Ritorno disagiatoRiflessioni di un fidei donum rientrato in diocesi

L’evangelizzazione dell’Anaunia (Val di Non)
per opera di tre missionari venuti dalla Cappadocia (v sec.) è un esempio dello scambio del «dono della fede» tra le chiese dei primi secoli.
Tale tradizione è stata ripresa, dopo il Concilio Vaticano ii, con l’invio di preti «fidei donum» alle giovani chiese dell’Africa, Asia e America Latina, ma rischia di restare senza eredi.

Pochi mesi fa, ho visitato per la prima volta la basilica di Sanzeno in Val di Non. Ho sostato di fronte ai resti di martiri missionari del v secolo: Sisinio, Alessandro e Martirio e ne fui impressionato.

Nel silenzio della basilica ho tentato di ripercorrere mentalmente la loro vicenda umana e cristiana. Originari della Cappadocia, si misero in cammino verso Milano per approfondire la loro conoscenza nelle cose della fede presso il grande vescovo Ambrogio, che battezzò i due fratelli Martirio e Alessandro.

Su richiesta del vescovo Vigilio di Trento, Ambrogio gli inviò questi tre cristiani come un vero «dono della fede» (fidei donum), dopo aver ordinato Sisinio diacono, Martirio lettore e Alessandro accolito.

È un’antichissima storia di scambio di doni tra chiese, di missioni, di formazione di comunità cristiane e di martirio. Eppure essa ha tutte le caratteristiche di una storia attualissima. Così, questa visita alla basilica di Sanzeno mi è stata di stimolo, non solo a ripensare a me stesso come prete fidei donum, ma anche alle missioni affidate a dei preti la cui vocazione missionaria ha però una durata limitata di esercizio ed è vissuta come dono alla chiesa che riceve e alla chiesa che invia.

La mia vita «a incastro», durante la quale si sono alternati periodi di presenza «missionaria» in America Latina (10 anni) e in Tunisia (5 anni), con periodi prolungati nella mia diocesi di appartenenza a servizio di migranti e rom, nell’impegno di dialogo e prossimità con i musulmani, mi offre a tutt’oggi il pozzo da cui attingere per ripensare la missione.

Dalla Cappadocia alla Val di Non

Quando ci si sofferma a riflettere sulla quantità e tipo di relazioni che intercorrevano tra le società antiche, fino alla nascita degli stati nazionali, si resta sorpresi dalla mobilità che le caratterizzava. Basti pensare alla vicenda di sant’Agostino, di Antonio di Padova e di innumerevoli altre importantissime figure della chiesa e delle culture antiche. La libera circolazione delle persone non costituiva un problema per nessuno. Sisinio, Martirio e Alessandro in questo non si differenziavano dai loro contemporanei.

Nella vicenda dei missionari della Val di Non si combinano insieme, in maniera del tutto spontanea, la ricerca personale dei tre compagni, che li fa spostare da un capo all’altro dell’orbe mediterraneo; il mandato del vescovo Ambrogio; la richiesta del vescovo Vigilio e il fatto che tutto questo avvenga dentro un quadro ammirevole di libertà e santità di tutti i protagonisti.

La particolare vocazione fidei donum sia caratterizzata da questi tratti fondamentali e comuni. Nel prete fidei donum, a mio parere, è forte il sentimento della responsabilità e dell’appartenenza a una realtà universale, che va al di là delle limitazioni del territorio e altrettanto forte è il sentimento di una vocazione che è continua ricerca di una rinnovata fedeltà al vangelo: ricerca che non accetta di interrompersi mai nel corso di tutta la propria esistenza.

Questi due dati fondamentali che caratterizzano il cammino interiore della sua vita, sono poi riconosciuti e fatti oggetto di un «mandato» da parte di chi ha il compito di servire la chiesa e di assecondare la piena maturazione della vocazione cristiana di ciascuno all’interno di essa. La proposta del servizio si orienterà, poi, verso la chiesa che ne ha fatto richiesta.

Inseguire Ambrogio e rendersi disponibili alla richiesta di Vigilio: è la storia di tante vocazioni fidei donum.

