincidere tutta la ricca esperienza del socialismo nella triste e parziale esperienza del comunismo reale, nella versione sovietica. In questo calderone si è riversato tutto il male possibile e immaginabile, identificando tout-court comunismo-dittatura-gulag. Berlusconi, che continua a suonare i suoi deliri su questa unica corda, non è altro che la deriva populista di questa operazione.
A livello religioso, è stato messo il bavaglio al Concilio, derubricandolo dal calendario della chiesa universale e di quella italiana in particolare. Nella generale indifferenza di molti, le figure più avanzate ed esposte tra i vescovi, sono state sostituite con personaggi grigi e ultraconservatori, «polonizzando» la chiesa e consacrandone le anime più retrive di certi movimenti ecclesiali. Il discorso che si è voluto far passare come «moderno» è stato quello di una religione tutta e solo intimistica, legata a figure problematiche di «santi» quali Padre Pio e Josemarìa Escrivà de Balaguer. I «teocon» e gli «atei devoti» non sono altro che figli legittimi di questa gestazione.
Sarebbe interessante portare avanti, con sistematica puntigliosità e con severità di ricerca e di riflessione, l’approfondimento di questi tre itinerari.
Personalmente non sono un filosofo, né un politico pur seguendo con interesse e la filosofia e la politica. Tuttavia come cristiano e come sacerdote, non posso non rilevare, per tornare alle domande iniziali, come una certa religiosità possa essere essa stessa fattore di violenza nell’attuale contesto storico.

Il noto aforista Jonathan Swift ebbe a scrivere: «Abbiamo abbastanza religione per odiare il prossimo, ma non per amarlo». Gabriel Ringlet, prete belga, rettore dell’Università di Lovanio, gli fa eco: «Esiste, al centro stesso delle religioni, in particolare delle religioni monoteiste, un’aggressività, un orgoglio, un esclusivismo che talvolta danno i brividi!».
Personalmente sono convinto che la religione non riscattata dalla fede è come una mina vagante; la religione, non fermentata dalla fede diventa insolente.
La fede convince dall’interno, la religione costringe dall’esterno. La fede propone, la religione impone. Fede e religione sono tra loro in un rapporto dialettico ad alta tensione che, comunque, va mantenuto, ma sempre in riferimento alla fede, mancando la quale la religione degrada a devozionismo paganeggiante e fanatismo di presunzione.
Nella storia del mondo le religioni sono state spesso specialiste in arroganza, intolleranza e repressione. Nessuna delle grandi religioni è stata totalmente estranea, nemmeno il nostro cristianesimo, a un certo spirito guerriero provocato dalla malattia del dogmatismo e pretesa di imposizione a tutti.
Lo scontro si verifica sempre quando la Verità viene condensata in un libro. È successo con la bibbia, che è stata usata come un’arma; è successo non molto tempo fa con il libretto rosso di Mao; è successo con il Mein Kampf di Hitler, succede con il Corano. Questi non sono che esempi di quello che succede quando si impongono limiti alle verità plurali: sì, perché la Verità è plurale e non monocroma. La Verità è sinfonica, fatta di molte voci che, ascoltate nel dialogo e nel confronto, liberano dalla presunzione spocchiosa della dittatura del pensiero.
Non si dimentichi, poi, che per i cristiani la «Verità» non è un concetto né un’idea, ma una Persona: Gesù di Nazareth, la sua vita, il suo messaggio.
Egli si propone, non s’impone. A coloro che incontrava soleva dire: «Se vuoi…». Nel suo vocabolario non esiste il verbo «devi!».
Rabindranath Tagore, premio Nobel per la letteratura 1913, in un discorso pronunciato a Calcutta nel 1937 ebbe a dire: «Quando la religione ha la pretesa di imporre la sua dottrina all’umanità intera, si degrada a tirannia e diventa una forma di imperialismo».

