Stati Uniti versus Venezuela: il predicatore Pat Robertson

Da tempo abbiamo imparato a non stupirci più di nulla. Eppure, sentire un
incitamento al delitto in diretta televisiva è un fatto che non può (o
non dovrebbe) lasciare indifferenti. È avvenuto lo scorso 23 agosto ed
ha avuto come protagonista il predicatore televisivo Pat Robertson,
fondatore del gruppo evangelico d’ultradestra «Coalizione cristiana»,
nonché ex candidato presidenziale, molto vicino a George Bush. Dalle
frequenze del canale televisivo statunitense Christian Broadcasting
Network (Cbn), nel corso del suo spettacolo «The 700 Club», il
reverendo si è così espresso: «Chávez ha distrutto l’economia
venezuelana. Ed è diventato una testa di ponte per l’infiltrazione
comunista e dell’estremismo islamico in tutto il continente. (…) Noi
abbiamo la capacità per eliminarlo e credo che sia giunto il momento
per esercitarla. Non abbiamo bisogno di intraprendere un’altra guerra
da 200 milioni di dollari per sbarazzarsi di questo pericoloso
dittatore. È molto più facile che qualche agente segreto faccia il
lavoro e la faccia finita con lui».

Dopo queste incredibili parole (pronunciate – vale la pena di ricordarlo –
nel corso di un
programma televisivo), la Casa Bianca ha preso le distanze, ma non ha
espresso un’esplicita condanna nei confronti del reverendo Robertson.
Sull’argomento è intervenuto, qualche settimana dopo, lo stesso Hugo
Chávez.
Durante l’assemblea plenaria per il sessantesimo
anniversario delle Nazioni Unite, lo scorso 15 settembre, il presidente
venezuelano ha chiuso così il suo (applauditissimo) intervento:
«L’unico paese dove una persona si può permettere il lusso di chiedere
l’assassinio di un capo di stato sono gli Stati Uniti. Come è avvenuto
da poco con un reverendo di nome Pat Robertson, molto amico della Casa
Bianca. Costui ha domandato pubblicamente, davanti al mondo, il mio
assassinio. E se ne va libero. Delitto internazionale, terrorismo
internazionale». Possiamo dargli torto?

Paolo Moiola

 

Paolo Moiola




008-Così sta scritto – Nato da Donna (8)

"NATO DA DONNA, NATO SOTTO LA LEGGE"
FAVOLA O "MISTERO"?

C’era una volta…
Tutto è già pronto sul tavolo dei pubblicitari per celebrare il natale 2005: panettoni, alcornol, telefonini, babbi-natale, luminarie, zampogne e poi chi più superfluo ha più superfluo metta!… E intanto quel bimbo, occasione di tanto scialo, continua a morire di fame, freddo, sete in tutto il mondo.
C’era una volta… Ognuno aggiunga di suo il personaggio che vuole: Cappuccetto rosso, Alice, Biancaneve; oppure anche il presepio, Gesù bambino tra il bue e l’asinello, le oche giulive e i pastori, le massaie e la neve di cotone; oppure la Madonna stralunata davanti al Figlio nudo «al freddo e al gelo»; o anche san Giuseppe a mani giunte, beato e contento che il Figlio di cui è custode nasca all’aria buona dell’aperta campagna. Tutto fa tenerezza; tutto è utile per addormentare bambini e adulti con overdose di ninne-nanne a suon di zampogne.
Se a natale bisogna essere buoni perché lo esige il galateo e la nostra «civiltà occidentale», che gli atei pii vorrebbero difendere con lo sbarramento di fuoco della religione cristiana, ebbene, quest’anno voglio cantare fuori dal coro e voglio fare il cattivo, perché per fedeltà al natale e per rispetto della fede cristiana abolirei il natale con annessi e connessi.

In principio… il Mistero…
Nel NT per descrivere il natale non trovo parole più crude e austere di quelle di Paolo ai Galati (4,4): «Quando poi giunse la pienezza del tempo, Dio mandò fuori (inviò) il Figlio suo, fatto (nato) da donna, fatto sotto la legge (sottomesso alla legge)» (trad. letterale).
«Quando giunse la pienezza/maturità del tempo». Significa che il tempo precedente era immaturo e incompleto, vuoto perché mancava il Figlio. Ora il tempo è pronto e Dio/Padre-Madre si distacca dal suo unigenito (mandò fuori) per dare un senso al tempo vuoto degli uomini, per renderlo maturo a ricevere una nuova umanità. Natale è il tempo di Dio perché «accorcia» l’eternità di Dio: «Colui che i cieli dei cieli non possono contenere» (1Re 8,27; 2Cr 2,5; 6,18) lascia la sua eternità ed entra nel tempo dell’uomo e ne scandisce il ritmo perché è tempo che l’uomo rientri nell’eternità di Dio (cf Fil 2,7).
A natale Dio si fa uomo perché questi possa riprendersi la dignità della sua immagine perduta nel giardino di Eden da Adam ed Eva, scacciati dal paradiso e diventati opachi e mortali. Il loro vestito di luce, cioè la loro pelle luminosa, là divenne pelle oscura e opaca, pelle di morte. Ora a natale, Adam ed Eva riprendono di nuovo la luminosità dello spirito e rientrano nella dignità di figli, accompagnati dal Figlio venuto a riscattarli: riaccendono la luce della loro anima e della loro nuova pelle: «Il Lògos/Verbo/Parola carne fu fatto». Adam ed Eva e i loro discendenti, uomini e donne di ogni tempo e geografia, ricevono «il potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,14.12).
È il Mistero! La sconvolgente rivelazione del «natale del Signore».

Il Dio accorciato…
Nella Regula Bullata del 1223, Francesco d’Assisi dice che «il Signore sulla terra ha fatto il verbum abbreviatum» (cap. IX; cf Rom 9,28), intendendo che tutta la storia della salvezza è stata abbreviata, accorciata nella persona del Verbo Incaato. Dio si accorcia nelle misure di un bambino per farsi capire e comprendere dall’umanità: un bambino è capace di smontare anche l’animo più restio perché è libero, senza difese, senza pregiudizi, senza maschere, immediato e affettivo. Chi ha paura di un bambino?
Dire che Dio si fa bambino significa affermare che l’impossibile è possibile. Significa in un certo senso negare la divinità di Dio stesso perché fa coincidere due contrari: l’umano e il divino, il tempo e l’eterno, l’immanente e il trascendente. Dio si accorcia! Ecco lo scandalo, simile allo scandalo della croce.
Dal primo natale in avanti, nessuno può più fare a meno di contare il tempo con la misura dell’eternità, perché l’eternità stessa di Dio è contaminata per sempre dal tempo dell’uomo. Nessuno può più incontrare Dio o cercarlo o invocarlo senza passare attraverso la sua umanità, la sua corporalità e la sua fisicità. Nessuna spiritualità è più possibile al di fuori dell’incarnazione, cioè dell’incontro «fisico» con Dio.
Gli spiritualisti che mettono tra parentesi l’umanità di Dio, credendo di difendere la sua trascendenza, non si rendono conto che parlano di un altro dio, di un idolo, una caricatura di Dio. Nessuno infatti può accedere più a Dio senza passare obbligatoriamente attraverso la pienezza della umanità del Lògos-carne: Uomo-Dio «nato da donna, nato sotto la legge».
Natale: Dio incarnato! Nemmeno Dio può più fare a meno dell’umanità e della carne mortale.
Questo è il motivo per cui non ci può più essere «rivelazione» in senso stretto: ora possiamo vedere e toccare la «carne di Dio», perché Dio, l’inesprimibile, diventa «carnale»: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo» (1Gv 1,1-3).
Le parole del prologo della prima lettera di Giovanni contengono due ossimori (=opposti) travolgenti: vedere il Verbo e toccare il Verbo. Come è possibile vedere e toccare la Parola/Lògos? Natale è questo ossimoro: Dio veduto e toccato. Non è forse quello che avviene anche nell’eucaristia dove vediamo la Parola che diventa il Pane che mangiamo?

La donna e la Legge
Il ventre della donna è la tenda della nuova umanità perché è la grotta del natale di Dio. Non si è uomini senza una donna e non c’è Dio incarnato senza la donna: «Fatto da donna»! Il Concilio di Efeso (431) ne ebbe tanta consapevolezza che i 200 padri presenti proclamarono all’unanimità Maria, la donna, Theotòkos/Madre di Dio. Solo Dante riesce a esprimee la profondità, ma anche lui deve ricorrere ad altri 3 ossimori stridenti e per questo sono poesia pura: «Vergine-Madre, figlia-del-tuo-Figlio, umile-ed-alta più che creatura» (Par. xxxiv, 1-2).
San Paolo ha coscienza di quello che afferma, perché l’espressione «fatto da donna» è una bestemmia di fronte alla religione giudaica, un obbrobrio per la filosofia greca! Dio l’Onnipotente, il Creatore, il Liberatore, il Salvatore, il Padre d’Israele che si accorcia così tanto fino a diventare sarx/carne di fragilità nell’impuro ventre di una donna.
L’ebreo maschio, infatti, ogni mattina prega: «Benedetto sei tu, Signore nostro Dio e re dell’universo, che non mi hai fatto nascere pagano/idolatra… che non mi hai fatto nascere schiavo… che non mi hai fatto nascere donna» (Ufficio del mattino, Barùk). Essere donna, secondo la legge e la tradizione è paragonabile all’idolatria e al paganesimo, cioè all’essere spregevole davanti a Dio.
Per questo la donna, consapevole della sua condizione di emarginazione e non riponendo alcuna fiducia nell’uomo, perché disprezzata anche da coloro che l’amano, a differenza dell’arroganza dell’uomo, si abbandona totalmente alla volontà del Signore, senza pretendere di avee spiegazione. Anche lei infatti ogni mattina prega come il suo uomo, ma con una piccola variante: «Benedetto sei tu, Signore… che non mi hai fatto pagana/idolatra… schiava… e mi hai fatto nascere secondo la tua volontà».
Nella donna si compie la Legge, perché la volontà dell’Onnipotente si assume la forma del ventre di una donna: «Ecco, vengo! Nel rotolo del libro sta scritto per me di fare la tua volontà. Sì, mio Dio, lo voglio: la tua Toràh/Legge (è/sta) in mezzo alle mie viscere» (Sal 40/39,8-9).

Quando giunse la pienezza del tempo
Una donna ebrea, una ragazza appena adolescente, di fronte al mistero di un Dio che la sceglie Arca della Nuova Alleanza, lei che si nutre della preghiera dei salmi, si lascia trasportare dal suo cuore e si abbandona alla volontà del Re dell’universo: «Oh, sì! Ecco (mi! Sono) la serva del Signore: avvenga di me secondo la sua Parola» (Lc 1,38). Circa 35 anni dopo, il Figlio farà sue le parole della Madre, abbandonandosi alla morte per amore: «Padre… si compia la tua volontà» (Mt 26,42).
Celebrare il natale è entrare in questa volontà fino a identificarsi con essa: carne di Dio e sangue dell’uomo.
È natale! Bisogna spegnere le luci che distraggono dal silenzio che avvolge tutte le cose nella notte di Dio, per ascoltare la Parola che vagisce dal ventre di donna come una spada affilata (Sap 18,14-16; cf Eb 4, 12) che porta all’umanità il vangelo della fine dell’esilio perché Dio riprende possesso della tenda carnale di un grembo di donna: la tenda nuova del convegno dove ora Adam ed Eva possono riposare in pace!

