UCRAINA – Il travaglio dell’«ex granaio d’Europa»

I CETRIOLI DI NATASCIA

Genova e Venezia, repubbliche marinare, hanno qui alcune vestigia,
come l’esercito del Piemonte che, nel 1855, vince la battaglia sul fiume Ceaia.
Piccoli dettagli di un affresco vasto, complesso, affascinante…
«Ucraina» deriva da kraj, frontiera, forse a indicare le steppe sconfinate.
Dal 9° al 12° secolo il paese si identifica con la «Rus di Kiev».
Il popolo ucraino si consolida nel 15° secolo.
La sua sorte è legata a quella dei polacchi e, soprattutto, dei russi.
Il 1° dicembre 1991 l’Ucraina riconquista l’indipendenza, perduta nel 1654 quando diventa parte dell’impero zarista e, nel 1922, allorché abbraccia quello sovietico. Oggi gli ucraini camminano con le loro gambe. Che fatica, però!

«Comprate, comprate, signori miei! Il prezzo è piccolo, ma l’affare è grande!». È il ritornello, strillato a iosa, che ci accompagna mentre esploriamo le bancarelle di un rumoroso mercatino delle pulci. Udiamo altre parole davvero curiose, quali: Juve, Inter, Milan. Improvvisamente, da un pittore di quadri naif, scatta la domanda: «Perché voi, italiani, coprite d’oro il calciatore Andrei Shevchenko, ma lasciate che le nostre ragazze finiscano come prostitute sulle strade delle vostre città?».
Il quesito, furioso come una schioppettata, ci investe a Kiev, capitale dell’Ucraina.

DOPO CHERNOBYL
Ucraina: quasi 50 milioni di abitanti, su una superficie due volte l’Italia. Dopo la separazione-indipendenza dall’Unione Sovietica nel 1991, la nazione sta camminando con le proprie gambe. Ma che fatica!
Le risorse economiche non mancano. Nel campo minerario il paese possiede carbone, ferro, petrolio, gas naturale. Molti impianti, però, sono obsoleti, a scapito della sicurezza. Il 19 luglio 2004, in una miniera di carbone di Donetsk, 25 operai morirono per un’esplosione di gas.
Non manca l’uranio. Ma all’erta con l’uranio! Il settore energetico si avvale (si dice) di 6 centrali nucleari «rinnovate», perché quelle vecchie sono pericolose. Gli ucraini (e non solo loro) lo sanno. Anzi, non scorderanno facilmente il 26 aprile 1986, allorché esplose un reattore della centrale nucleare di Cheobyl, a 120 chilometri da Kiev.
Complice la disinformazione voluta, all’inizio sembrò un incidente persino banale. Ma subito «bagliori mai visti» seminarono morte a ritmi incalzanti. Alla fine le vittime delle micidiali radiazioni saranno 160 mila e 3 milioni i contaminati, che sopravvivono in qualche modo. Senza contare i bambini nati deformi.
Oggi quella «zona maledetta» conta 300 individui: dopo l’evacuazione del 1986, sono ritornati a casa loro, nonostante che il territorio soffra ancora le conseguenze dell’inquinamento radioattivo. La «peste» durerà almeno 100 anni!
Invece più sicuri sarebbero i prodotti agricoli, a prescindere dagli organismi geneticamente modificati. Però, in Ucraina, soprattutto l’agricoltura è in crisi. Si importa persino frumento. Che ne è del paese «granaio d’Europa»? E dove sono finiti i potenti trattori che, sino a pochi anni fa, aravano vastissime steppe? «Sono scomparsi misteriosamente» risponde un piccolo agricoltore, con un linguaggio che ricorda quello in voga nell’Unione Sovietica.
In ogni caso la terra è proprietà dello stato. I contadini attendono con ansia dal governo ucraino la riforma agraria, per ottenere qualche ettaro in più e produrre una maggiore quantità di pannocchie o barbabietole. «Terreno comunque da acquistare» dichiara un modestissimo bracciante.
Ma con quali denari, se il salvadanaio dei risparmi si svuota continuamente?
Così l’80% degli ucraini vive sotto la soglia della povertà e 5 milioni sfidano la fortuna emigrando anche in Italia. Fra le donne, ecco le ricercate badanti per gli anziani. Però altre ucraine, adescate da raggiri mafiosi, devono adattarsi a battere i marciapiedi di Torino, insieme a qualche nigeriana.

MEGLIO IERI O OGGI?
Soggioando (anche poche settimane) nell’ex Unione Sovietica, gli interrogativi che pungolano continuamente la mente del visitatore sono sempre gli stessi. E cioè: è preferibile il regime marxista o quello capitalista, lo stile di vita di ieri o quello di oggi? Sono stati socialmente più validi «i piani quinquennali» di Nikita Kruscev o il libero mercato di Vladimir Putin? In Russia gli anziani non nutrono dubbi al riguardo: la grande maggioranza rimpiange il comunismo, in città come in campagna.
In Ucraina la musica non cambia. Dalla metropoli di Kiev al porto di Odessa i settantenni stentano, oggigiorno, a sbarcare il lunario. Le loro pensioni, per esempio, sono da «terzo mondo»: appena 24 euro mensili, al cospetto di generi alimentari, capi di abbigliamento e farmaci costosissimi.
Fino al fatidico 1989 (l’anno della caduta del muro di Berlino) l’istruzione era gratuita e garantita a tutti. Gratuita era pure l’assistenza sanitaria, anche se nelle repubbliche dell’Unione Sovietica (già prima della «glasnost-trasparenza» e della «perestrojka-ristrutturazione» di Michail Gorbacev) qualcuno mormorava con sarcasmo: «Se la salute non ti interessa, va’ a curarti in un ospedale pubblico!».
Tuttavia l’Unione offriva a tanti la possibilità di spostarsi per le ferie da un capo all’altro dell’Urss: dall’inospitale e gelida Siberia alla dolce e florida Crimea sul Mare Nero.
Però i giovani non rimpiangono il passato. «Io ho due figlie, di 20 e 30 anni – dichiara Natascia -. La ventenne non sa nulla del regime comunista, mentre la trentenne ricorda poco. Però preferisce il sistema attuale, perché offre maggiore libertà. Ma occorre fronteggiare la minaccia del terrorismo…».
Natascia, colta guida turistica di Kiev sulla cinquantina, afferma: «Oltre al russo e all’ucraino, parlo italiano, francese e inglese. Anni fa sono stata a Roma, Parigi e Londra. Ai tempi dell’impero sovietico non mi era consentito uscire dall’Urss. Confrontando lo standard di vita dell’Europa occidentale con il nostro, sono giunta alla seguente conclusione: le persone come me, che godevano di una buona cultura e di una discreta posizione statale, erano abbastanza fortunate rispetto a tante altre. Però ero chiusa in gabbia, e non me ne rendevo conto».
Conversiamo con Natascia in un piccolo ristorante, attorno a un piatto di cetrioli. Già, cetrioli! Sempre cetrioli: a colazione, pranzo e cena. Anche la guida li osserva con un pizzico di commiserazione, girandoli e rigirandoli con la forchetta. E soggiunge: «Se l’Ucraina vuole attirare i turisti europei e americani, deve rivedere la propria cucina, soprattutto se a tavola siedono italiani».