Di Aldo Antonelli

Aldo Antonelli




Quel mazzolino … di viole

Nel «Rapporto della commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo» (Milano 1988), si legge che ogni essere umano ha il diritto fondamentale di vivere in un ambiente adatto alla sua salute e al suo benessere. Oggi, dopo quasi 20 anni, questo enunciato è avvertito e condiviso da tutti: non solo dagli esperti, ma anche la gente comune è in grado di dire la sua, sulla base di un flusso informativo continuo e mirato.
La crescita demografica, il dato certo che le risorse del pianeta non sono inesauribili, la scarsa attenzione agli eventuali danni d’impatto ambientale rappresentano, in prospettiva, grossi nodi da sciogliere. Specie se ciò che tutti vogliono è un autentico recupero del rapporto con la natura, e non piuttosto il comportarsi come quel personaggio di Milan Kundera che, per non patire gli odori della strada, si teneva costantemente sotto il naso un mazzolino di violette.
Le esigenze della politica e dell’economia, tuttavia, pare vadano in tutt’altra direzione. Nonostante il referendum popolare dell’87, per esempio, sembra che l’Italia torni a guardare al nucleare e l’Enel, grazie alla legge Marzano, acquisterebbe impianti nucleari in Slovacchia per 840 milioni di euro. Cheobyl è archiviato. La risposta a chi obietta è che non si può fermare il tempo, perché il mondo va avanti.
Quello del nucleare è però solo un tassello dell’intero mosaico. Esistono nel nostro paese la questione dei trasporti, il giudizio sugli Ogm (organismi geneticamente modificati), la cementificazione delle coste, l’inquinamento idrico, il problema della produzione e dello smaltimento dei rifiuti.
Una progressiva erosione della sovranità statale, sostiene il sociologo Zygmunt Bauman, non può che determinare la caduta verticale dei più elementari diritti della persona umana. Pertanto, dove e come sviluppare valori che si oppongano ai paradigmi della cultura dominante? Siamo tutti all’interno del processo di globalizzazione e la logica vincente è quella del mercato, per cui il liberismo selvaggio e la cieca fiducia nel progresso danno vita a una sorta di illuminismo tecnologico. I parametri vincenti sono la rendita produttiva e l’utile da ricavare.
Come persone e come cristiani, questo ci sta bene? Non bisogna dimenticare che non esiste un’economia che possa definirsi neutrale e che, dietro ciascuna di essa, si cela sempre e comunque una particolare concezione antropologica.
Nella Sollicitudo rei socialis (1988) Giovanni Paolo ii identifica la «preoccupazione ecologica» con «la maggiore consapevolezza dei limiti delle risorse disponibili, la necessità di rispettare l’integrità e i ritmi della natura e di tenee conto nella programmazione dello sviluppo, invece di sacrificarlo a certe concezioni demagogiche dello stesso» (n. 26).

