Consegnata al clero locale

Asella: missione compiuta

Il 22 dicembre del 2004 è stata consegnata al clero locale la missione di Asella, fondata 25 anni fa da padre Silvio Sordella. Vi ho lavorato anch’io, dal 1991 al 2003: sono stati gli anni più belli della mia vita.
Nata con una «casa-famiglia» per orfani e disabili, la missione di Asella è diventata presto famosa anche per la sua squadra di calcio Nyala, vincitrice di diversi campionati regionali; in essa è maturato Tesfay Tadesse, diventato giocatore della nazionale etiopica.
In questi 25 anni centinaia di giovani sono stati aiutati a uscire dalla condizione di precarietà. Molti di essi, dopo un lungo cammino di educazione fisica, intellettuale, civile e religiosa, sono riusciti a farsi largo nella società etiopica e nel mondo. Due ex-allievi sono stati campioni di maratona: Kasa Tadesse in Inghilterra e Molla Demmeke in Belgio. Demmeke Syum e Sintayo Mulugeta sono veterinari. Markos Raggasa si è laureato in economia ed è emigrato negli Stati Uniti; Barisso Dekama e Shemelles Alemu hanno trovato lavoro in Canada, Haylu e Bereket Resson in Europa. Mulugheta Woldegabriel è proprietario e direttore di una fabbrica di mobili in Addis Abeba. Fayissa Kusa è autista nell’ambasciata spagnola e suo fratello Yohannes dirige il laboratorio ortopedico dell’ospedale di Asella. Getachew Abera è capo meccanico della Compagnia Vaero, mentre Yohannes Gizachew e Birru Shibiru hanno aperto un’officina in proprio. Salomon Fikade è insegnante di musica e Tezera Dejene artista e insegnante di pittura nella capitale. Musa Husen sta finendo il conservatorio di musica e suo fratello scolpisce le tradizionali icone in legno.
La lista potrebbe continuare. Molti giovani sono insegnanti nelle scuole statali e cattoliche; altri stanno finendo gli studi universitari, i più hanno trovato lavoro in imprese locali o hanno avviato attività in proprio.

Il mio compito ad Asella è stato quello di continuare la formazione integrale degli orfani e disabili, attraverso la scuola di base per i più piccoli e quella di arti e mestieri per i più grandi, come falegnameria, muratura, meccanica, agricoltura. Al tempo stesso ho potuto portare qualcosa di nuovo e molto personale: scuola di musica, pittura, taglio e cucito. Tutte attività che hanno permesso, soprattutto ai disabili, di sviluppare la loro creatività. Assistiti professionalmente e individualmente, si sono perfezionati nell’arte etiopica, producendo quadri, icone, sculture, indumenti sacri e profani molto richiesti nel paese e all’estero. In questo modo anch’essi possono sperare in un futuro autonomo e migliore.
La presenza di fratel Mark Waweru ha portato un’altra divertente novità: il circo, con relativi giochi acrobatici, accompagnati da musica e danza. Il circo è diventato così popolare, da essere chiamato a esibirsi negli stadi, davanti alle autorità, in occasioni di particolari eventi e feste.
Oltre a divertire, il circo aiuta gli orfani e disabili a scoprire le proprie abilità latenti, vincere l’insicurezza e riacquistare alla stima di se stessi.
La collaborazione di fratel Mark mi ha permesso di avviare e cornordinare vari progetti e iniziative a favore della comunità cristiana. Il più importante realizzato è la costruzione del nuovo centro parrocchiale con chiesa, casa canonica, casa per le suore, dispensario, asilo e scuole elementari. Strutture che hanno portato la missione di Asella a maturità, pronta per essere consegnata al clero locale e continuare il suo cammino con le proprie gambe.

Renato Saudelli

Renato Saudelli




Col bastone a piedi scalzi

Gigantesca figura di uomo e missionario, ha sfidato il mito dell’impenetrabilità dell’Africa, avviando l’evangelizzazione delle regioni più intee e inaccessibili dell’Etiopia. I 35 anni della sua epica impresa, troncata bruscamente dall’esilio e dalla persecuzione delle comunità da lui formate, è stata continuata dai missionari della Consolata, che ancora oggi scoprono famiglie discendenti dall’attività dello Abuna Messias. Da una di esse proviene l’Abuna Brahane Jesus, attuale arcivescovo di Addis Abeba.

Un lembo di terra dell’astigiano, ai confini con la provincia di Torino, è diventato famoso in tutto il mondo per la straordinaria fioritura di santi che vi ebbero i natali nel giro di mezzo secolo. A Piovà d’Asti (oggi Piovà Massaia) nel 1809 nasceva Lorenzo Massaia, poi diventato fra’ Guglielmo da Piovà, infine conosciuto come Abuna Messias in Etiopia e cardinal Massaia in Europa.
A 7 km di distanza, a Castelnuovo d’Asti (oggi Castelnuovo Don Bosco) nascevano san Giuseppe Cafasso (1811), san Giovanni Bosco (1815), il beato Giuseppe Allamano (1851) e personalità eccellenti, come il card. Giovanni Battista Cagliero, mons. Giovanni Battista Bertagna, mons. Matteo Filippello, mons. Francesco Cagliero.
Trasferitisi dalla provincia alla capitale, Torino, si sono trovati uniti quasi fisicamente attorno a un altro lembo di terra, il santuario della Consolata. Uomini dall’orecchio sensibilissimo, essi si sono sentiti ripetere dalla Madre di Dio: «Fate quello che egli vi dirà». E si sono ritrovati catapultati nelle più svariate e complesse attività sociali in patria e in tutto il mondo.
L’amore per la Madonna Consolata ha unito due di essi, il Massaia e l’Allamano, in un profondo legame ideale e spirituale, tradotto nell’evangelizzazione dell’Etiopia.

PREPARAZIONE PER L’ETIOPIA

Ordinato sacerdote a Vercelli nell’anno1832, ultimata la sua formazione scolastica e religiosa nel convento di Moncalieri-Testona, fra’ Guglielmo da Piovà ricoprì per due anni (1834-1836) l’ufficio di cappellano dell’ospedale Mauriziano di Torino. Quindi, per 10 anni insegnò filosofia e teologia nel convento di Moncalieri e poi in quello del Monte dei Cappuccini (1836-1846).
Fu un periodo di profonde esperienze, che tornarono utili nella sua missione in Etiopia. Strinse amicizie con altri santi piemontesi e importanti personalità del tempo. Prima di tutto con Giuseppe Benedetto Cottolengo, di cui fu saltuariamente consigliere e confessore. Un’amicizia mai dimenticata; nelle sue memorie parlando di «certi tipi apostolici d’Europa», ricorda con ammirazione: «Il Cottolengo in Torino da me conosciuto».
La funzione di cappellano estivo di casa Savoia gli permise di conoscere la regina Maria Teresa, suo marito Carlo Alberto, i principi Vittorio Emanuele ii, futuro re d’Italia, e Ferdinando duca di Genova. Fu direttore spirituale di Silvio Pellico, reduce dallo Spilberg; segretario e bibliotecario della marchesa Giulia Colbert di Barolo. Nello stesso periodo incontrò Gaspare Boccardo, padre del beato Giovanni Maria e del canonico Luigi Boccardo.
Le conoscenze di medicina acquistate al Mauriziano gli permetteranno di preparare lui stesso il vaccino del vaiolo e di salvare molta gente. I contatti, poi, con la casa reale di Savoia risulteranno utili quando il re Menelik ii gli richiederà il servizio di segretario e intermediario con il re d’Italia.
Il 26 aprile 1846 Gregorio xvi istituì il Vicariato apostolico degli Oromo in Alta Etiopia, sancito con un breve del 4 maggio seguente; sei giorni dopo, con altri due brevi, affida il vicariato al Massaia, che, il 24 dello stesso mese, fu consacrato vescovo a Roma in San Carlo al Corso.
Lasciò l’Italia il 4 giugno 1846, intraprendendo un’avventura missionaria segnata da croci e sofferenze inaudite: 8 traversate del Mediterraneo, 12 del Mar Rosso, 4 pellegrinaggi in Terra Santa; 4 assalti all’impenetrabile fortezza abissina dal Mar Rosso, dall’Oceano Indiano e dal Sudan; 4 esili, altrettante prigionie e 18 rischi di morte costituirono il bilancio della sua leggendaria missione, che lo annovera fra i più grandi apostoli della chiesa.
Sbarcato a Massaua dopo quattro mesi di viaggio, il Massaia fu costretto a una sosta forzata nella prefettura dell’Abissinia, che comprendeva l’attuale Eritrea e il Nord Tigray. La strada verso l’interno era sbarrata dalle guerre tra il principe del Tigray, Ubié e il ras Aly, principe dell’Asmara. In una coice di fuoco e sangue, la notte del 7 gennaio 1849, a Massaua, il Massaia consacrò segretamente Giustino De Jacobis vescovo e vicario apostolico dell’Abissinia.
Poi fu incalzato dalla persecuzione del vescovo ortodosso Abuna Salama ii, che con sprezzo lo battezzò profeticamente «Abuna Messias». Con il pretesto che in Abissinia doveva esserci solo un vescovo cristiano, Salama scomunicò il Massaia e convinse Ubié a cacciarlo dall’Abissinia. Dopo lungo vagare per i litorali del Mar Rosso e del Golfo Arabico in cerca di un passaggio per entrare nella sua missione, il Massaia decise di affrontare di petto la situazione, presentandosi personalmente al principe Ubié. Lo racconta lui stesso in una lettera scritta da Gondar il 25 luglio 1849 e indirizzata a don Luigi Sturla, missionario apostolico a Aden.

TRAVESTITO DA MERCANTE

L’impresa poteva compromettere non solo la vita fisica del missionario, ma l’esistenza del vicariato dell’Abissinia. De Jacobis cercò di sconsigliarlo in tutti i modi, come racconta lo stesso Massaia: «Sono partito da Massaua alla volta di Gondar non senza forti ostacoli da parte di tutti gli amici, i quali fecero ogni sforzo per trattenermi, presentandomi i pericoli della persecuzione non ancora finita. Monsignor De Jacobis credeva sicura la morte mia; e volendo far da profeta, disse che sarei andato al martirio».
Ma il Massaia aveva fatto i suoi calcoli: il «martirio», scriveva, è «cosa per altro impossibile, stante certe circostanze, ch’io solo coram Deo posso conoscere». Per evitare rischi alla missione di De Jacobis, prese tutte le precauzioni necessarie, partendo senza salutare nessuno e viaggiando sotto false spoglie. «Tagliatami la barba e deposto ogni distintivo di persona ecclesiastica, partii a piedi, colla sola compagnia di due servi fidi e di un prete indigeno, a cui potessi confessarmi in ogni occorrenza».
Il rischio del viaggio era motivato dal fatto che il Massaia era stato esiliato da quei territori dal principe Ubié 18 mesi prima. D’altra parte sarebbe stato impossibile attraversare il suo territorio, che richiedeva 20 giorni di cammino, senza essere notato. Era indispensabile il suo permesso. Da qui la decisione di affrontare direttamente e di petto l’ostacolo. «Però io m’appigliai a un partito al tutto straordinario e fu presentarmi improvviso al re stesso in qualità di semplice viaggiatore e chiedergli la sua assistenza nel viaggio».
L’accoglienza fu fredda, come racconta il missionario: «Penetrai dunque in abito di meschino europeo, accompagnato dai miei servitori, nel territorio di Ubié; e vi fui accolto come usano colle persone ordinarie… Il cuore mi batteva più che mai, non per paura dei mali che potessi incontrare io, ma di tutti quelli che potevano cogliere alla nostra santa causa, di cui io era come in signum contradictionis».
Per avere un appuntamento con Ubié prese contatto con un suo parente. Fu sottoposto a mille domande; preso dallo scrupolo di non mentire, «cercai di tacere una parte del vero che più mi premeva». Per mettere «fine alla catena di tante interrogazioni molto pericolose per me» si appellò direttamente all’autorità superiore. «Se in me era qualche cosa di misterioso, l’avrei a voce o per iscritto svelato al solo Ubié».
Il travestimento da mercante si rivelò inefficace. Ma sapeva che Ubié non era contrario alla sua presenza e alla sua missione; ma a corte c’erano «molti nostri giurati nemici – continua nella sua lettera – Ubié disse all’uomo che più frequentavami e che gli aveva recata la mia ultima risposta: “Bada di non fiatare… Il meschino viaggiatore, che chiede udienza, è il celebre abuna Massaia, ch’io credeva già ritornato a Roma… Prima che vengano alla corte i grandi impiegati (era di mattino, poco dopo la levata del sole; ed io era giunto al campo la sera prima), corri a chiamarlo all’udienza”».
Il ritorno del messaggero, che non era riuscito a scoprire la vera identità del forestiero, lo rinfrancò alquanto, senza eliminare totalmente la tensione: «Dopo che ebbi preso da un servo il picciol regalo destinato al principe, c’incamminammo alla tenda reale; benché sapessi ogni cosa avere, per misericordia di Dio, cambiato aspetto, pure le mie gambe non volevano reggermi».
L’udienza fu cordiale e positiva. «Preso pertanto commiato, e tornato a casa, gli feci spiegare la mia assoluta volontà di partire; e dopo molte ambasciate, in una delle quali Ubié mi fece dire che aveva dato ordine per un’altra casa e un altro genere di trattamento per me, mi lasciò finalmente in libertà, pregandomi di compartire a lui e al suo regno la mia benedizione e assicurandomi che avrebbe prese tutte le precauzioni per fare sì che il mio viaggio fosse felice. Colla benedizione gli mandai i miei dovuti ringraziamenti».
«Mi fu data per scorta del viaggio una persona della casa di Ubié, a cui vennero fatte le più vive e gelose raccomandazioni e dati ordini più pressanti. L’amico volle accompagnarmi un’ora di strada; nel qual tempo mi disse molte cose intese da Ubié a riguardo mio e di monsignor De Jacobis, a cui portava un affezione incredibile».
In questa situazione difficile il Massaia annota: «Oh quanto differente dalla mia entrata nel campo del principe fu la uscita! Era il 20 giugno, giorno dedicato alla Vergine santissima della Consolata di Torino e giorno in cui ella volle porgermi l’ineffabile contentezza di fare il tanto sospirato viaggio alla mia missione e raggiungere i miei amati compagni».
La fede in Dio e la protezione della Vergine Consolata diedero al Massaia coraggio di sfidare l’impossibile. E conclude: «Ecco, caro amico, come terminò il mio esilio dall’Abissinia. Avrebbe durato ancora chi sa quanto, se non avessi preso ardimento di fare il passo, che feci oltre ogni previdenza. L’opera di Dio, eminentemente sublime, cammina per vie a prima vista impraticabili, ma piane, perché opera di Dio, il quale suole, nel tempo stesso, agir forte e disporre soavemente delle cose di quaggiù».