TURISTI BENVENUTI
In Ucraina il patrimonio storico, culturale e paesaggistico è favoloso. Per esempio: la penisola di Crimea, al di là delle attrazioni climatiche, offre uno spaccato di storia tormentata. Terra antichissima, abitata già nel paleolitico dal popolo iranico degli sciti e successivamente, nell’arco di secoli, dai tauri, dai tartari, ecc. Nel 13° secolo vi approdarono anche colonie di genovesi in lotta contro i veneziani.
In Crimea i turisti italiani osserveranno con interesse il fiume Ceaia, sulle cui sponde nel 1855 l’esercito del Piemonte, alleato dei francesi e degli inglesi, vinse una sanguinosa battaglia contro i russi.
Nel 1941-43 la penisola fu preda delle truppe tedesche naziste, che sterminarono gli ebrei locali. Al ritorno dei russi-sovietici, i tartari furono deportati in Siberia: 200 mila perirono di stenti.
In Crimea non si può mancare Jalta, splendida località marina e ambita sede vacanziera di tanti «vip» comunisti dell’Unione Sovietica. Inoltre a Jalta, il 4-11 febbraio 1945, Iosif Stalin, Winston Churchill e Franklin D. Roosevelt si spartirono una cospicua fetta del potere mondiale, dichiarandosi «guerra fredda».
Dal 1992 la Crimea è parte dell’Ucraina, ma con una larga autonomia.
Notevole è pure il richiamo turistico esercitato da Leopoli, città di 900 mila abitanti: un po’ austro-ungarica (fece parte dell’impero asburgico dal 1772 al 1917), un po’ polacca (la Polonia l’ha rivendicata per molto tempo), un po’ russa (si contano circa 140 mila russi), ma soprattutto ucraina. Da Leopoli (meglio L’viv), sotto il profilo culturale, si guarda più all’Europa occidentale che alla Russia.
A 40 chilometri dalla città, su una fonte ritenuta miracolosa sorge il monastero studita di Univ. È uno dei massimi centri della religione greco-cattolica, che risale al 1300, importante anche per capire la storia della nazione…
Ma il cuore dell’Ucraina è, certamente, Kiev: e non solo perché è la capitale. La metropoli è addirittura considerata «la madre delle città russe». Secondo le cronache antiche, il popolo di Kiev, con il principe Vladimir in testa, scese nelle acque del fiume Dneper, dove l’intera comunità sarebbe stata battezzata con il nome di Rus. Correva l’anno del Signore 988, che segna l’inizio del cristianesimo in Ucraina e nelle regioni limitrofe, Russia compresa.
Nel 13° secolo l’invasione delle orde tartare segnò per sempre il destino di Kiev, distruggendo inestimabili opere artistiche. Più a nord sorsero nuovi principati e centri politici: San Pietroburgo, Mosca…
Nel 2001 anche Giovanni Paolo ii visitò Kiev e dintorni, soffermandosi in preghiera presso due «colossei modei» o luoghi di martirio. Il primo è Babij Jar, alla periferia della città. Qui, nel 1941-43, i nazisti consumarono terribili massacri: scomparvero circa 100 mila persone, in gran parte ebrei, ma anche zingari, oppositori e prigionieri di guerra sovietici. Dal 1976 un monumento di bronzo ricorda quegli eccidi.
Il secondo «colosseo» si chiama Bykivnja, a 30 chilometri da Kiev. In una zona boschiva, nel 1937-41 Stalin seppellì in fosse comuni circa 50 mila presunti oppositori del regime (di cui 15 mila identificati), vittime delle «purghe» del dittatore. Oggi su una pietra si legge: «La cosa più cara è stata la libertà. Noi l’abbiamo pagata con la vita».

E LA SITUAZIONE RELIGIOSA?
Natascia, l’esperta guida di Kiev che si trastulla con slavati cetrioli, accenna anche alla complessa situazione religiosa dell’Ucraina. Alla domanda «lei è credente?», risponde: «Vorrei esserlo, come lo sono stati i nonni e un po’ i genitori. Invece sono agnostica. Ma, se fossi credente, non vorrei essere né ortodossa, né cattolica, né protestante, ma semplicemente cristiana».
I cattolici e gli ortodossi d’Ucraina ebbero «un sussulto» nel 2001, con la visita di Giovanni Paolo ii del 23-27 giugno. «Desidero rassicurare gli ortodossi che non sono venuto qui con intenti di proselitismo. Prostrati davanti al comune Signore, riconosciamo le nostre colpe. Assicuriamo il perdono per i torti subiti…». Sono alcune battute, con le quali il papa invitava tutti i cristiani a superare i nefasti pregiudizi del passato.
Gli ortodossi rappresentano il 55% della popolazione e i cattolici l’11%. Vi sono anche piccole minoranze di protestanti, ebrei e musulmani, mentre il 30% si dichiara ateo.
Le contese non dividono solo gli ortodossi dai cattolici, ma anche gli stessi cattolici, distinti in rito greco-cattolico (9%) e rito latino-cattolico (2%). Gli ortodossi hanno disprezzato e disprezzano i greco-cattolici, chiamandoli «uniati» (uniti al pontefice romano).
Nel 2001 papa Wojtila invitò tutti a riconoscere «l’ecumenismo dei testimoni dell’unica fede cristiana», anche se vissuta in denominazioni differenti. Inoltre sottolineò «l’ecumenismo dei martiri»: martiri ortodossi, cattolici e protestanti. Nel ’900 la sola Ucraina vide soccombere, sotto i colpi della guerra, del nazismo e del comunismo, ben 17 milioni di persone, appartenenti a diversi credo.
Le persecuzioni subite dai cattolici sono rievocate, in parte, da Iryna Kolomyec, dell’università cattolica di Leopoli, figlia del prete greco-cattolico Stephan Kolomyec (ndr: i sacerdoti greco-cattolici possono sposarsi).
Padre Stephan fu vittima del comunismo. A partire dal 1935, divenuto parroco in un villaggio, esercitò il ministero (con fatica) sino alla fine della 2a guerra mondiale, allorché venne brutalmente arrestato dalla polizia Kgb e condannato a 10 anni di lavori forzati. Morto Stalin, nel 1954 Stephan ritoò a casa. La moglie Maria non lo riconobbe più, tanto era sfigurato per gli stenti patiti. Riprese a esercitare il ministero pastorale. Ma la Kgb lo ricercava. Il sacerdote, saputolo, fuggì nell’Ucraina orientale, dove lavorò come contadino in un kolkoz. Ma nella pasqua del 1969 la polizia lo scovò e ricacciò ai lavori forzati e, poi, agli arresti domiciliari. Padre Stephan morì nel 1974 a 65 anni…
Leonid è un prete cattolico polacco di rito latino: solleva l’annoso problema della restituzione ai legittimi proprietari degli edifici di culto, requisiti dal regime comunista. Da otto anni è responsabile della comunità cattolica di Sebastopoli (Crimea). Ma la chiesa è un cinema dal 1935, allorché il parroco finì nel famigerato carcere Lubjamka di Mosca e poi fucilato. Malgrado tutto, padre Leonid è contento. Anche i rapporti con gli ortodossi sono cordiali; vi sono pure incontri interconfessionali per esaminare insieme i problemi sociali e religiosi…
Un pomeriggio concelebriamo l’eucaristia in una stanza dell’appartamento del sacerdote, in un condominio, con alcuni fedeli. L’attesa di tutti è che il cinema, all’angolo della strada, ridiventi chiesa.

Odessa. Celeberrima è la scalinata della città, immortalata dal film La corazzata Potemkin di Sergej Ejzenstejn (1925). Il capolavoro racconta la rivolta dell’equipaggio della nave russa Potemkin, che raggiunge Odessa. L’ammutinamento scoppia perché il medico di bordo dichiara commestibile carne marcia. La gente è solidale con l’equipaggio. Ma la polizia dello zar affoga nel sangue la ribellione. Fra le vittime c’è una mamma, con una carrozzina, sulla sommità della scalinata di Odessa. Colpita a morte, la donna abbandona la carrozzina, che precipita lungo la gradinata. Finché si rovescia. La scena del film è apparsa anche un preludio dei tragici «kapitomboli» nei paesi dell’Unione Sovietica.

