Qui e altrove

Prima di andare in casa altrui, andiamo a vedere cosa succede in casa nostra. In Italia, a un calo del numero delle persone colpite da Aids, corrisponde un aumento di problematiche sociali ad esso relazionate. Con alcuni luoghi comuni da sfatare.

S e la malattia e la morte sono esperienza comune di tutti gli esseri umani, il luogo in cui una persona nasce incide profondamente sulle diverse opportunità di vita dei vari individui. Il fatto di nascere e vivere in paesi dove sono possibili diagnosi, cura e prevenzione, pone alcuni in una posizione di enorme privilegio rispetto ad altri. Questo vale in particolare per l’infezione da Hiv/Aids, da cui non si può ancora guarire, ma che evidenzia le enormi differenze di quantità e qualità di vita che esistono tra persone che vivono in paesi ricchi ed altre che vivono in paesi poveri, disuguaglianze valutabili non solo in termini di cure farmacologiche.
I dati ufficiali foiti dall’Unaids, agenzia delle Nazioni Unite che si occupa del fenomeno Aids a livello mondiale, ci dicono che, a dicembre 2005, le persone che al mondo vivevano con l’infezione da Hiv erano in totale 40,3 milioni, di cui 25,2 milioni nell’Africa subsahariana. Il continente risulta il più colpito sia per numero di nuove infezioni che di morti, registrati nel corso del 2005 (vedi statistiche complete a pag. 35).
In Europa occidentale, le persone che convivono con l’infezione da Hiv sono circa 720 mila, mentre le nuove infezioni sono state calcolate, nel 2005, in circa 22 mila (erano 18 mila nel 2002); il numero dei morti accertati si aggirerebbe, invece, intorno ai 12.000.

Il caso italiano

In Italia, come in quasi tutti i paesi occidentali, è rallentata in questi anni l’incidenza di nuovi casi di Aids ed è cresciuta la speranza di vita di chi è sieropositivo. Ciò sembra aver generato nei più l’idea che l’infezione da Hiv non faccia più paura e che l’Aids sia stato sconfitto. Certamente, dopo il picco dei primi anni ’90, si è verificata una diminuzione del numero di nuovi casi di Aids conteggiati ogni anno, tanto che il numero di nuovi casi, diagnosticati nel 2004, è pressoché identico a quello riportato nel 1988; ma il numero delle persone che oggi vivono con l’Aids è almeno 10 volte superiore ad allora. Le cifre ufficiali ci dicono che, alla fine di dicembre 2004, le persone che in Italia vivevano con l’Aids erano 20.460, due terzi delle quali nel solo territorio di Lombardia, Lazio, Emilia Romagna, Toscana, Piemonte e Liguria.
Accanto al numero noto dei malati di Aids, resta il numero (in realtà solo ipotizzabile, perché al di fuori di ogni possibilità di conteggio), delle persone sieropositive. Si stima che nel nostro paese vivano attualmente tra le 110 e le 130 mila persone sieropositive. Questa cifra è comprensiva sia di chi è a conoscenza della propria situazione, ma anche di coloro che non sospettano minimamente di essere stati contagiati. Nel nostro paese, la metà circa dei casi delle persone che si pensa abbiano contratto un’infezione da Hiv non sono consapevoli della loro situazione, fino al momento in cui la malattia non si rende evidente attraverso i segni inequivocabili dell’Aids. Ciò significa che, grazie agli enormi passi avanti fatti in campo terapeutico, con cure che permettono una più lunga aspettativa di vita anche a chi ha già la malattia conclamata, ogni anno aumenta costantemente il numero di persone sieropositive o con l’Aids che vive accanto a noi.
La percezione collettiva è che, oggi, l’Aids in Italia sia un fenomeno in grado di autolimitarsi, che richiede meno impegno, meno servizi e meno risorse. Come conseguenza, sarebbe quindi urgente spostare attenzione, impegno e risorse su progetti riguardanti persone con Aids in altri continenti.
Attenzione, impegno, servizi e risorse devono certamente essere indirizzate a creare partnership significative con coloro che vivono con l’Aids in Africa e altrove, senza però dimenticare che anche le persone con Hiv/Aids che ci vivono accanto sono portatrici di bisogni complessi e rilevanti, sicuramente di tipo sanitario, ma anche – e molto spesso – di tipo sociale, psicologico e relazionale; persone che rischiano di vivere le loro situazioni in totale solitudine.
I farmaci allungano la vita, ma non sono in grado di restituirla alla sua integrità; la vita continua dopo la diagnosi di Aids, ma purtroppo, su questa si infrangono spesso tanti progetti di autonomia, di relazioni, di lavoro. La vita, che in qualche misura viene restituita, deve fare i conti con disabilità residue, con compromissioni fisiche e psichiche, con gli effetti collaterali delle terapie. Spesso, inoltre, va a scontrarsi con problematiche preesistenti la malattia, con dinamiche familiari e personali compromesse, che è difficile recuperare e che richiedono, spesso, il sostegno di strutture e operatori, espressi per lo più dal privato sociale.

