Sarò cinese anche in paradiso

San Giuseppe Freinandemetz (1852 – 1908)

«Ecco, trovato quel paese che già da anni pregavo Iddio di voler mostrarmi; trovato la mia patria nuova, che da tanto tempo sospiravo di vedere, arrivato io sono finalmente nella chiesa». Queste poche righe, scritte il 28 aprile 1879 e ricevute dalla famiglia a Oies, in Val Badia, qualche mese dopo, annunciavano l’arrivo del ventisettenne padre verbita Giuseppe Freinademetz in terra di missione: la Cina.
Era una Cina, quella che accolse il sacerdote badiota, umiliata dalle potenze europee, vincitrici delle guerre dell’oppio (1840-42). I governi occidentali, consci dell’odio creato attorno a loro nell’animo dei cinesi con l’imposizione di trattati iniqui, si fecero precedere nell’espansione nel Paese di Mezzo da avanguardie di evangelizzatori. Armati di crocifisso e vangelo, questi missionari, preparavano il terreno all’arrivo di eserciti ben più cruenti e violenti, composti non solo da soldati, ma da amministratori corrotti e impresari senza scrupoli.
Per i cinesi tutti gli europei sono i «nasi lunghi». Non sorprende, quindi, che i primi passi di Giuseppe in terra cinese furono ben poco conciliatori: «L’adulto cinese ci deride in pubblico, i bambini ci gridano alle spalle. Sembra che perfino i cani provino un gusto particolare a rincorrerci e abbaiarci contro. Il missionario è odiato da molti, tollerato da pochi, amato da nessuno» scriveva in una delle sue prime lettere.
Un atteggiamento di ostilità e incomprensione dapprima contraccambiato da molti sacerdoti, a cui neppure Freinademetz seppe venir meno. Nelle sue prime lettere l’ardore e il fuoco del giovane missionario è, a dir poco, militaresco. Giuseppe arriva in Cina «per menar guerra contro il diavolo e l’inferno, per gettar a terra i templi dei falsi dèi, per impiantar al loro luogo il legno della croce».

Questo ostracismo dura però solo una stagione. Nonostante tutto, già nei primi anni, Giuseppe confessa: «Essere missionario in Cina è un onore che non cambierei colla corona d’oro dell’imperatore d’Austria» (a quell’epoca la sua terra natale apparteneva alla monarchia austro-ungarica).
Ben presto Giuseppe Freinademetz si accorge di quanto male facciano gli europei all’Asia e, in particolare alla sua missione nello Shantung del sud, cui la Santa Sede aveva affidato alla congregazione dei Verbiti l’evangelizzazione. «Beh, non c’è da meravigliarsi sullo scetticismo nei confronti degli europei e sul loro comportamento, in quel tempo. Penso inoltre che lui stesso, conoscendo le persone più a fondo, abbia mutato anche il suo giudizio sui cinesi» afferma il vescovo di Bressanone, mons. Wilhelm Egger.
Già nel 1884 Freinademetz inizia a vestire come i suoi parrocchiani, parla il mandarino, porta la treccia e, soprattutto, adotta un nome cinese: Fu Shen-Fu (padre della fortuna). Scrivendo a un familiare in Sud Tirolo afferma: «Sono ormai più cinese che tirolese. E non ho altro desiderio che morire con loro e essere sepolto tra di loro. Desidero essere cinese anche nel cielo».
La politica dei paesi europei incomincia a nausearlo; alla madre scrive: «Il maggior flagello per noi e per i poveri cinesi cominciano a essere tanti europei senza fede e perfettamente corrotti, che adesso cominciano a inondare tutta la Cina. Sono bensì cristiani, ma sono peggiori dei pagani, non si curano d’altro che di far denaro e di andare dietro a tutti i piaceri mondani».
All’opposto, rivaluta completamente le sue idee iniziali sui locali, giungendo a rivelare che «in molti punti sorpassano gli europei. Lo sanno anche loro stessi, perciò odiano tutti gli stranieri… Sono veramente la prima nazione al mondo, solo manca loro il cristianesimo».
Eppure, Giuseppe in Cina non ebbe vita facile: la rivolta dei Boxer nel 1900, la persecuzione cristiana, le malattie resero la sua opera di evangelizzazione, dura e pericolosa. Fino al 1908, anno in cui morì stroncato dal tifo a Taikia, dove fu sepolto, continuò a scrivere alla madre e agli amici nel suo italiano stentato o in tedesco, non dimenticando, però, la sua cultura natale: il ladino. «Chi non è chiamato dal Signore non abbandoni la bella Badia», scrisse in uno dei tanti momenti di nostalgia, in cui ricordava con piacere i tre anni trascorsi come parroco a San Martino in Badia (1875-78) o la sua infanzia felice con i 12 fratelli all’ombra delle vette dolomitiche.
Ed è forse proprio questo il miracolo di san Giuseppe Freinademetz: conosciuto da pochi, è entrato nel cuore di tutti i tirolesi. «Già quando era ancora parroco le persone locali si sono accorte che lui era una figura eccezionale. Le uniche reliquie che abbiamo di san Giuseppe sono i capelli, che la perpetua ha tagliato prima che partisse per l’Olanda (1878), dove era la sede dell’ordine dei Verbiti e li ha tenuti con sé quasi presagendo la santità che era in lui. Quando era parroco a San Martino in Badia la gente faceva anche 6-7 ore di cammino per ascoltare le sue omelie» spiega mons. Egger.