Francesco Beardi




COLOMBIA – Caracoli: tra i

IL MONDO DI PADRE JUAN

Una scuola «virtuale» per contrastare il disagio giovanile nella periferia violenta della capitale colombiana. Un’azienda agricola gestita dai
«bimbi della guerra». L’esperienza di un missionario della Consolata con il gusto della pace e tanta voglia di creare speranza.

Caracolí è un quartiere nel sud di Bogotá dove molti colombiani, specialmente del ricco nord, non si sono mai avventurati. Per raggiungerlo bisogna salire, con una camionetta o con un bus da pochi pesos, lungo strade non asfaltate che tagliano in due gli agglomerati di mattoni, laminato e legno. Attraverso le porte delle baracche, spesso aperte, si intravedono panni stesi ad asciugare, corpi scalzi e cani stanchi.
Da quasi dieci anni Caracolí è un quartiere «di invasione», cioè un quartiere che raccoglie gente di tutta la Colombia costretta ad abbandonare la terra per necessità un tempo economiche e ora soprattutto politiche. Sono specialmente i desplazados (gli sfollati a causa della guerra) a riempire il sud di Bogotá di poche cose e tante facce, che hanno i colori di tutta la nazione, dal nero della costa – retaggio dell’antica schiavitù – alla pelle dorata dei meticci, fino ai tratti olivastri e fieri degli antichi indios.
La gente è povera a Caracolí. Se tutto va bene si può permettere un pasto giornaliero: un piatto di riso e fagioli o ceci, tanto per cambiare. La sera è sufficiente una tazza di agua panela, acqua zuccherata, e poi a dormire, perché il giorno finisce presto in quelle strade polverose, dove alle 8 della sera è meglio chiudere la porta, dato che alle 10 nessuno, ma proprio nessuno, si avventura per i vicoli.
Ci sono i paramilitari a Caracolí: un esercito indipendente, un tempo finanziato dai ricchi per tutelare le terre dalla guerriglia, là dove lo stato non garantiva tutela sufficiente, e ora diventato un essere dalla vita propria e dalle cento teste. Nessuno sa chi siano, gente che vive nel quartiere, forse il vicino di casa; però tutti sanno che ci sono e non parlano. Hanno paura.
Da gennaio a metà aprile i paramilitari hanno già ucciso 88 persone nel sud di Bogotà, la maggior parte dei quali giovani al di sotto dei 25 anni. La chiamano limpieza social, pulizia sociale, volta a eliminare chi è coinvolto in giri di droga, furto o malavita in genere. La polizia entra di rado in questa parte della città e sempre in pattuglie numerose.
La gente è abituata alla morte. «Che succede là?» chiediamo a un bambino che ci corre incontro con un lecca lecca in bocca. «Un morto. Hanno trovato una mano, poi la testa. Il corpo se lo stanno mangiando i cani».
Sostiamo ai piedi della salita guardando la piccola folla radunata attorno a due uomini con le tute azzurre che raccolgono con pazienza i resti del cadavere. Da una rivendita di pane e conserve poco lontana arriva prepotente la musica un po’ malinconica di un vallenato e una donna dai fianchi marcati accenna un passo di danza.
Meraviglia e indifferenza, vita e maledizione, si può trovare di tutto e tutto nello stesso momento nella calle, che a Caracolí non è una strada come le altre, no: qui è più casa della casa. Raccoglie i bambini che, dopo la scuola primaria, non hanno la possibilità di continuare a studiare; raccoglie le donne che alle 4 del mattino si accodano pazienti in attesa di un autobus che le porti al nord, dove lavorano nelle case dei ricchi per 300.000 pesos al mese, poco meno di cento euro. Raccoglie gli uomini che vanno ai mercati generali, dove sperano di poter guadagnare la giornata e di recuperare qualche verdura di scarto per la zuppa del giorno dopo. Raccoglie gruppetti di idraulici, elettricisti e improvvisati muratori, che si aiutano l’un l’altro per costruire case veloci che sembrano fazzoletti sensibili al vento.
Gli sguardi ti seguono, quando arrivi a Caracolí, per vedere chi sei e dove vai, per provare a immaginare perché gente occidentale, che non possiede i tratti caldi dell’America Latina, si sia decisa ad andare proprio lì.

Sono ormai tre anni che un missionario della Consolata sale, spesso solo, lungo la calle di Caracolí e la gente lo riconosce, perché lui si ferma in tutte le case, una per una, e non ha fretta. Porta un messaggio, un invito per la fagiolata della domenica pomeriggio; porta un conforto o un semplice saluto e la gente sorride a quell’uomo grande, con la faccia italiana, che dopo tanti anni di America Latina non ha perso l’accento piemontese.
Padre Testa ha appena comprato una casa che due muratori stanno sistemando. Sulla porta c’è un cartello che invita ai corsi di alfabetizzazione: per informazioni rivolgersi alla Escuela amigos de la naturaleza o casa de padre Juan, perché lui si chiama Gianfranco, ma la gente qui lo chiama così: Juan.
Per il momento è agibile solo il piano terreno, dove le novizie delle suore della Consolata organizzano corsi di taglio e cucito; presto sarà possibile celebrarvi la messa. Il primo piano diventerà un laboratorio di elettronica e informatica per i ragazzi del quartiere, in collaborazione con il Sena, Centro di formazione nazionale, che metterà a disposizione alcuni insegnanti volontari.
Padre Testa ha comprato dei gerani per la sua casa di Caracolí, perché chi entra possa trovare un po’ di colore e abbia voglia di fermarsi. Sono soprattutto i bambini a invadere la casa: bussano timidamente, mettono la testa oltre la porta e appena incontrano gli occhi di padre Juan, corrono ad abbracciarlo e sanno che lui non si risparmierà: è un uomo che dà. Un sorriso, una carezza, un pezzo di pane.
– Padre Juan, oggi è il mio compleanno, gli dice un bambino.
– E allora andiamo a scegliere un regalo.
In una bottega del quartiere dove si vendono caramelle, biscotti, yogurt e telefonate, il bimbo si alza in punta di piedi: «Voglio quello», un bocadillo (dolce di frutta e zucchero) da 200 pesos che per lui è il secondo grande dono di quel giorno speciale: «Guarda cosa mi ha regalato il mio padrino» dice il bimbo, tirando fuori da una tasca un pacchetto di crackers. Perché la miseria è grande quaggiù, ma la gioia può esserlo altrettanto e con molto poco.

