Skanderbeg, Enver Hoxha, Sali Berisha

Skanderbeg, l’eroe nazionale albanese, fu considerato dai papi il difensore della cristianità. L’Italia di Mussolini invase l’Albania. Dopo la caduta della dittatura, il passaggio ad un sistema iperliberista fu, per la maggioranza della popolazione, un salto senza rete. Ancora una volta, per comprendere un paese è necessario conoscee la storia.

Diviso in due nel quarto secolo dall’Impero romano, è stato il paese in cui si sono incontrati Oriente ed Occidente, come ha scritto Aurel Plasari. Ed il suo destino, o la sua «fatica di Sisifo», sembra essere stata la ricerca di mantenere l’unità dentro questa divisione tra Oriente ed Occidente.
Il periodo eroico della storia albanese è l’epoca dell’eroe nazionale Gjergj Kastrioti, detto Skanderbeg. Fu considerato dai papi il difensore della cristianità, avendo ripetutamente sconfitto per oltre vent’anni (1444-1468) gli eserciti ottomani, che già da un secolo avevano avviato spedizioni militari per la conquista dei Balcani. I sovrani del tempo lo considerarono anche un abile stratega militare, oltre che un valoroso condottiero, avendo introdotto la cavalleria leggera nell’arte della guerra. Morì nel 1468 dopo aver condotto contro l’esercito islamico 24 famose battaglie, quasi tutte vinte, anche se sempre in condizioni di grande inferiorità numerica. I principi albanesi che presero in mano la sua eredità storica seppero resistere ai turchi per altri vent’anni. Poi fu la definitiva occupazione del paese da parte delle truppe dell’impero ottomano e l’emigrazione in Italia di quanti, nobili e popolo, l’avevano combattuto e non vollero sottomettersi.
Fu il re di Napoli Alfonso d’Aragona a dare loro ospitalità, in riconoscenza dell’aiuto ricevuto da Skanderbeg quando ricorse al suo aiuto per salvare il regno. L’origine della presenza in Italia delle popolazioni albanesi, oggi denominate «arberesh», è di quell’epoca. E tanto per restare in tema, gli albanesi che nei quarant’anni successivi alla morte di Skanderbeg lasciarono il paese e si rifugiarono nei paesi vicini furono circa 200.000, cioè circa un quarto della popolazione dell’epoca. Metà di essi venne in Italia.
Con lo stabilirsi definitivo dei turchi in Albania, fu avviata anche una diffusa islamizzazione, basata soprattutto sulla possibilità di ottenere terre e di non pagare tasse. L’Albania cristiana fin dai primi secoli, poco a poco divenne in maggioranza islamica.
La repubblica di Venezia aveva in Albania una forte presenza e la mantenne per molti secoli. Una serie di castelli che vanno da Scutari, al nord, fino a Butrinto, a sud, testimoniano ancora la sua lunga relazione non solo commerciale con il paese. La parte storica della città di Scutari conserva molte somiglianze con alcuni scorci della Riviera del Brenta. Ancor oggi c’è la «via dei veneziani» e fino al 1997, il molo veneziano del porto fluviale di Scutari era rimasto abbastanza intatto. La politica dei Dogi, tuttavia, non fu mai molto lineare verso l’Albania e numerose volte, la necessità di mantenere i loro commerci, li giustificò dell’alleanza con gli ottomani, a scapito degli interessi degli albanesi. Lo stesso Skanderbeg, come in seguito Lek Dukagjin, dovette combattere contro una temporanea alleanza di Venezia con gli ottomani.
L’Albania fece parte dell’Impero ottomano fino al 1912, quando a Valona i patrioti albanesi innalzarono la bandiera e dichiararono il paese indipendente. Oltre alla religione, la lunga presenza turca ha influenzato la lingua, il modo di vestire, la cucina, il modo di costruire le case, l’organizzazione dei mercati, l’architettura dei ponti. Un certo numero di famiglie albanesi entrarono a far parte della nobiltà ottomana ed ebbero proprie residenze anche ad Istanbul. Nel 1919 l’indipendenza dell’Albania è definitivamente sancita dalla Conferenza di Parigi, dopo la prima guerra mondiale. Nonostante la proclamazione dell’indipendenza del 1912, infatti, Grecia e Serbia avevano deciso di dividersi il paese, con il beneplacito dell’Italia che avrebbe mantenuto Valona, per il controllo del Canale d’Otranto. Grecia, Serbia ed Italia uscirono vincitrici dal conflitto mondiale ed il rischio che l’Albania, appena nata, fosse cancellata dalla carta geografica era effettivo. Furono soprattutto gli sforzi della diplomazia vaticana, (come spiegato a pag.35), che ebbero successo, anche se rimasero loro, per non scontentare del tutto Serbia e Grecia, una parte dei territori abitati da albanesi. Scherzando su questo fatto, gli albanesi diranno poi che l’Albania è un paese che confina con… l’Albania.