Oggi quasi ogni casa badiota mostra l’effigie di Giuseppe Freinademetz, beatificato nel 1975 da Paolo vi e proclamato santo il 5 ottobre 2003 da Giovanni Paolo II. Anche se in 30 anni di missione in Cina non è mai tornato in patria, Giuseppe ha conservato intatto, attraverso le sue lettere, il rapporto con gli amici, la famiglia, la sua gente e la sua valle; questo rapporto non si è mai interrotto; egli ha continuato a vivere, anche dopo la sua morte, non solo nella Val Badia, ma in tutto il Sud Tirolo.
«Mio padre, nato nel 1900, mi raccontava che si ricordava ancora quando in valle arrivò la notizia della morte del missionario – racconta padre Pietro Irsara, custode della casa natale del santo -. Nella nostra famiglia, come in molte altre della valle, si pregava per la beatificazione e poi per la canonizzazione di Giuseppe. Si notava già un’aria di santità in questa persona. Pochi anni dopo la sua morte scoppiò la Prima guerra mondiale e la gente si rivolgeva al missionario per chiedee l’intercessione. Quando, durante il fascismo c’è stato il problema dell’Opzione, molti, ancora indecisi, si rivolgevano a lui per chiedere consiglio sulla scelta da compiere».
Oggi la casa di san Giuseppe Freinademetz è meta di pellegrinaggi che vengono dal Sud Tirolo, dall’Austria e dalle città d’Italia dove sono presenti i missionari del Verbo Divino. «Alla gente che viene qui in pellegrinaggio – continua padre Pietro – ricordo la fede eroica che egli ci ha lasciato in eredità. Una fede che occorre vivere, non nascondere. Mi piace anche ricordare il rapporto di san Giuseppe con il dolore e la sofferenza. Lui ha sofferto molto, per questo poteva incoraggiare la famiglia, spiegare come il dolore non sia un castigo di Dio, ma un segno di Dio, una prova che Dio ci manda».

«Un’altra eredità lasciata da san Giuseppe è l’amore per i cinesi – conclude padre Irsara -. Si è fatto cinese tra i cinesi. È riuscito ad amarli sinceramente, nonostante le difficoltà e sofferenze che ha provato. Le firme per la sua canonizzazione sono arrivate dalla Cina, dalla regione dove ha lavorato: ciò significa che la sua persona e il suo lavoro è ancora oggi riconosciuto e vivo tra la gente per cui ha dato la vita».
La sua apertura all’altro ha precorso i tempi: Freinademetz aveva appreso che per capire e convivere con le altre culture e religioni, occorre convertire anzitutto se stessi. E in questo contesto risultano «provocatorie» anche le parole più semplici. In un’Italia dove i media continuano a propinarci stereotipi triti e ritriti, cercando di convincerci che viviamo nel «paese più bello del mondo», parliamo la «lingua più bella del mondo», abbiamo la «cucina più buona del mondo», è sconvolgente che più di 200 anni fa, un umile contadinotto di un’oscura valle dolomitica, scriveva: «Mi credete se vi dico che la Cina non è più brutta della bella Badia?».

Piergiorgio Pescali

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