Angeli con un’ala rotta

Giovane dentista, cresciuto nello spirito missionario frequentando i nostri gruppi giovanili, Daniele ha deciso di spendere alcuni mesi come volontario in un ospedale del Cottolengo in Kenya, per mettere
a servizio dei più poveri la sua specializzazione professionale. Le riflessioni sulla sua esperienza insegnano che occorre poco per essere felici: basta fare felici gli altri. Provare per credere.

«Ed è subito sera». Credo sia una poesia di Quasimodo. È diventata un po’ il motivo portante di questa mia vita qui, a Chaaria. Mi accorgo di quanto sia vero proprio in questo posto, proprio adesso in cui rubo qualche minuto alla routine in ospedale per scrivere.
Non me ne sono accorto, ma quasi due mesi sono passati. Un giorno per volta, un passo dopo l’altro, mi sembra di aver fatto tanta strada e nello stesso tempo di essere fermo.
Sembra incredibile, il giorno scorre come un torrente, a volte placido, a volte come imbizzarrito. E veloce. Cavoli com’è veloce!
Dalla mia camera vedo l’alba. Ogni mattina spengo la sveglia (maledico la sveglia) e, ancora sdraiato, 6 e 20, apro le tende. Apro anche la finestra: mi piace il fresco del mattino, mi aiuta a svegliarmi. È tutto tranquillamente in ombra, le vacche dormono, il bananeto non si muove. E di colpo esce fra le foglie di banana un disco arancione.
Sembra che quella palla rossa, enorme, sia lì apposta per me, a guardarmi in faccia per dirmi che sono vivo, e se mi sbrigo a saltare fuori dalle lenzuola è meglio. Non capisco cosa ci sia di diverso nel cielo; è come se fosse pronto a piombarti sulla testa, è come se fosse piegato ad abbracciarti. Probabilmente sarà per la diversa curvatura della terra all’equatore. Non mi interessa. Mi piace pensare che sia Dio che stringe al petto con amore i suoi figli prediletti: i miserabili, i sofferenti che abitano qui. E che sono quelli che ama di più, non perché sono più buoni, ma perché sono poveri.
Così comincia un’altra giornata. La messa come prima cosa. Per dare energia, per trovare un motivo per tutto quello che ci circonda. O almeno dovrebbe essere. In realtà ho talmente sonno, che tante volte riprendo conoscenza quando qualcuno seduto vicino a me mi scrolla per darmi il segno della pace.
Di lì in poi si comincia a correre. Perché, ha detto Madre Teresa, «non sia mai che qualcuno venga da voi e non se ne vada migliore di com’era quando è venuto, più felice». Questo cerco di propormi ogni mattina. Spesso non ci riesco.

È difficile spiegare Chaaria. Perché è difficile spiegare i sentimenti a parole. E i sentimenti sono forti; e sono in contrasto fra di loro. Sono occhi, grida, sorrisi, lacrime. Sono volti, nomi, odori.
Chaaria è Glory: non sa perché, ma a 12 anni ha un tumore. Troppi soldi per operarsi. Maledetti soldi. Sempre loro. Troppo tardi per cercare una soluzione. C’è un angelo in più, adesso, in cielo. Un angelo troppo piccolo per capire, troppo lontano adesso dal suo papà che piange.
Chaaria è Susan: non ha fatto niente di male. Ha l’Aids. Senza colpa. Semplicemente, è nata dove non doveva. Susan sorrideva, sempre, mi salutava con la mano sinistra. Mi ha anche ringraziato perché le ho tolto un dente che le faceva male.
Non è una bambina, è un fiore, dolce come un bacio. Mi sorrideva anche la sera se passavo a toccarle una mano. Ma è fragile, Susan. Troppo il peso della sofferenza sulle sue ossa leggere.
Susan è una fiammella che si allontana sempre più. Susan è un angelo con un’ala rotta, è scesa per farci capire quale preziosa meraviglia sia la vita.