Aiutare un ragazzo di Caracolí a studiare costa 15 euro l’anno. Con gli aiuti che la città di Bra (CN) non fa mancare al suo concittadino, padre Testa sta progettando un centro per i bambini e i giovani del quartiere, che potrebbe essere pronto per la fine del 2006.
Capace di accogliere ben 900 ragazzi, il centro diventerà la sede di una scuola superiore «virtuale», la prima e unica del quartiere, in collaborazione con l’Università pedagogica nazionale di Bogotá, che potrà offrire formazione giornaliera tramite computer. Sono previsti anche corsi di avviamento al lavoro, con laboratori di cucito, elettronica, informatica, cucina, assemblaggio di computer, infermieristica e coltivazioni idroponiche, per educare all’autosostentamento, mantenendo la memoria della terra abbandonata a causa della guerra.
La sanità, l’istruzione e la fame sono i tre grandi nodi sociali lasciati scoperti dalla politica dell’attuale governo, che ha deciso di investire quasi esclusivamente nell’esercito, per raccogliere i consensi di gran parte dei ceti medio-alti, che invocano la sicurezza in una nazione dove la guerriglia e il paramilitarismo da decenni minano la possibilità di muoversi liberamente.
Attualmente, il sistema nazionale copre una parte delle spese sanitarie di chi non ha un lavoro, però i ceti poveri faticano a pagare persino il 10% richiesto dallo stato. Per questo, il centro contempla l’apertura di un ambulatorio di primo soccorso, un dispensario medico e una mensa gestita dai ragazzi.
Sono previsti anche corsi di musica, teatro, arti marziali, ginnastica, pittura, per dare spazio e possibilità di sfogo, divertimento e aggregazione a tutti i giovani del quartiere che decideranno di frequentare il centro, che potrà nascere e mantenersi grazie agli aiuti economici di chi vorrà impegnarsi in un piccolo gesto sociale.
Oltre alla città di Bra, l’ambasciata del Giappone potrebbe finanziare parte del progetto; e già ci si muove attivamente sul territorio colombiano per reperire un gruppo di insegnanti volontari.
L’idea della costruzione di un centro giovanile a Caracolí nasce come continuazione della bella esperienza della Fundación niños de la guerra, hombres de paz, promossa nel 2000 dai missionari della Consolata come «gesto di consolazione» per l’anno santo, con l’idea di assistere i figli degli sfollati dalla guerra.
Nel 2001, padre Testa inizió a lavorare a Carmen de Apicalá (piccolo centro nel dipartimento del Tolima, a un’ottantina di chilometri dalla capitale) con un primo gruppo di bambini, la maggior parte provenienti da Caracolí, in una finca (azienda agricola) immersa nella zona tropicale, dove il clima caliente e la vegetazione dai colori forti e dalle forme enormi, fanno dimenticare in fretta il cielo grigio della capitale.
Le urla dei ragazzi accolgono ogni martedì la camionetta che arriva carica della spesa per la settimana. Il clacson suona e chiede un poco di respiro, ma i bambini non ascoltano: continuano a urlare e invadono i vetri di mani, facce e parole: «Padre Juan, padre Juan!».
Padre Testa passa tutta la giornata con i ragazzi, ascolta i racconti della settimana, li aiuta con i compiti, controlla come vanno le coltivazioni del piccolo campo adiacente alla struttura, dà consigli e distribuisce i piccoli pacchi che i genitori mandano ai figli.
«C’è qualcosa per me?» chiede ogni settimana il piccolo Nanchito, 7 anni, pelle nera e occhi grandi. No, nessuno si ricorda di lui; però padre Juan ha comprato un pacco di biscotti e con la penna blu ha scritto in un angolo della carta rossa: «Nanchito, te lo manda papà». E non è una bugia; non è un inganno: è solo un regalo che dà la sensazione di esistere.
Originariamente la finca apparteneva a un generale dell’aeronautica; oggi i tre diciottenni ospiti della fondazione occupano la casa del generale, mentre quella dei contadini è stata abbattuta per dare spazio a un primo blocco a due piani, adibito ad aule per lo studio. Oltre a una nuova cucina, sono stati costruiti 4 dormitori con letti a castello. Per le educatrici e gli ospiti, ci sono 6 stanze con servizi.
La gestione della finca richiede un grosso impegno economico, perché, oltre alla costruzione, ampliamento e manutenzione della struttura, bisogna pensare ai vestiti, al trasporto giornaliero fino alla scuola, alla divisa, cibo, materiale scolastico e personale professionale: una psicologa, una pedagoga e una cuoca che vivono 24 ore su 24 con i ragazzi.
I 43 ospiti della finca vanno tutti i giorni a scuola e nel pomeriggio, dopo i compiti, coltivano il piccolo campo, raccolgono cacao, banane, pomodori, allevano polli e maialini.
I ragazzi fanno votazioni periodiche per eleggere il presidente, vicepresidente, segretario e i responsabili di quattro aree: studio, lavoro nel campo, spiritualità e convivenza. Ogni settimana c’è un’assemblea per discutere i problemi quotidiani e per scrivere su un foglio a quadretti, sottoscritto in calce dai partecipanti, le richieste di materiale da inoltrare a padre Juan.
Gli adulti hanno diritto a parlare ma non al voto, ed è così, attraverso l’educazione all’autoresponsabilizzazione, che bambini di strada, abituati alla violenza e portatori di ferite profonde e rabbia, si avvicinano a se stessi e agli altri con l’idea di una convivenza possibile.

Quando i ragazzi tornano alla finca, dopo un breve periodo di vacanza nei quartieri di Bogotá, ci vuole almeno un mese per riportare l’equilibrio nel gruppo, perché nei quartieri periferici, dove la prepotenza è l’arma del vincitore, è costante la tentazione della droga e il ricorso alla violenza.
Nel sud della capitale i paramilitari stanno reclutando giovani per i loro «servizi» di ordine sociale: li attirano col miraggio di qualche migliaio di pesos per impiegarli come spie o direttamente nella lotta armata.
Ecco perché è forte il bisogno di dare al più presto ai bambini e ai giovani uno spazio alternativo, dove sia possibile imparare a fidarsi di se stessi e degli altri, nella prospettiva di un impegno comune e una solidarietà che conservi la memoria del passato e apra al presente.
Sono i bambini a dare ragione a padre Testa: sono i loro sorrisi, la vitalità che hanno dentro, l’immediatezza nel togliersi i vestiti per buttarsi nel fiume e la voglia di credere che quello spazio, un po’ sospeso tra il tropico e l’inferno, sia davvero un piccolo paese dove tutto può accadere. Ci si può arrabbiare e ci si può picchiare, si può chiedere scusa e si può ricominciare. Si deve ricominciare.
Lo si capisce vedendo la felicità sulla faccia di Nanchito, che ha il colore rosso di un pacco di biscotti e un nome scritto a penna. Lo si capisce vedendo la felicità sulla faccia di Nanchito e provandone stupore.
Stupore e meraviglia per un piccolo, fondamentale passo nella costruzione di un uomo che un giorno potrà raccontare che la vita, a lui, in fondo ha dato la possibilità di scegliere come diventare. Pur venendo da Caracolí, o soprattutto per quello.

Paola Cereda




ITALIA – Viaggio tra le comunità famiglia

COMUNITARIO È BELLO

Un numero crescente di famiglie vivono insieme, felici, con sobrietà e in spirito di solidarietà e condivisione: una risposta al bisogno di «umanità» e una sfida controcorrente all’individualismo, egoismo e mode consumistiche.