La favola
Il natale-favola è comodo e liberante, perché non tocca le corde vitali della vita, ma solo la superficie del sentimento, che oggi c’è e domani scompare come l’erba del campo (Mt 6,30). Il natale-mistero, al contrario, fa paura sia ai credenti che ai pastori, i quali si gingillano a costruire scenari di poetici presepi, cullati dalle note edulcorate di nenie insulse e bolse, e finiscono per annegare in un mare di sentimentalismo buonista da un giorno e lasciano che il mistero del Figlio-di-Dio-e-Figlio-di Donna si disperda per l’aria, sommerso da una montagna di convenevoli formali che anestetizzano l’anima davanti allo scandalo della nascita di Dio.
Si consuma il rito del natale civile, del natale senza Dio, ridotto a infantile rappresentazione, a cui nemmeno i bambini di oggi credono più. Dormi, dormi, Bambin… ninna nanna Gesù! A natale bisogna essere buoni e ricordarsi dei poveri! A natale anche i vescovi visitano le mense dei poveri. A natale! Peccato che ogni anno è di 365 giorni e 366 quelli bisestili. A natale il mistero del natale è sostituito dall’angoscia del regalo che bisogna fare per obbligo e convenienza: chi fa il regalo, infatti, aspetta anche un regalo a sua volta.

A natale… Dio è altrove!
A natale Dio non è in questa inciviltà occidentale, che nega ai poveri il diritto alla sopravvivenza, contravvenendo alle sue stesse leggi; non è nell’illegalità diffusa per salvaguardare privilegi individuali a danno del bene comune; non è nella religione civile senza il Bambino nato all’ombra della croce; non è nelle alleanze politiche tra lobby di potere; non è nelle cattedrali sfoggianti abiti sfarzosi e calici d’argento; non è nello scintillio dei negozi che sostituiscono la grotta di Betlemme; non è… dove lo abbiamo esiliato: nel natale, festa della finzione elevata a sistema. Sì, perché nel natale pagano dei cristiani e nel natale pseudo-cristiano dei pagani tutto è finzione. Frivolezza di favola.

È Natale! Un Bambino è nato per noi!
Gesù Bambino ritorna puntuale all’appuntamento della storia, nella pienezza del suo tempo che è la nostra eternità. Al contrario, noi ci perdiamo dietro la stupidità e la superficialità alla ricerca di una identità cristiana perduta da noi stessi e che ora vogliamo contrabbandare come identità culturale di civiltà. Siamo italiani perché cattolici, siamo cattolici perché italiani… Natale vuol dire che ogni identità parziale è annullata perché ora Dio è «tutto in tutti» (1Cor 12,6).

A natale bisogna sapere e avere coscienza che il Bambino che chiede di nascere…
• è un extracomunitario, perché è un palestinese di Nazaret;
• è un emigrato in Egitto, perché perseguitato politico e religioso;
• è vittima della Bossi-Fini, perché senza permesso di soggiorno;
• è ebreo di nascita e ricercato per essere eliminato;
• è palestinese di nazionalità, perché figlio di quella terra;
• è un fuorilegge, perché è un clandestino e ricercato dalla polizia;
• è un poco di buono, perché figlio di una ragazza-madre, appena adolescente;
• è oppositore del potere religioso e politico e finisce morto ammazzato;
• è povero dalla parte dei poveri e deve essere eliminato;
• è un laico credente atipico e controcorrente;
• è poco raccomandabile perché frequenta lebbrosi e prostitute;
• è Dio perché i suoi pensieri non sono i pensieri dei benpensanti (Is 55,8).

Quel Bimbo chiede a uomini e donne di rinascere donne e uomini nuovi, per essere abitanti vivi e seri della polis e della ekklesìa. Donne e uomini liberi, pronti a compromettersi sempre per il diritto di chiunque subisce un sopruso o vede non riconosciuto un suo diritto.
Quel Bimbo è solo un Bimbo, cioè un progetto sul futuro, una ipoteca di vita e una speranza proiettata sul domani, nonostante… tutto; e «finché nasce un bambino è segno che Dio non si è ancora stancato degli uomini» (Tagore), perché egli stesso continua a nascere per noi, a natale

Paolo Farinella

Paolo Farinella




TARGET 2015 Obiettivi di sviluppo del Millennio (5)

LA MORTE NELLA VITA

Ogni anno mezzo milione di donne muore durante la gravidanza o il parto.

Molte vite potrebbero essere salvate, semplicemente dando la possibilità a tutte le mamme di partorire in un centro sanitario dove sia possibile intervenire sulle eventuali complicanze del parto. O anche solo di essere assistite durante la gravidanza e il parto da un medico o da un’ostetrica. E invece mezzo milione di donne ogni anno muore perché non ha potuto ricevere le cure necessarie: una ogni minuto. Molti milioni di donne portano con loro per tutta la vita le conseguenze di gravidanze e parti seguiti poco o non seguiti del tutto: disturbi, malattie, invalidità con cui fare i conti negli anni a venire.
Il 5° Obiettivo di sviluppo del millennio si è posto il traguardo di ridurre di tre quarti la mortalità matea entro il 2015 (a partire dai dati del 1990).
Squilibrio poveri-ricchi
Ancora una volta, tutte le donne che muoiono dando la vita appartengono praticamente ai paesi in via di sviluppo: il 99%.
Una donna che vive nell’Africa subsahariana, nel corso della sua vita ha una probabilità su 16 di morire quando aspetta un figlio o lo dà alla luce: nei paesi sviluppati una su 2.800; in Sierra Leone o in Afghanistan una donna ogni 6 muore per complicazioni collegate a gravidanza o parto; in India 136 mila ogni anno. Malawi, Angola, Niger, Tanzania, Rwanda, Mali, Somalia sono tutti paesi dove la mortalità matea è alta. Ma il quadro potrebbe essere anche peggiore di quanto registrato, perché non sono disponibili i dati relativi a 62 nazioni, che da sole coprono il 27% delle nascite mondiali.
Inoltre, lo squilibrio non è solo fra uno stato e l’altro, bensì anche all’interno dello stesso paese, fra popolazione agiata e in miseria: in Etiopia, una futura mamma ricca ha una probabilità 28 volte maggiore di una povera di essere seguita da personale qualificato durante il parto.
Questi numeri evidenziano un enorme squilibrio, ma sottolineano anche la possibilità di cambiare le cose, dando a tutti la disponibilità di personale qualificato, strumenti e farmaci. Si intrecciano dunque i diversi obiettivi del millennio, si riafferma la concatenazione per la quale il raggiungimento di uno porta con sé il miglioramento di un altro: dalla povertà all’istruzione, dalle pari opportunità alla mortalità infantile e alle malattie infettive come l’Aids, il quinto obiettivo porta con sé tutti i precedenti.

AVERE UN MEDICO ACCANTO
Per la mortalità matea, i dati disponibili nel 2005 indicano che finora i miglioramenti si sono avuti solo nei paesi dove vi era già un basso livello di mortalità. In quelli invece in cui i numeri erano più alti la situazione non è migliorata o è addirittura peggiorata. Negli stati più poveri solo 28 partorienti su 100 vengono ancora seguite da personale qualificato nel momento che dovrebbe essere fra i più belli della loro vita e che troppo spesso diventa quello della loro morte.
Punti fondamentali per cambiare i dati di mortalità sono proprio l’assistenza professionale e sanitaria adeguata durante la gravidanza e durante il parto, quell’assistenza che viene data per scontata nei paesi industrializzati e che non lo è affatto in quelli in via di sviluppo.
La prevenzione della mortalità matea passa attraverso un rapido accesso alle cure ostetriche di emergenza, alla possibilità di un trattamento adeguato di emorragie, infezioni, ipertensione e travaglio complicato.
In Burkina Faso, alcuni ricercatori hanno segnalato sulla rivista medica British Medical Joual (Bmj) che, su 34 donne decedute durante il parto, 10 erano morte per emorragia, 7 per sepsi (infezione diffusa) e 4 per travaglio prolungato: morti evitabili, con un’assistenza adeguata.
In Mozambico e in Zimbabwe, questioni burocratiche e organizzative non rendono disponibili per le gravide farmaci utili e a basso costo, come il magnesio solfato, efficace nel trattamento e nella prevenzione dell’eclampsia (convulsioni legate a un marcato aumento della pressione), per la quale muoiono ogni anno nel mondo oltre 60 mila donne, il 99% delle quali nei paesi a medio e basso reddito.
Per l’Organizzazione mondiale della sanità ci sono stati miglioramenti nell’assistenza medica od ostetrica; ma la disponibilità di interventi che possono salvare la vita, come antibiotici, chirurgia, trasporto in centri medici attrezzati, manca ancora a molte donne, soprattutto nelle zone rurali, lontano dalle città.
In Myanmar (ex Birmania), le donne della minoranza karen verso la fine della gravidanza cercano di arrivare in Thailandia e, in prossimità della data del parto, si dedicano addirittura alla microcriminalità: tutto questo per essere arrestate ed entrare in travaglio nelle carceri thailandesi, dove sanno che ci saranno infermiere al loro fianco e che verranno portate in ospedale al momento del parto. Scelgono quindi la prigione per essere seguite e per nutrire per qualche mese i loro figli: nel loro paese non avrebbero questa possibilità, in quanto minoranza senza cittadinanza birmana.

DIFFICILE INTERVENTO NEL RISPETTO DELLA VITA 
Gli interventi sulla mortalità matea, rispetto ad altri Obiettivi del millennio, sollevano anche polemiche e questioni etiche sull’aspetto della «prevenzione» delle gravidanze, dell’offerta di una consulenza appropriata e rispettosa di idee, culture, visioni della famiglia nei paesi in via di sviluppo.
Per ridurre la mortalità matea e salvaguardare la salute della donna, si parla infatti anche di misure preventive. Ad esempio: l’aumento dell’età dei matrimoni e della prima gravidanza, adeguati intervalli di tempo fra un figlio e l’altro, prevenzione delle gravidanze non volute ed eliminazione degli aborti in condizioni non sicure. Azioni che, si legge sui documenti del Dipartimento per lo sviluppo internazionale (Dfid) britannico, potrebbero evitare un terzo delle morti matee ed essere importanti per 1 miliardo e 300 mila giovani che si affacciano all’età riproduttiva.
Sempre sul Dfid si legge che la mateità rappresenta la causa principale di morte fra i 15 e i 19 anni nei paesi in via di sviluppo, che ogni minuto 190 donne si trovano di fronte a una gravidanza non voluta o non pianificata e ogni anno circa 70 mila muoiono per complicanze di un aborto non sicuro.
Ma sono temi che aprono il capitolo sulla difficoltà di integrare con correttezza interventi medici di salute in una cultura, in un modo di vivere, e anche di intendere la vita, differente. Sono interventi che sollevano polemiche sulla concentrazione degli sforzi nella prevenzione delle gravidanze più che nella cura delle stesse.
L’argomento è stato per esempio affrontato dalla giornalista Eugenia Roccella, nel contesto più globale dell’azione dell’Onu e dell’Unione europea nei confronti della donna, salute riproduttiva e controllo delle nascite nei paesi in via di sviluppo. Roccella riporta che, secondo la Società di ostetricia e ginecologia del Canada, in base ai dati di rapporti inteazionali, gli obiettivi di riduzione del numero di morti conseguenti al parto non vengono raggiunti per la mancanza non di conoscenze e strumenti, bensì dell’investimento di risorse per permettere l’accesso alle cure ostetriche per le complicanze.
«Il problema consisterebbe quindi nella scarsa volontà internazionale di affrontare questo aspetto della salute riproduttiva, nonostante sia il più drammatico e urgente, sia per il numero dei decessi femminili che per le conseguenze sui bambini» scrive Roccella. E ancora: «I dati confermano come i cosiddetti servizi alla salute riproduttiva siano rivolti moltissimo alla prevenzione delle gravidanze indesiderate, ma pochissimo alle cure delle gravidanze desiderate. Il modo principale con cui si intende ridurre la mortalità da parto è riducendo, semplicemente, il numero di parti, e aumentando quello di aborti».
Ciò che va bene in un paese può non inserirsi positivamente in un altro e ogni intervento richiede la conoscenza della realtà cui è rivolto. Scrive sempre sul Bmj Zulfiqar A. Bhutta, del Dipartimento di pediatria e salute infantile dell’Agha Khan University (Karachi, Pakistan): «La mancata comprensione di importanti aspetti socioculturali nell’affrontare la salute e la malattia può ostacolare programmi sanitari, soprattutto in quelle società dove la salute e i diritti di donne e bambini sono strettamente interconnessi».