Il sentimento di saturazione che a volte si prova nel servizio alla propria chiesa di origine può degenerare in frustrazioni e apatia; ma in alcuni, esso ha fatto nascere la ricerca e il desiderio di mettersi al servizio di altre esperienze di chiesa in Asia, Africa, America Latina; di conoscere altre figure di pastori capaci di condurre al cuore del vangelo e sperimentare altra libertà umana ed evangelica.

Bisogna comunque aggiungere che accanto a queste motivazioni più strettamente ecclesiali, nel nostro partire è stata determinante la convinzione che fra evangelizzazione e promozione umana esistesse un legame per natura sua inscindibile.

Vangelo e poveri costituirono la bussola che ci ha guidato in questa nostra ricerca, che qui, in casa nostra, si alimentava delle grandi prospettive pervenuteci dalla Pacem in terris e Populorum progressio; tali prospettive trovarono nella chiesa di arrivo non solo una conferma, ma un metodo, una spiritualità, un reale campo di azione e sperimentazione.

Se da qui partimmo con un entusiasmo un poco ideologico, non ci fu difficile trovare «nelle terre di Anaunia» una vita piena di relazioni, prospettive, azioni concrete, convinzioni condivise, motivazioni teologiche e spirituali, che contribuivano a darci la serena certezza di star vivendo una vita piena, in abbondanza.

Credo che le partenze maturate negli anni immediatamente successivi al Concilio erano particolarmente segnate da queste prospettive, che per certi versi le distinguevano un poco anche rispetto alle scelte per la missione maturate negli anni precedenti al Concilio.

Ho l’impressione che oggi si tende a sottovalutare l’aspetto della traiettoria personale che conduce i tre Cappadoci a mettersi sulla strada di Milano, attirati dalla figura di Ambrogio, alla ricerca di una maturazione di fede e di una vocazione cristiana mai conclusa.

C’è allora il rischio che «questo scambio di doni» si trasformi in un fatto burocratico; in un atto che prescinde dalla storia della persona e che perciò tende a non recepire le ragioni del «fecondo disagio» che ha condotto a questa scelta e gli stimoli culturali e spirituali della stagione nella quale essa si è espressa.

Ciò impedisce di capire anche la successione che, guardata dall’esterno, potrebbe sembrare incoerente, ma che in realtà si produce per dinamica intea rispetto a quei «punti di partenza» che hanno caratterizzato «gli inizi».

La missione in Anaunia

I tre Cappadoci che in origine probabilmente parlavano greco, che presumibilmente conversavano con Ambrogio in latino, sono inviati da Vigilio nella regione «barbara» di Anaunia (Val di Non) e restarvi per annunciare il vangelo.

Sarebbe sbagliato pensare che in Anaunia non esistessero lingue, culture e tradizioni religiose. Il «luogo sacro» dove successivamente si costruì lo splendido monastero di San Romedio ne è la prova.

Il primo problema che si pone al missionario è come vivere e come entrare in relazione con le persone del posto. Stile di vita e inculturazione, nella quale è compresa la conoscenza della lingua sono le due sfide primarie a cui si è chiamati a far fronte.

In una mia recente lettura, sono rimasto impressionato da un paragrafo dove si riferiva delle scelte di Giustino De Jacobis, santo missionario dell’Abissinia del secolo xix. «De Jacobis abbandonò definitivamente il proprio paese e la propria cultura… Liberatosi così da ogni legame straniero e ogni senso di superiorità, condivise ogni cosa con il suo popolo, secondo le locali condizioni di vita… A casa dormiva su un pagliericcio e, nei frequenti viaggi, su una pelle di vacca. Anche nei percorsi più lunghi camminava scalzo, passando la notte in una baracca o in una cavea. La cosa più importante, tuttavia, fu che De Jacobis non tentò mai di introdurre la liturgia latina, ma adattò il ge’etz e i riti etiopici» (Storia del cristianesimo in Africa, pag. 243-244).

Ho avuto la fortuna di conoscere un prete fidei donum bellunese, tuttora in servizio, che si è avvicinato molto a questo stile «de Jacobis». L’impatto che questa scelta suscita in tutti è molto forte e stimola in chi lo avvicina il desiderio di vivere con integralità il vangelo.