Nel libro della Genesi, il fatto che il mondo in cui l’uomo è immerso venga definito come «creazione», e non come natura o cosmo, sottolinea decisamente l’immediata relazione che lo unisce al Creatore; una relazione di «dominio» e di «custodia» (Gen 2,15). Il mistero pasquale, cioè la morte e risurrezione di Gesù, instaura anch’esso una nuova forma di alleanza tra Dio e l’uomo e coinvolge l’intera creazione in un processo di liberazione integrale, che è compito dell’uomo portare a termine. Il dove rinnovare i nostri stili di vita, allora, è il nostro quotidiano.
È l’agire di tutti i giorni, in famiglia, sul lavoro, con gli amici. La strada da imboccare è la rinuncia alla moltiplicazione dei bisogni, specie se indotti e non reali. Il risveglio della coscienza deve spingerci a fare nostri e contrapporre, a quelli correnti, parametri diversi: gratuità, solidarietà, rispetto dell’alterità, senso del mistero, apertura al non prevedibile e non programmabile. Questi sentimenti, cosa più importante, non possono essere occasionali, ma devono riuscire a determinare quello che si definisce un cambiamento culturale, una mentalità nuova.
Il come fare equivale a restituire centralità e autorevolezza alla politica, per costruire una vera democrazia economica. Anche le cosiddette catastrofi «naturali» (come tsunami), non sono uguali sul nostro pianeta. Il sisma di Bam, in Iran, del dicembre 2003 ha provocato più di 30 mila morti. Ma tre mesi prima, il 26 settembre 2003, una scossa sismica di 8 gradi della scala Richter, sull’isola di Hokkaido, ha fatto solo qualche ferito e nessun morto. Tremila sono stati i morti per un terremoto in Algeria, il 21 maggio 2003; mentre pochi giorni dopo, un sisma più violento scuoteva tutto il Giappone nord-occidentale senza fare vittime.
Perché tali differenze? Occorrono certamente norme e mezzi per realizzare delle politiche di prevenzione. Ma è indispensabile la volontà politica, al di là dei fiumi d’inchiostro dei rapporti e delle chiacchiere dei summit.
Politicamente, è fondamentale saper distinguere tra crescita e sviluppo: la prima è il puro incremento produttivo; il secondo include ideali e aspirazioni, che hanno a che fare con l’identificazione di una società giusta e una sempre più alta qualità della vita. Omissioni, colpe e volontà sono sempre individuali; ma, senza mettere la testa sotto la sabbia, non si può dimenticare che, a qualunque latitudine, siamo tutti pellegrini verso un mondo nuovo: i cieli nuovi e la nuova terra che ci sono stati promessi.
Collettivamente si può e si deve fare in modo che l’ecologia divenga solidarietà e la moderazione nel consumo condivisione. Altrimenti, come dice la nota scienziata indiana Vandana Shiva, lo tsunami è solo un avvertimento di ciò che succederà se non ci prepariamo, se continuiamo ad agire per il profitto immediato e non guardiamo più avanti.
Ciò che ci deve unire non è il denaro, ma il senso di responsabilità.

Di Marianna Micheluzzi

Marianna Micheluzzi




Verso Nairobi

La signora Wahu Kaara è una delle principali organizzatrici del Fsm
che si terrà a Nairobi (Kenya) a gennaio 2007.
A Bamako ha preso il testimone. Di seguito fa il punto per MC sull’organizzazione.

L’obiettivo del Fsm è quello di mostrare la forza delle organizzazioni di base che sono i veri agenti di trasformazione sociale. Questo non può essere distorto perché i movimenti hanno la loro storia e un impegno per mutare la realtà affinché ci sia giustiza per tutti. Sarà l’occasione per mostrare le nostre lotte globali e celebrarle tra cittadini di tutto il mondo. Mostreremo che non esiste una forza in grado di cambiare il percorso della storia.
L’unicità dell’Africa farà la differenza. Non un continente senza speranza, dilaniato dalle guerre, povero e perso. L’Africa è viva! Rifiutiamo la vittimizzazione. Demistificheremo miti e differenze sulla gente africana.
Mostreremo anche che non siamo solo noi ad avere a che fare con le esigenze della globalizzazione ma siamo tutti cittadini globali.
Con la nostra elasticità e le strade innovative che percorriamo per controbattere le strutture dominanti mostreremo che la questione principale che tutti dobbiamo affrontare è una: distribuzione e gestione delle risorse in equità. Abbiamo quindi bisogno di organizzarci come cittadini utilizzando la nostra diversità come una forza.
A livello pratico stiamo seguendo il modello delle passate edizioni, in termini di pianificazione orizzontale. Cerchiamo di raggiungere più possibili gruppi organizzati e associazioni a livello nazionale e regionale, ma anche di coinvolgere singoli individui impegnati nel cambiamento politico.
La più grossa difficoltà è la ricerca dei fondi. Riceviamo molte offerte e promesse, ma in termini reali stiamo ancora aspettando. Questo rallenta molto il processo e la nostra paura è che i partner vogliano liberare le risorse solo a fine anno, a ridosso del Fsm. Ma sarà tardi, perché molto del lavoro organizzativo va fatto prima. Noi abbiamo già il budget e la pianificazione pronta. Il rischio è che così anche lo spirito dei volontari che animano questa struttura si affievolisca perché non si riescono a realizzare le azioni previste.
La gente e le organizzazioni di base sono la manifestazione dello spirito del Fsm. Questo sarà effettivo se saremo capaci di stimolare continuamente le azioni di queste gruppi inducendoli a fare le loro richieste e a prendere il loro spazio nel Fsm. Le condizioni sono mature.