Casi insospettabili

Nel tempo, sono variate sensibilmente le modalità di trasmissione: si è verificato un aumento percentuale delle infezioni attribuibili a un contagio per via sessuale (omosessuale ed eterosessuale) con una diminuzione delle altre modalità di trasmissione. La trasmissione attraverso rapporti eterosessuali (dovuta a rapporto con partner sieropositivo, dell’altro sesso) è stata la modalità di contagio più frequente nell’ultimo anno.
Anche se la fascia giovanile è sempre la più rappresentata (il 69,7% ha un’età compresa tra i 25 e i 39 anni), è aumentata la quota di persone con Aids al di sopra dei 40 e persino dei 60 anni. Oggi, in Italia, accanto ad un numero ridotto di morti per Aids e di pazienti terminali, i servizi dedicati a persone con Hiv/Aids si trovano ad affrontare problematiche socio-sanitarie sempre più complesse.
Queste sono portate sia da persone provenienti da percorsi con difficoltà di integrazione (uso di droghe, alcol o marginalità sociale), ma anche, sempre più spesso, da coloro che hanno contratto l’infezione attraverso rapporti eterosessuali.
Fra questi figurano soggetti più che cinquantenni, uomini e donne socialmente integrati e, nella maggior parte dei casi, ignari a proposito della loro sieropositività. Soggetti che svolgono abitualmente il ruolo di padre-madre e di marito-moglie all’interno delle loro famiglie, ma che, all’emergere della malattia, sperimentano la difficoltà di mantenere saldi tali legami familiari.
Sempre più spesso, in Italia, incontriamo persone straniere, provenienti da contesti geografici e culturali estremamente eterogenei; dette persone rimangono spesso prive di supporti familiari, ma anche amicali, per il problema avvertito di rivelare il loro stato di salute a parenti o connazionali. A ciò, si associa talvolta la condizione di irregolarità, che richiede l’attivazione di percorsi specifici per l’accompagnamento alla cura del malato e per il riconoscimento dei suoi diritti fondamentali.
Oggi più che mai, siamo chiamati non solo a «non discriminare», ma ad accogliere e sostenere chi è colpito dall’Aids (come da ogni altra forma di malattia cronica e inguaribile) accompagnando i malati e le loro famiglie: soggetti che, troppo spesso, non trovano luoghi di senso, conforto e ascolto in cui poter liberamente esprimere la propria sofferenza.
Non si tratta di promuovere soltanto gesti «profetici» o creare luoghi appositamente dedicati, quanto di aprirci alla quotidianità e alla ferialità dell’incontro con altre persone affette, in questo caso, da Hiv/Aids; persone che molto sovente vivono accanto a noi. Sarebbe un primo passo verso l’accoglienza «possibile» e sincera della persona colpita dal virus. Senza avere l’alibi di doversi occupare dei «lontani» e di non aver modo di badare ai «vicini».

Laura Rancilio

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