LA GRANDE EPOPEA

Dal Tigray passò nello Scioa, al di là del quale si estendeva il paese degli oromo. Ma un manipolo di sgherri lo catturò e, tra umiliazioni di ogni genere, lo portò davanti al ras Aly, che costrinse il missionario a recarsi in Francia per chiedere la protezione dei francesi per il suo regno contro la minaccia di aggressione da parte dell’Egitto.
Il 3 giugno 1850 il Massaia salpò da Aden per l’Europa. Compiuta la missione diplomatica, il 4 aprile dell’anno seguente era di nuovo in viaggio. Questa volta tentò di entrare nel suo vicariato risalendo il Nilo, in veste di mercante, bastone in mano, piedi scalzi e passaporto intestato a Giorgio Bartorelli.
Alla fine di avventure drammatiche e rocambolesche riuscì a guadare il Nilo azzurro e mettere piede nella terra degli oromo: era il 21 novembre del 1852, giorno della presentazione della Vergine Maria. Dimesse le vesti da mercante, indossò quella di monaco etiopico: finalmente tutti seppero che il dottor Bartorelli era l’Abuna Messias ricercato da 6 anni in tutta l’Etiopia.
Per 27 anni il Massaia lavorò indefessamente tra gli oromo (1852-63) e nello Scioa (1867-1879), salvo un breve periodo di esilio in Europa (1864-1866). Ad attività esclusivamente di avanguardia (formazione della gioventù e dei catechisti, costituzione del clero indigeno, compilazioni di catechismi in oromo e amarico), egli seppe unire iniziative altamente umanitarie, come: profilassi contro malattie endemiche, vaccinazioni contro il vaiolo, creazione della prima grammatica della lingua oromo, allora solo parlata, trascritta con caratteri latini, compilazione di manuali scolastici, creazione di centri assistenziali per le vittime di guerre e carestie, incremento e sviluppo dell’agricoltura, sostegno a varie spedizioni scientifiche; senza trascurare iniziative diplomatiche, tanto da essere nominato dal governo italiano «ministro plenipotenziario» nel trattato d’amicizia e commercio tra l’Italia e lo Scioa (1° marzo 1879).
Abuna Messias era diventato troppo famoso, tanto da scatenare l’invidia del clero copto, che forzarono l’imperatore Yohannes iv a esiliare definitivamente il missionario (3 ottobre 1879).
Tornato in Italia, con il suo inseparabile bastone, testimone delle sue epiche imprese, Leone xiii lo nominò cardinale (1884) e gli impose di scrivere le sue memorie. Fu la sua ultima fatica: morì il 6 agosto 1889, mentre stava completando I miei 35 anni di missione nell’Alta Etiopia.

PASSAGGIO DEL TESTIMONE

Era ancora un ragazzo quando Giuseppe Allamano vide per la prima volta il Massaia, in visita all’Oratorio di don Bosco. Più tardi, quel vago ricordo si tradusse in ammirazione, diventata uno dei motivi che ispirarono l’Allamano a fondare i missionari della Consolata.
Nel dicembre 1887, a Roma, egli ebbe un lungo colloquio con il grande missionario. Quattro anni dopo in una lettera a Propaganda Fide, chiese per i suoi futuri missionari il territorio dell’Etiopia meridionale. Nei primi documenti il nome del Massaia non appare mai. Solo più tardi, a fondazione avvenuta, quando si tratta di stabilire i confini della costituenda Prefettura apostolica del Kaffa, da affidare ai missionari della Consolata, l’Allamano riafferma la volontà delle origini. «L’istituto della Consolata per le missioni estere – scrive in una lettera a Propaganda Fide nel 1912 – nell’intenzione del sottoscritto e dei più insigni benefattori, si propose, fin dal suo nascere, di ripigliare l’opera di evangelizzazione del compianto card. Massaia nel Kaffa, tra quelle stesse popolazioni oromo, ove fu più fruttuoso il suo mirabile apostolato».
Il sogno dell’Allamano, a causa degli intrighi politici di quella regione e inteazionali, cominciarono a realizzarsi solo nel 1916, quando padre Gaudenzio Barlassina, anche lui spacciandosi per mercante, riuscì a entrare in Etiopia.
Nel gennaio del 1919, a 40 anni dall’espulsione del Massaia, lo stesso Barlassina, in un viaggio nel territorio del Kaffa, ebbe la fortuna di incontrare presso Geren ultimo sacerdote indigeno ordinato dal Massaia, Abba Mattheos. «La sua abitazione era al centro di un gruppo di capanne abitate da famiglie cristiane – racconta padre Barlassina -. Aveva 87 anni. Da due anni, per la completa cecità non poteva celebrare la messa se non a pasqua, per comunicare i cristiani del suo villaggio… In due ore di conversazione con il vecchio sacerdote potei apprendere altre notizie sulla persecuzione mosse contro i sacerdoti e i fedeli dopo l’espulsione del Massaia, e sulla loro eroica resistenza: notizie che in seguito facilitarono la ricerca delle pecorelle abbandonate e disperse. Nel cuore della notte gli portai in segreto il viatico: fu l’ultima comunione del santo martire».
Per 24 anni i missionari della Consolata evangelizzarono la terra dissodata dal Massaia, fondando una quarantina di missioni, fino a quando, nel 1943, furono espulsi dall’Etiopia, occupata dagli inglesi.

ABUNA MESSIAS VIVE

I missionari della Consolata sono ritornati in Etiopia nel 1971. Anche se il territorio loro assegnato non è più quello in cui avevano continuato il lavoro del Massaia, il legame con il grande missionario è ancora forte. Nella missione di Minne e Waragu per esempio, dove ho lavorato fin dal 1985, ci sono varie famiglie discendenti dalle comunità formate dal Massaia.
Alcuni cristiani mi hanno raccontato le loro storie. «I nostri anziani – afferma Tadesse – raccontavano che i loro genitori erano originari di Ankober, una missione nello Scioa fondata da Abuna Messias. Ma quando questi fu espulso dall’imperatore Yohannes, il clero ortodosso cominciò a perseguitare i preti cattolici».
«Nella missione di Finfinni, dove poi Menelik fondò Addis Abeba – incalza Ghirma -, un prete rimase nascosto per qualche tempo, ma quando fu scoperto dovette fuggire. Lo stesso fecero altri preti. Fu allora che i nostri padri decisero di lasciare le loro proprietà e seguire i missionari. Alcuni raggiunsero Gibuti, altri si rifugiarono tra le montagne dell’Arsi. Le nostre famiglie seguirono padre Ambrosios e si stabilirono qui a Waragu».
Nelle loro memorie si intrecciano nomi di missioni distrutte e di luoghi di rifugio: Lume, Tedde Maryam, San Giorgio, Daka Bora, Lafto, Garafanissa, Alila… Grazie a tali racconti è stato possibile iniziare la ricerca dei cristiani rimasti per un secolo nelle «catacombe».
È il caso di Daka Bora, nella parrocchia di Modjo. Dopo attente ricerche si è riusciti a incontrare le poche famiglie cattoliche sopravvissute alla persecuzione e a localizzare il luogo dove sorgeva la missione di San Giorgio. L’arcivescovo di Addis Abeba, Abuna Brahane Jesus, si affrettò a comperare quel terreno e lo affidò ai missionari della Consolata, che hanno incominciato a costruirvi una piccola scuola e una cappella.
Lo stesso arcivescovo è la testimonianza più significativa che l’opera del Massaia è ancora viva: egli è originario di Lafto, discendente da una di quelle famiglie cristiane perseguitate nello Scioa e rifugiatesi a suo tempo nella regione di Waragu. •

Edoardo Rasera

Edoardo Rasera




Chidane Meherèt

Racconta una leggenda che la sacra famiglia di Gesù, di ritorno dall’Egitto, accompagnata da Salomè e dagli angeli Michele e Gabriele, passò per Debra Sina (Eritrea) e si fermò per tre anni in varie località dell’Etiopia, tra cui il monte Bizen, Aksum e l’isola di Tsanà. Per ricompensare gli abitanti dell’ospitalità offerta, Gesù donò l’Etiopia a sua Madre come feudo, Resta Mariam, in perpetuo retaggio. Maria divenne così padrona, feudataria e regina del paese. A loro volta, gli abissini divennero servi di Maria e la chiamarono Imebietaccìn: nostra padrona di casa. L’Abissinia è il paese della Madre di Dio; gli abissini, suoi servi, popolo eletto fra gli eletti.
Un’altra leggenda racconta che Maria, recatasi un giorno sul Calvario, dove era solita recarsi dopo la morte di Gesù, supplicò il Figlio di salvare ognuno che le avesse chiesto la sua intercessione. E Gesù esaudì il desiderio della Madre.
Per questo gli abissini chiamarono Maria con l’appellativo Chidane Meherèt (patto di misericordia). Patto che, nella loro fede, è come un terzo testamento per la salvezza del genere umano.
La devozione degli abissini verso Maria è espressa con una infinità di immagini e attributi: Madre misericordiosa, vergine pura nel corpo e nello spirito, colei che apre la via al paradiso, maestra di fede, speranza e carità, la più santa tra i santi, al di sotto di Dio, ma al di sopra degli angeli; Madre del Verbo incarnato, porta della Trinità, Madre dell’Emmanuele, della Vita, della Luce, del vero Sole; la casa dello Spirito Santo, colomba di Salomone, tempio santo di Gerusalemme, nuova Sion, arca dell’alleanza, nuova dimora di Dio.
A lei è dedicata la prima chiesa etiopica, la cattedrale di Mariam Tsion ad Aksum; molte delle 25 mila chiese in Etiopia portano il nome di Maria. Nomi di luoghi e persone spesso ricordano la Madonna: Haile Mariam (forza di Maria), Ghebre Mariam (servo di Maria), Uolde Mariam (figlio di Maria) e tanti altri ancora.
Come discendente di Davide, Maria è ritenuta imparentata con Menelik, figlio di Salomone e della regina di Saba. Maria, la più splendente delle creature dell’universo, è sorella di sangue degli abissini.

Nel xv sec. il santo imperatore Zera Iacòb prescrisse, sotto pena di scomunica, la lettura del libro etiopico dei Miracoli di Maria (libro scritto nella prima metà del xiv secolo) tutte le domeniche e nelle feste mariane.
Nella liturgia etiopica, oltre alla domenica, Maria è celebrata con inni, lodi e cantici in 33 feste mariane durante l’anno e quattro volte al mese: il 1° del mese si celebra la natività, il giorno 3 la presentazione al tempio, il 16 il patto di misericordia, il 21 «Maria arca dell’alleanza».
La più solenne festa mariana è quella di Hiddàr Tsion, il 21 del mese di hiddàr (28 novembre), in cui sono ricordati tre eventi: in tale giorno Menelik portò l’arca dell’alleanza ad Aksum; gli imperatori Abrehà e Atsbehà fondarono la prima chiesa ad Aksum e decretarono il cristianesimo la religione ufficiale dell’Etiopia; l’arca ritoò dal lago Zuai, dove era stata nascosta per sfuggire alle distruzioni di Gudit nel x secolo. In questa festa Maria è identificata con l’arca.

In tutte le feste mariane, oltre al vangelo, viene letto il libro etiopico dei Miracoli di Maria. Tale lettura viene fatta con la stessa solennità riservata a quella del vangelo: canto dell’alleluia prima della lettura, triplice processione attorno alla chiesa col libro, venerazione con incenso e prostrazioni.
Ci sono poi le preghiere per tutti i giorni della settimana e per ogni giorno dell’anno, un carme per ognuna delle 193 lettere dell’alfabeto etiopico, e innumerevoli scritti e cantici. Significative sono pure le bellissime Armonie mariane, preghiere per i giorni della settimana. Nella pratica devozionale è molto diffuso, sia tra il clero che tra i fedeli, l’uso di leggere quotidianamente i Miracoli di Maria.
Come esempio di purezza del corpo e dello spirito, Maria è venerata in particolar modo dai monaci, che usano il libro dei Miracoli tutti i giorni. Il suo nome è sempre scritto in rosso nei testi sacri.