Di Wahu Kaara da Nairobi

Wahu Kaara




Orgoglio africano

Il personaggio (2): Aminata Traoré

Aminata Traoré è uno dei personaggi storici del Forum Sociale Mondiale. Da Porto Alegre a Mumbai e finalmente qui, nel «suo» Mali. Donna, africana, ex ministro della cultura, Aminata sprigiona una grande energia, e allo stesso tempo ispira saggezza e rispetto. Con la sua associazione Foram, si batte da anni per un’alternativa tutta africana alla globalizzazione e anche per questo è tra gli organizzatori del Fsm policentrico di Bamako. Le abbiamo posto qualche domanda.

Qual è la sua impressione su questo Forum e che lezioni si possono dedurre per la preparazione di quello di Nairobi?
Penso che abbia il merito di essersi svolto, il che è una buona cosa per l’Africa. Ha mostrato che i problemi africani non hanno nulla di così specifico all’Africa nell’epoca della globalizzazione. Il fatto che centinaia di organizzazioni si siano incontrate a Bamako per constatare la stessa devastazione del sistema neoliberale, è una maniera di interpretare la storia e i problemi africani senza discriminazione. Questa porta a far credere che gli africani siano responsabili di tutto quello che viviamo in Africa, e che sia essenzialmente dovuto alla povertà, come se questa fosse generata in modo spontaneo, senza delle precise cause. Possiamo, ad esempio, constatare che i flussi migratori sono le conseguenze degli stati liberali in Europa e del Nord in generale. Penso che il gioco politico debba avere altri contenuti, non solo la questione delle elezioni organizzate bene o male, ma l’occasione di dire che il mondo intero è in fase di ristrutturazione e questo si fa sovente con l’esclusione e a scapito dei popoli.

Pensa che potrete influenzare i decisori africani?
I dirigenti africani sono gli allievi, ma bisogna chiamare in causa i loro maestri. Localmente noi ci battiamo nelle elezioni per i nostri governanti, ma qualsiasi essi siano, hanno sempre una potenza internazionale dietro che chiede loro di mettere in opera una certa politica economica. Dobbiamo quindi batterci su due punti: all’interno per dire ai nostri governi che si sbagliano sulla scelta delle priorità, all’esterno per dire ai dirigenti dei paesi ricchi di agire in modo diverso rispetto ai governi africani altrimenti sono inevitabili questi flussi migratori, causati dalla sofferenza per la miseria nei nostri paesi, creata dalle loro politiche.

Quali sono stati i temi principali di questo Forum?
Tutti i temi. Perché, come un rullo compressore, la globalizzazione ha toccato tutto: agricoltura, commercio, educazione, donne, giovani. Su tutte queste questioni si è discusso. Compresa l’immigrazione. Il Mali è un paese di origine di migranti, e come gli altri paesi limitrofi, è particolarmente toccato dalle politiche migratorie scelte dall’Unione europea. È quindi legittimo che ci appropriamo di questa problematica e la interpretiamo in maniera che non ha nulla a che vedere con l’approccio dell’Europa.

Qualcuno dice che i Forum sono per le élite africane, per i ricchi. Secondo lei è vero?
Mi faccia vedere i ricchi. Io sono originaria di una famiglia povera. Non è perché io scrivo libri o mi esprimo correttamente in francese che sono parte di un’élite. Questo è un approccio miserabilistico all’Africa: si preferisce che gli africani che non sono in grado di esprimersi siano presi in carico dalle istituzioni del Nord, ma quando c’è un africano che sembra conoscere quello di cui parla, lo si chiama ricco.
Abbiamo fatto tutto il possibile per coinvolgere la popolazione: i contadini sono rappresentati, hanno uno spazio tutto per loro, i sindacati pure, i giovani hanno il campo dei giovani, le donne sono mobilitate. È la prima volta che un Forum di questo tipo ha avuto luogo e ha innanzitutto il merito di essere stato realizzato, nonostante le difficoltà. Le persone che sono venute divulgheranno quanto si è detto, e continueremo a batterci. Se si vuole vedere in questo un approccio d’élite, posso dire lo stesso per il movimento del Nord.