IL RE E L’INVASIONE DELL’ITALIA FASCISTA

Garantita definitivamente l’indipendenza, il paese entra in un periodo di instabilità. Spicca in questi anni la figura di Fan Noli, un vescovo ortodosso americano, di origine albanese, che torna in patria ed entra in politica, fino a diventare per breve tempo primo ministro. Prevalgono alla fine le famiglie feudali, Ahmet Zogu è eletto primo ministro e dopo poco si proclama re d’Albania. Ha bisogno di consolidare sia il suo potere che lo stato e trova un interessato sostegno nell’Italia di Mussolini. Tra i suoi obiettivi anche il matrimonio con una donna di sangue blu, per dare un definitivo suggello al suo titolo. Ma gli alleati italiani non lo prendono in seria considerazione su questo e la diplomazia albanese porterà al trono Geraldina, di una nobile famiglia ungherese. L’Albania rinnova ed intensifica nel 1933 la collaborazione con l’Italia, ed avvia un piano di interventi sulle infrastrutture (strade), sull’industria (petrolio) e sulla formazione della pubblica amministrazione e degli apparati dello stato, che gli anziani ancor oggi ricordano con meraviglia.
Nell’aprile del 1939 l’Albania è invasa dall’Italia. Mussolini ritiene che la guerra che Hitler ha appena scatenato sarà breve. Per non sedersi al tavolo dei vincitori in condizioni di inferiorità, decide in pochi giorni di invadere l’Albania. Da paese amico, diventa nemico invaso ed occupato. L’anno successivo dall’Albania l’Italia porta la guerra alla Grecia. Sorgono le formazioni partigiane albanesi, cui concorrono sia i comunisti, sia i nazionalisti. L’8 settembre 1943 i soldati italiani presenti sul suolo albanese sono migliaia. L’esercito tedesco ha l’ordine di invadere in fretta l’Albania per non perdere le posizioni e si accanisce in particolare contro i militari italiani. Alcuni cercano di tornare. Tante famiglie albanesi, soprattutto nelle campagne, li nascondono nelle loro case. Altri si uniscono ai partigiani albanesi.
Finita la guerra ci sarà anche chi rimarrà in Albania.

DALLA DITTATURA AD OGGI

Il 29 novembre 1944 i gruppi partigiani guidati da Enver Hoxha entravano a Tirana. Per l’Albania era la fine della guerra, cominciata con l’occupazione del paese da parte dell’Italia di Mussolini, nell’aprile del 1939. Alla fine della guerra, il paese ha poco più di un milione di abitanti. L’analfabetismo raggiunge il 90%. Enver Hoxha, capo del partito comunista, non si fa molti scrupoli ad eliminare gli avversari politici interni. A livello internazionale si allea subito con Tito.

1948. Per evitare il rischio che l’Albania diventi l’ottava provincia della Jugoslavia, Hoxha abbandona Tito e si allea con la Russia di Stalin. Dieci anni dopo, Krusciov avvia la «destalinizzazione» e manda in pensione tutti i vecchi dirigenti del partito comunista dei paesi satelliti.

1960. Hoxha abbandona anche la Russia, accusandola di revisionismo e si allea l’anno dopo con la Cina, che potrà vantare un fedele alleato in Europa fino al 1978. Quando anche la Cina, morto Mao, modifica la sua linea politica, aprendo agli Stati Uniti, Enver Hoxha abbandona sprezzante anche la Cina ed avvia il paese sul vicolo cieco dell’isolamento internazionale e dell’assoluta autarchia.

1967. È l’anno nel quale l’Albania, unico paese al mondo che costituzionalmente si è dichiarato ateo, a seguito della rivoluzione culturale cinese che qui ebbe il suo parallelo, corona tale rivoluzione con la distruzione fisica di centinaia e centinaia di chiese cattoliche ed ortodosse, monasteri e moschee. La proprietà privata viene rigorosamente proibita.