Inculturazione e durata

Il passaggio dal greco al latino e alla lingua locale deve essere costato non poco ai tre missionari martiri. Da sottolineare, inoltre, che tutta la loro avventura cristiana e missionaria fu vissuta in gruppo, cosa che senza dubbio li aiutò, prima di tutto, a crescere nella fede, poi, a svolgere il compito loro affidato e, infine, ad affrontare la suprema testimonianza del martirio.

Il processo d’inculturazione è stato descritto dai vescovi africani in questi termini: «L’inculturazione è Dio che scende ed entra nella vita, nei comportamenti morali e nella cultura degli uomini per liberarli dal peccato e introdurli nella sua vita e santità» (ottobre 2003).

Prima di partire per l’America Latina ci avevano detto che occorreva rinascere e darsi dei prolungati tempi di attesa. Ma rinascere in un contesto tunisino o ciadiano è indubbiamente un altro paio di maniche! I tempi sono diversi e le difficoltà molto più grandi.

C’è da domandarsi se e come l’esercizio ad tempus del compito missionario che caratterizza la scelta fidei donum possa essere adeguato a questa realtà. Un periodo di missione della durata di 10 anni che sembra garantito a tutti coloro che lo desiderano è sufficiente?

Con mia sorpresa ho potuto constatare che nelle circostanze attuali succede spesso che i preti fidei donum abbiano maggiore stabilità degli stessi membri delle congregazioni missionarie. Ma questo non aiuta molto a individuare prospettive per il futuro. Anzi, se si tiene conto che il missionario fidei donum è svincolato da tante necessità intee di una congregazione e che la sua scelta è fondata, oltre che su un «mandato», su una disponibilità vocazionale aperta, forse si può arrivare a intravedere una soluzione.

Tra i fidei donum ci sono persone che maturano se stesse e le loro scelte di vita in una progressiva identificazione con «un popolo di poveri» a cui sono inviati. È un processo, lento, ma inarrestabile, che dipende da avvenimenti e persone da cui si è coinvolti.

Mi domando: perché stoppare una storia personale e collettiva che acquista un sempre più profondo significato? Benché lontana, la vita di tali persone si carica di senso e diventa un segno anche per la chiesa che li ha inviati, purché questa relazione venga coltivata. In tali casi si dovrebbe tener conto dell’impulso vocazionale di queste persone, nella certezza che questo è utile all’una e all’altra chiesa.

Vivere tra due appartenenze ecclesiali

Se la scelta molto prolungata o definitiva ha valore di segno per le due chiese, il rientro nella chiesa di origine fa parte della particolare dinamica della vocazione fidei donum. A mio parere, è proprio il rientro che viene disatteso, sia nella riflessione che nelle scelte di collocazione dei preti in questione.

È innegabile che la scelta di partire, per essere ecclesiale, deve essere convalidata dal mandato; ma questo non può essere considerato come la ragione che la spiega e la motiva.

Una partenza «troppo obbediente» agli inizi e un ritorno senza problemi alla conclusione potrebbero essere il segno che ciò che si è vissuto con intensità e immensa generosità nel periodo passato ad extra abbia costituito una bella parentesi senza profondi collegamenti né con «il prima» né con «il dopo».

Il disagio del rientro non attende di essere riassorbito come una ferita che si rimargina con il tempo. Deve piuttosto diventare interrogazione su ciò e su come si vive qui. Anche se questo passaggio si gioca la particolare vocazione del fidei donum.

Al momento del rientro dovrebbe succedere che ci si interroga su tutto: sulla nostra teologia europea, che ha pretese di universalità, sulla nostra abitudine di contrabbandare i problemi dell’uomo occidentale come fossero «i problemi dell’uomo» tout court; sulle relazioni umane nella chiesa; sull’uso della libertà e l’esercizio della comune responsabilità all’interno di essa; sull’uso dei mezzi, denaro e strutture; sulla semplificazione della pastorale; sui grandi problemi che investono l’umanità e che sono vincolati al nostro «locale»: giustizia, povertà, informazione, uso delle risorse; sulle relazioni tra le religioni e tra le culture.