Ma chi sono stati i partecipanti?
Molti sono arrivati dall’interno del Mali. L’appoggio dello stato ci ha permesso di far venire delegazioni da tutte le regioni del paese. Altri sono venuti via terra da Niger, Burkina Faso, Guinea, Senegal, Mauritania. Gli occidentali vorrebbero che prendessimo i loro soldi e non quelli dei nostri stati. Ma questi sono i soldi dei contribuenti che pagano le tasse, preferisco prendere queste risorse piuttosto che continuare a dire «grazie» al Nord.
L’apporto dello stato maliano è stato molto importante: 150 milioni di franchi cfa (circa 230 mila euro, ndr.) e tutte le infrastrutture. Senza di esso non ci saremmo riusciti. Le risorse che i partner estei hanno fornito ci hanno permesso di far venire partecipanti da diversi paesi, come dall’Africa dell’Est. L’importanza è anche politica, perché vuol dire che non siamo combattuti, sono pronti ad ascoltarci. In effetti oggi, più che in passato, hanno capito che le nostre critiche sono fondate.

Di Marco Bello

Marco Bello




Quale futuro per il Forum Sociale?

Il personaggio (1): François Houtart

François Houtart, sacerdote, è presidente del Centre Tricontinental di Louvain-la-Neuve, in Belgio e membro del Consiglio internazionale del Forum sociale mondiale.

«È estremamente importante riflettere sulla memoria, la storia dei Forum e la loro evoluzione, per porsi il problema delle sfide del futuro» sostiene François Houtart (1).
«Si è sviluppato a causa dell’allargamento della logica del capitale all’insieme dei gruppi umani, che ha originato la convergenza di movimenti di protesta e resistenza. Gruppi che non avevano nulla a che fare l’uno con l’altro. Luogo di incontro e scambio, con obiettivi comuni definiti dalla Carta del Fsm, la lotta al neoliberismo, contro l’egemonia mondiale del capitale e la ricerca di alternative. È un soggetto pluralista sotto vari aspetti: diversità di provenienza geografica, di settore sociale, genere, di tipologia (movimenti sociali, Ong, intellettuali, ecc.) e pluralità ideologica. Si, perché c’è chi pensa che si possa umanizzare il sistema capitalista, chi invece vuole cambiarlo radicalmente.
Importante è restare insieme. Il fatto di poter resistere in una convergenza sta progressivamente costruendo un nuovo rapporto di forza con l’altro polo, quello mondializzato, fortemente costituito».

Quali sono i principali risultati dei Forum?
Primo: c’è stata una crescita di coscienza collettiva mondiale alla quale noi abbiamo realmente contribuito. Secondo: i Forum sono stati luoghi di formazione e di appoggio di reti, alcune sono nate nei Forum, altre si sono rinforzate.
Terzo: l’esistenza dei Forum è un fatto politico in sé.

In che senso il Forum è politico? Che potere ha di influenzare le decisioni dei governi?
Non so se abbiamo già influenzato, ma conosco alcuni partiti politici in Europa i cui dirigenti vengono ai Forum perché si rendono conto che aumenta la loro credibilità politica. Non dico che abbiano sempre le migliori intenzioni. Ma stimano che non è più possibile non tenere conto di questi eventi e che i temi dibattuti sono importanti dal punto di vista politico. Organismi come la Bm, l’Fmi o la riunione di Davos, è vero che non li abbiamo cambiati, ma sono stati obbligati a modificare i loro discorsi. Sentiamo che è una forza che si costruisce. È un processo, dobbiamo continuare. Quello che succede in Venezuela oggi, non voglio dire sia frutto dei Forum, ma è un cambiamento. Bisogna poter arrivare in molti luoghi per attuare dei cambiamenti di quel tipo.