1985. Il dittatore muore dopo 40 anni di tirannia assoluta e violenta, durante i quali non ha esitato ad eliminare non solo gli avversari, ma anche molti «compagni», via via accusati di tradimento e quindi imprigionati, mandati al confino, o semplicemente «suicidati». Mescolando ideologia e nazionalismo, aveva prospettato la costruzione de «l’uomo nuovo socialista», prospettando la rinascita del popolo albanese dopo i 500 anni di occupazione ottomana e la successiva scarsa considerazione dei paesi occidentali. Quando, nel 1985 Ramiz Alia succede ad Enver Hoxha, il paese è già sulla strada di una irreversibile recessione economica. L’autarchia è sempre meno in grado di dare alla gente il necessario per vivere.

1990. Dopo la caduta del muro di Berlino, l’Albania è l’ultimo paese comunista a mobilitarsi. Nel luglio 1990, a Tirana, circa 4.000 persone occupano le ambasciate dei paesi occidentali e chiedono di poter emigrare. Il braccio di ferro tra governo albanese e governi di Italia, Francia e Germania dura oltre venti giorni. Alla fine, autorizza la partenza dei rifugiati. L’8 dicembre gli studenti occupano l’Università di Tirana ed alcuni professori sono solidarizzano con loro. Alia manda a trattare con il comitato degli studenti e professori, come suo incaricato, il dottor Sali Berisha, primario di cardiologia dell’ospedale di Tirana, già cardiologo personale del dittatore Enver Hoxha. Dopo i primi incontri Sali Berisha lascia l’incarico ricevuto dal presidente e passa dall’altra parte della barricata, aderendo al partito democratico. Sono i segni che ormai il vecchio mondo sta crollando.

1991. Vengono decise le prime elezioni pluraliste per il 31 marzo. Ma a metà marzo molte migliaia di persone danno l’assalto al porto di Durazzo, e sbarcano a Bari: è l’immagine di migliaia di profughi aggrappati alla nave, immortalata in una foto ormai famosa ne «Lamerica». Alle elezioni il partito del lavoro vince grazie al voto delle campagne. I veloci cambiamenti, la fuga di decine di migliaia di persone, la mancanza di mezzi, hanno accelerato il collasso dello stato. L’agricoltura, soprattutto, dove era impegnato oltre il 65% della popolazione e che, in regime di autarchia, doveva garantire la sopravvivenza alla nazione, è praticamente abbandonata. In luglio il parlamento vara la riforma agraria: in ogni villaggio, la terra è distribuita a tutti gli abitanti in parti uguali, sia in quantità che in qualità. La fame era uno spettro reale. I tentativi di fuga con qualsiasi mezzo erano quotidiani.

1992. La situazione è molto tesa ed in alcuni luoghi la gente assalta i foi del pane. Berisha decide di uscire dal governo e chiede nuove elezioni. Vengono fissate per il 22 marzo 1992. Il partito democratico ottiene la maggioranza assoluta del parlamento. In aprile Ramiz Alia rassegna le dimissioni. Nuovo presidente della repubblica è eletto Sali Berisha. Il governo è affidato ad Aleksander Meksi, che resterà primo ministro fino a marzo 1997.
Al paese manca di tutto. Le istituzioni inteazionali e molti paesi europei corrono in aiuto e vengono definite le linee guida della nuova politica economica. Si sceglie la strada della «terapia choc»: liberalizzazione dei prezzi (solo il pane continuerà ad avere un prezzo politico), libero commercio, libero movimento dei capitali, diritto alla proprietà privata e privatizzazione delle attività economiche, prima unicamente dello stato. A mali estremi, estremi rimedi: l’inflazione supera il 250%. Il paese produce pochissimo di quanto ha bisogno e gran parte delle derrate alimentari vengono importate. Ma stipendi e pensioni restano invariati (all’epoca, mediamente, si andava dai 20 ai 40 euro). Per tutti, valga l’esempio di certi professori di università che dopo le lezioni facevano i tassisti o vendevano banane e sigarette sui marciapiedi di Tirana.