Mete da raggiungere

1. Povertà e fame: dimezzare rispetto al 1990 la povertà estrema e la fame.
2. Istruzione: garantire a tutti un livello di istruzione primaria.
3. Parità dei sessi: promuovere l’uguaglianza tra maschi e femmine; dare maggiore autonomia e poteri alle donne.
4. Bambini: ridurre di due terzi rispetto al 1990 la mortalità infantile.
5. Mamme: migliorare la salute matea, inclusa la riduzione di tre quarti rispetto al 1990 della mortalità in gravidanza e da parto.
6. Malattie: prevenire la diffusione di HIV/AIDS, malaria e altre malattie.
7. Ambiente: assicurare uno sviluppo sostenibile.
8. Scienza, tecnologia, progresso: sviluppare una collaborazione globale per lo sviluppo.

OBIETTIVO N°5
Migliorare la salute matea
e ridurre la mortalità in gravidanza e da parto.

In tutto il mondo oltre 50 milioni di donne soffrono di disturbi, anche gravi, correlati alla gravidanza o al parto: mezzo milione muore nel dare la vita. La maggior parte di questi decessi si verifica in Asia, ma sono le donne africane ad avere il rischio più alto di morire durante la gravidanza o il parto: nell’Africa Sub Sahariana il rischio di morire di parto nel corso della propria vita è di uno a 16, in Europa uno a 2.000, nel Nord America uno a 3.500. Il 5° Obiettivo del millennio si propone di ridurre di tre quarti, fra il 1990 e il 2015, i numeri della mortalità matea.

Valeria Confalonieri




PRETI D’AMERICA Alla scoperta di idee ed esistenze (1)

Venezuela

IN PRIMA LINEA (E SENZA GRADI)

Il Venezuela è oggi il paese latinoamericano
di cui più si parla. Inviso agli Stati Uniti, è guidato
da Hugo Chávez Frias, presidente controverso ma carismatico e vulcanico. I vertici della chiesa cattolica venezuelana non hanno mai guardato a lui con simpatia, fino ad appoggiare il fallito golpe
di stato dell’aprile 2002.
Di questo e di altro abbiamo parlato con Bruno Renaud, sacerdote belga da 40 anni a Caracas.

Caracas. Pulizia, modeità ed efficienza sono caratteristiche del metro della capitale venezuelana e per questo i suoi abitanti ne vanno orgogliosi. Nei sotterranei della metropolitana di Caracas, le differenze sociali sembrano scomparire. Soltanto guardando con attenzione la gente che sale e scende è possibile intuire quello che ci aspetterà in superficie.
Mentre le stazioni si susseguono, sfogliamo il materiale che abbiamo tra le mani. Come la pagina delle opinioni di Ultimas Noticias (1), il più diffuso quotidiano del paese: «La chiesa cattolica è giustamente sensibile a quello che si chiama “cesaropapismo”. Essa dice all’autorità politica: “Fate attenzione a non intromettervi nei nostri ambiti. Attenzione a non pestarci i piedi. Alla chiesa non mancano motivi, anche storici. Tuttavia, i vertici cattolici non sono altrettanto sensibili davanti al pericolo contrario…».
Altamira, Parque del Este, Los Dos Caminos, Los Contijos, La Califoia, Petare: siamo arrivati.
Uscire dalla stazione del metro alle strade di Petare, è come passare dalle sale di un museo d’arte modea ad uno stadio pieno di tifosi: è una bolgia di gente e di buhoneros, i venditori ambulanti che l’opposizione prende a simbolo del disordine in cui, a suo dire, sarebbe caduto il Venezuela di Hugo Chávez Frias.
Petare dista pochi minuti di metro dalla Caracas bianca ed anti-chavista, eppure sembra di piombare in un altro mondo. Perché Petare è un quartiere (parroquia) popolare, dove il bianco (nel senso di persona dalla pelle bianca) è un’eccezione e i supermercati a prezzi ribassati (i mercal) sono certamente più diffusi dei centri commerciali in stile gringo, propri dei quartieri da cui proveniamo.
Che aspetto avrà il nostro uomo? Al telefono non abbiamo perso tempo in descrizioni precise. Ci mettiamo in attesa nel punto convenuto, mentre un uomo accanto a noi chiama a gran voce compratori per i suoi biglietti della lotteria.
Vediamo un uomo, blu-jeans e camicia azzurrina, che sembra cercare qualcuno. Padre Bruno Renaud? «Sì, sono io». Ci siamo trovati finalmente.
Ha capelli corti e chiari, occhi azzurri su un viso affilato. «Seguitemi», ci dice. È una parola. Filiforme, padre Bruno si muove tra bancarelle e venditori con l’agilità di una gazzella. Facciamo fatica a stargli dietro. Dopo qualche minuto, passato il caos del mercato, si ferma di scatto su una stradina secondaria. «Ecco, qui una volta mi hanno assalito. Erano due giovani con la pistola in pugno. “Dacci la moto”, mi hanno intimato. “No, a me questa moto serve”, ho risposto. Alla fine, ho dovuto dargliela e ho ricominciato a muovermi a piedi».
Giungiamo alla sua abitazione: una piccola casa ad un piano nel cuore della Petare coloniale (la fondazione del barrio è fatta risalire al 17 febbraio 1621). Aperta una porta in ferro, si arriva davanti ad una scala estea. «Facciamo piano», ci dice il padre, indicando una persona che sta dormendo nel sottoscala. Saliamo al piano ed entriamo in una stanza che funge da studio: libri, fax, computer, raccoglitori, una scrivania.
È qui che padre Bruno Renaud scrive editoriali come quelli letti nel metro. La sua biografia racconta di un sacerdote di origine belga da 40 anni in Venezuela e per la precisione a Petare. Nel 1972 fu sospeso a divinis e fu reintegrato nella chiesa soltanto 12 anni dopo, nel 1984.
Già a nostro agio, gli chiediamo se veste ancora i panni del sacerdote disobbediente. «No – risponde con un sorriso -, sono totalmente obbediente, anche se non nego di avere idee poco conformi e scarsamente tollerate».
Padre Bruno deve aver trovato un modus vivendi considerato che, oltre a fare il sacerdote di frontiera (perché il barrio di Petare è una frontiera), scrive molto ed insegna teologia.
Teologia che, in America Latina, ha spesso significato «teologia della liberazione», anche se il tema è quasi scomparso dal dibattito ufficiale…
«Negli anni ’80 e ’90 la teologia della liberazione sembrava il drappo rosso da agitare davanti alle coa del toro. Dove il toro era la chiesa che si inferociva. Attualmente quella teologia appare molto spenta. Anche per questo preferisco non utilizzare la parola liberazione, perché sono convinto che ci ha portato sfortuna e che può alimentare conflitti interni alla chiesa.
Quello che è certo è che le comunità cattoliche, sviluppatesi qui a Caracas o nel paese, hanno lo stesso stile, cioè un cristianesimo innanzitutto sociale e non individuale. Quando ho l’occasione di stare in questi circoli dove si commenta la parola di Dio, lascio che siano gli altri a parlare: la gente è abituata al fatto che non sia il sacerdote quello che prende la parola. Si sentono liberi di commentare, perché non è un commento scientifico, ma parte dall’esperienza di tutti i giorni, dalla vita quotidiana.
Dal punto di vista pratico, si cerca la liberazione con l’azione. Per esempio, nei confronti delle donne sole o incinte o che hanno molti bambini. Ecco, direi che al termine “liberazione” noi diamo il significato di “mutua solidarietà”».

LA MESSA ALLA TELEVISIONE (PUBBLICA)
Ogni domenica la televisione pubblica Venezolana de television (nota come Canale 8) trasmette in diretta la messa. Lo stesso presidente Chávez non perde occasione per citare le scritture e per ricordare le radici cattoliche del popolo venezuelano. Insomma, in Venezuela la fede religiosa gioca un ruolo importante. Eppure, la chiesa cattolica di questo paese è stata, fin dall’inizio, contro Hugo Chávez Frias e la cosiddetta rivoluzione bolivariana. A tal punto che, durante l’effimero golpe dell’aprile 2002, il cardinale José Ignacio Velazco, arcivescovo di Caracas (oggi scomparso), fu in prima fila accanto a Pedro Carmona, primo ministro dell’estemporaneo governo golpista.
Pochissimi vescovi venezuelani appoggiano Chávez, mentre diversa è la situazione tra i sacerdoti. Padre Bruno è uno di essi.
«Mi oppongo – spiega senza tanti giri di parole – al fatto che l’episcopato venezuelano, in forma cosciente, molto cosciente, continui ad offrire la sua solidarietà sociale, politica ed economica a quei potenti che il governo di Chávez ha messo sulla difensiva. Mi oppongo inoltre al fatto che la chiesa, che dovrebbe portare la parola di Dio, metta davanti la sua presunta libertà di attore politico o il suo protagonismo sociale per difendere questa gente e criticare un governo legittimo.
Per tutto questo alcuni sacerdoti come me hanno manifestato posizioni diverse alla televisione e sui giornali. E ciò non per una banale voglia di apparire, ma per la convinzione che, di fronte al silenzio di una parte della chiesa, è necessario far sentire un’altra voce e far conoscere un’altra opzione».
In Aló Presidente, la sua trasmissione della domenica, il presidente Chávez si presenta spesso con il crocefisso sulla scrivania. E bacchetta a suo modo i vertici della chiesa venezuelana che, a suo dire, hanno dimenticato «l’opzione preferenziale per i poveri».
Spiega padre Bruno: «Non ci si deve stupire. Da tempo, la gerarchia episcopale confonde il suo sano e legittimo diritto di critica profetica con una difesa ipocrita e meschina dei privilegi sociali tradizionali. Chávez non fa solo discorsi populisti, perché è convinto di quello che dice. Quando il presidente dichiara di essere il vero rappresentante del vangelo, fa una cosa ben comica e strana, appena comprensibile per un europeo, eppure non assurda in una situazione tanto ambigua come quella della chiesa venezuelana».
Il sacerdote di Petare reclama posizioni chiare, in primis verso quelle classi umili a cui appartiene la grande maggioranza dei venezuelani. «Non si può – spiega – non riconoscere che il 70% della popolazione venezuelana, dopo 6 anni, continua ad appoggiare Chávez. È la fascia bassa della popolazione, è la gente umile che ha fatto questa scelta. La chiesa non può dimenticarlo».
«Personalmente – continua padre Bruno -, non ho mai fatto crociate pro-Chávez. Anzi, ci sono alcune cose che non condivido proprio. In primo luogo, non sono a favore dei militari al potere. I militari devono stare nelle caserme. In verità, non so quale sia l’utilità dei militari (ammesso che ne abbiano una), ma sicuramente non è quella di governare. In secondo luogo, uno dei motivi per i quali Chávez è stato votato è la lotta alla corruzione. Ebbene, si deve riconoscere che in questa battaglia il paese non è avanzato per nulla. In questo momento c’è abbondanza di petrodollari, cioè di dollari derivanti dalla rendita petrolifera, ma ci sono anche enormi fughe di denaro che vanno anche nelle tasche di uomini vicini a Chávez.
Nessuno fino ad ora ha potuto accusare il presidente ed anzi io credo che lui ne sia estraneo. Tuttavia, ha collaboratori che sono profondamente implicati nella corruzione e che io spero vengano presto allontanati ed incriminati».