Alberto Vascon

Alberto Vascon




Pace incerta e fame alle porte

Etiopia – Eritrea: continua la tensione

Due anni di guerra tra Eritrea ed Etiopia (1998-2000), per una incomprensibile questione di confine, ha provocato la morte di oltre 80 mila soldati, centinaia di migliaia di espulsioni e conseguenze economiche che hanno aggravato la povertà delle popolazioni dei due paesi.
Dopo il trattato di Algeri (maggio 2000) le armi tacciono, separate da una forza di intermediazione Onu di 4.200 caschi blu, e la soluzione della contesa è stata affidata al Tribunale arbitrale dell’Aia, che nel 2003 ha tracciato i nuovi confini tra i due paesi in maniera «definitiva e irrevocabile: Balme, la località simbolo, è stata assegnata all’Eritrea; i confini devono essere resi certi e verificabili con pilastri in cemento.
Ma l’Etiopia continua a non riconoscere tale decisione, ritenuta troppo sbilanciata a favore di Asmara, e finora si è opposta all’erezione di pietre militari. L’Eritrea si rifiuta di rimettere nuovamente in discussione la decisione e ha deciso di colpire con una serie di restrizioni la missione Onu, incaricata di presidiare la zona cuscinetto che divide i due paesi.
Mentre il capo missione Onu in Etiopia ed Eritrea (Unmee) e i paesi garanti del trattato di Algeri continuano a lanciare appelli ai governi di Asmara e Addis Abeba, affinché accettino senza riserve la demarcazione, la tensione tra i due paesi continua a crescere: lo stato di allerta permanente e i movimenti di truppe da ambo le parti degli ultimi mesi rischiano di sfociare nella ripresa delle ostilità.
La situazione di tensione e ambiguità, intanto, viene usata dai leaders dei due paesi per giustificare i loro comportamenti autoritari. In Eritrea, il presidente Afwerki imprigiona semplici cittadini e giornalisti che osano criticare il suo potere e l’arruolamento forzato di giovanissimi per prestare servizio militare nell’esercito, composto da 300 mila soldati. In Etiopia, il primo ministro Zenawi continua a governare con la repressione.
Nelle elezioni del maggio 2005 gruppi di opposizione hanno ottenuto un successo sorprendente, mettendo a repentaglio l’egemonia del partito di Zenawi. Alle manifestazioni di protesta per presunti brogli elettorali il governo ha risposto con violenza, lasciando sul terreno 36 morti, arrestando migliaia di oppositori, chiudendo giornali indipendenti, imprigionando editori e giornalisti, deportando esponenti delle associazioni per i diritti umani.
Da quando l’Onu ha mandato il contingente di pace a dividere i contendenti, la comunità internazionale sembra si sia dimenticata del problema dei confini con l’Etiopia. In cinque anni nessuna autorità si è occupata di fare pressione su Addis Abeba perché dia piena esecuzione agli accordi di Algeri. Eppure, a detta di vari osservatori politici, una soluzione ci sarebbe, poiché la questione dei confini è solo strumentale: l’Etiopia vuole uno sbocco sul Mar Rosso. Tale aspirazione può essere concretizzata in maniera incruenta mediante la garanzia internazionale, l’unica capace di riportare i due paesi in un clima di pace e collaborazione.

Intanto sull’Etiopia (e su tutto il Coo d’Africa) si abbatte un’altra piaga ciclica: siccità, carestia e fame. Nelle regioni meridionali del paese, ai confini con il Kenya, fiumi e pozzi sono quasi secchi e i pascoli stanno sparendo: si vedono carcasse di animali sul bordo delle strade.
Già in situazioni di «normalità» nella Somali Region l’acqua costituisce un problema cronico. Ora si è aggravato enormemente, perché la stagione delle piogge tra ottobre e novembre è stata particolarmente scarsa. A soffrie maggiormente sono i bambini, che vengono portati ai centri sanitari in stato di estrema debolezza a causa della malnutrizione e disidratazione.
Il governo di Addis Abeba ha ordinato di fare dei sopralluoghi per verificare il livello di gravità della situazione ed eventualmente dichiarare lo «stato di emergenza»; in questo caso dovrebbero arrivare aiuti dal governo centrale. Ma non è chiaro quando saranno prese tali misure di soccorso e in che cosa consisteranno. Tali aiuti dipendono, soprattutto, dalla solidarietà internazionale, che non sempre arriva con quella tempestività e generosità richieste dalla gravità della situazione. B. B.

Benedetto Bellesi




«Isola cristiana in un oceano di pagani»

Per 17 secoli il cristianesimo ha forgiato la storia dell’Etiopia, facendone l’unica nazione cristiana del continente africano. Esso è penetrato così profondamente nelle istituzioni familiari, sociali e politiche del paese, che i cristiani etiopi hanno resistito a pressioni e persecuzioni estee ed intee, fino a quella scatenata per 17 anni (1974-1991) dalla dittatura marxista.

L’inizio del cristianesimo in Etiopia risale alla prima metà del secolo iv, quando, come racconta lo scrittore Rufino di Aquileia (345-411) nella sua Historia ecclesiastica, fu convertito il regno di Aksum. La testimonianza fu raccolta dalla bocca di Edesio, uno dei protagonisti di tale conversione.
La storia di Rufino fu ripresa e talvolta raccontata con diverse varianti, alcune delle quali hanno stravolto in modo significativo il racconto. Ma ascoltiamo l’originale.
«Un certo Meropio di Tiro, filosofo, si recò in India per un viaggio d’istruzione, accompagnato da due suoi giovani parenti, Edesio e Frumenzio, che lui stesso istruiva nelle arti liberali. Sulla via del ritorno, la nave si fermò per foirsi di acqua sulla costa africana del Mar Rosso, dove fu attaccata dalla gente del luogo in lotta contro l’impero dei romani. Tutto l’equipaggio e i passeggeri furono uccisi: si salvarono solo i due giovani, che furono catturati e offerti in dono al re degli etiopi.
Impressionato dalla loro intelligenza, il re nominò Frumenzio suo segretario e tesoriere, Edesio suo coppiere. Al momento della sua morte, il re liberò i due giovani. Ma la regina, alla quale incombeva la reggenza in attesa della maggiore età del piccolo Ezanà, pregò Frumenzio di assisterla nel governo dello stato.
Approfittando della sua elevata posizione, Frumenzio accolse i cristiani, ne facilitò la predicazione e concesse loro luoghi per pregare.
Giunto il principe alla maggiore età, i due fratelli presero congedo dalla corte: Edesio ritoò a Tiro, dove ricevette gli ordini sacri; Frumenzio si recò ad Alessandria a informare il patriarca Atanasio della diffusione del cristianesimo nel regno di Aksum, esortandolo a mandarvi un vescovo, che si prendesse cura di quelle prime comunità di fedeli. Radunati i suoi sacerdoti, Atanasio discusse la questione e rispose a Frumenzio: “Quale altro uomo potremmo trovare, in cui sia lo spirito di Dio come è in te, e che possa attendere a tale compito?”. E lo consacrò vescovo, inviandolo ad Aksum».

IL COSTANTINO ETIOPICO

Dalla scaa narrazione di Rufino non è facile stabilire la datazione esatta dell’inizio del cristianesimo in Etiopia. Sapendo con certezza che Atanasio fu eletto patriarca di Alessandria nel 228, il primo sbarco di Frumenzio sulla costa etiopica avvenne parecchi anni prima e la sua ordinazione episcopale dopo il 330.
Rufino riferisce ancora che Frumenzio predicò il vangelo nel regno di Aksum per 20 anni, convertendo «un numero infinito» di etiopi. A parte l’espressione iperbolica, è certo che, verso il 345, il re Ezanà, sua madre, battezzata col nome di Sofia, la famiglia reale e la sua corte si convertirono al cristianesimo. Grandemente stimato dal popolo aksumita, Frumenzio passò alla storia col nome di Abba Salama, (Padre Pace), e con l’appellativo di Chesatiè Brhan (rivelatore della luce). I due fratelli Ezanà e Sezanà diventarono nella tradizione etiopica Abrahà (illuminò) e Atsbhà (fece sorgere il sole». Essi sono l’alba e la luce della nuova Etiopia, l’Etiopia cristiana.
Questi eventi si realizzarono nell’epoca di Costantino il grande che, secondo la tradizione, illuminato dalla visione della croce, decretò la libertà del cristianesimo nell’impero romano; il parallelo è d’obbligo: Ezanà è considerato il Costantino di Etiopia e sua madre Sofia è paragonata a Elena, madre dell’imperatore romano.

FIGLIA DI ALESSANDRIA

Essendo l’Etiopia una diocesi della chiesa d’Egitto, il suo vescovo era nominato dal patriarca di Alessandria e doveva essere un egiziano; questi assumeva il nome di abuna (nostro padre) e aveva il potere di nominare i vescovi locali.
Fin dai racconti dei primi esploratori europei la chiesa etiopica, figlia della chiesa egiziana, fu chiamata «copta monofisita» e i cristiani d’Etiopia «copti»; ma tali termini non hanno alcun senso, dato che «copto» è un termine divulgato dagli arabi dopo la conquista dell’Egitto e significa «egiziano».
I primi passi della chiesa in Etiopia coincisero con un periodo di aspre contese nel resto della chiesa universale: Alessandria era uno dei centri principali delle polemiche teologiche.
All’inizio del v secolo si diffuse in Oriente, per opera di Eutiche, monaco greco considerato il capo morale dei religiosi di Costantinopoli, la dottrina monofisita, secondo la quale la natura umana di Cristo era stata assorbita dalla natura divina, e solo quest’ultima vi sussisteva.
Nel 451 il concilio di Calcedonia dichiarò Eutiche eretico e stabilì che in Cristo sussistevano sia la natura umana che la divina. Alcune chiese orientali, fra cui quella egiziana, non accettarono le conclusioni del concilio e si separarono da Roma.
È necessario chiarire che nessuna di queste chiese riconosce la dottrina strettamente monofisita di Eutiche, ma ritiene che in Cristo vi sia una sola natura, divina e umana allo stesso tempo. Viene affermato un monofisismo meno rigido di quello di Eutiche, che ha molti punti in comune con il duofisismo delle chiese calcedonesi. L’Etiopia, in quanto diocesi di Alessandria, ne seguì le sorti e rimase separata da Roma.
Nel v secolo il cristianesimo continuò a propagarsi anche nelle campagne, soprattutto per opera di monaci venuti dall’oriente cristiano. In Etiopia sono venerati i «Nove Santi»; mentre l’attuale Eritrea sarebbe stata evangelizzata dagli Tsaddecàn, i giusti, alcuni resti dei quali si trovano nella chiesa di Baracnahà.
Il cristianesimo etiopico sarebbe quindi diventato monofisita già nel v secolo ad opera di questi evangelizzatori. Alcuni studiosi tuttavia ritengono che il monofisismo sia entrato in Etiopia molto più tardi, e a riprova di ciò portano, oltre ad altre argomentazioni, il fatto che re Calèb, che regnò su Aksum nella prima metà del vi secolo, è festeggiato come santo dalla chiesa cattolica il 27 ottobre.
Verso la fine del vi secolo Aksum entrò in declino e l’Etiopia fu ben presto accerchiata dall’espansione islamica. «Attorniati da ogni parte da nemici della loro religione, gli etiopi dormirono per un migliaio di anni, dimentichi del mondo che a sua volta li dimenticò» scrive lo storico Gibbon.

DISPUTE TEOLOGICHE

L’arrivo dei missionari gesuiti in Etiopia, nei sec. xvi-xvii, portò alla conversione al cattolicesimo, seppur per breve tempo, degli imperatori Ze-Dinghìl e Sussinios. Ma il loro arrivo innescò anche nel clero etiopico dispute interminabili sull’unzione e sulla natura di Cristo, controversie che sfociarono talvolta in lotte feroci e sanguinose, con guerre, massacri e distruzione di interi monasteri.
Le discussioni dei religiosi etiopici con i gesuiti provocarono la nascita di due correnti teologiche: l’una sostenuta nei monasteri del Goggiam, la regione racchiusa dalla grande ansa del Nilo Azzurro a sud del lago Tana; l’altra nel monastero di Debra Libanos, nello Scioa. La corrente dei goggiamesi si estese poi al Tigray e al monastero del Bizen, nell’estremo nord dell’Etiopia.
I goggiamesi sostenevano che Cristo non era unto dallo Spirito Santo, ma da se stesso, e che, nell’unione col Verbo, la sua natura umana era stata assorbita da quella divina. Era questa una posizione di rigido monofisismo di tipo eutichiano. Questa corrente prese il nome di carrà (coltello), ma fu chiamata anche qebàt (unzione) e hulèt liddèt (due nascite), perché riconosceva in Cristo la generazione eterna e la nascita dalla Vergine.
I debralibanesi, invece, sostenevano che Cristo era stato unto dal Padre per mezzo dello Spirito Santo. Questa dottrina implicitamente riconosce, nell’unzione, la natura umana di Cristo. Essa fu chiamata sost liddèt (tre nascite), perché opponeva ai goggiamesi anche una terza nascita mediante l’unzione.
Questa dottrina fu anche chiamata teuahdò, che significa «divenuto uno», perché sostiene che la natura umana e la natura divina si sono unite, con l’incarnazione, in una natura composita di umanità e divinità. Fu pure chiamata tseggà ligg, figlio di grazia, perché con l’unzione la natura umana di Cristo viene santificata dalla grazia dello Spirito Santo.
Nel corso della storia prevalse ora l’uno ora l’altro partito, con rivolte che furono sedate nel sangue. Sotto il regno di David iii, per esempio, nel primo quarto del xviii secolo, furono sterminati tutti i monaci di Debra Libanos. Con la salita al trono di Teodoro ii (1855) la teoria dei goggiamesi venne proclamata religione di stato, e fu riconfermata e imposta con la forza da Giovanni iv nel sinodo di Boru Mieda (1878).
Pochi anni dopo, l’ascesa al trono imperiale di Menelik segnò la fine delle contese religiose: Menelik fu molto tollerante e lasciò a ognuno libertà di scelta e la dottrina di Debra Libanos diventò la dottrina ufficiale della chiesa etiopica.
Oggi la chiesa etiopica, al pari delle altre chiese orientali non-calcedonesi, e cioè la siriana e l’armena, rifiuta il monofisismo e si dichiara miafisita, intendendo con questo termine l’unione delle due nature di Cristo in un’unica natura composita. La denominazione ufficiale della chiesa etiopica è «chiesa ortodossa teuahdò d’Etiopia. Teuahdò significa «divenuto uno», ed equivale al greco «miafisita».
Inoltre, da poco più di mezzo secolo la chiesa etiopica è diventata un patriarcato indipendente da Alessandria: nel 1951, dopo 10 anni di trattative condotte dall’imperatore, fu possibile eleggere per la prima volta un patriarca etiopico, nella persona dell’Abuna Basilios.
L’Eritrea ha sempre seguito le sorti della chiesa etiopica e professa il Teuahdò. Ma nel 1994 ha ottenuto dal patriarca di Alessandria la nomina di sei vescovi eritrei, che nel 1996 hanno nominato il proprio patriarca.