Quali sono le sfide attuali?
Si deve passare dall’elaborazione di una coscienza collettiva, alla costruzione di attori politici. Che esistono già ma devono essere rinforzati se vogliamo avere un’efficacia contro il sistema e la sua organizzazione. Questo per costruire poco alla volta un nuovo soggetto storico. Se la classe operaia lo è stata durante il XIX e XX secolo, oggi credo che il soggetto che si costruisce progressivamente è più largo perché non c’è un gruppo sociale al mondo, che siano i popoli autoctoni, oppure i contadini, che non sia sottomesso alla logica del capitale.
Ma attenzione, i Forum devono restare unicamente dei punti di incontro e di scambio, non luogo di decisione collettiva. In questo modo è possibile restare non gerarchici, e ascoltare tutte le diversità di sensibilità di organizzazioni diverse.
Importante sarà incontrare la strategia dell’avversario, che sta cercando di cornoptarci, riutilizza i nostri concetti e lo stesso nostro linguaggio ma dandogli un altro senso, come ad esempio la lotta contro la povertà. Ma finalmente mette in marcia il suo apparato repressivo, poliziesco o militare, per criminalizzare soprattutto i movimenti sociali nel Sud.

Quando parla di nuovi attori collettivi, a cosa pensa?
Penso ad esempio al movimento della pace, all’opposizione alla guerra in Afghanistan e Iraq. Se riusciamo a far sì che in mille città del mondo ci siano manifestazioni contro la guerra, eventualmente ampliando le prospettive, come la distruzione di tutte le atomiche o la soppressione di tutte le basi militari all’estero, avremo creato un attore collettivo in un settore. Possiamo fare la stessa cosa contro la privatizzazione dell’acqua. Se in ogni settore si creano degli attori collettivi, poco a poco questi possono costituire un nuovo soggetto storico pluralista.

Come far rientrare gli esclusi nei Forum? Ad esempio l’Africa della città è molto diversa da quella dei villaggi, e questa seconda qui a Bamako non sembra molto rappresentata.
È una sfida intea, che necessita di una lunga preparazione del Forum con un intervento locale nei villaggi. Occorre avere un contatto reale con la gente, e poi bisogna far venire, alloggiare, essere presenti fisicamente un certo numero di persone della base, in modo che non si dimentichi che si discute di loro. In India c’era stato un grande sforzo da quel punto di vista (il Fsm del 2004 si è tenuto in India, ndr.). C’erano 20.000 «intoccabili». Questo aveva creato una certa atmosfera: non si potevano dimenticare. In India tutto era sullo stesso sito, mentre qui c’è una certa dispersione, quindi è molto più difficile organizzare una presenza. E non basta parlare a nome loro, bisogna averli presenti in modo tale che si possano trasformare in attori.

Come possono i Forum avere una buona visibilità e non essere criminalizzati?
La visibilità dipende essenzialmente dai media. Ci sono giornalisti dei media tradizionali che sono qui con noi e poi ci sono tutti i media alternativi. È una nostra preoccupazione. Poi dipende anche dal fatto che ci siano ogni tanto atti realmente visibili, ad esempio la manifestazione di apertura del Forum. Oppure far sì che molti parlamenti votino la Tobin Tax (proposta di tassa sulle transizioni finanziarie inteazionali, ndr.): non sarà questo che distrugge il capitalismo ma va contro il sistema mondiale ed è visibile.

DI MARCO BELLO


(1) MC aveva già intervistato François Houtart sul numero di aprile 2002.

Marco Bello




Onorevoli di tutto il mondo unitevi!

Acqua e politica

Dall’Africa e dall’Europa. Parlamentari ed eletti di enti locali. Si riuniscono per dare voce ai cittadini. No alla mercificazione dei «servizi alla cittadinanza»: acqua, educazione, sanità, trasporti, energia.

Bamako. Sono tra quelli meglio organizzati gli incontri del Contratto mondiale sull’acqua, e sempre gremiti di gente. Ma la sala del Museo nazionale di Bamako dove si tengono è troppo piccola e gli aspiranti partecipanti si accalcano fuori.