CARACAS NON È BOGOTÀ
Tra Venezuela e Stati Uniti da tempo non corre buon sangue. I rapporti sono peggiorati soprattutto da quando Washington ha sostenuto il golpe di stato dell’aprile 2002 (fallito in 48 ore).
Nulla di nuovo sotto il sole. «Nel 1973 – ricorda padre Bruno -, il presidente cileno Salvador Allende fu scacciato dagli statunitensi e da Kissinger (2). Il mondo lo sa, loro lo ammettono e dicono che non potevano fare altrimenti. Se questo è il ragionamento, senza appoggiare Fidel Castro e il suo regime (per il quale non ho alcuna simpatia), bisogna riconoscere che, se non si metteva sulla difensiva, da varie decadi gli americani lo avrebbero cacciato.
Per gli Stati Uniti il nostro Chávez è più pericoloso di Fidel Castro non solamente perché è ben più giovane, ma perché rappresenta un umanesimo che il leader cubano non ha.
Personalmente ammiro lo sforzo pedagogico di Chávez per tentare di costruire un mondo protagonista, attivo e reattivo al di fuori degli schemi finora conosciuti e di invitare il popolo in un meccanismo partecipativo».
Di fronte ai fallimenti della globalizzazione capitalista, Chávez sta proponendo una nuova ricetta che ha però un vecchio nome che suscita sospetti e paure.
Sorride, il sacerdote, e spiega: «Il presidente parla di “socialismo del secolo XXI”. Nessuno sa cosa significhi e finora non ha alcun rappresentante, però è molto facile squalificarlo in nome del socialismo catastrofico del XX° secolo, che è imploso per la sua violenza e la sua mancanza di libertà».
In patria, tutti i mezzi di comunicazione privati (con le televisioni in prima fila) sono contro Chávez (3). Ed anche all’estero egli non gode del favore dei media…
«Oggi – chiosa padre Bruno -, tutti sanno che le guerre importanti iniziano con la mobilitazione mediatica. Attualmente è impossibile giustificare un conflitto senza l’appoggio dell’opinione pubblica mondiale. Dunque, è comprensibile che le grandi agenzie di stampa non possano che diffondere notizie poco favorevoli a Chávez. Così gli Stati Uniti e i loro alleati hanno iniziato le guerre attuali».
Il Venezuela si oppone all’ulteriore espansione delle politiche neoliberiste propugnate da Washington e punta a creare un fronte comune d’opposizione in America Latina e nel mondo intero. Oltre a ciò, è un grande produttore ed esportatore di petrolio, risorsa sempre più scarsa e costosa. Per tutto ciò il Venezuela e Chávez danno molto fastidio. Da tempo, nel paese si parla apertamente di «magnicidio», l’assassinio del presidente (leggere riquadro).
Padre Bruno ha idee chiare al riguardo: «In queste situazioni gli Stati Uniti non si fermano di fronte a nulla. L’assassinio politico è un’opzione reale come accadde con Gaitán (4) nel 1948. Il politico colombiano sembrava una specie di Chávez, anche se io non l’ho conosciuto e il contesto era diverso. Il suo assassino scatenò la rivolta a Bogotà e segnò l’inizio di un conflitto che dura da 50 anni.
Sono personalmente convinto che gli Usa non permetteranno a questo governo di continuare. Hanno già fatto di tutto per farlo cadere, anche se finora gli è andata male. Ma, nonostante tanti elementi contrari, non credo che rinunceranno».
È una persona che non ha mai smesso di pensare con la propria testa, padre Bruno, anche pagando di persona – come abbiamo ricordato – per la sua chiarezza. Ma chi si crederà d’essere?, pensano i suoi detrattori. Lui si qualifica così: «Continuo ad essere un piccolo pastore da prima linea e senza nessun grado in questo esercito che è la chiesa».

LA BIBBIA DI BUSH
A piedi, facciamo ritorno al metro di Petare. Abbiamo in mano Soy ateo!, l’articolo (5) che padre Bruno ha dedicato al presidente Bush: «Dicono che il signor Bush legga la bibbia tutti i giorni. Dicono che fu eletto e rieletto alla presidenza del suo paese grazie, in gran parte, al voto di numerosi cristiani, che lo considerano come un buon fedele. Io credo che la mia bibbia non è quella del signor Bush. Definitivamente, non stiamo leggendo la stessa bibbia, né pregando lo stesso Dio. Di fronte alle violenze di parte di coloro che si dicono credenti, io faccio come i martiri cristiani del II secolo: mi dichiaro “ateo”!».
Sì, padre Bruno Renaud, sacerdote belga da 40 anni a Caracas, è obbediente. Ma non troppo.

(fine 1.a puntata – continua)


Note:

(1) Su Ultimas Noticias del 21 maggio 2005. Titolo dell’articolo: «Nuncio apostólico».
(2) Henry Kissinger era segretario di stato Usa ai tempi del golpe del generale Pinochet. Era l’11 settembre 1973.
(3) Al riguardo, si legga Fronte dei media (MC, giugno 2003) e Essere giornalisti in Venezuela (MC, settembre 2003).
(4) Jorge Eliécer Gaitán, politico e dirigente liberale, fu assassinato il 9 aprile del 1948.
(5) Su Ultimas Noticias del 12 marzo 2005. Titolo dell’articolo: «Soy ateo!».

Le prossime puntate di «Preti d’America»:

Questa serie, che abbiamo titolato «Preti d’America», vuole raccontare le esistenze e le idee (libere, diverse, condivisibili o non) di sacerdoti che, negli ultimi anni, abbiamo incontrato in vari paesi dell’America Latina.
Pertanto, a questo primo articolo seguiranno, nel corso del 2006, altri incontri-interviste, tra cui quelli con: padre Jesus Silva del Venezuela, padre Antonio Bonanomi, missionario della Consolata nel Cauca (Colombia), padre Giacinto Franzoi, missionario della Consolata in Caquetà (Colombia), padre Clemente Peneleu Navichoc (Guatemala), padre Gonzalo Guitian Galano (Cuba) ed altri ancora.

Pa.Mo.

Paolo Moiola




DOSSIER TRAPIANTI Glossario minimo

GLOSSARIO MINIMO

Anencefalia: mancato sviluppo del cervello durante lo sviluppo fetale. La difficoltà di reperire piccoli organi da utilizzare per il trapianto nei bambini ha suggerito il ricorso al prelievo di organi da feti o da neonati anencefalici. Non si tratta in generale di «buoni donatori», sia per l’immaturità degli organi che per l’elevata incidenza di malformazioni. Tuttavia, non vi sono remore di ordine etico al prelievo di organi dopo la morte, una volta che sia stato superato il problema dell’accertamento della stessa, data l’obiettiva difficoltà ad utilizzare dei criteri convenzionati nell’adulto e nel bambino.

Autotrapianto: tessuto trasferito da una sede all’altra dello stesso organismo (ad esempio, trapianto di osso per stabilizzare una frattura).

Cellula Staminale: si definisce staminale una cellula ad uno stadio precoce di sviluppo, la quale può dare origine sia ad altre cellule staminali che a una progenie di cellule differenziate di tessuti specifici (ad esempio cellule ematiche, nervose, muscolari). Le cellule staminali possono essere totipotenti, se sono in grado di generare qualsiasi tessuto, oppure pluripotenti, se possono dare vita a progenie cellulari solo di alcuni specifici tessuti. Il trapianto di cellule staminali rappresenta una potenzialità terapeutica per molte malattie attualmente difficilmente curabili (morbo di Parkinson, Alzheimer, diabete), o per le quali le terapie sono poco efficienti o caratterizzate da una scarsità di risorse (come i trapianti d’organo).

Ciclosporina: farmaco immunosoppressore che agisce bloccando la risposta anticorpale (azione dei linfociti T) utilizzato soprattutto per la prevenzione del rigetto.

Coma: dal greco koma, sonno profondo. Stato di incoscienza, a volte irreversibile in cui è assente qualsiasi risposta a stimoli estei. Il soggetto è privo di contatto con l’ambiente circostante, non ha consapevolezza di se stesso e può perdere alcune funzioni vegetative.

Donatore: organismo umano da cui si preleva un organo a scopo di trapianto.

Emodialisi: (o rene artificiale) procedura attraverso la quale è possibile la depurazione del sangue da tutte le scorie in esso contenute, mediante un apposito macchinario. È utilizzata nell’insufficienza renale.

Eterotrapianto o xenotrapianto: trapianto di un organo prelevato da un organismo appartenente a un’altra specie e detto anche trapianto eterologo (ad esempio: tra scimpanzé e uomo).

Immunosoppressori: farmaci che sono somministrati per controllare la reazione del rigetto. Prototipo di una nuova generazione di tali farmaci è la ciclosporina introdotta nella pratica clinica nel 1978, che ha permesso di combattere con maggiore efficacia rispetto al passato il fenomeno del rigetto. L’associazione tra questi farmaci ed i corticosteroidi ha notevolmente migliorato le prospettive di successo in questo campo.

Ingegneria genetica: scienza che studia ed applica tecnologie avanzate allo scopo di manipolare geni per studiae funzioni e interazioni, ottenere combinazioni non presenti in natura e combattere i problemi legati al rigetto.

Isotrapianto: trapianto tra individui geneticamente uguali (gemelli omozigoti).

Istocompatibilità, (antigeni di): complesso di molecole presenti sulla superficie cellulare che condizionano l’istocompatibilità, ossia la capacità di convivenza di cellule di organismi differenti. Tali geni costituiscono il complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) che codifica la produzione di proteine leucocitarie. Durante la crescita embrionale, l’organismo impara a riconoscere le proteine proprie (self) ed evita così di mettere in atto meccanismi di difesa verso queste. Nel corso della vita, qualsiasi proteina estranea (non self) verrà aggredita ed eliminata dal sistema immunitario. Tale fenomeno si verifica a carico degli organi trapiantati con il rigetto. Per tale motivo il donatore deve essere «compatibile» al massimo grado con il ricevente ed i consanguinei hanno perciò maggiori possibilità di esserlo.

Morte cerebrale: stato di morte del cervello che coincide con la morte del soggetto, cioè con la cessazione dell’insieme delle funzioni vitali.