LITURGIA ETIOPICA

Nei suoi 17 secoli di vita, la chiesa etiopica si è dovuta difendere da minacce e invasioni estee, ma ha conservato intatto il cristianesimo dei primi secoli. Secondo una definizione cara agli etiopici, l’Etiopia è «un’isola cristiana in un mare di pagani». Scrisse padre Giulio Barsotti nel 1939: «In poche nazioni al mondo, il pensiero religioso ha avuto tanta forza di penetrazione e di potenza come in Etiopia… Dal secolo iv, in cui il vangelo penetrò nel regno di Aksum, fino a oggi, tutta la vita degli abissini è stata dominata dal pensiero e dalla dottrina di Gesù Cristo».
La liturgia etiopica si è sviluppata da quella della chiesa copta, ma ha introdotto forme che sono tipiche dell’animo etiopico. Le danze dei debterà imitano le danze di Davide, i loro canti sono i salmi di Davide, la musica liturgica, inventata da San Iarèd nel vi secolo, commuove i credenti.
Durante la celebrazione i canti vengono accompagnati dal battere di grandi tamburi di forma ovale, i caberò, e dal tintinnio dei sistri, strumenti metallici di origine egiziana.
I santi sono celebrati con poesie che descrivono le loro parti del corpo, vengono recitati i qeniè, distici a doppio senso improvvisati sul posto, che solo gli amara riescono a decifrare.
Le messe iniziano alle 7 del mattino e durano 3 ore; i preti salgono tutti i giorni sulle vette dei colli dove sorgono le chiese e rientrano a casa dopo le 9 di sera. Tutti coloro che non sono impediti dal lavoro, da malattie o dall’età, devono andare a messa ogni giorno. Nelle grandi solennità la celebrazione inizia a mezzanotte e dura nove ore. Nelle processioni i suonatori di masinqò, i violini a una corda, accompagnano i versi dei qeniè.
Nella messa viene recitato il credo, che ripete gli stessi dogmi della chiesa di Roma. Viene celebrata l’eucaristia con la somministrazione del pane e del vino; i preti fanno tre volte il giro della chiesa alla lettura del vangelo e dei Miracoli di Maria (vedi pag. 40).
I fedeli si raccolgono nel recinto esterno della chiesa dove danzano i debterà, gli uomini a destra le donne a sinistra. Nel recinto intermedio viene amministrata la comunione; in quello interno, il sancta sanctorum, il cui ingresso è permesso solo al sacerdote, viene conservato il tabòt, rappresentazione delle tavole della legge, che rende sacra la chiesa.
Il tabòt viene portato a una fonte nella celebrazione del Timchèt, la festa dell’epifania, il battesimo di Gesù secondo il rito orientale. In tempo di guerra viene portato al seguito dell’esercito per la celebrazione della messa.
In Etiopia vi sono 25.000 chiese, in genere povere capanne di fango decorate con immagini sacre. All’esterno di ognuna vi è la bietelehèm, la casa del pane, dove viene preparato il pane per l’eucaristia. Alla sommità della chiesa vi è la croce greca adoata di sette uova di struzzo, simbolo della passione e della morte di Cristo. Numerose sono le chiese rupestri, celebri quelle di Lalibela e Gheralta.
Nelle chiese più importanti sono conservati antichi manoscritti fatti con pelli di capra, libri che raccontano la vita dei santi, vangeli e bibbie. Fin dai primi secoli, i libri sacri del cristianesimo sono stati tradotti in gheez, l’antica lingua etiopica, sopravvissuta oggi solo nella liturgia. Nei testi etiopici è stato rintracciato il Libro di Enoc, che è andato perduto nella lingua originale e nella versione greca.
I più antichi manoscritti rimasti sembrano risalire al xv secolo. Nel monastero del Bizen, in Eritrea, vi è un vangelo della misura di un metro e talmente pesante che deve essere trasportato a dorso di mulo.
Alcune chiese storiche conservano stupendi affreschi murali, dipinti con colori semplici (giallo, blu, rosso, verde e nero), ricavati da piante o minerali. I disegni sono bizantineggianti: i buoni di fronte i cattivi di profilo. Il nome di Maria, la più eccelsa delle creature dell’universo, è scritto sempre in rosso.

NEL SEGNO DELLA CROCE

Quando un etiopico passa davanti a una chiesa, china la testa e fa il segno della croce; le donne si fermano a baciae la porta. Se incontrano un prete si inchinano in segno di rispetto, baciano la croce e si fanno benedire.
Eredità della tradizione copta sono le croci etiopiche, processionali, manuali o da collana, disegnate in centinaia di forme. Derivano dalla prima croce cristiana, la croce di san Pacomio. La croce processionale è utilizzata nelle processioni e nelle grandi ricorrenze, come festa della croce, natale, epifania; la croce manuale viene portata sotto la tunica da ogni prete o monaco e fatta baciare dai fedeli.
Esiste una grande varietà di forme: la croce di Gondar, di Aksum, Lalibelà, di Malta, la stella di Davide o sigillo di Salomone e altre. Le donne tigrine portano sulla fronte una croce dipinta con l’henna. Nelle croci etiopiche raramente è rappresentato il corpo di Cristo, perché la spiritualità orientale dà più risalto alla divinità piuttosto che all’umanità di Cristo. Tuttavia, sull’altare maggiore della cattedrale di Addis Abeba vi è un crocifisso con la figura del corpo di Cristo, identico ai crocifissi cattolici.

CLERO, DIGIUNO, MATRIMONIO

La chiesa etiopica ha mantenuto alcune tradizioni giudaiche, come il tabòt o arca dell’alleanza, la distinzione di carne pura e impura, la circoncisione maschile a 8 giorni dalla nascita, le danze dei debterà con i tamburi, la forma delle chiese con il sancta sanctorum al centro, la bietelehèm, il sabbath, ecc. Alcune di queste, come la circoncisione, sono semplici usanze e non prescrizioni religiose.
Un elemento diventato fondamentale nella cultura del paese è il digiuno, il più lungo e austero di tutto il mondo cristiano: 56 giorni prima di pasqua, 40 giorni per la festa degli apostoli, 16 per l’assunzione, 40 giorni prima di natale, tutti i mercoledì e venerdì della settimana, per un totale di circa 250 giorni all’anno, dei quali solo 180 strettamente obbligatori.
Il digiuno consiste nell’astenersi da cibo e bevande da mezzanotte fino al primo pomeriggio o sera, in cui è permesso un pasto; in ogni caso è richiesta l’astinenza da cai, grassi, uova, pesce e latticini.
Preti e diaconi si possono sposare, ma ciò deve avvenire prima di essere ordinati. Vescovi e arcivescovi, ai quali è affidata l’amministrazione della chiesa nelle varie province, non possono essere sposati. Il patriarca è necessariamente un monaco. Il monachesimo ha sempre avuto un ruolo fondamentale nella vita della chiesa fin dall’arrivo in Etiopia dei «Nove Santi» e degli tsaddecàn, i quali, da eremiti solitari sono diventati fondatori di comunità, ispirandosi a san Pacomio e alle sue le regole monastiche.
Sono sorti così i grandi monasteri, alcuni dei quali sono arrivati a ospitare fino a 5 mila monaci: Debra Libanos, Debra Bizen, Debra Damo, Gunda Gundè, Zuquala e centinaia di altri minori, tutti arroccati in luoghi impervi e di difficile accesso. I monaci fanno tre professioni di fede, con le quali ricevono la cintura, il cappuccio e la tunica.
I monaci non si sposano e devono condurre una vita ascetica e austera, con frequenti mortificazioni corporali. La tradizione di Debra Libanos racconta che il suo fondatore rimase in una grotta per 7 anni in piedi su un piede solo, finché gli si staccò una gamba. Il priore del monastero di Debra Libanos è l’ecceghiè, il capo dei monaci. •

Alberto Vascon




L’albero della vita

Nell’ala destra del presbiterio dell’abbazia benedettina di Santa Maria in Sylvis a Sesto al Reghena, vicino a Portogruaro, vi è un grande affresco del xiv secolo, probabile opera di artisti formatisi durante l’attività padovana di Giotto. L’opera rappresenta Cristo crocifisso su un grande albero di melograno. Il melograno è l’«albero della vita», sul quale è stato crocifisso il Figlio di Dio, contrapposto all’«albero della morte» di Adamo.
Cristo è il nuovo Adamo, il Figlio di Dio fatto uomo, che ha donato la vita per il riscatto dell’umanità e per farci ritrovare la via del paradiso e la vita eterna, che la colpa di Adamo ci aveva tolto.

L’ immagine dell’«albero della vita» richiama alla mente gli elaborati disegni delle croci etiopiche, sulle quali viene rappresentato in maniera simbolica il mistero della salvezza dell’umanità. Su tutte le croci manuali etiopiche, all’estremità del braccio inferiore, vi è obbligatoriamente una tavoletta che rappresenta il sepolcro di Adamo, il che ci riporta alla leggendaria tomba di Adamo sotto la croce di Cristo sul Golgota.
Il braccio inferiore della croce, il fusto nelle croci processionali, è Adamo, che stende le braccia verso l’albero del paradiso, rappresentato dai motivi floreali.
Il simbolismo di Adamo sulle croci etiopiche è duplice: vi è l’Adamo che, col suo peccato, ci ha fatto perdere il paradiso, e vi è Cristo, il nuovo Adamo, che distende le braccia per abbracciare tutti coloro che credono in lui. Nello stesso gesto Cristo stende le braccia sul legno della croce nell’atto della crocifissione.
In Etiopia l’albero del paradiso torna a essere l’«albero della vita». La vita eterna, perduta con il peccato di Adamo, ci viene restituita con il sacrificio del nuovo Adamo.
Cristo, il nuovo Adamo diventa l’«albero della vita». Con questa allegoria i cristiani d’Etiopia rappresentano la natura umana di Cristo.

I cristiani d’Etiopia riconoscono i primi tre concili ecumenici: quello di Nicea, convocato da Costantino nel 325, nel quale con semplici e chiare parole fu formulato il credo, che contiene i principali dogmi del cristianesimo; quello di Costantinopoli del 381, nel quale fu definita la divinità dello Spirito Santo; quello di Efeso del 431, in cui venne dichiarato che Cristo è una sola persona, perfetto Dio e perfetto uomo, e che la sempre vergine Maria è la madre di Dio.
Arroccati sulle loro aspre montagne, «isola cristiana in un mare di pagani», gli abissini hanno conservato la fede antica dei primi secoli del cristianesimo, la fede di Atanasio e di Cirillo. Essi riconoscono i sette sacramenti, anche se li amministrano con modalità differenti dai cattolici.
È talmente lontana la loro dottrina dall’eresia monofisita di Eutiche, che negava la natura umana di Cristo, che non è sostenibile l’accusa di monofisismo che ancora oggi viene loro rivolta.
Essi non vogliono essere chiamati né monofisiti né copti, tanto meno eutichiani. Nella persona di Cristo riconoscono una natura nella quale la divinità e l’umanità si sono unite, ciascuna conservando la propria individualità, senza mescolanza e senza confusione.
Come nelle altre chiese orientali, preferiscono dare più risalto alla divinità piuttosto che all’umanità di Cristo; e sulle loro croci raramente viene raffigurato il corpo di Cristo. Tuttavia, l’umanità di Cristo viene affermata con la figura simbolica del nuovo Adamo espressa nelle loro croci.
Essi appartengono alla chiesa ortodossa teuahdò d’Etiopia. Con il termine teuahdò essi indicano l’unione della natura divina e della natura umana nella persona di Cristo. Con l’incarnazione Cristo ha assunto una natura composita di umanità e di divinità, Cristo è allo stesso tempo vero Dio e vero uomo.
L’unione della natura umana con la divina ha fatto di Gesù l’uomo-Dio, il primogenito della nuova generazione. Mediante l’unzione dello Spirito Santo, avvenuta con l’unione delle due nature, Cristo ha ricevuto la dignità che aveva Adamo prima del peccato originale, diventando perciò il secondo Adamo: l’Adamo obbediente che si sacrificherà sulla croce per la salvezza del mondo.

Q uesta dottrina è perfettamente in sintonia con quella cattolica. L’ortodossia dei cristiani d’Etiopia è stata riconosciuta da papa Pio xii che, nell’enciclica Sempiteum rex Christus del 1951, confermando la sostanziale identità tra la dottrina etiopica e quella cattolica, afferma che il monofisismo etiopico è un monofisismo puramente verbale, e che il dissidio fra cristiani d’Etiopia e cattolici è dovuto unicamente ad una insignificante diversità di termini.
Alberto VasconN ell’ala destra del presbiterio dell’abbazia benedettina di Santa Maria in Sylvis a Sesto al Reghena, vicino a Portogruaro, vi è un grande affresco del xiv secolo, probabile opera di artisti formatisi durante l’attività padovana di Giotto. L’opera rappresenta Cristo crocifisso su un grande albero di melograno. Il melograno è l’«albero della vita», sul quale è stato crocifisso il Figlio di Dio, contrapposto all’«albero della morte» di Adamo.
Cristo è il nuovo Adamo, il Figlio di Dio fatto uomo, che ha donato la vita per il riscatto dell’umanità e per farci ritrovare la via del paradiso e la vita eterna, che la colpa di Adamo ci aveva tolto.

L’ immagine dell’«albero della vita» richiama alla mente gli elaborati disegni delle croci etiopiche, sulle quali viene rappresentato in maniera simbolica il mistero della salvezza dell’umanità. Su tutte le croci manuali etiopiche, all’estremità del braccio inferiore, vi è obbligatoriamente una tavoletta che rappresenta il sepolcro di Adamo, il che ci riporta alla leggendaria tomba di Adamo sotto la croce di Cristo sul Golgota.
Il braccio inferiore della croce, il fusto nelle croci processionali, è Adamo, che stende le braccia verso l’albero del paradiso, rappresentato dai motivi floreali.
Il simbolismo di Adamo sulle croci etiopiche è duplice: vi è l’Adamo che, col suo peccato, ci ha fatto perdere il paradiso, e vi è Cristo, il nuovo Adamo, che distende le braccia per abbracciare tutti coloro che credono in lui. Nello stesso gesto Cristo stende le braccia sul legno della croce nell’atto della crocifissione.
In Etiopia l’albero del paradiso torna a essere l’«albero della vita». La vita eterna, perduta con il peccato di Adamo, ci viene restituita con il sacrificio del nuovo Adamo.
Cristo, il nuovo Adamo diventa l’«albero della vita». Con questa allegoria i cristiani d’Etiopia rappresentano la natura umana di Cristo.