Riccardo Petrella e il suo gruppo sono riusciti a coinvolgere parlamentari africani (Mali, Burkina Faso, Togo), belgi, francesi ed europarlamentari nell’idea di costruire una rete di onorevoli di tutto il mondo in grado di rappresentare realmente i desideri della popolazione. Soprattutto per quanto riguarda i «servizi alla cittadinanza», ovvero acqua, educazione, sanità, trasporti, energia.
Si deve creare un «Collegamento dei parlamentari tra loro e parlamentari e società civile» sostiene Soumane Touré, deputato del Burkina Faso, per poter fare in modo strutturato «pressioni sulla regolamentazione per la gestione dell’acqua. Perché l’insieme dei cittadini deve farsi ascoltare. Che siano i parlamentari o gli eletti degli enti locali, devono prestare attenzione ai problemi della popolazione per poi cercare di risolverli. Un deputato eletto deve poter introdurre leggi in questo senso».

Padroni dell’acqua

Presente all’incontro anche Danielle Mitterand (moglie del defunto presidente francese François Mitterand), presidente della Fondazione France et Liberté. Nel suo intervento sottolinea che le preoccupazioni sull’acqua non sono solo relative a quella potabile, ma, in senso più largo «intesa come bene dell’umanità, per la sopravvivenza stessa della specie umana». La constatazione della Mitterand è che siamo il risultato di un sistema, per cui ogni stato non può portare avanti la propria politica, ma sono tutti sottomessi a una dittatura mondiale economica e finanziaria.
Il pensiero unico, che ci è stato imposto da molti anni, predica il profitto come motivazione di tutto, senza alcuna considerazione per l’essere umano. E la corsa al potere per controllare il mondo passerà dall’acqua: «Chi sarà il padrone delle risorse in acqua (falde acquifere, sorgenti, fiumi) sarà il padrone del mondo. Questo ci porterà alla guerra dell’acqua».

Ma la Mitterand vede una reazione positiva nelle società civili, anche africane «esistono molte associazioni portatrici di progetti e composte da persone responsabili verso l’ambiente che stanno costruendo un’altra politica per un mondo con solidarietà popolare. Le associazioni – continua – sono coscienti della possibilità di riuscire a convincere gli eletti, coloro che hanno potere di decisione affinché agiscano in questo senso». È quanto è successo in Belgio, spiega il deputato Pierre Galan, dove grazie a pressioni del parlamento, il governo di quel paese è stato l’unico ad opporsi, nel marzo 2005, alla liberalizzazione del mercato dei servizi in sede Ue.

Un impegno comune

Un deputato verde francese chiede ai rappresentanti dei paesi presenti di intensificare la comunicazione, affinché in Europa si conoscano quali imprese europee stanno tentando di privatizzare l’acqua in Africa. Avranno così gli elementi per interpellanze e inchieste parlamentari.

I partecipanti, parlamentari e rappresentanti di associazioni, sottoscrivono la Dichiarazione di Bamako, nella quale si impegnano su tre punti fondamentali. Primo: il Fsm considera l’accesso gratuito all’acqua in termini di 40 litri al giorno per persona come uno degli obiettivi per i prossimi 10 anni. Per questo è prioritario creare delle reti continentali di «difensori dell’acqua» (movimenti, cittadini, sindacati, ecc.) contro la mercificazione e la privatizzazione di questa risorsa. Secondo: i parlamentari presenti si impegnano a creare associazioni nazionali, continentali e inteazionali di eletti con lo scopo di favorire l’accesso all’acqua per tutti. Spingeranno, inoltre, affinché il Parlamento panafricano faccia di una nuova politica dell’acqua una delle sue priorità. Terzo: organizzazioni e imprese pubbliche dell’acqua dei vari paesi si impegnano a creare un’alleanza mondiale delle società pubbliche per promuovere la proprietà e la gestione pubblica di questo bene comune e controbilanciare le azioni delle compagnie multinazionali (1), che hanno creato la FederAcqua (Federazione internazionale degli operatori privati).