Omotrapianto: trapianto di un organo prelevato da un organismo appartenente alla stessa specie, cioè quella umana.

Protocollo chirurgico: descrizione delle tecniche e delle modalità relative alle operazioni di espianto, conservazione e trapianto di un organo e di un tessuto.

Ricevente: paziente beneficiario dei tessuti o degli organi da parte del donatore.

Rigetto: reazione immunitaria che si verifica nei confronti di un tessuto trapiantato e che ne determina l’incapacità di sopravvivere. La reazione di rigetto è tanto più forte quanto maggiore è la differenza genetica tra donatore e ricevente.
• Rigetto iperacuto: si manifesta immediatamente dopo il trapianto a seguito di una risposta immunitaria intensa e precoce conseguente a una pregressa sensibilizzazione degli antigeni del soggetto donatore da cui è stato prelevato l’organo da trapiantare.
• Rigetto acuto: si verifica quando la morte dei tessuti trapiantati avviene ad una settimana circa dal trapianto, è questo infatti il periodo di tempo necessario perché si sviluppi la risposta immunitaria.
• Rigetto cronico: in questo caso il fenomeno ha un decorso più lento e dilatato nel tempo.

Tipizzazione: identificazione delle caratteristiche della tipologia delle cellule o di un tessuto corporeo attraverso l’identificazione di alcuni antigeni in essi presenti. Le differenti combinazioni di questi antigeni permettono di distinguere le differenti tipologie da trapiantare.

Transgenico: organismo vegetale o animale modificato mediante l’introduzione di geni che provengono da specie simili o differenti.

Trapianto: intervento chirurgico con cui si innesta in un organismo detto «ospite» un organo o tessuto prelevato da un altro organismo detto «donatore».

(a cura di Enrico Larghero)


ASSOCIAZIONI PER LA DONAZIONI DI ORGANI

• Aido, Associazione italiana donatori di organo
nata a Bergamo il 26 febbraio del 1973, ha la sede nazionale in via Novelli 10/a, 24122 Bergamo – tel. 035.222167
• Admo, Associazione donatori midollo osseo
via Aldini 72 – 20157 Milano –
tel. 02. 39001170
• Aned, Associazione nazionale emodializzati
sede nazionale in via Hoepli 3,
20121 Milano – tel. 02.8057927

• Anerc, Associazione neuropatici emodializzati e trapiantati
via Scudillo 24, 80131 Napoli –
tel. 081.5453322
• Aitf, Associazione italiana trapiantati di fegato
fondata a Torino nel 1988,
ha sede presso l’Ospedale Molinette, corso Bramante 88, 10126 Torino –
tel. 011.6336374
• Anto, Associazione nazionale trapiantati di organo
via Vittorio Emanuele II 27,
25122 Brescia – tel. 030.2971957

Bibliografia essenziale:

• Aramini M., Di Nauta, Etica dei trapianti di organi, Edizioni Paoline, Milano 1998
• Bollettino dell’Associazione Anestesisti, Rianimatori Ospedalieri Italiani (AAROI), nn.1-8- 2005
• Bompiani A.,Sgreccia E., Trapianti d’organo, Vita e Pensiero, Milano 1989
• Casciani C.U., Valori etici e scientifici nella ricerca del trapianto d’organo, in Ghetti V. (a cura), Etica nella ricerca biomedica, F.Angeli, Milano 1991
• Civetta J.M., Trattato di rianimazione e terapia intensiva, Antonio Delfino Editore, Roma 2000
• Crepaz P, La donazione di organi, Città Nuova, Roma 2003
• Lamb D., Il confine della vita. Morte cerebrale ed etica dei trapianti, il Mulino, Bologna 1987
• Morris P., I trapianti. Uno sguardo etico, Sapere 2000, Roma 2003
• Perico G., I trapianti umani verso la nuova normativa, in Id, Problemi di etica sanitaria, Edizioni Ancora, Milano 1992
• S.Privitera e coll., La donazione di organi. Storia etica legge, Città Nuova, Roma 2004
• Puca A., Trapianto di cuore e morte cerebrale del donatore (aspetti etici), Edizioni Camilliane, Torino 1993
• Romano E., Anestesia generale e clinica, UTET, Torino 2004
• Sgreccia E., Bioetica e trapianti d’organo sull’uomo, in Id., Manuale di Bioetica: I. Fondamenti ed etica biomedica, Vita e Pensiero, Milano 1994
• Sherwin B.Nuland, Storia della medicina. Dagli antichi greci ai trapianti d’organo, Mondatori, Milano 2004
• Spagnolo A.G., Bioetica nella ricerca e nella prassi medica, Edizioni Camilliane, Torino 1997
• Tettamanzi D., Il trapianto di organi, in Id., Bioetica. Nuove frontiere per l’uomo, Piemme, Casale Monferrato 1990

Siti internet:
• www.daivaloreallavita.it
• www.trapianto-giornatanazionale.it
• www.donalavita.net (*)
(*) campagna di sensibilizzazione finanziata dalla Regione Piemonte e realizzata dall’agenzia Armando Testa, ideatrice del «cuore infiocchettato»

Enrico Larghero




DOSSIER TRAPIANTI Alcune considerazioni conclusive

IL FUTURO E LE SUE FRONTIERE


Oggi il trapianto non è più un «tentativo estremo». Per il domani le maggiori aspettative sono riposte nelle cellule staminali e negli organi bio-artificiali. Senza dimenticare che scienza ed arte medica non sono sovrane assolute.

I trapianti d’organo, superata la fase pionieristica degli anni ‘60, costituiscono ormai una realtà. Oggi il trapianto è a tutti gli effetti un’opzione terapeutica, pur molto sofisticata e complessa, ma che deve essere considerata un intervento di routine, non un «tentativo estremo». Oggi l’80% dei pazienti che ha subìto un trapianto di rene, a cinque anni dall’intervento conduce una vita normale, libera dalla schiavitù della dialisi.
La sopravvivenza a lungo termine nei Centri all’avanguardia è ormai significativa: 75% a 5 anni per il trapianto di cuore; 80% per il trapianto di fegato nell’adulto. Questi dati confortanti ci dimostrano come la costante ricerca clinica e sperimentale ha condotto al perfezionamento e alla standardizzazione della tecnica chirurgica, all’affinarsi delle modalità di trattamento perioperatorio e della terapia del rigetto. In particolare per quest’ultimo aspetto, eccezionale è stato il ruolo svolto dall’introduzione della ciclosporina (in eventuale associazione ai corticosteroidi) che, rivoluzionando gli schemi immunosoppressivi precedenti, ha permesso di controllare il rigetto e di limitare in modo considerevole gli effetti collaterali negativi dei farmaci precedentemente utilizzati.
Ad esempio, la ciclosporina in microemulsione, ultima evoluzione del farmaco, consente di ridurre di un ulteriore 15-20% i casi di rigetto acuto.
In tutto il mondo sono attualmente operativi più di 1.650 Centri che hanno effettuato oltre 350.000 trapianti di rene, 1.600 di pancreas, 5.600 di rene e pancreas, 40.000 di fegato, 189 di intestino e multiviscerali, 36.000 di cuore e 4.200 di polmone. Per quanto riguarda la sopravvivenza, la maggiore è stata di 32 anni nella chirurgia sostitutiva renale, di 25 anni in quella epatica e di 21 in quella cardiaca, di 16 anni in quella di pancreas, di 14 anni in un trapianto combinato di rene e pancreas, di 12 anni per cuore e polmone, di 10 anni per il polmone singolo e di 8 dopo trapianto bilaterale del polmone.
Questi valori sono molto significativi soprattutto in relazione al fatto che, ad esempio per le patologie cardiache, mentre il 100% dei pazienti selezionati non trapiantati muore entro 6 mesi, l’80% di quelli trapiantati riprende a lavorare e a condurre una vita normale entro un anno.
I progressi nel settore dei trapianti si susseguono rapidamente e, mentre si allunga la lista degli organi e di altre parti del corpo trapiantabili, aumentano le conoscenze per il trapianto da vivente di parte del fegato (split-liver = fegato diviso), con l’asportazione di una porzione del lobo destro del fegato del donatore e successivo trapianto nel ricevente. Dal momento che il tessuto epatico è capace di rigenerarsi, nel giro di poche settimane le due parti divise ricostituiscono un organo pienamente funzionante.
Recenti sono i trapianti di mani e di avambracci, anche a distanza dalla loro amputazione, e dei multitrapianti (rene-pancreas; cuore-polmoni o addirittura trapianto della quasi totalità degli organi addominali).
Si profilano interventi ingegneristici, come impianti di porzioni di DNA e di geni, nel tentativo di risolvere l’incompatibilità genetica ed il rigetto. Si va inoltre elevando l’età clinicamente idonea sia per il donatore che per il ricevente, e quindi aumentano i soggetti coinvolti.

Quale è dunque l’ostacolo all’ulteriore diffusione dei trapianti? La risposta è ormai ben nota a tutti: la scarsità di organi disponibili. Rispetto alle esigenze ed anche con miglioramenti legislativi e sanitari, pare, a giudizio degli addetti, che non si giungerà mai al pareggio tra domanda e offerta. Questo elemento ha determinato a cascata una serie di problemi drammatici ed a forte contenuto etico, quali la donazione a pagamento, il commercio di organi, l’uso di tessuti fetali.
L’occhio del futuro si rivolge, da un lato alla costruzione di organi artificiali impiantabili e miniaturizzati, dall’altro all’utilizzo di organi di animali, anche se in questi ultimi casi di xenotrapianto, incombe minaccioso il pericolo del rigetto acuto.
Ricerche a tal proposito sono attualmente in corso, anche in relazione alle nuove scoperte tecnologiche della modea genetica, con l’eventuale utilizzo di animali transgenici, in particolare dei suini.
Secondo l’autorevole parere dei clinici del settore, l’avanzamento della ricerca e la prospettiva di sviluppo degli xenotrapianti costituiranno probabilmente il futuro della trapiantologia.
Anche la chiesa cattolica ha accettato, come via sperimentale per tentare di sopperire alla grave carenza di organi, gli xenotrapianti. Lo stesso Giovanni Paolo II, nell’agosto del 2000 nel corso di un Convegno a Roma organizzato dalla Transplantation Society aveva definito «moralmente accettabili» i trapianti da animale a uomo. La medesima posizione era stata ribadita dalla Pontificia accademia per la vita in un documento ufficiale, frutto di una serie di incontri tra i maggiori esperti di trapiantologia e di bioetica, laici e cattolici. Durante un incontro nel 2001 in Vaticano, si era giunti alla conclusione di accettare gli xenotrapianti dopo una accurata sperimentazione pre-clinica (da animale a animale), fino al raggiungimento di risultati sufficientemente positivi, tali da poter accedere alla sperimentazione sull’uomo.