Stasera, proprio mentre scappavo dall’ospedale per venire a scrivere, si sentiva da una radio quella canzone, di non so più chi, che dice «… but if God was one of us…». Già, se Dio fosse uno di noi, cosa gli direi…
Lo ringrazierei per l’alba, i fiori del frangipane, gli alberi di banana, i mango. Per la risata di Makena, le gambe di Kanana, il sorriso di Beppe, la voce di Lorenzo. Perché respiro. Forse ci litigherei. Gli urlerei in faccia. Come Vecchioni che canta: «Ora facciamo due conti io e te, Signore!». Perché non fai qualcosa?
In questa mia fede traballante mi convinco sempre più che, se Dio c’è, è qui, con i poveri, con quelli che soffrono. Non fa quello che vorrei io. Non è un Dio prestigiatore, che fa i miracolini per far vedere che può. È un Dio che sta con gli ultimi. Anzi, sta proprio in fondo alla fila. Lui era lì. Con Glory. A tenerle la mano, in silenzio. Lo so.

Certo, la rabbia a volte è tanta. Non so se la notizia sia arrivata in Italia, ma qui la scarsa stagione delle piogge ha portato la carestia. Giustamente, persone di buon cuore si sono attivate per portare sollievo a una popolazione sofferente. Così una dolce vecchietta neozelandese, amministratore delegato di una multinazionale che produce alimenti per animali, ha offerto in dono diversi quintali di mangime per cani, «per alleviare la fame dei bambini del nord del Kenya». Complimenti! È grazie a iniziative costruttive come questa che Beppe Grillo può mantenere attivo il suo blog.
L’Undp (United Nations Development Programme) ha calcolato che basterebbero 40 miliardi di dollari, lo 0,1% del prodotto interno lordo mondiale, per garantire a tutti, in tutto il mondo, i servizi sociali di base. Ogni anno spendiamo circa 1.000 miliardi di dollari in armi, quasi 500 in pubblicità, 50 in sigarette, 11 in gelati. E circa 20 in cibo per animali. Guardando tutto da quaggiù, non mi sento per niente fiero di essere un abitante di questo pianeta.
Ma non vorrei che con tutto questo mi pensaste triste o scoraggiato. L’unica cosa è che ho tanto sonno. Ma sento verissimo quello che dice Frei Betto: «Nella vita per essere felici serve solo un po’ di pane, del buon vino e un grande amore». La vita semplice, come dice Gesù: beati, sì, beati i cuori semplici. È la semplicità che fa scoprire una libertà interiore.
È di questa libertà del cuore che, credo, tutti abbiamo sete. Una mia grande amica mi ha detto una volta che i poveri sono una straordinaria ricchezza. Credo sia vero.
E poi non ci sono solo Glory e Susan. Solo che spesso spendo più tempo a pensare alle ombre che alle luci. Capita anche a voi?
Vorrei raccontarvi di William, che lavorando si è distrutto una mano. Con Gian l’abbiamo ricostruita, e ho visto ieri che riesce di nuovo a muovere il pollice.
Potrei raccontarvi di Kangai, che ha partorito, dopo un bruttissimo intervento, una bimba che sarà una fotomodella o almeno un premio Nobel. La settimana scorsa è andata a casa, mi ha salutato con quel suo orrendo sorriso sdentato, bellissimo.
O di Isidoro, uno dei nostri «buoni figli», un dolce vecchietto di 5 anni che non dimostra per niente i suoi 60; che salta di gioia quando lo portiamo in macchina a bere una cocacola in «città»; che mi ferma per mostrarmi orgoglioso la sua tartaruga che ha chiamato Brother Moris.
Ma non c’è più tempo, vi parlerò ancora di loro. Adesso è tardi, devo tornare in ospedale. Poi bere una birra e poi andare a dormire. Magari dopo avee cantate un paio con Andrea. Canzonacce da osteria o canzoni d’amore, con la chitarra. Come se fossimo da sempre in vacanza.

Ho sentito in un film una frase dura, che mi ha colpito. Diceva circa così: faranno vedere tutte queste cose al telegiornale, la gente dirà «che vergogna». Poi prenderà in mano la forchetta e ricomincerà a mangiare cena. Forse è proprio così.
Ma non dobbiamo rassegnarci. Non dobbiamo abituarci. Si può cambiare. «Il sole nasce anche d’inverno. La notte non esiste: guarda la luna» diceva una canzone qualche anno fa. Il mondo può cambiare.
Siamo noi che possiamo cambiarlo. Noi, tutti insieme. Un pezzo alla volta. Non so se il Signore mi ha voluto qui per cambiare il mio pezzettino. Credo che ci proverò. Di sicuro sono felice.

Di Daniele Pecorari

Daniele Pecorari