Alessandro e Simona, Alberto e Sandra, Antonio e Gabriella, Manfredo e Alessandra sono seduti nella grande cucina di uno degli appartamenti della «comunità-famiglia» Ruah, a La Loggia, nella seconda cintura torinese. Tutt’intorno corrono e giocano i loro figli.
Hanno acquistato una grande cascina e l’hanno ristrutturata con gusto ricavandone alloggi, separati da porte comunicanti, per ogni nucleo familiare.
Sono tutti sui 34-35 anni, cordiali, simpatici, colti: uno è laureato in Fisica, l’altra in Lingue straniere, un’altra in Legge, una fa la grafica pubblicitaria, l’altro l’imprenditore, ecc. E si sforzano di essere coerenti con i principi evangelici e le scelte comunitarie.
Stando insieme a loro si respira creatività e frateità, uno stile di vita semplice e rivoluzionario allo stesso tempo. «Abbiamo acquistato la nostra cascina qualche anno fa – racconta Alessandro – in “proprietà indivisa”, cioè con la condivisione totale della casa, dunque anche dei debiti. Volevamo sentirci uniti nella povertà. Siamo quattro famiglie e una suora laica. Ognuno di noi lavora all’esterno, ma passiamo molta parte del tempo libero insieme: ci aiutiamo nella gestione dei figli, dell’orto e delle abitazioni, e ci ritroviamo alla sera per la preghiera. Tutti insieme partecipiamo alle spese.
Per i bambini, poi, è una ricchezza enorme. Alla base della nostra scelta c’è la fede: ci eravamo conosciuti agli incontri di Taizé e in parrocchia. È stata una “chiamata”: ci accomunava la voglia di aiutarci e di aprire la nostra vita a persone con problemi. Uno dei nostri obiettivi era quello di provare ad avvicinare gente che non sarebbe mai entrata in chiesa».
«Anche sul lavoro cerchiamo di portare concretamente la nostra testimonianza – continua Alberto – e il nostro impegno verso la famiglia e la comunità: la fedeltà al Cristo, alla propria moglie o marito e alle scelte di condivisione e solidarietà, sono aspetti fondamentali della nostra quotidianità. Importante è anche la sensibilizzazione su tematiche religiose, economiche e sociali. Cerchiamo di dimostrare concretamente che un altro modo di vivere è possibile. E rende felici».
Tra di loro hanno deciso di non farsi regali: i soldi vengono destinati a progetti di sviluppo.

«MICRO» CONTRO «MACRO»
Le comunità-famiglia sono in «contro-tendenza» rispetto all’individualismo e rappresentano un segnale di cambiamento radicale negli orientamenti esistenziali di un numero crescente di coppie e di single. È la scelta di un presente e di un futuro più umani e sostenibili, meno consumistici ed egoistici, lontani dai modelli trendy, quanto falsi e deprimenti, veicolati dalla pubblicità, dai salotti tv e dai reality show.
Elementi base dell’economia comunitaria sono la condivisione degli spazi abitativi, della terra da coltivare (dalla quale si ricavano alcuni prodotti naturali da portare in tavola), delle spese; la collaborazione nella cura e nell’educazione dei figli; la frugalità; la solidarietà; il rispetto della natura e, per molti, la preghiera. Una versione modea e non autoritaria della vecchia famiglia patriarcale.
Scrive, infatti, Sara Omacini in Le comunità di famiglie1: «Nel passaggio dalla famiglia tradizionale a quella modea e a quella postindustriale, la privatizzazione è stata caratterizzata dalla ricerca di un ambito di vita relativamente “chiuso” al mondo esterno, in cui promuovere o preservare un particolare stile di vita, prima di un ceto sociale, poi della singola famiglia… La famiglia patriarcale estesa era in grado di diffondere nel tessuto sociale capacità organizzativa, senso del dovere collettivo, abitudine alla collaborazione e alla solidarietà. Il familismo, invece, impedisce la costruzione di rapporti di fiducia trasparenti e inibisce altre forme di vita associativa… È ovvio che se la famiglia ha mantenuto pochi rapporti con il mondo esterno, nel bisogno non sa a chi rivolgersi e situazioni relativamente difficili s’ingigantiscono, perché la famiglia vive una forte solitudine».
Le «macrofamiglie», dunque, rispondono a esigenze di «unità», di ritorno al «comunitario», di accoglienza. Ma anche di sostegno concreto: i prezzi dei prodotti alimentari che sono saliti alle stelle, il potere d’acquisto degli stipendi ormai sempre più debole, la mobilità e l’instabilità del mercato del lavoro, l’ascesa senza limiti dei costi degli affitti, le bollette di gas, luce e telefono, un tempo considerati «servizi» ora diventati «beni di lusso», e così via, spesso rendono angosciante e precaria la vita dei nuclei familiari, che non hanno più ammortizzatori sociali né sponde a cui aggrapparsi.
«Insieme riusciamo ad abbattere le spese – raccontano, infatti, Michele, Vittoria e Luca della frateità del Cisv, a Reaglie, nel torinese – e possiamo garantire la disponibilità a tempo pieno di uno di noi nelle attività della comunità».
La scelta di vivere insieme offre, dunque, quella tutela che lo stato italiano non garantisce più. Si tratta di una tendenza che va di pari passo con una realtà economica, sociale e culturale sempre più problematica. Un ritorno all’economia di villaggio, di sussistenza, di scambio. Il «micro» contro il «macro» della globalizzazione neoliberista che affama e amplia il divario tra il ricchissimo e il poverissimo e annulla, depauperandoli, i ceti medi.
«Ciò che stanno tentando di fare le comunità di famiglie è analogo a quanto fecero le comunità monastiche nel periodo della fine dell’impero romano. Potevano sembrare realtà marginali; eppure hanno elaborato e diffuso una nuova cultura, che ha inciso profondamente nella formazione dell’Europa. Oggi, quasi in silenzio e senza far notizia, sorgono ovunque movimenti di comunità di famiglie. Crescono a macchia d’olio e, pur con caratteristiche diverse, rispondono al bisogno di “umanità” che tutti avvertono»2.

DOVE E COME
Se ne possono incontrare in Piemonte, Liguria, Lombardia, Toscana e altre regioni: alcune sono organizzate in reti, come quelle affiliate all’Associazione comunità famiglia (Acf), che hanno alle spalle una lunga storia di volontariato e di condivisione. Altre sono esperienze di piccoli gruppi. Parallelamente, alcune hanno una forte caratterizzazione ecologica, come la comunità creata da Giannozzo Pucci a Fiesole, che pubblica la rivista italiana L’Ecologist, dedicata ai temi ambientali, oppure come gli «ecovillaggi» (il «Villaggio verde», «Comunità degli Elfi» di Sambuca Pistorniese, «Upachi», «Anande», ecc.), spirituale e/o religiosa e radicale, cioè, di rifiuto di ogni strumento tecnologico e consumistico. E altre che si contraddistinguono per la pratica della nonviolenza, come le comunità de «L’Arca di Lanza del Vasto».
Complessivamente sono diverse centinaia: il livello culturale delle persone che vi fanno parte è alto, così come la consapevolezza e la sensibilità ai piccoli e grandi problemi che affliggono l’umanità vicina e lontana. L’età degli adulti oscilla tra i 30 e gli over 50.
Le residenze sono, in genere, vecchie cascine ristrutturate, abbazie sconsacrate, ville d’epoca e castelli concessi in comodato gratuito, condomini ribattezzati «solidali». Quasi sempre in mezzo al verde e all’aria pulita.
La loro scelta di convivenza non significa assenza di privacy: nella maggior parte dei casi, infatti, ogni nucleo familiare ha un proprio spazio privato e i momenti comunitari vengono rappresentati dai pasti, momenti di preghiera, incontri, spesa, lavoro agricolo e volontariato.
Non si tratta di un revival delle «comuni» degli anni ’60 e ’70, anche se, ad esempio, le «frateità» del Cisv, un’organizzazione di volontariato di Torino, la comunità «Mambre» di Cuneo, quella di Villapizzone di Milano, il «Forteto» di Dicomano nel Mugello, sono nate proprio in quel periodo.