Ancora più affascinanti sono gli studi che mirano alla creazione di tessuti e di organi, a partire dalle cellule staminali.
Tali cellule, venute alla ribalta in occasione del recente referendum sulla fecondazione medicalmente assistita, rappresentano, almeno potenzialmente, la terapia di molte patologie attualmente incurabili, quali ad esempio il morbo di Parkinson e l’Alzheimer. La loro peculiarità consiste nell’essere in grado di riparare danni tessutali in ogni organo. La tecnica a cui si potrebbe ricorrere è appunto quella del cosiddetto «trapianto cellulare», analogo al procedimento utilizzato per il midollo osseo. La fonte principale delle cellule staminali è l’organismo dell’adulto; vengono escluse quelle embrionali, per problemi legislativi (legge n.40 del 2004), etici (l’embrione è persona e come tale non manipolabile) e scientifici, (in quanto potenzialmente cancerogene).
L’ultima frontiera da esplorare sarà quella degli organi bio-artificiali. Nei laboratori all’avanguardia si lavora alla progettazione ed alla realizzazione di organi artificiali, o al perfezionamento di quelli già esistenti, come nel caso del cuore e del fegato. Tali apparecchiature, sempre più perfezionate, saranno in grado di sostituire, temporaneamente o addirittura in modo permanente, organi irrimediabilmente malati.
Tuttavia, queste innumerevoli possibilità tecniche, seppur entusiasmanti, rischiano di diventare criterio, misura e contenuto di ogni scelta, se non interagiscono con l’etica.
Un «corpo», infatti, non è semplicemente un complesso di organi e di tessuti manipolabili arbitrariamente con interventi demolitori-sostitutivi, ma è il corpo di una persona.
Da un lato l’uomo con le sfide tecnico-scientifiche è espressione della sua vocazione a continuare nel tempo la creazione. È mediante questa azione che egli riuscirà a completare e a finire ciò che di incompiuto, di labile e di imperfetto resta nel suo essere, in ordine alla sua piena realizzazione, lottando contro ogni limitazione e imperfezione.
Dall’altro, emerge un referente etico fondamentale che è la persona umana, nella totalità della sua esistenza, della sua dimensione corporea, psichica e spirituale, nei suoi valori di ragione, libertà, coscienza, affettività, religiosità, solidarietà sociale, nella sua capacità di formare una comunità in spirito d’amore e di giustizia.
Anche per i trapianti, come per le altre frontiere della vita, la scienza e l’arte medica non sono sovrane assolute, ma trionfano nella loro grandezza solo nel momento in cui si pongono umilmente al servizio dell’uomo, nel rispetto della sua dignità.
Dietro ai trapianti non vi sono soltanto problemi medici, ma ancor più morali. In futuro i trapianti occuperanno un posto sempre più importante, ma ciò richiede che si sviluppi una cultura della solidarietà e del dono, realizzando un singolare e talora eroico servizio alla vita.
Come scrisse Giovanni Paolo II: «Grazie alla scienza e alla formazione professionale e alla dedizione di medici e operatori sanitari… si presentano nuove e meravigliose sfide. Siamo sfidati ad amare il nostro prossimo in modi nuovi; in termini evangelici ad amare sino alla fine».

Enrico Larghero

Enrico Larghero




DOSSIER TRAPIANTI Riflessioni

LA SOFFERENZA E IL TABU’ DELLA MORTE


Aumenta l’aspettativa di vita e, allo stesso tempo, la cronicizzazione delle malattie, nonché l’eventualità dell’accanimento terapeutico. Ciò che non cambia mai è la nostra paura di fronte alla sofferenza. E, in ultima analisi, l’impreparazione dell’uomo davanti alla malattia, alla morte e alla fragilità umana.

Tra le varie conquiste dell’ultimo secolo, un posto di rilievo spetta alla medicina ed ai suoi progressi. La scienza, se da un lato ha prolungato le aspettative di vita, dall’altro ha generato problematiche relative alla cronicizzazione delle malattie e questioni inerenti le fasi cosiddette «terminali» dell’esistenza.
È emersa quindi, in modo sempre più crescente, l’esigenza di disciplinare adeguatamente le condizioni estreme della vita, per evitare i pericoli dell’accanimento terapeutico, che l’incalzante sviluppo tecnologico rende sempre più possibile.
La crescente paura di fronte a situazioni di sofferenza che si protraggono senza alcuna speranza, il diminuito senso di fede, l’enfatizzazione dei mass media di casi limite hanno ulteriormente favorito la diffusione del living will.
L’espressione living will (o testamento biologico, o direttive anticipate) indica le manifestazioni di volontà con le quali gli individui possono decidere a quali trattamenti sanitari essere sottoposti, qualora dovessero trovarsi privi della capacità di esprimere direttamente la propria volontà al personale sanitario.
Fondate sul principio di autonomia e nate come conseguenza alla diffusione del consenso informato, le direttive anticipate sono sempre revocabili. Talvolta l’interessato nomina un tutore come interprete delle sue volontà circa le cure accettate e le eventuali modalità della propria morte.
Possono rientrare, invece, tra le terapie rifiutate, la rianimazione cardio-polmonare, la respirazione meccanica, la nutrizione e l’idratazione artificiale e, meno frequentemente, la terapia antibiotica, le emotrasfusioni, l’emodialisi.

I diversi testamenti vigenti nel mondo variano notevolmente sia nello spirito che nello stile e risentono dei diversi orientamenti antropologici di fondo. Mutano anche le disposizioni contenute in ogni documento: si va dalla domanda dell’eutanasia attiva (Olanda), alla richiesta di terapie intensive per il prolungamento della vita (stato dell’Indiana), passando per il rifiuto sia dell’eutanasia che dell’accanimento terapeutico (Conferenza episcopale spagnola).
La promozione del testamento biologico negli Stati Uniti e in altri paesi anglosassoni viene quasi sempre fatta dai promotori dell’eutanasia e dalle associazioni che lavorano per la sua legalizzazione. Sembra più che giustificato, dunque, il sospetto che molte volte il living will venga proposto e interpretato come una «punta di lancia» per promuovere la «cultura della morte». Negli ultimi anni è stato utilizzato in base a ragioni anche economiche, per giustificare la sospensione dei trattamenti medici in pazienti inabili, ma che non sono malati terminali.
In molti paesi, invece, tra cui l’Italia, le direttive anticipate non hanno ancora trovato codificazione legale e sono, invece, oggetto di controversie e di accesi confronti.
Intanto il termine testamento per questi documenti è improprio perché si riferisce ad un comportamento da realizzare prima della morte del testante. Inoltre, il consenso informato e la figura del rappresentante fiduciario, costituiscono due punti controversi e di difficile interpretazione. Non potendo evidentemente prevedere tutte le possibili situazioni e condizioni in cui si potrà trovare il paziente, le dichiarazioni scritte si tengono necessariamente sul generico, offrendo indicazioni di massima che dovranno essere variamente interpretate ed applicate dai sanitari. La legge non può codificare tutta la realtà medica, molte condizioni cliniche sono imprevedibili, il divenire della scienza presenta continuamente situazioni inedite, apre scenari inquietanti un tempo inimmaginabili, quali gli stati vegetativi permanenti.

Una sovramedicalizzazione della malattia e della morte porta a conseguenze anche sul piano etico. I conflitti morali inerenti a questi problemi sono frequenti ed inevitabili, ma necessitano di risposte concrete: garantire il diritto alla vita di ogni malato attraverso «cure proporzionate», rendere il dolore più sopportabile, ricorrendo alla terapia antalgica e alle cure palliative, garantire la libertà di scelta del paziente (articolo 32 della Costituzione italiana), ma non legalizzare la richiesta di porre fine alla sua esistenza.
Secondo l’insegnamento della chiesa, alla «qualità della vita» devono anteporsi la «sacralità della vita» e la sua dignità. Non vi sono esistenze prive di valore. Il testamento biologico può essere affrontato solo inserito in questo contesto più ampio e l’orizzonte nel quale lo si deve collocare è principalmente culturale. La società contemporanea ha creato il tabù della morte, quasi che questo momento non faccia più parte dell’esistenza. Tale concetto è bandito nei luoghi di cura, non solo tra i malati ed i loro parenti, ma anche tra i sanitari.
I temi della malattia, della fragilità umana ci colgono oggi impreparati. Accompagnare la sofferenza e trae da essa un senso resta comunque un dovere di tutti, a prescindere dalla fede religiosa o dell’ideologia, anche in un mondo che tende a rimuovere questa realtà ricorrendo, ad esempio, alle direttive anticipate, vissute come antidoto alla sofferenza, ma che diventano, invece, se strumentalizzate, anticamera dell’eutanasia.
Alcuni anni fa erano in molti a pensare che il testamento biologico avrebbe risolto alcune importanti questioni inerenti alle problematiche di fine vita. Oggi quell’ottimismo è lontano.
Il diritto prioritario del paziente a gestire la cura della sua esistenza va coniugato con il dovere di tutelare la propria vita, poiché questa non si possiede, ma si identifica con la stessa persona e, per il credente, è un dono di Dio che l’individuo deve valorizzare e non può arbitrariamente distruggere: «Le leggi che autorizzano l’aborto e l’eutanasia si pongono… contro il bene del singolo e contro il bene comune e, pertanto, sono del tutto prive di autentica validità giuridica» (Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n.72).

BOX 1

Il commercio di organi

Le cause del commercio di organi (*) sono molteplici, ma si possono ricondurre ad una sola: la carenza di organi disponibili.
Nonostante tutte le proibizioni dei governi, degli organismi inteazionli come il Parlamento Europeo e l’ONU, il traffico di organi è tuttora in certi Paesi del Terzo Mondo una pratica molto diffusa. Rapporti di organizzazioni nazionali e di organizzazioni non governative, lo confermano. I mass media, pur meno di quanto dovrebbero, se ne occupano.
La disponibilità di chirurghi senza scrupoli ha consentito la nascita di un traffico illecito, probabilmente limitato ai reni. Questi vengono acquistati a costi irrisori (indicativamente 1000 dollari a Bombay, 2000 a Manila, 3000 in Moldavia, 10.000 in America Latina) e poi rivenduti, insieme al costo dell’intervento eseguito clandestinamente, a cifre che oscillano tra i 100.000 e i 200.000 dollari.
Tale fenomeno, un vero e proprio crimine contro l’umanità, dovrebbe essere punibile e perseguibile in ogni paese del mondo. Chiunque accetti, anche se sofferente, di sfruttare la povertà altrui, si rende egualmente colpevole di un gravissimo reato.
Alcuni propongono, come via d’uscita alla carenza di organi, un compenso economico, legalmente riconosciuto per il donatore. Tale strada, oltre che moralmente riprovevole, è anche molto pericolosa, poiché può aprire la porta ad un’allocazione iniqua degli organi, fondata cioè sulla possibilità di pagare da parte di pazienti più abbienti e non sulla reale urgenza medica.
L’atto della donazione deve scaturire da una libera scelta, escludendo ogni costrizione e deve essere evitata ogni forma di speculazione (opportunamente la legge italiana sancisce che in vita si possa cedere un rene, ma solo a titolo gratuito).
Il corpo umano o le sue parti non possono essere oggetto di commercializzazione. La selezione dei riceventi deve fondarsi sulle necessità dei pazienti e non sulla base di criteri economici o di qualsivoglia altra natura.

(*) Sull’argomento si leggano gli articoli pubblicati sulla monografia di MC di ottobre-novembre 2005 a firma Guido Sattin ed Enrico Larghero.

Enrico Larghero




DOSSIER TRAPIANTI Diagnosi ed accertamento della morte

QUANDO MUORE IL CERVELLO


Quando è possibile procedere all’espianto di un organo? L’accertamento

della morte deve essere rigoroso per evitare abusi (in nome della scienza
o del profitto) e sbagli. Oggi si ritiene che il sistema migliore sia quello
della «morte cerebrale»: un individuo è morto quando muore il suo cervello.