I cristiani d’Etiopia riconoscono i primi tre concili ecumenici: quello di Nicea, convocato da Costantino nel 325, nel quale con semplici e chiare parole fu formulato il credo, che contiene i principali dogmi del cristianesimo; quello di Costantinopoli del 381, nel quale fu definita la divinità dello Spirito Santo; quello di Efeso del 431, in cui venne dichiarato che Cristo è una sola persona, perfetto Dio e perfetto uomo, e che la sempre vergine Maria è la madre di Dio.
Arroccati sulle loro aspre montagne, «isola cristiana in un mare di pagani», gli abissini hanno conservato la fede antica dei primi secoli del cristianesimo, la fede di Atanasio e di Cirillo. Essi riconoscono i sette sacramenti, anche se li amministrano con modalità differenti dai cattolici.
È talmente lontana la loro dottrina dall’eresia monofisita di Eutiche, che negava la natura umana di Cristo, che non è sostenibile l’accusa di monofisismo che ancora oggi viene loro rivolta.
Essi non vogliono essere chiamati né monofisiti né copti, tanto meno eutichiani. Nella persona di Cristo riconoscono una natura nella quale la divinità e l’umanità si sono unite, ciascuna conservando la propria individualità, senza mescolanza e senza confusione.
Come nelle altre chiese orientali, preferiscono dare più risalto alla divinità piuttosto che all’umanità di Cristo; e sulle loro croci raramente viene raffigurato il corpo di Cristo. Tuttavia, l’umanità di Cristo viene affermata con la figura simbolica del nuovo Adamo espressa nelle loro croci.
Essi appartengono alla chiesa ortodossa teuahdò d’Etiopia. Con il termine teuahdò essi indicano l’unione della natura divina e della natura umana nella persona di Cristo. Con l’incarnazione Cristo ha assunto una natura composita di umanità e di divinità, Cristo è allo stesso tempo vero Dio e vero uomo.
L’unione della natura umana con la divina ha fatto di Gesù l’uomo-Dio, il primogenito della nuova generazione. Mediante l’unzione dello Spirito Santo, avvenuta con l’unione delle due nature, Cristo ha ricevuto la dignità che aveva Adamo prima del peccato originale, diventando perciò il secondo Adamo: l’Adamo obbediente che si sacrificherà sulla croce per la salvezza del mondo.

Q uesta dottrina è perfettamente in sintonia con quella cattolica. L’ortodossia dei cristiani d’Etiopia è stata riconosciuta da papa Pio xii che, nell’enciclica Sempiteum rex Christus del 1951, confermando la sostanziale identità tra la dottrina etiopica e quella cattolica, afferma che il monofisismo etiopico è un monofisismo puramente verbale, e che il dissidio fra cristiani d’Etiopia e cattolici è dovuto unicamente ad una insignificante diversità di termini.

Alberto Vascon

Alberto Vascon




INTRODUZIONE

In nessun paese cristiano al mondo è mai stata concepita una così grande quantità di tipi e fogge di croci come in Etiopia. Fin dal momento della conversione del paese al cristianesimo, la presenza della croce appare quasi universale, non solo quale strumento liturgico in chiese e monasteri, ma anche nella devozione comune e nella vita di tutti i giorni. Il segno della croce trionfò.
Ogni regione ha sviluppato una sua forma tipica, con differenti arricchimenti stilistici e simbolici: la croce di Aksum, di Gondar, di Lalibela… La forma complessiva della croce, la conformazione dei bracci, il ricco tessuto geometrico, gli elementi naturalistici oamentali, la ripetizione dei motivi cruciformi… distinguono i vari stili e fogge.
Ad arricchire la varietà delle croci etiopiche contribuisce anche il loro scopo: ci sono croci astili per le processioni, croci manuali e pettorali, forgiate rispettivamente per funzioni liturgiche, o quale marchio di distinzione del clero, o come connotative della personale espressione di fede di un popolo, addirittura tatuate sul corpo.
In tutte, però, soggiace un identico messaggio teologico: la croce rappresenta l’Albero della vita.

La croce, nel suo significato fondamentale di morte e risurrezione, ha segnato anche la storia del cristianesimo in Etiopia. Nel corso dei secoli il vangelo di Cristo è penetrato nelle istituzioni familiari, sociali e politiche, facendo dell’Etiopia un’«isola cristiana» pressata da tutti i lati da popolazioni pagane e musulmane.
A epoche di rigoglioso cristianesimo si sono succedute epoche di feroci persecuzioni, di lotte per il potere, di confusione, di cristiani contro altri cristiani, in cui la croce è stata usata come spada.
Ne è un esempio l’epica impresa missionaria del cardinal Massaia: nei suoi 35 anni di missione si sono intrecciate entrambi i significati della croce: persecuzioni e vittorie.
Le comunità da lui formate sono state perseguitate e disperse, eppure sono sopravvissute fino a oggi, restando fedeli al mistero della croce.
La stessa sorte è toccata ai missionari che hanno continuato e continuano l’opera del Massaia. eppure, tra difficoltà di vario genere, la chiesa continua a crescere a diventare sempre più matura e responsabile del proprio futuro.

Altre croci, però, continuano a crocifiggere le popolazioni dell’Etiopia: si chiamano guerra, siccità, carestie, fame.
È soprattutto la tensione persistente tra Etiopia ed Eritrea la croce più pesante, che la popolazione non riesce a scrollarsi di dosso, per mancanza di vera democrazia.

Benedetto Bellesi




Perù. Contro i terroristi, contro l’ingiustizia

L’epoca di Sendero Luminoso è durata 20 anni; l’ingiustizia e la povertà fanno da sempre la storia del paese latinoamericano.
Gastón Garatea Yori, prete di Lima, lotta per riparare ai danni del terrorismo e per dare una vita dignitosa alla popolazione peruviana che ancora vive nella povertà.

Lima. In Perù è molto conosciuto perché presidente della Mesa de concertación para la lucha contra la pobreza, organismo contro la povertà istituito nel gennaio 2001. Padre Gastón Garatea Yori mi accoglie nel suo ufficio al 1155 di Avenida Benavides, a Miraflores, un distretto della capitale peruviana. Barba e capelli bianchi, padre Garatea, 66 anni, ha l’aspetto di una persona tranquilla e semplice. Sul tavolo del suo ufficio sono impilati i 9 volumi dell’Informe final, il rapporto finale della Comisión de la verdad y reconciliación, la commissione istituita per indagare su 20 anni (dal 1980 al 2000) di terrorismo e guerra civile in Perù. Padre Garatea è uno dei 12 membri di quella commissione, che nel paese tanto ha fatto discutere.

La guerra civile in Perù:
69.280 vittime

Presidente della Tavola nazionale per la lotta alla povertà, membro della Commissione per la verità e la riconciliazione: lei è una persona importante, padre…
«Non tanto – si scheisce -. Non credo. Lei mi conosce soltanto perché fa il giornalista».

Il rapporto finale della Commissione per la verità e la riconciliazione è stato presentato il 28 agosto 2003, dopo due anni di lavoro. Qual è il suo giudizio?
«Era stato previsto che questo lavoro sarebbe durato 6 o 7 anni, mentre poi è stato concluso in due. Abbiamo indagato il fenomeno del terrorismo in Perù e i motivi che lo hanno determinato. Abbiamo fornito una interpretazione storica. Siamo quindi arrivati a tutti i punti importanti, i punti chiave, e questo è giusto sottolinearlo.
Io credo che la Commissione per la verità sia stata una delle più grandi iniziative intraprese in Perù».

E che ci dice sulle persone che l’hanno composta?
«Un eccellente gruppo, costituito da persone molto competenti. Sì, non ho dubbi al riguardo: persone valide, indipendenti, disinteressate, votate alla sola ricerca della verità, persone animate da un grande spirito di gruppo. Avevamo molte diversità (di provenienza, radici ideologiche, professione), siamo però riusciti a lavorare in gruppo, con grande spirito comunitario».

Il vostro rapporto parla di 69.280 vittime.
«… ma forse sono di più. Significa circa due milioni di persone coinvolte».

Le vittime furono in grande maggioranza poveri, molti parlavano “quechua” ed erano semianalfabeti…
«Quando le persone morivano sulla sierra, il potere centrale e la gente continuavano la propria vita come se nulla fosse successo. Quando l’ondata di terrorismo giunse a Lima, allora sì che le cose vennero prese sul serio».

Il gruppo di “Sendero Luminoso” è stato ritenuto responsabile del 54% di quelle vittime. Su quali basi ideologiche si formò Sendero?
«Ebbe un fondamento comunista-marxista-leninista-maoista che si proponeva di aiutare il popolo peruviano. Ma fu un’esperienza fallimentare: si cercò di imporre un regime totalitario basato sulla dittatura del proletariato. Questa dittatura avrebbe dovuto essere conseguita alla maniera di Mao: attraverso una rivoluzione che doveva partire dalle campagne per arrivare in città. Per questo si cominciò con una sensibilizzazione dei contadini. Io credo che questo lavoro non venne fatto a dovere. Si iniziò, ma non fu tanto incisivo quanto fu forte la violenza e la violenza, una volta innescata, non si riuscì più a fermarla. E, come succede spesso, i movimenti che usano la violenza non hanno più tempo per pensare».

Il “Movimiento revolucionario Tupac Amaru”, meglio noto con l’acronimo Mrta, è stato ritenuto responsabile soltanto dell’1,5 per cento delle vittime. In che differirono da Sendero?
«L’Mrta ebbe una grande risonanza per l’assalto all’ambasciata del Giappone (dicembre 1996-aprile 1997), ma non ebbe mai la stessa forza di Sendero, né la stessa organizzazione. Nell’Mrta c’era più consapevolezza politica; assaltavano banche e a volte uccidevano, ma non si potevano paragonare alla forza distruttiva di Sendero».

Il rapporto della Commissione è molto duro anche nei riguardi delle forze armate e della polizia. Come reagì lo stato all’inizio della guerra sporca?
«Lo stato reagì in modo sbagliato, perché non capì l’impatto politico. Pensò piuttosto che si trattasse di delinquenti comuni e agì di conseguenza».

Alla guida del paese ci furono presidenti diversi…
«All’inizio ci fu Feando Belaunde (1980-1985), seguì Alan García (1985-1990) e infine Alberto Fujimori. La guerra ebbe varie tappe. Il biennio più duro fu tra il1983 e l’84. Lo stato non capiva chi stava affrontando e tutto quello che si faceva era uccidere e questo fu un gran errore. Quando Alan García diventò presidente affermò che il terrorismo andava combattuto con lo sviluppo e questa avrebbe potuto essere una buona tattica, molto interessante. Cominciarono a diminuire gli attentati. Però nel giugno 1986 ci fu una rivolta in tre carceri di Lima (Lurigancho, El Fronton e Santa Barbara). Il governo ordinò l’intervento delle forze armate e ci fu una mattanza di prigionieri. Così arrivammo all’anno ’89 con un altro picco di violenza. Poi iniziarono a venire alla luce molti fatti: la corruzione nell’esercito, i legami tra Sendero e il narcotraffico, le infiltrazioni nei corpi dello stato…».

Poi, nel 1990, arrivò Alberto Fujimori e con lui Vladimiro Montesinos…
«Fujimori si rese conto che il terrorismo era la cosa più tragica e si buttò in questa guerra terribile avvalendosi dell’intelligence. Assestò duri colpi al terrorismo, ma allo stesso tempo diffuse la corruzione che arrivò ai massimi livelli. Vladimiro Montesinos, capo dei servizi segreti, aveva in pugno Fujimori e Fujimori accettava tutto».

Anche esecuzioni, sparizioni, torture, stupri. Anche i tribunali militari e i giudici “sin rostro”, senza volto perché erano incappucciati…
«I tribunali militari emettevano giudizi sommari e i giudici senza volto definivano sentenze ancora prima di iniziare i processi. I militari non erano giudici, non avevano una preparazione in tema di giustizia. Insomma, il sistema non permetteva l’esercizio di una giustizia giusta».

Il capo di Sendero, Abimael Guzmán Reinoso, detto Presidente Gonzalo, è incarcerato dal settembre 1992. Lei lo ha mai incontrato?
«Sì, nella base navale, dove è rinchiusa la cupola delle due organizzazioni. Ci sono anche Feliciano, Miguel Rincón Rincón, Victor Polay Campos».

Come fu l’incontro con lui?
«Un incontro istituzionale. Si sarebbe potuto credere più impressionante, ma lui è un filosofo. Certo un filosofo di secondo piano, ha elaborato una concezione molto chiusa, ermetica. In questo senso, non discute con l’altro: racconta, ma non si mette in discussione, non si lascia interrogare, come sarebbe proprio del filosofo che vive l’angustia delle domande. Guzmán ritiene invece di avere i suoi concetti ben chiari, di tenere il pensiero saldamente nelle sue mani».

Quanti anni ha ora?
«Una settantina. Non è molto vecchio ma è malandato di salute, perché ha sulle spalle tanti anni di carcere duro. Inizialmente aveva il diritto di uscire dalla cella solo mezz’ora al giorno e c’erano anche dei giorni in cui non poteva uscire. È stato condannato ad un anno di isolamento totale che poi sono diventati quattro anni. C’è da meravigliarsi che non sia ancora più provato da questo regime carcerario molto duro. Non è un uomo denutrito, è ben vestito, è lucido, segue bene la conversazione. L’ho trovato realista, è consapevole che morirà in carcere. Non si fa illusioni».