Di Marco Bello

(1) Si veda il dossier «Le mani sull’acqua», MC giugno 2006.

PARLA RICCARDO PETRELLA:

VERSO L’ASSEMBLEA MONDIALE

Il segretario generale del Comitato internazionale per il Contratto mondiale sull’acqua ci spiega le priorità delle battaglie per i prossimi mesi. Per una vasta mobilitazione di cittadini, enti locali e parlamentari.

In primo luogo bisogna rigettare la direttiva europea Bolkestein (direttiva sui servizi nel mercato unico dell’Ue in iter di approvazione, ndr). Per riaffermare il carattere pubblico dei servizi di cittadinanza, che questa direttiva vuole trasformare in merce: l’acqua, l’educazione, il trasporto, il solare nell’energia. L’attuale testo, anche modificato, è chiaramente una specie di abbandono di ogni senso di vivere insieme gestito con meccanismi pubblici collettivi, rappresentativi, non burocratici e non corrotti. Non vogliamo che questi servizi ubbidiscano alla semplice logica del prezzo minore, quindi più competitività, che pretenderebbe anche miglior qualità. Anche se fosse vero, come si può accettare che la logica del mercato governi l’accesso ai servizi di base per la cittadinanza? Questo significa aver completamente mercificato la vita e la società: è uno degli attacchi più feroci che la logica della società capitalista sta portando alla civiltà.
Attualmente ogni stato ha le sue leggi in materia. In alcuni paesi i servizi sono totalmente pubblici, in altri sono stati privatizzati. La direttiva Bolkestein, dietro alla scusa del mercato unico europeo, vuole applicare il principio della liberalizzazione, deregolamentazione quindi privatizzazione dei servizi alla cittadinanza.

Secondo. Vogliamo riaffermare il concetto dell’acqua pubblica sia sul piano di proprietà, sia su quello della gestione. Si vuole evitare questa distinzione, che molta gente fa, sostenendo che la proprietà della rete deve restare pubblica, mentre la gestione del servizio può essere data al privato. Dietro al principio assai strambo, non confermato dalla realtà, che il privato necessariamente deve essere più efficiente, efficace ed economico del pubblico.

Terzo. A settembre ci saranno gli stati generali dell’acqua delle regioni meridionali (italiane, ndr), per tentare di definire e far mettere in opera una visione e una politica dell’acqua pubblica. Per evitare che nei prossimi anni le pressioni verso le tendenze delle politiche regionalistiche di tipo nazionalista anche sull’acqua si rinforzino, invece di andare verso una visione più cornoperativa, solidale ed efficace a livello dei bacini del meridione. E, inoltre, l’utilizzo del territorio e dell’acqua per una politica di ristabilimento del sistema idro-geologico oggi completamente dissestato in queste regioni. Far sì che i servizi idrici di distribuzione, depurazione e fognatura possano sempre rispondere a elementi di qualità elevati attraverso un intervento di governo pubblico dell’acqua.

Quarto. Stiamo organizzando dal 3 al 6 dicembre, a Bruxelles, la prima Assemblea mondiale dei cittadini per l’acqua, alla quale tenteremo di far venire i responsabili di città, villaggi, associazioni e parlamenti locali. L’obiettivo è che si prenda l’impegno a far sì che nessuno, almeno nella propria città, sia sprovvisto di accesso all’acqua potabile entro i prossimi 15 anni. Affinché la gente si impegni non solo a dichiarare che l’acqua è un bene comune o un diritto, ma a concretizzare questi due principi. Inviteremo le città del Sud e del Nord, dall’Africa e dall’America Latina. Come finanziarci? La provvidenza è chiamata a intervenire.

Per tutto questo il Forum sociale è un luogo di concertazione dove, a partire dallo scambio di interessi, analisi, critiche e valutazioni su ciò che è stato fatto o deve essere fatto, si elaborano strategie comuni per raggiungere in maniera più efficace gli obiettivi per i quali ci battiamo da tanti anni.
a cura di M.B.

(1) Riccardo Petrella è già stato intervistato sulle pagine di MC di settembre 2001.

Marco Bello