COLLANTE SPIRITUALE
La componente spirituale è sentita come un collante in molte esperienze comunitarie, perché ritenuta essenziale per il superamento di difficoltà e momenti di crisi: «Numerosi esperimenti di vita comune degli anni ’70 sono falliti – sottolineano le famiglie della comunità di Mambre, a Cuneo -, lasciando un senso di frustrazione e incompiutezza. Se alla base di determinate scelte c’è invece una forte fede e ideali ben radicati, anche gli ostacoli sono più facilmente superabili».
«La nostra realtà – spiegano Anna e Piero, della comunità “Nibai” di Ceusco sul Naviglio, in provincia di Milano – è nata sulla scia di un’altra esperienza: una cornoperativa di frateità con comunità residenziale, che agiva sul territorio. I primi anni sono stati di sperimentazione su principi-base, come il desiderio di creare un ambiente concreto dove maturare un cammino di fede profonda, la solidarietà e l’apertura verso gli altri, l’accoglienza sul territorio. Seguiamo le linee guida della comunità storica di Villapizzone, quella di Bruno Volpi3. Ora siamo un’associazione di comunità-famiglie. I nostri pilastri sono l’accoglienza, la condivisione dei beni e la spiritualità. Ci basiamo su un’economia frugale: stiamo attenti a ciò che compriamo».
Stili di vita e di consumo, dunque, fondati su quell’essenzialità che, nella filosofia delle comunità-famiglia, contribuisce a una trasformazione «dal basso» dei sistemi economici e sociali. Questo è pure il messaggio che, dagli anni ’90, lancia il «Centro nuovo modello di sviluppo» di Vecchiano di Pisa, creato da Francesco Gesualdi, allievo di don Lorenzo Milani. Esso è nato proprio dalle scelte «radicali» di un gruppetto di famiglie che, dal 1985, vivono insieme in un grande cascinale toscano.
«Per quelle strane combinazioni della vita – racconta Gesualdi -, trovammo persone che avevano la nostra stessa visione del mondo. E decidemmo di creare una comunità di accoglienza. Erano gli anni ’70, un momento particolare della storia contemporanea (c’erano i movimenti hippy, le comuni), anche se noi non ci innamorammo del comunitario fine a se stesso, ma della possibilità di mettere a frutto i nostri progetti e i nostri sogni. Volevamo coinvolgere la famiglia come istituzione, spezzando il cliché per cui essa era un intralcio al lavoro di cambiamento sociale. Decidemmo dunque di vivere insieme in una casa sufficientemente grande, perché ogni nucleo familiare potesse avere i propri spazi privati e alcuni luoghi di condivisione comuni a tutti. Insomma, doveva essere un luogo dove potenziare il nostro impegno: la nostra, infatti, era una scelta politica nel senso più ampio del termine…
Il Centro è nato per ricercare e analizzare le cause profonde che generano emarginazione e impoverimento, per definire delle strategie di difesa dei diritti degli ultimi e ricercare nuove formule economiche in grado di garantire a tutti gli esseri umani la soddisfazione dei bisogni ma nel rispetto dell’ambiente.
Studiamo le cause del sottosviluppo e le traduciamo in un linguaggio accessibile a tutti, anche a chi non ha strumenti culturali adeguati»4.

MENSA «ALLARGATA»
La comunità del Forteto5, a Dicomano nel Mugello, è un’altra di quelle che resistono tenacemente dalla fine degli anni ’70. I suoi 33 soci fondatori ne sono ancora pienamente parte da quasi 30 anni, da quando, cioè, giovanotti pieni di sogni e ideali si buttarono in quest’esperienza di condivisione e lavoro. Insieme avevano anche dato vita a una cornoperativa agricola, che ora è tra le più importanti del Mugello e distribuisce prodotti alimentari in tutta la Toscana.
Il nucleo originario, mano a mano, si è allargato, a seguito dei matrimoni, nascite, figli in adozione e affidamento: ora sono 100 persone e la loro mensa è davvero «allargata».
«Siamo rimasti in piedi fino a oggi – spiegano due dei fondatori, Luigi Goffredi e Luciano Barbagli – perché ci siamo trovati bene. Eravamo quasi tutti vecchi amici, cresciuti respirando l’aria di don Milani e di padre Balducci. Forte è stata anche l’impronta di Giorgio La Pira. Il filo conduttore che ci legava era la volontà di costruire relazioni che potessero continuare nel tempo e producessero accoglienza.
I primi 15 anni sono stati duri: i soldi erano pochi, ma il desiderio di lavorare era grande. Avevamo creato un’azienda agricola che ci permetteva di essere autosufficienti e di mantenere le nostre famiglie e i ragazzi che ci venivano affidati dai servizi sociali, e per i quali non volevamo assegni di mantenimento.
Il legame affettivo e ideale ci ha permesso di superare le difficoltà. La componente “fede” era relativa: i nostri pilastri erano l’amicizia, l’uguaglianza, gli ideali milaniani (che appassionano credenti e non credenti), e la nostra determinazione a metterli in pratica.
L’identità familiare di ogni singolo nucleo è sempre stata forte, seguita dal confronto comunitario. I nostri figli sono cresciuti insieme: la socializzazione è un’attività vitale per i ragazzi.
Ora siamo tantissimi: i nostri momenti di convivialità sono a pranzo e a cena. Alla sera ci ritroviamo per discutere, prendere insieme decisioni, proprio come facevamo agli inizi quando ci si riuniva per organizzare il lavoro dei campi o la raccolta dei prodotti. Da allora ci è rimasta questa buona abitudine».

Fondamentale, per tutte le comunità-famiglia, forse, è la convinzione che quello della condivisione sia un percorso necessario per il futuro di un’umanità solidale, interdipendente e corresponsabile.

BOX 1

Comunità Villapizzone, Milano
Fondata a Milano da Enrica e Bruno Volpi negli anni Settanta, è una grande cascina in cui vivono in «condominio solidale» una sessantina di persone e alcuni gesuiti. Tel 02-3925426 – comvillapizzone@tiscalinet.it

Frateità Cisv, Torino.
Sono attive tre comunità: a Reaglie, Sassi, Albiano. I primi nuclei comunitari risalgono agli anni ’60. Tel 011-8981477
– www.cisv.org

Il Forteto, Dicomano nel Mugello, Firenze
È nato nel 1977 da un gruppo di 30 giovani influenzati dagli ideali di don Milani. Ora sono un centinaio di persone, tra adulti e ragazzi. Si occupano dell’accoglienza di minori e hanno un’avviata azienda agricola.
Tel 055-8448376 – www.ilforteto.it

Comunità Mambre, Busca, Cuneo
Nata nel 1977, si occupa di accoglienza, fede, animazione socio-culturale e della Scuola di pace. Tel 0171-943407 – mambre@lillinet.org

Comunità Ruah, La Loggia, Torino
Sono quattro famiglie che vivono in una grande cascina in campagna e condividono momenti di preghiera, semplicità nello stile di vita, accoglienza, solidarietà e serate di discussione. Tel. 011-9627372

Centro Nuovo Modello di Sviluppo di Vecchiano di Pisa
La comunità di famiglie fondata nel 1985 da Francesco Gesualdi, allievo di don Milani. Tel 050-826354
– www.cnms.it

Esiste inoltre una rete di circa 200 nuclei familiari sparsi tra Lombardia, Piemonte e Toscana in collegamento fra loro, che si riuniscono periodicamente: è l’Acf, l’associazione comunità famiglie. www.acf.org.
Rive è la rete che collega una cinquantina di villaggi ecologici presenti in Italia, tra cui la Comunità degli Elfi, Alcatraz e Damanhur.
www.sostenibile.org/rive