1993. In un paese dove tutte le vecchie regole sono sparite e quelle nuove non sono ancora arrivate, l’economia di mercato significava «arrangiarsi», significava «chi vince ha ragione», significava che «far soldi» era l’unica regola valida, non importa «come». Anche le istituzioni inteazionali sostenevano la necessità di «creare la borghesia», unico modo di far poi funzionare l’economia di mercato. Se poi per creare in fretta una borghesia che manca, bisogna chiudere un occhio (o tutti e due) sul come molti si stanno arricchendo, è un problema secondario al momento. Un fenomeno emblematico, cominciato allora, è l’emigrazione verso le città di decine e decine di migliaia di famiglie che abbandonavano la campagna e soprattutto la montagna: le campagne che fino al 1991 circondavano Tirana, Durazzo, Scutari, ed altre città minori, furono invase dalle costruzioni illegali di migliaia di famiglie. Si cominciava con una baracca di legno, poi poco a poco una stanza, poi due, poi quattro… Ciò che conta è potersi costruire una casa,… Strade, luce, acqua, fognature, e poi scuole, servizi sanitari… è il caos più assoluto ed ancor oggi, ad oltre dieci anni di distanza, molti di questi problemi sono irrisolti. L’inflazione scende sotto il 5%, e la moneta si rivaluta addirittura nei confronti della lira e del dollaro.

1996. In maggio ci sono le elezioni politiche. Più che entusiasmo c’è paura: la sera della domenica di fine maggio, quando Sali Berisha proclama la «vittoria», nelle piazze e strade di Tirana non festeggia nessuno, tutti sono in casa. La frode elettorale è palese e l’Ocse non può che denunciarla. La vittoria del partito democratico è stata costruita sui brogli: dalla mancanza delle liste elettorali, alla sostituzione delle ue a voto finito. Alle elezioni amministrative di ottobre, Berisha non ammette gli osservatori dell’Ocse.
1997. L’Albania è spesso citata come modello per gli altri paesi che adottano l’economia di mercato. Di solito è piuttosto difficile mettere assieme in un paese una economia debole con la prosperità, In Albania qualcuno c’è riuscito bene, per alcuni anni. Le società finanziarie (che in Albania saranno chiamate «piramidi»), per convincere gli albanesi ad affidare loro il denaro (spesso le rimesse di un familiare emigrato), hanno rispolverato ed aggiornato il vecchio gioco della catena di sant’Antonio. Si versava, per esempio, un milione di lire e si riceveva, dopo il terzo mese, un interesse dell’8% o più. Cioè a fine anno, con un milione di lire depositato si portavano a casa 720.000 lire solo di interessi! Naturalmente questo ha funzionato finché è stato possibile dare a chi ha cominciato prima, i soldi di chi arriva dopo.
Inutile dire che il grande gioco, mentre distribuiva tanti soldi facili, era anche un efficace strumento per riciclare denaro sporco. I capitali provenienti dallo sfruttamento della prostituzione, dallo smercio di droga, dal traffico di armi, dal contrabbando del petrolio, hanno circolato con estrema facilità.
Fallita la prima nel novembre 1996, tutte le altre «piramidi» seguirono la stessa sorte nel giro di poche settimane. La gente scese in piazza a chiedere conto al governo della mancata tutela. Tra ministri e politici cominciò lo scaricabarile mentre i veri responsabili fecero tempo a rifugiarsi all’estero quasi tutti. Una stima molto prudenziale ha valutato in 1,2 miliardi di dollari (oggi pari a 1 miliardo di euro) la perdita subita dalle famiglie albanesi. Nel sud ci furono episodi di saccheggio dei depositi militari di armi. Lo stesso avvenne poi al Nord. A livello istituzionale è il caos. In quasi tutte le città del paese vengono saccheggiati negozi e magazzini, bruciati edifici, distrutte fabbriche. Il porto di Durazzo è praticamente raso al suolo. L’Università di agraria di Tirana è saccheggiata e distrutta. A Scutari viene bruciato anche il tribunale. È la guerra di tutti contro tutti. Nonostante il coprifuoco, a Tirana la notte si continuerà a sparare ancora per molti mesi. Le prigioni, naturalmente, non furono risparmiate. Fuggito il personale di sorveglianza, i prigionieri sono liberi di andarsene. Tra essi anche Fatos Nano, già segretario del partito socialista nel 1991 e poi accusato da Berisha di malversazione dei primi aiuti e condannato a 12 anni di carcere. Egli però non vuole andarsene dal carcere solo perché la porta è aperta e chiede un provvedimento amministrativo, che Berisha è costretto ad emettere in fretta. Viene intanto affidato al socialista Bashkim Fino il governo provvisorio, che indice nuove elezioni per il 29 giugno. Il partito socialista vince ampiamente, il partito democratico ottiene meno di un terzo dei deputati dell’anno precedente.