Prova compassione nei confronti di quest’uomo su cui gravano responsabilità tanto pesanti?
«Certo, si prova pena, perché è un essere umano, ma è una pena relativa se si pensa alle cose che ha fatto».

Il governo di Toledo ha ostacolato il vostro lavoro?
«All’inizio c’è stata molta gente che era contro la Commissione per la verità; ci trattavano come tendenziosi, ci fu gente che espresse giudizi gratuiti, alcuni addirittura ci insultarono. Da parte del governo non siamo stati sottoposti ad alcun tipo di pressione. Altri invece sì, ci hanno tenuti sotto pressione, anche indagando sul passato di uno o di un altro membro della Commissione, cercando di metterci in cattiva luce».

Il partito aprista (Apra,”Alleanza popolare rivoluzionaria americana”) era al governo negli anni duri della guerra. Come ha guardato al vostro lavoro?
«L’Apra ci ha seguito molto. Temeva che attaccassimo la sua dirigenza, ma noi non avevamo nulla contro il partito, anche se è certo che abbia agito molto male in varie circostanze. Contro l’Apra avevamo argomenti etici, politici, sociali, ma nulla di penale».

Dopo due anni di lavoro nella Commissione, cosa sente dentro di sé?
«Molte cose. Non siamo gli stessi di quando abbiamo iniziato: quello che abbiamo visto e sentito; le lacrime e la pena di vedere questo paese dissanguarsi. Tutti noi siamo stati colpiti. Io sono diventato diabetico».

Uno degli imperativi della Commissione dice: “Un país que olvida su historia está condenado a repetirla”, un paese che dimentica la propria storia è condannato a ripeterla. Bello, ma la verità è stata raggiunta?
«Sì».

Solo la verità? E la giustizia?
«In un qualche modo anche la giustizia. La maggior parte dei senderisti è stata imprigionata e questa è già giustizia. Ci sono state detenzioni di militari ma all’appello ne mancano. Manca infine tutto quello che riguarda le riparazioni, tanto collettive quanto individuali».

Le riparazioni alle vittime non si sono viste. Ma anche le richieste di “cambi istituzionali” in vari ambiti (politici, giudiziari, educativi) sono rimaste lettera morta. Che ne pensa, padre?
«Io credo sia un errore grandissimo, un grandissimo errore politico. La Commissione chiedeva cambiamenti strutturali, riforme dello stato, un nuovo ordinamento. Invece i politici stanno insistendo con lo stesso sistema del passato. Per questo sono da ritenersi responsabili della povertà, del sottosviluppo, della schiavitù di molti peruviani. Spiace parlare così, perché uno ama il proprio paese e la propria gente, ma questo è ciò che sta accadendo».

È preoccupato?
«C’è timore. Io personalmente ho molta paura che una cosa simile a quella sofferta per 20 anni torni a fare la propria apparizione. Non dico che sarà domani, non dico che sarà per i motivi politici del passato, ma potrebbe succedere. Le tensioni potrebbero provenire dal settore minerario o contadino o anche da settori commerciali. C’è un’esigenza di libertà e di giustizia che sale dai settori poveri, ma è un’esigenza che non ha trovato ascolto nello stato».

Un paese
con 15 milioni di poveri

I settori poveri della società peruviana lei li conosce bene in qualità di presidente della “Tavola di concertazione per la lotta contro la povertà”. In primis, la Tavola è un’ organizzazione governativa?
«Non proprio: è un ibrido tra lo stato e la società civile. Qui lo stato è abituato a comandare, ma la società civile ha le sue istanze. Noi abbiamo cercato di iniziare una collaborazione: piani congiunti per lo sviluppo, affinché le persone possano dire la loro e possano segnalare le proprie priorità. Ad esempio, il poter mangiare: le grandi opere non sono importanti come la sopravvivenza. Questo è un lavoro lungo, ma è una grande scuola di partecipazione e di gestione del bene comune. I frutti, prima o poi si raccoglieranno».

Ma cosa significa essere povero oggi in Perù?
«Cominciamo col dire che la povertà non è una condizione solo economica. Il povero è quello che non ha opportunità e non ha opportunità perché è escluso dalla società, una società che ha obiettivi che non sono per i poveri. Sono per gente altra: un’altra razza, un’altra cultura, un’altra lingua, un altro modo di vestire, un altro colore della pelle, un’altra statura…».

Scusi un attimo… lei intende statura fisica?
«Certo, la statura degli indigeni si abbassa, mentre quella degli altri cresce. È impressionante vero?».

Impressionante.
«Sono due paesi mescolati con un’invasione della capitale da parte della provincia. Questo fenomeno ebbe inizio negli anni ‘40, aumentò negli anni ‘50-’60 fino ad arrivare alla presa di Lima negli anni ‘80, Lima fu veramente occupata dal resto del Perù. Le famiglie di Lima sono uscite dal centro della città per fuggire dall’invasione della provincia».

Dalla provincia… Si tratta, dunque, soprattutto di popolazione indigena?
«Indigena che parla quechua. Il dipartimento del Perù dove si parla più quechua è quello di Lima. Questa massa di poveri che giunge nella capitale arriva nelle peggiori condizioni, e con un bassissimo livello di istruzione».

La scuola pubblica è così scadente?
«Le scuole pubbliche, nella maggior parte dei casi, sono molto malandate. Per le buone scuole bisogna pagare. E così avviene per le università: molti possono accedervi, ma le migliori sono quelle private, che tengono corsi a pagamento. Ci sono buoni corsi anche in università pubbliche (alla San Marcos, ad esempio), ma vi sono università di provincia, cui tutti possono accedere, che non si dovrebbero neanche chiamare università. È un problema reale, perché già qui avviene una separazione: tra chi ha opportunità e chi non le ha. Così, se si deve assumere un funzionario, gli si chiede da quale università proviene e quindi non tutti hanno le stesse possibilità. Dobbiamo fare ancora molta strada, per poter offrire un’educazione di buona qualità a tutti i peruviani. E la stessa cosa vale per la sanità».

Quanti sono ora i poveri in Perù?
«Quindici milioni».

E in percentuale?
«Quasi il 60% e di questi il 25% si trova in una condizione di estrema povertà, cioè non ha i mezzi necessari per la sopravvivenza. Sono persone in continuo pericolo, senza difese organiche, persone che muoiono per una malattia che ad un altro causerebbe solo un malessere».

Anche a Lima ce ne sono?
«Anche a Lima ci sono persone in condizione di estrema povertà, ma non tanto come in altre zone. Nel dipartimento di Huancavelica i poveri sono praticamente la totalità. A Cajamarca, terra di miniere di oro, il 48% dei bambini si trova in condizioni di denutrizione cronica…».

Di miniere si sta discutendo molto in Perù in questi anni…
«Nel dipartimento di Puno c’è una miniera dove lavorano i bambini. In un’altra, altissima, la gente non è neppure attrezzata, non avendo scarpe adatte per camminare sul ghiaccio. E poi è un disastro dal punto di vista morale: la metà delle case sono postriboli e l’altra metà sono discoteche. Non c’è speranza di vita e non c’è gusto per la vita.
Nessuno dà importanza alla vita del povero e loro sono abituati a questo. La gente lavora, si ammala, invecchia in fretta e muore ancora giovane. Costa molto convincersi che pure i poveri hanno i loro diritti. Alcuni iniziano a rendersene conto, ma le grandi strutture no, e men che meno le compagnie minerarie. Non può essere che nei luoghi dei giacimenti minerari vi sia estrema povertà e nel contempo grandi ricchezze».

L’attività mineraria è importante per il paese?
«In Perù, l’agricoltura è sviluppata sulla zona costiera, ma se abbiamo il 10% coltivato è già molto, il resto è deserto; la nostra sierra invece produce soltanto patate. Abbiamo miniere, quelle sì: oggi il 53% delle entrate del paese proviene dalle risorse minerarie. Quelle d’oro sono le terze per importanza nel mondo. C’è una quantità d’oro che nemmeno i padroni sapevano di possedere».

Le miniere stanno in terre indigene…
«Il problema minerario è innanzitutto un problema indigeno. D’altra parte, la questione indigena non è stata compresa per secoli ed ora inizia ad esplodere. Dopo 500 anni, bisogna tentare di riparare le ingiustizie. Sarà molto difficile, ma bisogna provarci».

Qual è la percentuale di popolazione indigena in Perù, più o meno?
«La metà, un po’ meno che in Bolivia. È gente che nasce povera ed è condannata a morire povera, perché lo sviluppo non arriva fino alle zone in cui vivono».

Le popolazioni indigene della Bolivia e dell’Ecuador, stanche di subire ingiustizie, fanno sentire la loro voce in maniera sempre più forte e chiara…
«Bolivia, Ecuador e Perù sono i tre paesi dell’ insurrezione indigena. Adesso bisogna fare molta attenzione, affinché ci sia sì una liberazione dall’ oppressione della povertà, ma una liberazione incruenta guidata dalla giustizia».

L’oppressione della povertà
e l’economia neoliberista

Padre, lei parla di “liberazione dall’oppressione della povertà”. Il sistema economico neoliberista che domina attualmente il mondo moltiplica ingiustizie e diseguaglianze. La liberazione inizia dalla fine del neoliberismo?
«Il neoliberismo cerca di fare in modo che la gente consumi sempre di più. Io penso che dentro un sistema siffatto non ci siano possibilità di riscatto per i poveri. Purtroppo, è un sistema che ha invaso tutto il mondo, persino la Cina. Ma il trattamento dei lavoratori è pessimo tanto per i peruviani quanto per i cinesi».

Questo sistema economico morirà?
«Io credo che nessuno lo possa salvare e che per questo morirà».

Ma morirà senza lottare?
«No, cercherà di salvarsi, ma credo che non abbia futuro perché l’esigenza della maggioranza è molto forte. Io penso che la coscienza di diritti umani uguali per tutti è cresciuta molto. Come pure è cresciuta la consapevolezza che l’economia non può essere l’aspetto fondamentale della vita. A chi dice che l’economia deve dirigere tutto, io rispondo che è il sociale che deve dirigere l’economia e il sociale deve essere guidato da uno spirito umanitario».

Il credo neoliberista è stato esportato nel mondo dagli Stati Uniti. Come prete cattolico, cosa pensa di Bush, un presidente che ricorda spesso il suo essere cristiano…
«Bush è il rappresentante di un cristianesimo fondamentalista. Non è un uomo di riflessione cristiana, non ha una visione del mondo basata su veri principi del vangelo. Io quel cristianesimo non lo accetterò mai, perché credo che il cristianesimo vero sia mettersi nell’ottica di Gesù di Nazareth e cioè nell’ottica dei poveri per creare un mondo migliore, di uguaglianza e giustizia. Questo non è il mondo a cui pensa Bush».

Lui dice di agire per la libertà…
«Questa è una menzogna. Bisogna dirlo con molta chiarezza: è una menzogna. Penso però che occorra distinguere Bush dal popolo nordamericano, anche se io rimprovero ai nordamericani di averlo rieletto, questo sì. Possono essersi sbagliati una volta, ma due volte è molto. Comunque, penso che quel popolo abbia bontà e generosità come tutti i popoli del mondo. Che poi i nordamericani siano neoliberisti è un’altra cosa: è il sistema ad essere tale ed è un sistema che si sta deteriorando. Gli Stati Uniti sono un popolo senza giovani, tanto che non hanno persone per rimpiazzare gli attuali funzionari dello stato. Per questo nazionalizzano i latinoamericani che si recano là, almeno i più efficienti tra loro. Offrono buoni stipendi ed essi si fermano. Così si sta trasformando la società nordamericana: non sono più alti e biondi, ma bruni, parlano castigliano, hanno sangue latino».

Questa mi pare una buona cosa sia per l’America Latina che per il mondo!
«Non posso dirlo, perché non so se questi latinoamericani che diventano nordamericani manterranno la loro testa diversa o la cambieranno. Il neoliberismo è molto insinuante.
Ed il gusto di essere grandi e potenti… ubriaca».

“Ubriaca”… è interessante la sua affermazione…
«La cosa più terribile del mondo è il potere del denaro. Se si può guadagnare, meglio, ma ci sono dei limiti… Su questi temi l’Europa si sa destreggiare meglio perché l’Europa sa riflettere».

Ma l’Europa è divisa e Bush è contento che lo sia.
«Certo che è contento! Ma l’Europa ha gente che pensa, ha filosofi, ha grandi pensatori, è innegabile. La cultura europea è più profonda di quella nordamericana».

Secondo lei, è giusto pensare che l’America Latina si andrà a poco a poco unendo perché sente di avere radici comuni, perché capisce che unendosi può diventare più forte? È così o è soltanto un sogno?
«Credo che sia un sogno, perché le divisioni sono molto grandi. Sebbene i cileni vadano a Buenos Aires e gli argentini alla spiaggia di Viña del Mar, questo non significa nulla. Tra Colombia e Venezuela, dove peraltro vivono molti colombiani, succede lo stesso. Tra Cile e Bolivia c‘è una barriera storica importante e così pure tra Perù e Cile. Abbiamo cioè divisioni molto profonde e molto sostenute dagli Stati Uniti: agli Usa conviene un continente diviso».

D’accordo. Ma, secondo lei, i popoli indigeni del continente latinoamericano non potrebbero costituire l’elemento coagulante?
«I popoli indigeni sono numericamente consistenti in Perù, Bolivia ed Ecuador. Poi ci sono alcune popolazioni in zone marginali: in Argentina, in Brasile, in Cile (i mapuche). L’Argentina è una provincia italiana: basta guardare l’elenco del telefono. Buenos Aires è una città europea. Non ha nulla a che vedere con le radici indigene: è una città di gente immigrata, e così, sotto alcuni aspetti, anche Santiago del Cile. L’America bianca non è l’America Latina. L’altra America, quella scura di pelle, è differente».

Toledo: il razzismo (bianco)
contro un indio (di fabbrica)

Padre, il presidente uscente, Alejandro Toledo, è un indio!
«Un indio de fábrica».