Secondo il comune pensare, la concezione prevalente di morte è essenzialmente di tipo «cardio-respiratorio». Un individuo è morto quando non respira ed il cuore non batte più. Tale criterio appare oggi superato. La nuova definizione di morte integra e supera questo primo concetto con una nuova definizione, quella di «morte cerebrale»: l’individuo è morto quando muore il suo cervello.
Alla fine degli anni ’60 il trapianto di cuore realizzato da Baard segnò una trasformazione radicale della riflessione sui problemi etici dei trapianti: l’espianto del cuore doveva essere realizzato, per la riuscita dell’intervento, con un organo mantenuto in vita, sia pure artificialmente attraverso la circolazione extracorporea. Diveniva in questo modo essenziale poter ricorrere, per l’accertamento della morte, al criterio della cessazione totale dell’attività cerebrale e non del battito cardiaco.
Uno dei quesiti che fu posto all’attenzione della ricerca medica nel 1968 dalla «Commissione Harvard» fu la revisione dei criteri per la definizione di morte.
Tali criteri sono stati poi codificati in Italia dalla legge n.578 del 29 dicembre 1993 e dal relativo regolamento di esecuzione del 22 agosto 1994, n.582.

Il sospetto di morte cerebrale può esser avanzato quando si rilevano: stato di incoscienza; assenza di riflessi del capo e del collo (ossia corneale, fotomotore, oculocefalico ed oculo-vestibolare), nonché reazioni a stimoli dolorifici nel territorio di innervazione del nervo trigemino; assenza di respirazione spontanea dopo sospensione della ventilazione artificiale; silenzio elettrico cerebrale documentato mediante elettroencefalogramma.
Il decreto applicativo n.582 del 1994 consente di stabilire con certezza quali siano i parametri cui fare riferimento per accertare l’avvenuto decesso. Dopo sei ore di accertata morte cerebrale (12 per i bambini e 24 per i neonati) si può dar luogo ad una sicura definizione e certificazione di morte, anche nei casi in cui, grazie al supporto medico rianimatorio, altri fenomeni vitali, come quelli cardiocircolatori e respiratori, sono ancora in atto.
Per accertare la morte clinica non sono sufficienti di per sé la perdita di coscienza per l’insorgere del cosiddetto «coma profondo» (che non comporta necessariamente la previsione di irreversibilità), né la cessazione dell’attività elettrica del cervello («elettroencefalogramma piatto»), perché tale segnale si riferisce soltanto all’attività della parte estea, della corteccia cerebrale. Occorre l’inattività dei centri interni, più profondi, dell’encefalo (bulbo, ponte, ecc.), ovvero di quei centri responsabili dell’unificazione delle funzioni organiche: è il caso, detto dagli esperti, «coma dépassé», nel quale non esiste più speranza di ripresa della vita cosciente e di relazione.
Ha ben scritto Elio Sgreccia: «Si ha morte clinica quando si constata la cessazione irreversibile delle attività non soltanto della corteccia cerebrale per un certo numero di ore, ma anche dei centri cerebrali interni cornordinatori delle funzioni organiche, quali la respirazione, il battito cardiaco, i riflessi nervosi» (1).
Pazienti in tali condizioni cliniche vengono mantenuti in vita grazie all’esistenza di strutture sanitarie complesse, quali le terapie intensive. In tali reparti il monitoraggio dei parametri vitali, il controllo ed il mantenimento del battito cardiaco e della funzione circolatoria, l’utilizzo di ventilatori per il supporto alla respirazione, tengono in vita malati in condizioni gravissime.
In tal modo, pazienti clinicamente morti, ovvero con morte cerebrale, possono essere sottoposti ad un eventuale espianto.

È necessario fugare molte perplessità sollevate riguardo ad una condizione affine alla morte cerebrale, cioè il quadro definito di coma. In questa situazione, causata da molteplici fattori patologici o traumatici, si verifica un obnubilamento dello stato di coscienza, per cui il paziente non reagisce più agli stimoli estei, compresi quelli dolorosi.
Il coma non deve esser considerato una malattia: è sempre l’espressione di un processo, che direttamente o indirettamente ha coinvolto il cervello e ne ha causato una riduzione funzionale tale da produrre incoscienza.
Un primo elemento da porre in evidenza è, in questi casi, l’incompletezza della compromissione funzionale: un’attività cerebrale residua è infatti sempre presente e può essere registrata tramite elettroencefalogramma. Un secondo elemento è la reversibilità: dopo alcune settimane alcuni pazienti ricominciano ad aprire gli occhi e riacquistano funzioni, come quella respiratoria ed intellettiva, la consapevolezza di sé e dell’ambiente circostante.
Nei casi restanti, invece, il coma può divenire irreversibile e lo stato di vigilanza apparente prende il nome di stato vegetativo persistente (Psv). Ciò avviene quando le lesioni riportate danneggiano le funzioni più complesse del cervello, ma risparmiano le strutture, sede delle funzioni vegetative. In quest’ultimo caso si verifica talvolta il recupero funzionale della corteccia cerebrale prima silente e quindi la ripresa, seppur lenta e graduale, delle funzioni superiori. Alla luce di questi dati, appare quanto mai pericoloso il dibattito attuale circa la possibilità di ritenere questi soggetti candidabili all’espianto.

La morte quindi deve identificarsi con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo.
«L’espianto… senza rispettare i criteri oggettivi ed adeguati di accertamento della morte del donatore… è una delle forme più subdole di eutanasia» (2).
Oggi, oltre all’elettroencefalogramma, molti esami strumentali, più modei e sofisticati, permettono di documentare l’assenza di flusso ematico cerebrale. Tali metodi sono: l’angiografia, la scintigrafia, il doppler trans-cranico, la Tac e infine la Pet (tomografia ad emissione di positroni). L’assenza di flusso implica inequivocabilmente la morte cerebrale, cioè del centro unificatore e cornordinatore dell’organismo.
Tale definizione, strettamente scientifica, trova conferma in un’affermazione della Pontificia Accademia delle scienze: «Una persona è morta quando ha subìto una perdita irreversibile di ogni capacità di integrare e di cornordinare le funzioni fisiche e mentali del corpo».
In queste condizioni, però, un essere umano, con l’estremo dono di sé, può diventare ancora una volta sorgente di vita.

Enrico Larghero


Note:
(1) E. Sgreccia, Sono tre i principi che vanno rispettati, su Avvenire, 14 novembre 1985.
(2) Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, 1995.

BOX: Opinione pubblica e trapianti

Quali sono i limiti?

Esistono dei limiti nella medicina? Esiste un limite ai trapianti? Questi gli interrogativi che frequentemente ci poniamo, quando constatiamo che il progresso scientifico abbatte barriere sino a ieri insuperabili. Sono interrogativi elementari, ma non per questo privi di buon senso, di quella sapienza che è sollecita nel custodire il valore della vita ed il suo significato.
A tutti è nota la situazione attuale: le possibilità di trapianto si estendono sempre di più, nuove frontiere si schiudono sotto i nostri occhi. Al di là delle tecniche ormai convalidate, pare di essere talvolta di fronte ad una «medicina trapiantista», frutto di una «mentalità trapiantista».
Diversi aspetti, tuttavia, inquietano l’opinione pubblica. Ad esempio, la necessità di avere a disposizione un maggior numero di organi può indurre medici senza scrupoli a non essere rigorosi nell’accertamento della morte. Le ragioni della medicina dei trapianti possono generare una «cultura della predazione».
Molte sono ancora le paure ancestrali della profanazione dei corpi, molti i timori su possibili abusi compiuti in nome della scienza. La confusione, spesso derivante anche dalla disinformazione e da una certa malasanità, può essere parzialmente superata con l’educazione e richiamando i principi etici fondamentali della questione.
La vera soluzione al problema è da ricercarsi in una capillare opera di sensibilizzazione che serva alla diffusione di una nuova cultura, affinché la donazione divenga sempre più un atto libero, gratuito e spontaneo, a cominciare dalla donazione del sangue.
Il trapianto è forse l’unico settore della sanità che non può esistere senza la partecipazione di tutti. Inizia e termina nell’ambito della società, è talmente complesso da non poter essere lasciato ad una libera interpretazione, necessita di un’attenta regolamentazione, rappresenta una «cartina di tornasole» per poter definire il valore di una società.
La diffusione della cultura del dono può condurre al superamento, eticamente problematico, del silenzio-assenso, coinvolgendo tutti, indipendentemente dalle convinzioni personali, a praticare questa nobile forma di solidarietà nella ricerca del bene comune.

Enrico Larghero




DOSSIER TRAPIANTI Il dibattito attorno all’etica

EDUCARE AL DONO


È possibile conciliare il rispetto della volontà del donatore e la necessità

della solidarietà? Sì, attraverso l’educazione. Perché il fine è un fine superiore: sottrarre altri a morte sicura.

Di fronte alla gravità dei problemi relativi ai trapianti, emerge, oggi più che mai, l’esigenza di avere un quadro etico di riferimento, il più possibile unitario e convincente, in grado di dissipare i pregiudizi emotivi mediante i dati scientifici e la rigorosa riflessione razionale. Le questioni etiche si traducono anche in questioni bio-giuridiche. In tale ambito gli interessi coinvolti in un trapianto d’organo sono essenzialmente:
• la libertà della determinazione del donatore da vivo e la certezza della irreversibilità del processo del suo morire nel caso di espianto da cadavere;
• la libertà di scelta;
• la dignità e la salute del donatore nel caso di espianto da vivente;
• l’interesse alla salute del ricevente e quindi adeguata probabilità dell’efficacia terapeutica dell’intervento;
• la tutela dei sentimenti dei parenti;
• un criterio di giustizia nella assegnazione della risorsa «organo trapiantabile».
Alcune problematiche etiche si impostano e si risolvono in relazione a scelte tecniche, alla luce delle scienze biologiche e mediche (es. corrette procedure di espianto e di reimpianto). Altre sono di natura propriamente bioetica, sia per i principi che per le regole giuridiche (es. scelte circa la necessità dell’assenso del donatore prima della sua morte).
Altre, infine, mescolano conoscenze scientifiche, suscettibili per loro natura di revisione, e presuppongono antropologie filosofiche e posizioni morali (es.definizione del momento in cui il processo del morire diventa irreversibile e la sua connessione con il concetto di persona umana).