1998. I gravi disordini che hanno interessato tutto il paese, hanno indotto molti albanesi ad emigrare e l’Italia è il paese di maggior afflusso e alcune decine di migliaia di profughi arrivano già in marzo. Perso tutto, l’unica speranza è cercare altrove come andare avanti. Si verificano due nuovi fenomeni: ad andarsene in migliaia sono i minori, da soli, e molti tecnici e funzionari, i cosiddetti «quadri». Li accomuna il senso di impotenza e di disperazione: l’Albania non offre più niente a nessuno ed è meglio andarsene. Gran parte dei ragazzi ed adolescenti, di solito di 13 o 14 anni, se ne vanno spinti anche dai genitori, preoccupati dell’assoluta mancanza di prospettive del paese. Chi rimane spesso invidia chi se n’è andato. Ora in Albania ormai non si può più nemmeno sognare.

1999. A fine marzo scoppia la guerra in Kosovo ed in pochi giorni quasi mezzo milione di albanesi del Kosovo si rifugia in Albania. Nonostante lo stato di generale depressione, il paese ha un sussulto e reagisce. Ai kosovari si dà ospitalità ovunque. I rifugiati nei campi profughi sono stimati in 130.000 circa. Il resto, cioè più di 300.000 hanno trovato una qualche forma di ospitalità presso famiglie private, scuole o altre strutture locali. Spesso accade che i rifugiati sono molto più benestanti delle famiglie che li ospitano e si sdebitano pagando l’affitto o facendoli parte degli aiuti che ricevono. In poche settimane il paese è inondato di aiuti pubblici e privati e di associazioni umanitarie.

2000. L’inverno rende ancora più triste ed amara la solita mancanza di energia elettrica disponibile solo in certe ore del giorno e secondo la «fedeltà media» della città nel pagare le bollette. La disoccupazione, la ricerca di un lavoro all’estero come emigrante, la corruzione nei pubblici servizi, le strade impossibili ed il permanere della logica di «chi vince ha ragione» arrivata con l’economia di mercato. A smuovere un po’ le acque con iniziative singolari e fuori dagli standard abituali c’è Edi Rama, ministro della cultura che Fatos Nano ha voluto nel suo governo. È un pittore ed un intellettuale e la sua capacità di comunicare con la gente lo fanno proporre candidato sindaco della capitale, Tirana, alle elezioni amministrative del 1° ottobre 2000: le centinaia e centinaia di costruzioni abusive, costruite nel parco del centro della città, o sui bordi del Lana (il canale che la attraversa da est ad ovest), o su tutti i marciapiedi, ricevono l’ordinanza di demolizione. Fa dipingere edifici grigi ed insignificanti, dando alla città un senso di originale vivacità. Riorganizza tutti i servizi amministrativi, eliminando code, resse, raccomandazioni… Avvia un piano di ristrutturazione urbanistica completa. Tre anni più tardi, la sua rielezione è scontata. Ma soprattutto il suo modo di amministrare ha fatto scuola e molti altri sindaci, da Durazzo a Scutari, da Valona a Korça, hanno preso un po’ di coraggio ed avviato programmi di riorganizzazione dei servizi amministrativi e di riordino urbanistico, prima impensabili.

2001. Sono sempre più gli albanesi che avviano attività produttive e non solo commerciali, come era invece avvenuto prima. L’industria delle costruzioni, in particolare, è in continua crescita e, come sempre, riesce a trascinare un’ampia gamma di indotto. Il turismo, inoltre, è diventata la voce che ha dato maggior impulso alla crescita economica degli ultimi anni. Certo, sorgono dei dubbi sul rischio che dietro a questo ci siano anche finanziamenti poco leciti, riciclaggio di denaro sporco e malavita organizzata, come succede in altri paesi. Ma è innegabile lo slancio che lo sviluppo del paese ha preso dopo il 2000. È avviato anche il processo di riforme di cui lo stato aveva bisogno e che rappresenta il primo adempimento per gli accordi di integrazione che richiede l’adesione all’Unione europea.

2003. Tanta ricchezza accumulata in fretta, tanto benessere, tante macchine, negozi, ristoranti ed hotel di lusso, accanto a tanta povera gente, accanto a chi dona il sangue a pagamento, per poter disporre di tanto in tanto di qualche soldo, ed accanto a chi quotidianamente rovista nei cassonetti delle immondizie per vivere. La politica sembra incapace di svolgere appieno il suo ruolo. Il partito socialista è stato stabilmente al governo dal 1997 al 2005, avendo la maggioranza in parlamento, ma personalismi e beghe intee ne hanno rallentato l’azione. Ciò che di più è mancato alla politica, è stata la capacità di ridare fiducia alla gente come politica in sé, sia a livello di proposta, sia a livello di serietà e correttezza del fare politica.

Pier Paolo Ambrosi

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