DOSSIER TRAPIANTI La legislazione italiana (1)

Il dibattito sul consenso

IL CADAVERE: FONTE DI ORGANI?

Consenso esplicito, consenso presunto, consenso tacito. Queste sono le tre possibilità per ogni cittadino, potenziale donatore. Come deve comportarsi lo stato? Un cadavere appartiene alla società, che può dispoe per il bene comune? O si rischia un abuso di potere e, di conseguenza, una violenza sulla volontà altrui?

Il problema del consenso, al fine di poter procedere legittimamente al prelievo di organi da cadavere, ha costituito spesso oggetto di vivaci discussioni, sia in sede parlamentare che tra l’opinione pubblica. L’eterogeneità e la conflittualità delle varie posizioni ha dato luogo a soluzioni legislative diversificate, riconducibili ad alcune grandi linee tematiche.
La prima sostiene la necessità di un consenso manifestato precedentemente dal soggetto stesso e, mancando questo, la necessità del consenso dei familiari. La manifestazione di consenso esplicito da parte del soggetto costituisce, secondo l’opinione di esperti, la soluzione migliore, anche sotto l’aspetto morale. Si realizza in questo modo una vera donazione e vengono rispettati i diritti di tutti coloro che sono coinvolti in un trapianto.
È una decisione personale, ispirata alla generosità che viene posta quando la persona è ancora in vita, ma che può essere attuata solo dopo la sua morte. Il testamento biologico (living will) potrebbe rispondere a questo tipo di disposizione.
Una simile norma, tuttavia, nei paesi in cui è ancora carente una cultura della donazione, rischierebbe di tradursi in una scarsità di organi.
Altra posizione è il consenso presunto, deducibile in base alle convinzioni etiche, religiose e allo stile di vita del defunto. Infine vi è il consenso tacito o implicito, altrimenti detto, silenzio-assenso.

Tra i paesi che hanno adottato la norma del silenzio-assenso vi è anche l’Italia. La legge n.91 del 1999 definisce in modo efficace la modalità di donazione e di trapianto di organi. Nelle disposizioni generali, l’articolo 2 stabilisce la messa in opera di una campagna di informazione in cui sono coinvolte le regioni e le aziende ospedaliere, ma anche le scuole, le associazioni di volontariato, i medici di base. Si vuole cioè che l’intera popolazione sia correttamente informata sui vari aspetti del trapianto, compreso quanto riguarda l’accertamento della morte. Partendo da questi presupposti, ovvero la piena e consapevole conoscenza della materia, si pone la normativa circa la dichiarazione di volontà da parte di ogni cittadino (art.5). Questi, sapendo che la sua mancata risposta equivale ad un consenso al prelievo dei suoi organi e sceglie di continuare a tacere, manifesta con il silenzio la sua approvazione all’espianto.
Se tali disposizioni legislative troveranno effettiva applicazione, anche il coinvolgimento dei familiari nella decisione riguardo al prelievo di organi, sarà superato.
Lo stato potrebbe cioè stabilire che ogni cadavere può e deve essere fonte di organi. Alla base di questa impostazione vi è il concetto che un defunto sia res nullius, e quindi se ne possa disporre liberamente. Il cadavere, cioè, appartiene alla società (res communitatis), che può dispoe per il bene comune.
Scrive Salvino Leone: «In una rigorosa gerarchia di valori la vita di un uomo è superiore al rispetto per un cadavere. Il valore simbolico… di una persona che è stata… non può ritenersi superiore al diritto di un’altra persona che potrebbe avvantaggiarsi della sua organicità» (1).
Non si devono ignorare le volontà del vivente, ma non si può parlare di diritti in senso stretto. Già Pio XII nel 1956 affermava: «Il cadavere non è più, nel senso proprio della parola, un soggetto di diritto, perché è privo della personalità che sola può essere soggetta di diritto».
Infine una terza argomentazione è quella relativa alla «presunzione di bene», cioè si deve presumere, come atteggiamento più ragionevole per ciascuno, la volontà di mettere a disposizione i propri organi dopo la morte per il bene di un’altra persona.

Tuttavia, è doveroso sottolineare anche qualche obiezione a queste argomentazioni. Considerare il silenzio come un assenso potrebbe rappresentare, da parte dello stato e degli organi competenti, un abuso di potere, in quanto si va ad interferire in un ambito delicato e sacro dell’animo umano e si lede il principio di autonomia. Viene meno il potere che gli individui hanno sul proprio corpo e se ne disconoscono i diritti postumi, non tenendo neanche conto dell’opinione dei parenti.
Inoltre l’approvazione di una tale prassi vanificherebbe il senso sostanziale della «donazione» insito nel consenso al prelievo dei propri organi. Un punto imprescindibile che dovrebbe essere previsto dalla legislazione è la formalizzazione del consenso o dell’eventuale dissenso: nessuno può essere violentato nella sua volontà.
Per ovviare a queste obiezioni, molti concordano sulla necessità di inviare ad ogni cittadino un modulo sul quale esprimere la decisione di donare i propri organi. Nella carta sanitaria elettronica, usata in Italia per ora solo in via sperimentale in alcune regioni, potrebbe trovare spazio anche il consenso all’espianto degli organi.
L’obiettivo è quello di monitorizzare l’eventuale disponibilità alla donazione o alla sua negazione, grazie ad un circuito anagrafico informatizzato (decreto ministero della sanità, 8 aprile 2000).
Questo sistema nel quale si è obbligati ad esprimersi risolverebbe il problema del consenso presunto. Sono purtroppo pochi i cittadini che portano con sé, insieme ai documenti personali, il tesserino inviato qualche anno fa dal ministero della salute.
Anche perché a molti questo tesserino non è mai arrivato..

Enrico Larghero

(1) S. Privitera e coll., La donazione di organi. Storia etica legge, Città Nuova, Roma 2004, p. 65

Enrico Larghero

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