Cosa significa?
«Toledo ha studiato negli Stati Uniti e sotto molti aspetti è un nordamericano dipinto da indio. Non ha una cultura tanto ispanica come quella che abbiamo qui a Lima. Lui ha una cultura più pratica, come i nordamericani».

Nel 2001 Toledo iniziò con molte aspettative da parte della maggioranza dei peruviani, che oggi, dopo 5 anni di governo, si dicono molto delusi di lui. Qual è il suo giudizio?
«Toledo ha fatto cose molto buone. Ha messo ordine all’economia. Ha migliorato le finanze del paese e dato impulso alla crescita: 4-5% su base annuale è molto.
La povertà è diminuita, anche se non come avremmo voluto, ma è diminuita. In provincia i posti di lavoro sono aumentati più che a Lima e questo è importante. Ci sono più medici, più maestri; che ci siano ancora molti problemi è certo, ma questo non significa che non stiamo progredendo.
Il presidente ha invece combinato disastri nel trattamento della cosa pubblica; ha maneggiato molte cose come se fossero una sua proprietà personale; ha utilizzato male il potere.
È stato detto che Toledo avrebbe dovuto cambiare due cose attorno a sé: partito e famiglia».

Include anche la moglie, Eliane Karp?
«Anche la moglie. La moglie non ha avuto il carisma che sarebbe stato necessario; non ha trattato bene il popolo peruviano. Lei dice: non sono latina, non ho alcuna caratteristica simile alla vostra, provengo da un’altra cultura, ho un’altra mentalità e continuo a conservare questa mentalità. È stata poco diplomatica ed è stata poco amata dal paese e questo ha avuto un riflesso negativo su Toledo. Toledo con un’altra moglie avrebbe potuto essere più amato».

E sulla corruzione che dice?
«Il tema della corruzione è un tema molto vasto e importante per il paese. Toledo non ha saputo combatterla. Non è aumentata, ma non è diminuita come invece stava diminuendo negli otto mesi di governo di Paniagua. Non si è andati avanti come si sarebbe dovuto».

Toledo è stato un presidente, un «indio de fábrica» come dice lei, che i mezzi di comunicazione peruviani hanno sempre pesantemente criticato. Secondo lei, hanno esagerato?
«Sono stati sicuramente troppo cattivi. Gli hanno trovato tutti i difetti possibili e non hanno sufficientemente sottolineato le buone qualità del suo governo. Non va dimenticato che i media peruviani sono stati molto compromessi con il fujimorismo, una mentalità questa che ha influenzato il loro giudizio. Infine, i padroni dei mezzi di comunicazione non hanno perdonato che Toledo, un indio, sia diventato presidente della repubblica».

Razzismo?
«Sì».

Razzismo bianco?
«Certo. Questo è un grosso problema, anche se non si può generalizzare. All’inizio sembrava una bella storia: la vicenda di un indio della sierra che aveva studiato negli Stati Uniti, che aveva avuto molte soddisfazioni professionali e che infine era tornato in Perù per mettersi al servizio del paese… Invece poi come è stato visto? Come un uomo che si è messo dove non avrebbe dovuto mettersi: queste sono cose che succedono in un paese razzista».

Razzismo o meno, Toledo è stato al centro di numerosi scandali personali…
«Ha sicuramente sbagliato tante cose. Ma io credo che il suo governo non sia stato tanto cattivo come si dice. Per sintetizzare, direi che è stato un governo buono, con molte cose negative».

Tra García, Flores e Humala

Dopo Toledo, è possibile che torni ad essere presidente Alan García?
«L’Apra è il principale partito peruviano, dal momento che tutti gli altri sono piccoli schieramenti. Alan García è un uomo molto abile, ma in questo momento non so se potrà essere il prossimo presidente del Perù».

Se non lui, chi allora?
«Paniagua sarebbe la scelta migliore, ma Paniagua non è un politico agguerrito, non è uno che si fa largo parlando male degli altri, è un simbolo di onestà».

E Ollanta Humala? Lo scrittore Mario Vargas Llosa ne ha scritto malissimo. Lei che pensa al riguardo?
«Il mio modo di vedere è diverso da quello di Vargas Llosa. La mia critica verso Ollanta Humala parte dal fatto che lui è un uomo con tutte le caratteristiche tipiche dei militari che si mettono in politica: autoritarismo, poca capacità di ascolto, interpretazione militaresca di ogni cosa».

Padre Garatea, per concludere, tenti una previsione , faccia un nome…
«Io ho paura che la destra torni a prendere il potere: la loro rappresentante, la signora Lourdes Flores, è una candidata molto forte. Però, nella politica peruviana tutto può succedere. Non è mai successo, nella nostra storia recente, che siamo stati capaci di annunciare il vincitore in anticipo».

(fine 2.a puntata – continua)

Paolo Moiola




PRIMA IL MALATO

Quando inizia l’abuso diagnostico e terapeutico? Farmaci e strumenti terapeutici non possono far dimenticare che esiste un principio di «proporzionalità
delle cure». Perché l’obiettivo primario dovrebbe sempre essere il benessere
della persona malata, incluso il suo diritto a morire con dignità.

Abbandono e accanimento terapeutico: due espressioni che riflettono uno stesso atteggiamento della scienza nei confronti del paziente critico, un tempo definito impropriamente «terminale».
Le attuali conoscenze della medicina (tecniche di rianimazione e terapia intensiva, circolazione extracorporea, dialisi, chirurgia avanzata) consentono di curare malattie fino a poco tempo fa ritenute inguaribili. Il risultato positivo è stato un’aumentata aspettativa di vita, il rischio reale è quello di un eccesso, di un abuso terapeutico, cioè mettere in atto terapie indipendentemente dal risultato atteso.
Il problema dell’accanimento si è presentato nel momento in cui il medico ha avuto a disposizione delle armi estremamente efficaci, ma anche potenzialmente sproporzionate alle reali necessità dei malati. L’attuale disponibilità di farmaci e di sofisticati strumenti terapeutici impone di definire il limite al loro uso, poiché non è sempre lecito fare tutto ciò che la scienza mette a nostra disposizione.
Esauriente a tale riguardo il Codice di deontologia medica, nel quale all’art.13 si definisce l’accanimento terapeutico come: «l’ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per il paziente o un miglioramento della qualità della vita».
Si è quindi in presenza di accanimento quando si vuole prolungare la vita con ogni mezzo senza che ci sia una speranza concreta di guarigione.

MALATO E MALATTIA

L’accanimento terapeutico riconosce numerose cause. In primis, la negazione della morte, la disumanizzazione dell’assistenza sanitaria, unita alla cieca fiducia nella tecnica e nella scienza possono condurre ad un dispiego esagerato, ostinato e inutile di presidi terapeutici fino a che l’avvicinarsi ineluttabile della morte stessa, la ridotta qualità della vita o la crescita dei costi determinano l’abbandono del malato.
L’approccio specialistico-multidisciplinare è un altro fattore che alimenta il rischio di accanimento. Il sapere odierno confida nella ultraspecializzazione per debellare molte malattie. In effetti, grazie alle competenze settoriali, sono nate, ad esempio, la chirurgia dei trapianti, la cardiochirurgia, la neurochirurgia. Nel contempo però la frammentazione in branche della medicina comporta il rischio di un’attenzione rivolta esclusivamente alla malattia e non al malato. Questi rischia di essere trattato come un oggetto, di essere analizzato unicamente per i processi patologici che lo affliggono. L’obiettivo primario non è più il benessere della persona, ma la sconfitta della sua malattia.
Il nuovo modello del rapporto medico-paziente, di natura contrattualistica, può portare talvolta il personale sanitario ad attuare terapie anche inutili, pur di non essere accusato dai parenti di omissioni o negligenze.
La medicalizzazione dell’esistenza passa anche attraverso questi percorsi…

SCIENZA E COSCIENZA

La distinzione introdotta da Pio XII tra mezzi ordinari e straordinari per la valutazione dell’appropriatezza delle cure ha avuto ampio successo anche presso la cultura laica. Secondo il magistero papale, gli sforzi compiuti per salvare una vita o prolungae l’esistenza possono essere eticamente e lecitamente tralasciati quando assumono un carattere di straordinarietà.
La distinzione intende separare gli interventi ritenuti necessari, obbligatori e quindi ordinari da quelli eccezionali, straordinari. Tuttavia, quest’ultimo criterio si è rivelato di difficile applicazione. Mezzi un tempo considerati «eroici» sono oggi pratica quotidiana e routinaria. Terapie ritenute eccezionali possono rivelarsi utili e doverose; al contrario la più semplice e collaudata delle cure può, in particolari casi, dimostrarsi inutile.
Ad esempio, la trasfusione di sangue, metodica certamente non eccezionale, praticata ad un paziente in agonia può configurarsi come un atteggiamento di accanimento terapeutico. Lo stesso può dirsi di un antibiotico che, cura ordinaria per trattare una polmonite, non lo è più quando si tratta di un paziente in coma che abbia contratto un’infezione respiratoria. Al contrario, non può definirsi accanimento l’esecuzione di eccezionali ed innovativi interventi di altissima chirurgia, quando sostenuti dalla speranza concreta di salvare una vita. Per queste difficoltà intrinseche la distinzione tra mezzi ordinari e straordinari è stata abbandonata.
Il limite tra una doverosa insistenza terapeutica e una deleteria ostinazione a continuare ad oltranza è dato dal principio di proporzionalità delle cure, cioè della proporzionalità dei mezzi e del loro prevedibile effetto; in altre parole, il risultato terapeutico.
Tuttavia anche il criterio di proporzionalità si presenta di non semplice applicazione. Da un punto di vista clinico non è sempre facile stabilire quando un intervento sia utile o inutile: ogni atto medico rischia di trasformarsi in accanimento terapeutico. È il medico che, secondo «scienza e coscienza», deve valutare la potenziale utilità di una terapia, contestualizzandola ad ogni singolo malato. Da un punto di vista etico l’attenzione, salvaguardando la relazione sanitario-paziente, deve essere posta sulla centralità dell’atto medico, che determina e regola il rapporto tra rischi e benefici, in termini di responsabilità e proporzionalità.
La sospensione di cure sproporzionate non significa infatti abbandonare il malato ed interrompere cure ordinarie quali l’alimentazione e l’idratazione artificiale. Il Comitato nazionale di bioetica (Cnb) a tale riguardo si è così espresso: «L’assoluta diversità d’ordine che intercorre tra evento morboso e morte rende ragione del perché l’accanimento, volendo prolungare indebitamente il processo irreversibile del morire, sia riprovevole. Il Cnb auspica che si diffonda sempre più nella coscienza civile, in particolare in quella dei medici, la consapevolezza che l’astensione dall’accanimento terapeutico assume un carattere doveroso».
Infine, nella medicina modea, è frequente una particolare forma di accanimento, quello diagnostico. Molti pazienti vengono sottoposti ad esami costosi, invasivi, talora dolorosi e non esenti da rischi, senza una reale prospettiva terapeutica ed indicazioni cliniche pertinenti.
Un caso significativo può essere quello dell’amniocentesi praticata durante la gravidanza in assenza di specifiche indicazioni, ma soltanto per rassicurare la gestante ansiosa riguardo a possibili malformazioni fetali.
Il Codice di deontologia medica, nel già ricordato art. 13, invita chiaramente i medici ad astenersi da qualsiasi forma di accanimento diagnostico-terapeutico.

MORIRE CON DIGNITÀ

Francisco Abel sintetizza mirabilmente i principi condivisi dalle principali correnti del pensiero bioetico contemporaneo riguardo all’accanimento:
1. Non tutti i trattamenti che prolungano la vita biologica risultano umanamente vantaggiosi.
2. Nessuno è obbligato a sottoporsi a trattamenti sproporzionati per conservare la vita. I mezzi si considerano proporzionati o sproporzionati in funzione del tipo di terapia, del grado di difficoltà e del rischio che comportano, dei costi e delle possibilità di applicazione e di risultati razionali che si possono attendere, tenuto conto delle condizioni del malato.
3. Il paziente può rifiutare trattamenti che causano disagi «intollerabili».
4. La volontà del paziente non cosciente, se la si conosce, deve essere rispettata. Se non la si conosce un’altra persona che la rappresenta deve offrire il supporto legale per decidere in nome di quelli che considera i migliori interessi del malato.
5. In caso di pazienti in stato vegetativo persistente, il diritto di terzi a decidere la soppressione dell’idratazione e della nutrizione artificiale, come trattamenti medici inutili, è ancora oggetto di un intenso dibattito.
Una terapia inutile e spesso gravosa non può trovare giustificazioni di alcun tipo, né scientifiche, né giuridiche, né soprattutto morali.
Non solo legittimo, ma soprattutto etico e deontologico, nel rispetto della vita umana, è opporsi all’accanimento terapeutico.
Afferma Salvino Leone: «Il rifiuto dell’accanimento terapeutico non significa abbandono del malato terminale o comatoso, ma rifiuto di prolungare oltre misura e con mezzi sproporzionati l’agonia, rifiuto di tormentare il paziente con strumentazioni che non incidono significativamente su un suo accettabile e minimale interesse, rifiuto di praticare terapie ardite con bassissime probabilità di successo».
Ogni uomo ha il diritto di morire con dignità, vivendo umanamente la propria morte, senza diventare oggetto di una tecnica sfrenata e disumanizzante. Esiste una fase della malattia e della vita dell’essere umano in cui è inutile, o addirittura crudele sottoporlo, ormai indifeso, debole e sfinito, a cure gravate da pesantissimi effetti collaterali, oppure ad indagini diagnostiche, o interventi chirurgici non privi di rischi, senza alcuna possibilità, né di guarigione, né di miglioramento. Si tratterebbe in tal caso solo di peggiorare le già difficili condizioni di vita del paziente, rendendo ancora più doloroso il suo distacco dalla vita terrena. Non si tratta di facilitare o affrettare la morte di una persona, ma di fermarsi ai confini della vita e di accettae i suoi limiti. Compito del medico è quello di tutelare la salute e la vita del paziente, non di prolungare la sua agonia.
Vi è un momento a partire dal quale le terapie devono essere interrotte perché non portano più alla restitutio ad integrum né influiscono sul decorso della malattia, ma addirittura possono recare danni al malato. Tuttavia, questo non significa che si debbano sospendere le terapie, ma è giunto il momento di proseguire con le cosiddette «cure palliative», volte a controllare i sintomi, quali il dolore e l’astenia che accompagnano inevitabilmente le fasi ultime della vita.
Scrisse Giovanni Paolo II: «L’atteggiamento davanti al malato terminale è spesso il banco di prova del senso di giustizia e di carità, della nobiltà d’animo, della responsabilità e della capacità professionale degli operatori sanitari, a cominciare dai medici». •