Si ritorna diversi; si deve ritornare diversi; si dovrebbe restare diversi, non per attaccamento nostalgico a ciò che abbiamo vissuto ad extra, ma per continuare a offrire quel «rotolo amaro» (Ez 2,9) che, qualora venisse ingoiato, diventerebbe dolce come il miele (Ez 3,3). Ho l’impressione che scelte un po’ troppo rassegnate potrebbero contribuire a sterilizzare il potenziale innovativo legato al «disagio del ritorno».

I mezzi dei fidei donum

L’ampia disponibilità di mezzi di cui normalmente gode un fidei donum costituisce un suo punto di forza, ma forse soprattutto il suo tallone d’Achille, se paragonati con quelli del clero locale.

Personalmente, soprattutto durante la mia prima esperienza missionaria ad extra, ne ho fatto molto uso all’unica condizione che i beni da essi prodotti non restassero di proprietà della chiesa, ma delle associazioni e organizzazioni popolari per le quali venivano usati.

Favorire le organizzazioni popolari rendendole autonome sotto il profilo economico mi sembrava una buona scelta. Altri miei amici, che a distanza di anni devo ammettere essere stati molto più bravi di me, hanno fatto delle scelte più radicali: si sono limitati a chiedere qualche cosa di essenziale e di piccola entità.

Nella mia personale esperienza non mi è mai accaduto di dovermi confrontare con la povertà di mezzi di cui, generalmente, patiscono i colleghi della chiesa locale. Come succede di frequente in Africa.

Uno stile di sobrietà oppure di povertà radicale bisogna saperselo costruire ogni giorno nella libertà e nella gioia. Un sobrio contento è sicuramente meglio che un povero scontento. Ho trovato che i poveri contenti sono generalmente dei creativi, che usufruiscono in maniera diversa da tutte le realtà della vita.

Mi diceva un prete povero: «Quando guardo la catena di montagne, nella limpidezza di un mattino di sole, mi dico: guarda che spettacolo gratuito di cui posso godere, sempre a mia disposizione».

La doppia appartenenza, inoltre, dovrebbe offrire al fidei donum validi criteri per aiutare la chiesa di origine a giudicare sull’opportunità o meno di certe opere che, viste esclusivamente con occhio occidentale, rischiano di essere considerate necessarie o comunque molto utili.

Non si tratta di fare i professionisti della profezia e, meno ancora, di sentirsi investiti di tale ruolo; ma semplicemente di mettere davanti a ogni altro criterio il diritto dei poveri ai beni della chiesa e di farlo con quella insistenza che di solito caratterizza le richieste del povero.

Abbiamo assolto al nostro compito?

Sembra che nei piani alti del potere ecclesiastico ci sia stata, nel passato, una certa preoccupazione nei confronti dei fidei donum che si reinseriscono in diocesi. Forse, oggi, i timori sono stati almeno in parte digeriti. Personalmente credo che, almeno per quanto ci riguarda, noi non abbiamo assolto totalmente al nostro compito nel farci portavoce nella profezia dei poveri del mondo.
In tutti questi anni, non abbiamo sentito il bisogno di trovarci in gruppo, per riflettere insieme su ciò che via via accadeva nella nostra chiesa. Non c’è stato neppure il tentativo, come è successo in qualche altra diocesi, di ritrovarci periodicamente insieme. La nostra inerzia di gruppo ha probabilmente rassicurato molto chi nutriva dei timori nei nostri confronti. Credo che abbia giocato non poco anche la differenza tra il servizio alla chiesa latinoamericana e quella africana.
Abbiamo saputo trasferire solo parzialmente quel clima di libertà e creatività all’interno del vivere ecclesiale, che hanno assicurato quel sentimento di pienezza e autorealizzazione sperimentato quando eravamo in missione. Ora in sede di bilancio, mi pare di dover concludere che ci si trova di fronte ad un’eredità un po’ dilapidata e quasi inesistente per le giovani generazioni di preti.Abbiamo qualche medaglia sul petto, magari di dubbia lega, ma siamo rimasti senza eredi, anche per colpa nostra.

Giuliano Vallotto

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