Angela Lano




LETTERE – Scientology risponde

Egregio direttore,
intanto la ringrazio per avermi ricevuto; come ho avuto modo di esprimere durante la mia visita, in qualità di responsabile delle relazioni estee della chiesa di Scientology di Torino, siamo davvero addolorati dall’articolo pubblicato sul numero di aprile della vostra rivista in merito alla chiesa di Scientology.
Per motivi esclusivamente dovuti allo spazio concessoci, non è possibile replicare punto per punto alle informazioni, opinioni e affermazioni riportate. Restiamo comunque a disposizione per fornire fatti e ampia documentazione.
Non intendiamo annoiare i lettori, né si intende entrare in polemica con chi ha scritto l’articolo, con lei o con l’editore. Dobbiamo però dire che non siamo stati contattati dall’autore.
Il «Viaggio-inchiesta tra i “nuovi” culti» di Maurizio Pagliassotti, non è approdato a noi; forse da qualche altra parte. Quando uno scrittore racconta di luoghi in cui non è stato, l’idea che ne risulta sarà molto probabilmente parziale se non, come in questo caso, distorta.
A questa stregua possiamo solo schematizzare come segue ciò che abbiamo da dire:
1 – A Torino siamo una comunità che conta alcune centinaia di persone.
2 – Il numero di fedeli che la chiesa cattolica sta perdendo (se ne sta perdendo) a causa della crescita della religione di Scientology nel mondo è del tutto trascurabile. Tutti gli scientologhi pagano le tasse, collaborano con le istituzioni, con altre associazioni e chiese e la maggior parte di loro, incluso il sottoscritto, non rinnegano le loro origini cristiane né l’appoggio alla chiesa cattolica. Moltissimi scientologhi, in precedenza, non avevano mai aderito a una religione in quanto praticanti.
3 – Le mete della chiesa di Scientology sono «una civiltà senza pazzia, senza criminalità e senza guerre». Il filosofo e umanitario L. Ron Hubbard ha promosso attivamente, fattivamente e quotidianamente il rispetto e la collaborazione reciproci tra persone, razze e religioni differenti, attraverso l’accrescimento della consapevolezza e del senso di responsabilità dei singoli individui. Questo impulso è stato raccolto dagli scientologhi e di fatto ciò sta avvenendo in tutto il mondo. Chiunque lo voglia potrà avere conferma diretta e personale di tali attività.
4 – Il fatto che esistano persone e siti che si oppongono non giustifica il tentativo di sminuire le nostre reali intenzioni e azioni, ponendo l’accento solo sulle controversie da questi alimentate e non significa che le nostre intenzioni e azioni siano quelle evidenziate dai nostri detrattori, forse un centinaio, dato che quelle dei sostenitori, qualche milione nel mondo, non vengono neanche presi in considerazione.
5 – Solo per fare un esempio, il fatto che il metodo laico di riabilitazione dalla droga sviluppato dallo stesso Hubbard abbia letteralmente salvato la vita a oltre 250.000 persone, quasi distrutte dalla tossicodipendenza, non ha riempito le prime pagine dei giornali, ma è un fatto facilmente riscontrabile e documentabile che meriterebbe un articolo a sé. Naturalmente non lo chiediamo, altrimenti veniamo tacciati di volerci fare pubblicità. Detto per inciso, non divulgare un qualcosa che può salvare la vita a moltissime persone è come lasciarle morire.
6 – La chiesa di Scientology offre una grande quantità di libri gratuiti alle biblioteche ed è possibile farsi una idea di cosa sia Scientology e metterla in pratica senza sborsare un euro, senza necessariamente avvicinarsi a una sede. Per chi intende venirci a trovare sono disponibili servizi e/o pubblicazioni gratuite e una biblioteca intea. Chi contribuisce economicamente, in base alle proprie possibilità, lo fa perché intende sostenere la sua chiesa che diversamente non potrebbe esistere dato che non usufruisce di alcun finanziamento pubblico di nessun genere. Le attività che vengono svolte sono caritatevoli, a carattere religioso e senza fini di lucro, secondo le leggi vigenti degli stati in cui è presente (oltre 130).
Pagliassotti conclude riferendosi a una «colluvie di studi pro e contro» il nostro movimento. Su questo punto siamo d’accordo. Si tratta di una colluvie, ossia una «quantità di cose sudicie e putride per lo più liquide» (Dizionario Garzanti della Lingua Italiana). Non converrebbe liberarsi dalla colluvie, che causa confusioni, pregiudizi, dubbi, odio ingiustificato e conoscersi meglio?
Giuseppe Cicogna
ufficio relazioni estee
chiesa di Scientology (TO)

Prendiamo atto degli aspetti positivi del movimento di Scientology. Vorrei precisare che, prima di scrivere l’articolo contestato, l’autore ha contattato la sede di Scientology di Milano.

Giuseppe Cicogna




LETTERE – Gli anziani: un valore aggiunto

Cari missionari,
nel giro di una settimana ho letto quasi interamente il fascicolo di maggio di Missioni Consolata, che considero forse la migliore tra le tante riviste missionarie oggi esistenti. La giudico completa per l’attenzione alla realtà mondiale, coraggiosa, senza scadere negli estremismi ideologici, aperta alla collaborazione di giornalisti laici.
Per cominciare, la figura profetica (e santa) di Romero mi affascina, tutte le volte che viene tratteggiata. Peccato che non abbia mai trovato chi con striscioni e voce gagliarda gridasse «santo subito». Se la chiesa non santifica Romero, chi merita di salire agli onori degli altari?
Ritengo indispensabili le due pagine dedicate alla spiegazione della sacra scrittura, tenendo conto che noi cattolici, laici soprattutto, mastichiamo a fatica il Primo e il Nuovo Testamento. Don Farinella svolge in modo egregio questo compito.
Il «dossier anziani» merita di essere riletto più volte, per la sua importanza e le riflessioni che provoca. Queste sono le mie.
– Si insiste nell’indicare il 65° anno di età come inizio dell’anzianità: sembra un’età ancora «giovanile», se è vero che in questi ultimi 30/40 anni la salute (e la longevità) è migliorata parecchio…
– Circa la chiesa, le nostre parrocchie: non mi pare che si valorizzi molto la «terza età» (non lo dico per polemica o per rivendicazione di potere). Dico che oggi una persona a 65 anni è ancora produttiva, creativa. Perché non tenee conto?
– Il costo delle badanti mi pare alto. So che qualcuno versa fino a 3 milioni (di vecchie lire) per una prestazione mensile, sia pure a giorni pieni, 24 ore su 24.
– Perché non vogliamo imitare i primi cristiani (che pare avessero tutto in comune) e non pensiamo (a una certa età) a convivenze tra fratelli e sorelle e non (vivendo come tra fratelli e sorelle, ovviamente)?
– Certo la soluzione prospettata da ricoveri tipo «Sorelle per i poveri» (pag. 32/34) è ottima, da incrementare, moltiplicare, visti gli attuali costi impervi di troppi ricoveri, ammesso che l’uomo d’oggi e di domani si trovi a suo agio in soluzioni del genere?
– Ritengo l’articolo di L. del Piatto, «Se non incontro lo specchio…», meritevole di figurare sulle antologie per i nostri studenti.
– Per finire: tutte le riviste missionarie ci portano in casa situazioni di fame, malattia, violenza, guerre… (purtroppo trascurate dalla tv). Mentre sto cenando, come posso digerire la notizia che un certo Bonolis ha firmato un accordo con Mediaset con cui intascherà 24 milioni di euro in tre anni? Mi auguro che almeno qualche briciola il fortunato presentatore la devolverà per quelle terribili condizioni.
Ambrogio Vismara
Cuggiono (MI)

Grazie per le stimolanti considerazioni. Vogliamo sottolineae solo una: valorizzare di più la «terza età» non solo in parrocchia, ma anche nelle missioni. A tale proposito segnaliamo la testimonianza dei coniugi Paracchini in Rwanda: «Chiamati all’11a ora» (M.C. settembre 2004 e gennaio 2005, p.7).