Enrico Larghero




«Vogliamo un’auto e una lavatrice»

Quando milioni di cinesi avranno un’auto e una lavatrice, che sarà del mondo? Se è giusto che anche i cittadini di Pechino abbiano quanto noi abbiamo avuto, è altrettanto certo che le conseguenze su un pianeta già al collasso saranno devastanti. E le soluzioni (ammesso che ci siano) non sono a portata di mano. Nel frattempo, i paesi occidentali sono invasi da prodotti cinesi, spesso fabbricati in condizioni inaccettabili. Concorrenza sleale? Macché, è il sistema neoliberista occidentale che ha introdotto le giustificazioni economiche: deregolamentazione, libera circolazione dei capitali, concorrenza, consumo senza produzione…

L’aspirazione gigantista cinese è ben comprensibile viaggiando lungo la nuova rete autostradale che si sta sviluppando nel paese per migliaia di chilometri: una ragnatela di corsie, arditi viadotti, tangenziali che sembrano voler contenere ipertrofiche megalopoli che ingoiano progressivamente gli anelli d’asfalto appena inaugurati da funzionari di partito con l’elmetto in testa.
Una rete sovradimensionata che sta avvolgendo il paese ma che per il momento vede percorrerla, una volta usciti dalla città, rare automobili, di solito i grossi Suv dei nuovi ricchi che possono permettersi il sacro rito del casello autostradale.
Se oggi le autostrade sono praticamente deserte, fra pochi anni saranno percorse da milioni di automobilisti che, abbandonata la bicicletta, potranno dirsi anch’essi cittadini modei e sviluppati; il boom industriale strappa alla povertà (ma qui bisognerebbe capire cosa si intende con questo termine) milioni di cinesi ogni anno e al momento sono circa 100 milioni coloro che vivono con relativa agiatezza.
Percorrere la nuova autostrada che collega Shanghai con il suo aereoporto è un balzo nel futuro della Cina: quattro corsie che corrono in una giungla suburbana di zone industriali variamente colorate: capannoni gialli, azzurri, grigi (molti quelli delle aziende italiane) si susseguono come tanti mattoncini che compongono un’unica nebulosa urbana su cui incombe un cielo lattiginoso e plumbeo. Questo nastro d’asfalto è una soddisfazione: di giorno le auto riempiono le corsie quasi fossero il sangue delle vene di un organismo, un frenetico fluire di acciaio, gas di scarico, uomini e donne al volante di vecchie carcasse e nuove fuoriserie provenienti da paesi lontani. Ogni tanto, il fluire delle automobili è superato a sinistra dal nuovo treno a levitazione magnetica, una specie di missile simile ad una giostra, forse una dimostrazione di tecnologia per impressionare il turista, o meglio ancora il giornalista o l’uomo d’affari occidentale appena sbarcato nell’«impero di mezzo».

La Cina è tecnicamente pronta all’invasione delle automobili e in generale lo è per qualsiasi altro oggetto di consumo.
La restante parte del mondo lo è in egual misura? La restante parte del mondo è pronta ad accettare (facendo un rapporto all’occidentale tra popolazione e numero di prodotti) seicento milioni di nuove auto, quattrocento milioni di lavatrici, e altre decine di miliardi di pezzi tra computer, cellulari, televisori, condizionatori, lavatrici, nuove case…?
Il mondo è già in overdose di estealità negative legate all’industrializzazione di massa occidentale (vedi «Una sola madre terra», su Missioni Consolata), il premio Nobel James Lovelock, con molti altri scienziati, parla ormai apertamente di estinzione di massa dell’essere umano entro 100 anni a causa di un cocktail ben assortito di cambiamenti climatici, scarsità di risorse e relative guerre.
Un processo non futuribile ma reale, già chiaramente visibile al giorno d’oggi ed in fase avanzata, sostiene lo scienziato inglese ideatore della famosa teoria scientifico-economica che prende il nome di Ipotesi Gaia.
Nonostante questo, che il mondo sia o meno pronto al mortale abbraccio cinese all’american way of life non ha alcuna importanza. L’ingranaggio è partito e fermarlo non sarebbe né giusto né possibile.
«La lavatrice non è un diritto solo per gli occidentali!». Parole sacrosante avute in risposta ad una domanda provocatoria posta a qualche cinese con reazioni emotive che andavano dall’indignato, al furibondo, ovviamente.
Le grandi megalopoli cinesi sono mostri che viaggiano intorno ai venti milioni di abitanti, oltre questa soglia gli urbanisti sostengono che vi sia un collassamento generale delle fognature, dell’ordine pubblico e del trasporto.
In Cina ne esistono almeno quattro ed una di esse, Qongqing è giunta a quota 25 milioni. Girarle non è un’esperienza entusiasmante. La stessa Shanghai è un guazzabuglio di grattacieli, templi del commercio ricoperti di mattonelle bianche, raccordi autostradali su più livelli, un banale tentativo di scimiottare, Parigi, New York, Londra: affoga nell’inquinamento e nel caos. I vecchi quartieri coloniali vengono abbattuti per far posto a grattacieli che dopo dieci anni appaiono già vecchi. Il trionfo del kitch e del cattivo gusto, del grezzo gigantismo assurto a bellezza.
Il tempo della rivoluzione culturale della «banda dei quattro» sembra non essere finito.
Ogni anno 20 milioni di cinesi abbandonano le campagne e si inurbano alla ricerca di lavoro nei cantieri edili, o come camerieri, commessi, manovali nei mercati etc: sono questi uomini e queste donne che provengono dalle sperdute regioni della campagna a carburare la tumultuosa crecita del paese.
La pelle crepata dal sole nei campi, e i lineamenti tradiscono la loro provenienza dalle lontane province cinesi: Inner Mongolia, Sichuan, Tibet…
Sono carne da cannone nel grande balzo moderno cinese: loro non contano nulla nel conteggio del prodotto nazionale lordo, non rientrano in nessuna statistica tanto da non essere nemmeno un costo per le aziende quando si infortunano o muoiono. Chi protesta viene cacciato, tanto il serbatornio di fuggitivi dalle campagne verso la terra promessa vista nella televisione comune di qualche ristorantino sperduto è infinito.
Sono svariati milioni i cinesi utilizzati come schiavi per produrre la merce che poi il consumatore estero, di solito lamentoso «per la scarsa qualità», acquisterà a prezzi stracciati non solo nei nuovi templi pagani (i centri commerciali), ma anche nelle raffinate boutique dei centri storici a prezzi ben più elevati.

Qualche numero. Il 75% dei lavoratori cinesi migranti (milioni di persone, forse 20) non viene pagato, molti di loro come forma estrema di protesta si suicidano.
Ogni anno muoiono 6.000 minatori. Sono decine di migliaia i bambini che lavorano come schiavi nelle fabbriche.
I manifestanti sono spesso considerati rivoltosi che attentano all’ordine sociale del paese, una minaccia da stroncare con qualsiasi mezzo. Ma il vigoroso sviluppo economico non trova sostegno solo nello sfruttamento delle masse ma anche in selvaggio utilizzo dell’ambiente e delle risorse.
Il 90% dei fiumi cinesi è avvelenato, uguale situazione per il 70% delle acque sotterranee.
La Cina brucia un miliardo e settecento milioni di tonnellate di carbone ed è il quinto consumatore mondiale di petrolio (entro pochi anni diventerà il secondo). Sulla Cina grava una cappa di smog solforosa che copre praticamante tutto il paese e che trasportata dai venti arriva fino in Europa e negli Stati Uniti.
In un recente libro scritto dal ministro per l’economia Giulio Tremonti vi è un accorato appello a invertire questa situazione con mezzi drastici, fosse anche con un nuova politica protezionista.
Il ministro però non parte da una visione olistica, ma da un assunto economico nazionalista. In sintesi: il consumatore occidentale nel suo delirio onnivoro a basso prezzo made in China sta distruggendo l’economia europea perché fa sì che gli imprenditori esportino capitali e conoscenza tecnologica in Cina ed importino povertà.
La teoria deregolamentatrice degli anni Novanta che va sotto il nome di globalismo o globalizzazione, ha portato a questi risultati. Gli imprenditori occidentali hanno accolto felicemente questa deregolamentazione transnazionale massiccia, che ha fatto piazza pulita della figura del lavoratore con cui contrattare onerosi aumenti di salario, o peggio il miglioramento delle condizioni di lavoro, o peggio del peggio la diminuzione dell’orario a parità di paga.
Tutti retaggi di stampo comunista non assimilabili da un sistema economico moderno e competitivo, dicevano.
Finito in soffitta il lavoratore, in Europa è assurta la figura del consumatore, ovvero colui che spende il proprio denaro, sempre più spesso facendo ricorso ai debiti, per riempirsi la vita di cose di per sé inutili (come dice il famoso pubblicitario Frederic Beigebeder «chi è felice non consuma») ma che una potente campagna di marketing ci fa vedere come indispensabili.
Il consumo senza produzione è il meccanismo diabolico che sta tenendo in piedi le obese economie occidentali di servizio e finanziarie, totalmente drogate.
Un esempio: tutti i telefonini che avete in casa, il primo, il secondo, il terzo, le macchine fotografiche, i dvd, i televisori etc. etc. sono prodotti in Cina. Nessuno di quei pezzi di plastica e microchip è prodotto da italiani.
La parola magica per questo processo è stata competitività: ovvero il lavoratore dipendente italiano, francese, tedesco, … è entrato in diretta competizione con il cinese che vive nelle condizioni di cui sopra. Non così i proprietari dei mezzi di produzione che hanno invece approfittato delle occasioni date dalla libera circolazione dei capitali: il capitale trova sempre la migliore allocazione possibile, dopo tutto è il suo mestiere.
È evidente che solo il ricorso al debito può sostenere i consumi in questa situazione e infatti paesi come l’Italia navigano a vista in un mare di stagnazione economica.
Grande impulso a queste dinamiche economiche, viste come la panacea di ogni problema, è stato dato dai governi degli anni Novanta partendo dagli Usa (Clinton), passando dalla Francia (De Villepein), Italia (Prodi, D’Alema, Amato), Germania (Schroeder), Inghilterra (Blair)…
Tale politica ha trovato sponda negli imprenditori, giustamente ansiosi di aumentare il saggio di profitto ma soprattutto dai sindacati che da sempre lottano per difendere i lavoratori…
Al tempo, fine anni Novanta, andava di moda dire che «se il mare del capitale si fosse alzato, tutte le barche sarebbero cresciute».
Ma la storia talvolta compie capriole. Chi avrebbe mai pensato che un ministro iperliberista dell’economia come Giulio Tremonti definisse «deliranti» le politiche economiche di Wto, Fmi, World Bank, degli anni Novanta mentre il cosiddetto popolo noglobal si trovasse ad aver ottenuto inaspettatamente quello per cui protestavano a gran voce: la riduzione della povertà nei cosiddetti paesi i via di sviluppo.
Il mondo vive quindi un periodo caratterizzato da una potente «redistribuzione» della ricchezza. Gli italiani, i francesi, e gli altri stanno un pizzico meno bene, mentre sempre più asiatici smettono di coltivare riso e inurbandosi migliorano le loro condizioni di vita. Molti sono usati come schiavi, altri si emancipano: ubi major minor cessat nel 2006?

Il problema, che nessuno vuole guardare perché semplicemente non risolvibile, è che per sostenere il ritmo di crescita cinese siamo di fronte ad un vigoroso affondo contro l’ecosistema planetario, visto solo come capitale naturale con cui alimentare la crescita materiale.
La Cina urbana è un incubo che dovrebbe far tremare i polsi ai governi mondiali che invece se ne rallegrano. Lo stile di vita all’americana è un’ossessione che pervade ormai la vita di centinaia di milioni di cinesi che vivono per poter avere la stessa vita di uno statunitense o europeo.
È bene sottolineare che questo desiderio è sacrosanto, ma diventa un pericolo in funzione della finitezza delle risorse naturali (chi sostiene che il concetto di risorsa non esiste perché è l’ingegno umano a creare le risorse attraverso le tecnologie si scontra inesorabilmente con il primo e secondo principio della termodinamica che, ahinoi, lasciano poco spazio a bislacche fantasie di moti perpetui o energie infinite)
Quante foreste bisognerà abbattere, quanto pesce pescare, petrolio e carbone bruciare, etc per soddisfare un paese di 1,3 miliardi di persone che cresce al ritmo del 10% annuo?
E dato che l’economia è una coperta corta (se tiri da una parte si scopre l’altra) le potenze occidentali saranno veramente disposte a cedere le residue risorse strategiche ai cinesi vogliosi di vivere nel benessere materiale, lo stesso nel quale hanno sguazzato per sessant’ anni statunitensi, francesi, tedeschi, italiani etc?
Qualsiasi cosa accada esistono dei feedback negativi che investiranno il pianeta.
Eppure quello che è un vero disastro per tutti è vissuto come una conquista, come una possibilità di crescita. Un’illusione tipica delle società che collassano, le prove lasciate dagli abitanti dell’isola di Pasqua, dai Maya o dagli abitanti della Groenlandia ne sono un esempio.
La locomotiva Cina ci sta portando tutti su una montagna russa altissima e noi siamo o sull’apice o all’inizio della discesa. Auguri.

3a puntanta. Le precedenti puntate di questo reportage dalla nuova Cina sono state pubblicate a dicembre 2005 e gennaio 2006. Gli articoli sono reperibili su questo sito internet.

Giacomo Mucini