Il dibattito sul consenso è strettamente legato alla modalità di reperimento degli organi.
Sotto il profilo squisitamente etico è necessario elaborare una tesi che si orienti verso il rispetto della libertà del soggetto donatore, ma anche in spirito di solidarietà verso chi ha bisogno degli organi per la sua sopravvivenza. A questi risultati, prima che attraverso atti coercitivi e complesse legislazioni, si deve giungere con l’educazione.
Il corpo diventa lo spazio e il momento in cui la persona si rivela e si realizza come dono. Spendendo il proprio tempo, le energie, la salute, ed anche la vita, la persona incarna la sua identità di dono. Non solo in vita, ma anche con la possibilità di disporre (o permettendo che altri decidano) del proprio corpo e dei propri organi anche dopo la morte.
Sul piano etico non è soltanto l’intenzionalità oblativa che rende tale atto straordinario, ma soprattutto è la persona stessa che viene donata affinché altri siano sottratti a morte sicura e riacquistino la salute.
Il dono esige strutturalmente la gratuità più assoluta e l’altruismo come forma squisita di solidarietà non tanto per filantropia, umanitarismo o legami parentali, quanto come espressione trasparente di offerta.
Scriveva Giovanni Paolo II: «Il trapianto presuppone una decisione anteriore, esplicita, libera e consapevole. È una decisione di offrire, senza alcuna ricompensa, una parte del corpo di qualcuno per la salute e il benessere di un’altra persona. In questo senso, l’atto medico del trapianto rende possibile l’oblazione del donatore, quel dono sincero di sé che esprime la nostra essenziale chiamata all’amore e alla comunione. Amore, comunione, solidarietà e rispetto assoluto per la dignità della persona umana costituiscono l’unico legittimo contesto del trapianto d’organi» (1).
La scelta morale del trapianto trova unanime e trasversale consenso all’interno delle diverse religioni. Essa costituisce un atto di alta qualità morale, perché pone la cura dell’altro come fine ultimo. Il criterio fondamentale, cui fare riferimento, è il rispetto e la promozione dell’uomo in quanto uomo.
L’essere umano deve intendersi sempre e solo come un fine, mai come un mezzo. Qualunque intervento medico, deve volgersi, pertanto, al bene dell’uomo, ma non deve mai strumentalizzare un uomo al servizio di un altro.
Nel caso, ad esempio nel trapianto di rene, il donatore si sottopone a grandi disagi e sacrifici, che vengono accettati nella logica del dono di sé, per il bene e la vita del prossimo.
Alla luce dei criteri di priorità, scelte drammatiche e tragiche si presentano agli operatori sanitari nella assegnazione degli organi, che si rendono disponibili per i trapianti.
Alcuni ritengono che in queste decisioni debbano essere esclusi o penalizzati nella lista di attesa coloro che attendono un organo per una patologia riconducibile alle loro abitudini di vita (ad es. gli alcornolisti da trapianti di fegato e i tabagisti da trapianto di polmone). Questa strada eticamente discutibile condurrebbe soltanto ad un’eccessiva intromissione nella vita privata dei pazienti e sottoscriverebbe una spiegazione scientificamente erronea dell’insorgenza delle malattie, che dipendono da molteplici fattori e non da una sola causa. La valutazione che presiede all’individuazione di priorità deve essere legata a considerazioni di ordine strettamente clinico e, dunque, al beneficio dell’intervento per il malato.
La necessità di disporre di criteri, a cui uniformarsi e a cui fare riferimento, rende di grande utilità l’accesso ed il potenziamento dei Comitati etici e bioetici presso le istituzioni sanitarie.
Il trapianto si pone al servizio della vita, nel senso di difenderla e di favorirla. È questa la logica positiva che ne ha favorito l’enorme progresso registrato in questi ultimi anni.

Ciononostante, alcuni aspetti necessitano di essere tenuti costantemente presenti.
Ad esempio, può sembrare scontata la liceità del trapianto che viene fatto e motivato per un prolungamento della vita di un malato non altrimenti curabile. Si deve però considerare che, anche nell’ipotesi di un beneficio per il paziente che riceve l’organo, si viene talora a richiedere una qualche menomazione del donatore nel caso in cui questo sia vivente.
Si afferma nell’ultimo catechismo: «Il trapianto di organi è moralmente accettabile col consenso del donatore e senza rischi eccessivi per lui» (2).
Salvatore Privitera aggiunge: «Abbiamo il dovere morale di non compiere l’azione moralmente errata, ma non quello di compiere l’atto moralmente retto, quando non compiendolo, non provochiamo conseguenze negative. Nessuno è tenuto a mutilare, fisiologicamente o psicologicamente, se stesso per recare beneficio ad altri» (3).
Diversa ovviamente è la donazione dei propri organi da morto. In questo caso essa è moralmente doverosa, in quanto non vi è più alcun danno nel donatore, mentre grandi sono i benefici di chi riceve. Inoltre, l’etica dei trapianti è indispensabile che coinvolga l’équipe medica. A prescindere dalla sua preparazione e dalla sua formazione tecnico-scientifica, alta deve essere potenzialmente la possibilità di riuscita dell’intervento; il sacrificio del donatore non deve essere inutile.
La vita è sacra e, come tale, può venir sottoposta ad un trattamento rischioso ed invasivo soltanto se vi sono fondate speranze di successo. Sono, pertanto, da bandire quelle finalità esclusivamente sperimentali, in cui si antepone la ricerca all’attenzione nei confronti del malato.
La donazione, per sua natura, rimanda alla libertà e alla responsabilità. È in tale contesto che deve essere letta, partendo da una adeguata interpretazione della fisicità. Il corpo non può essere inteso semplicemente come un complesso di organi, tessuti, funzioni, senza un ulteriore riferimento alla dimensione psichica e spirituale.
Le attuali scienze antropologiche sono particolarmente efficaci nel presentare il corpo come manifestazione dell’individuo, anzi come strumento della sua realizzazione. E poiché l’identità della persona è di essere «dono» e la sua finalità è «donarsi», il corpo è veramente umano quando diventa lo spazio nel quale la persona si rivela e si realizza come dono che si fa dono.
La strada che conduce a questo atteggiamento libero e responsabile passa attraverso una continua educazione al significato della donazione. Rientra in questa opera educativa favorire e alimentare il senso umano della solidarietà.
La visione cristiana dell’esistenza offre un contributo nuovo ed originale: la donazione di organi, in vita e dopo la morte, è una forma secondo la quale vivere concretamente il comandamento della carità: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Giovanni, 15,13).

Enrico Larghero


Note:
(1) Giovanni Paolo II, su L’Osservatore Romano, 21 giugno 1991.
(2) Compendio catechismo della chiesa cattolica, n.476, San Paolo, LEV 2005.
(3) S. Privitera e coll., opera citata, p.108.

Enrico Larghero




DOSSIER TRAPIANTI La legislazione italiana (1)

Il dibattito sul consenso

IL CADAVERE: FONTE DI ORGANI?

Consenso esplicito, consenso presunto, consenso tacito. Queste sono le tre possibilità per ogni cittadino, potenziale donatore. Come deve comportarsi lo stato? Un cadavere appartiene alla società, che può dispoe per il bene comune? O si rischia un abuso di potere e, di conseguenza, una violenza sulla volontà altrui?

Il problema del consenso, al fine di poter procedere legittimamente al prelievo di organi da cadavere, ha costituito spesso oggetto di vivaci discussioni, sia in sede parlamentare che tra l’opinione pubblica. L’eterogeneità e la conflittualità delle varie posizioni ha dato luogo a soluzioni legislative diversificate, riconducibili ad alcune grandi linee tematiche.
La prima sostiene la necessità di un consenso manifestato precedentemente dal soggetto stesso e, mancando questo, la necessità del consenso dei familiari. La manifestazione di consenso esplicito da parte del soggetto costituisce, secondo l’opinione di esperti, la soluzione migliore, anche sotto l’aspetto morale. Si realizza in questo modo una vera donazione e vengono rispettati i diritti di tutti coloro che sono coinvolti in un trapianto.
È una decisione personale, ispirata alla generosità che viene posta quando la persona è ancora in vita, ma che può essere attuata solo dopo la sua morte. Il testamento biologico (living will) potrebbe rispondere a questo tipo di disposizione.
Una simile norma, tuttavia, nei paesi in cui è ancora carente una cultura della donazione, rischierebbe di tradursi in una scarsità di organi.
Altra posizione è il consenso presunto, deducibile in base alle convinzioni etiche, religiose e allo stile di vita del defunto. Infine vi è il consenso tacito o implicito, altrimenti detto, silenzio-assenso.

Tra i paesi che hanno adottato la norma del silenzio-assenso vi è anche l’Italia. La legge n.91 del 1999 definisce in modo efficace la modalità di donazione e di trapianto di organi. Nelle disposizioni generali, l’articolo 2 stabilisce la messa in opera di una campagna di informazione in cui sono coinvolte le regioni e le aziende ospedaliere, ma anche le scuole, le associazioni di volontariato, i medici di base. Si vuole cioè che l’intera popolazione sia correttamente informata sui vari aspetti del trapianto, compreso quanto riguarda l’accertamento della morte. Partendo da questi presupposti, ovvero la piena e consapevole conoscenza della materia, si pone la normativa circa la dichiarazione di volontà da parte di ogni cittadino (art.5). Questi, sapendo che la sua mancata risposta equivale ad un consenso al prelievo dei suoi organi e sceglie di continuare a tacere, manifesta con il silenzio la sua approvazione all’espianto.
Se tali disposizioni legislative troveranno effettiva applicazione, anche il coinvolgimento dei familiari nella decisione riguardo al prelievo di organi, sarà superato.
Lo stato potrebbe cioè stabilire che ogni cadavere può e deve essere fonte di organi. Alla base di questa impostazione vi è il concetto che un defunto sia res nullius, e quindi se ne possa disporre liberamente. Il cadavere, cioè, appartiene alla società (res communitatis), che può dispoe per il bene comune.
Scrive Salvino Leone: «In una rigorosa gerarchia di valori la vita di un uomo è superiore al rispetto per un cadavere. Il valore simbolico… di una persona che è stata… non può ritenersi superiore al diritto di un’altra persona che potrebbe avvantaggiarsi della sua organicità» (1).
Non si devono ignorare le volontà del vivente, ma non si può parlare di diritti in senso stretto. Già Pio XII nel 1956 affermava: «Il cadavere non è più, nel senso proprio della parola, un soggetto di diritto, perché è privo della personalità che sola può essere soggetta di diritto».
Infine una terza argomentazione è quella relativa alla «presunzione di bene», cioè si deve presumere, come atteggiamento più ragionevole per ciascuno, la volontà di mettere a disposizione i propri organi dopo la morte per il bene di un’altra persona.

Tuttavia, è doveroso sottolineare anche qualche obiezione a queste argomentazioni. Considerare il silenzio come un assenso potrebbe rappresentare, da parte dello stato e degli organi competenti, un abuso di potere, in quanto si va ad interferire in un ambito delicato e sacro dell’animo umano e si lede il principio di autonomia. Viene meno il potere che gli individui hanno sul proprio corpo e se ne disconoscono i diritti postumi, non tenendo neanche conto dell’opinione dei parenti.
Inoltre l’approvazione di una tale prassi vanificherebbe il senso sostanziale della «donazione» insito nel consenso al prelievo dei propri organi. Un punto imprescindibile che dovrebbe essere previsto dalla legislazione è la formalizzazione del consenso o dell’eventuale dissenso: nessuno può essere violentato nella sua volontà.
Per ovviare a queste obiezioni, molti concordano sulla necessità di inviare ad ogni cittadino un modulo sul quale esprimere la decisione di donare i propri organi. Nella carta sanitaria elettronica, usata in Italia per ora solo in via sperimentale in alcune regioni, potrebbe trovare spazio anche il consenso all’espianto degli organi.
L’obiettivo è quello di monitorizzare l’eventuale disponibilità alla donazione o alla sua negazione, grazie ad un circuito anagrafico informatizzato (decreto ministero della sanità, 8 aprile 2000).
Questo sistema nel quale si è obbligati ad esprimersi risolverebbe il problema del consenso presunto. Sono purtroppo pochi i cittadini che portano con sé, insieme ai documenti personali, il tesserino inviato qualche anno fa dal ministero della salute.
Anche perché a molti questo tesserino non è mai arrivato..

Enrico Larghero

(1) S. Privitera e coll., La donazione di organi. Storia etica legge, Città Nuova, Roma 2004, p. 65

Enrico Larghero