Ambrogio Vismara




LETTERE – Governo e guerriglia sullo stesso piano?

Cari missionari,
ho letto con interesse il servizio sulla Colombia (M.C. maggio 2005). Credo tuttavia sia opportuno precisare un aspetto. Nell’articolo si parla di forti interessi economici per lo sfruttamento delle risorse naturali e introiti della coca, sia da parte del governo che della guerriglia, ipotizzando che queste siano le vere cause della guerra. Questo approccio tende, a mio avviso ingiustamente, a mettere sullo stesso piano governo e guerriglia.
Premesso che la lotta armata e l’uso della violenza per risolvere i problemi è sempre sbagliato, non si deve dimenticare che tale lotta nasce da una situazione di profonda ingiustizia sociale (una ristretta oligarchia ricchissima controlla economia e politica, mentre 33 su 44 milioni di abitanti sono poveri), combinata con un’assoluta mancanza di reali prospettive di soluzioni democratiche.
Il governo colombiano ha tollerato e supportato lo sviluppo di forze paramilitari che collateralmente all’esercito e ai narcotrafficanti (finché sono stati utili) hanno usato la violenza indiscriminata sulla popolazione civile (con stragi di contadini, donne, bambini, sindacalisti, difensori dei diritti umani e giornalisti), per intimidirla e tutelare gli interessi di aziende e latifondisti, agendo nella più totale e scandalosa impunità (cfr. G. Piccoli, Colombia, il paese dell’eccesso).
Quando, dopo un accordo di pace, la guerriglia costituì un partito (Union Patriotica) per partecipare alla vita democratica, sospendendo la lotta armata fu sottoposta a un massacro continuo e impunito dei suoi iscritti e rappresentanti (media di 1 politico di Up ucciso ogni 19 ore per 7 anni, compreso un candidato alla presidenza nel ’90, fino all’estinzione totale), dimostrando come la Colombia sia solo formalmente una democrazia, anche se i nostri governi la considerano tale solo perché vi sono «libere» elezioni.
P.S. Complimenti per gli interessantissimi dossiers su giovani ed anziani.
Dario Selvaggi
Trapani

La situazione della Colombia è molto complessa. Abbiamo sempre denunciato la mancanza di vera democrazia e le ingiustizie sociali, contro cui sono insorti i movimenti rivoluzionari. Oggi, però, gli ideali dei vari gruppi guerriglieri non corrispondono più a quelli delle origini.

Dario Selvaggi




Negativo anche il buon Gesù?

Eccoli ancora «in vetrina» nel castello di Gleneagles (Scozia). I G8, ossia, i capi dei paesi più industrializzati del mondo, Italia compresa, dal 5 all’8 luglio 2005 si sono ritrovati nella cittadina scozzese per discutere di petrolio, crescita economica, clima, nonché degli affanni dell’Africa. Come in altre occasioni, non sono mancati i contestatori, fra cui i black block con i loro vandalismi. Di fronte all’incivile spettacolo qualcuno ha commentato: «Speriamo che non ci scappi il morto come al G8 di Genova nel 2001».
Speranza vana. Le vittime sono quasi 60. Ma, rispetto a Genova, la strage è differente: è avveunta a Londra il 7 luglio, sui convogli della metropolitana, edè stata rivendicata dalla famigerata Al Qaeda.
Al cospetto delle vittime (innocenti) di ieri e oggi, la «simpatia» è profonda e la condanna totale per gli attentatori. I sentimenti si tramutano soprattutto in preghiera. E non scordiamo l’Africa, che svettava come priorità nell’agenda dei G8. Poi, con l’incalzare della tragedia londinese, l’attenzione è quasi svanita: destino perverso, ricorrente per il continente nero.

N el loro documento finale i G8 hanno proposto un piano di aiuti all’Africa: prevede anche l’azzeramento del debito estero di 14 paesi poveri. Il problema era stato sollevato qualche giorno prima, a Londra, dai ministri finanziari dei G8 (Russia esclusa), groriandosi di «una scelta epocale». Esagerati! La cancellazione di debiti multilaterali è un’iniziativa già in atto da tempo per opera della società civile e religiosa, chiesa cattolica in testa. Pertanto è fuori luogo ascrivere ai G8 una scelta epocale.
E poi, la scelta è largamente insufficiente: sono circa 70 le nazioni gravate dal debito estero. Spesso si va per le lunghe. Ma, se vi sono interessi occidentali in gioco, i debiti si azzerano in fretta. Nel 2004 l’Iraq beneficiò di un condono di 30 miliardi di dollari.
Insufficienti sono pure i 50 miliardi di dollari destinati dai G8, entro il 2010, allo sviluppo dell’Africa. Secondo l’Onu, tale somma dovrebbe essere stanziata ogni anno per realizzare nel 2015 gli obiettivi proclamati nel 2000. Intanto le nazioni ricche sono lontanissime dal devolvere allo sviluppo del Sud del mondo lo 0,7% del loro prodotto interno lordo, promesso da decenni, riaffermato solennemente dai G8 a Genova e sempre disatteso. Oggi l’impegno dello 0,7% viene posposto al 2015, allorché almeno i paesi dell’Unione europea dovrebbero assolverlo.
Nel 2001 i G8 avevano pure deciso di combattere l’Aids in Africa: un’altra promessa da marinaio, rilanciata a Gleneagles. La verità è che, spesso, i G8 non possono né vogliono decidere, né tanto meno agire, ma solo «raccomandare», specialmente quando sono coinvolte istituzioni inteazionali.
I meeting dei G8 sono discutibili anche per il loro regolamento e per numero e identità dei partecipanti. A Gleneagles, dove si intendeva portare alla ribalta l’Africa, i suoi veri portavoce erano pochissimi. Dal G8 si dovrebbe passare al «G-tutti»: parola di Dionigi Tettamanzi nel 2001, arcivescovo di Genova.

A llibiti dalla strage di Londra, i G8 non hanno potuto ignorare il terrorismo internazionale. Tony Blair ha dichiarato che bisogna eliminare le sue cause profonde: la repressione non basta. Il premier britannico lo ha detto anche perché, nelle ultime votazioni, ha rischiato di perdere la poltrona, dato il coinvolgimento armato della Gran Bretagna in Iraq.
La risposta militare ad azioni terroristiche annienta vite in Iraq e Afghanistan, con una instabilità che potrà durare anni. È necessaria una riflessione critica sugli atti di violenza e ingiustizia che alienano milioni di uomini e donne in tutto il mondo. «La pace si costruisce giorno per giorno nel perseguimento di un ordine voluto da Dio, che comporta una giustizia più perfetta tra gli uomini» Populorum progressio 76).
Noi abbiamo sempre creduto nella trattativa politica e nel dialogo. Però il dialogo non è praticabile con chi parla solo seminando morte e terrore. Ma questo non deve scoraggiare; invece deve intensificare lo sforzo per interloquire con chi, specie nel mondo arabo e islamico, persegue cammini di convivenza, di equa ripartizione delle risorse (patrimonio dell’intera umanità), di solidarietà. Una sfida gigantesca.
Pare che persino Gesù non fosse sempre solidale con gli stranieri. A una madre, sirofenicia, che gli chiese di soccorrere la figlia indemoniata, replicò con arroganza: «Non è giusto buttare ai cani il pane dei figli». «È vero, Signore – replicò la donna -. Ma i cani, sotto la tavola, non possono mangiare le briciole dei padroni?». E Gesù fu sconfitto da «un’extracomunitaria infedele» (cfr. Mt 15, 21-28).
Francesco Beardi

Francesco Beardi