COLOMBIA – Caracoli: tra i

IL MONDO DI PADRE JUAN

Una scuola «virtuale» per contrastare il disagio giovanile nella periferia violenta della capitale colombiana. Un’azienda agricola gestita dai
«bimbi della guerra». L’esperienza di un missionario della Consolata con il gusto della pace e tanta voglia di creare speranza.

Caracolí è un quartiere nel sud di Bogotá dove molti colombiani, specialmente del ricco nord, non si sono mai avventurati. Per raggiungerlo bisogna salire, con una camionetta o con un bus da pochi pesos, lungo strade non asfaltate che tagliano in due gli agglomerati di mattoni, laminato e legno. Attraverso le porte delle baracche, spesso aperte, si intravedono panni stesi ad asciugare, corpi scalzi e cani stanchi.
Da quasi dieci anni Caracolí è un quartiere «di invasione», cioè un quartiere che raccoglie gente di tutta la Colombia costretta ad abbandonare la terra per necessità un tempo economiche e ora soprattutto politiche. Sono specialmente i desplazados (gli sfollati a causa della guerra) a riempire il sud di Bogotá di poche cose e tante facce, che hanno i colori di tutta la nazione, dal nero della costa – retaggio dell’antica schiavitù – alla pelle dorata dei meticci, fino ai tratti olivastri e fieri degli antichi indios.
La gente è povera a Caracolí. Se tutto va bene si può permettere un pasto giornaliero: un piatto di riso e fagioli o ceci, tanto per cambiare. La sera è sufficiente una tazza di agua panela, acqua zuccherata, e poi a dormire, perché il giorno finisce presto in quelle strade polverose, dove alle 8 della sera è meglio chiudere la porta, dato che alle 10 nessuno, ma proprio nessuno, si avventura per i vicoli.
Ci sono i paramilitari a Caracolí: un esercito indipendente, un tempo finanziato dai ricchi per tutelare le terre dalla guerriglia, là dove lo stato non garantiva tutela sufficiente, e ora diventato un essere dalla vita propria e dalle cento teste. Nessuno sa chi siano, gente che vive nel quartiere, forse il vicino di casa; però tutti sanno che ci sono e non parlano. Hanno paura.
Da gennaio a metà aprile i paramilitari hanno già ucciso 88 persone nel sud di Bogotà, la maggior parte dei quali giovani al di sotto dei 25 anni. La chiamano limpieza social, pulizia sociale, volta a eliminare chi è coinvolto in giri di droga, furto o malavita in genere. La polizia entra di rado in questa parte della città e sempre in pattuglie numerose.
La gente è abituata alla morte. «Che succede là?» chiediamo a un bambino che ci corre incontro con un lecca lecca in bocca. «Un morto. Hanno trovato una mano, poi la testa. Il corpo se lo stanno mangiando i cani».
Sostiamo ai piedi della salita guardando la piccola folla radunata attorno a due uomini con le tute azzurre che raccolgono con pazienza i resti del cadavere. Da una rivendita di pane e conserve poco lontana arriva prepotente la musica un po’ malinconica di un vallenato e una donna dai fianchi marcati accenna un passo di danza.
Meraviglia e indifferenza, vita e maledizione, si può trovare di tutto e tutto nello stesso momento nella calle, che a Caracolí non è una strada come le altre, no: qui è più casa della casa. Raccoglie i bambini che, dopo la scuola primaria, non hanno la possibilità di continuare a studiare; raccoglie le donne che alle 4 del mattino si accodano pazienti in attesa di un autobus che le porti al nord, dove lavorano nelle case dei ricchi per 300.000 pesos al mese, poco meno di cento euro. Raccoglie gli uomini che vanno ai mercati generali, dove sperano di poter guadagnare la giornata e di recuperare qualche verdura di scarto per la zuppa del giorno dopo. Raccoglie gruppetti di idraulici, elettricisti e improvvisati muratori, che si aiutano l’un l’altro per costruire case veloci che sembrano fazzoletti sensibili al vento.
Gli sguardi ti seguono, quando arrivi a Caracolí, per vedere chi sei e dove vai, per provare a immaginare perché gente occidentale, che non possiede i tratti caldi dell’America Latina, si sia decisa ad andare proprio lì.

Sono ormai tre anni che un missionario della Consolata sale, spesso solo, lungo la calle di Caracolí e la gente lo riconosce, perché lui si ferma in tutte le case, una per una, e non ha fretta. Porta un messaggio, un invito per la fagiolata della domenica pomeriggio; porta un conforto o un semplice saluto e la gente sorride a quell’uomo grande, con la faccia italiana, che dopo tanti anni di America Latina non ha perso l’accento piemontese.
Padre Testa ha appena comprato una casa che due muratori stanno sistemando. Sulla porta c’è un cartello che invita ai corsi di alfabetizzazione: per informazioni rivolgersi alla Escuela amigos de la naturaleza o casa de padre Juan, perché lui si chiama Gianfranco, ma la gente qui lo chiama così: Juan.
Per il momento è agibile solo il piano terreno, dove le novizie delle suore della Consolata organizzano corsi di taglio e cucito; presto sarà possibile celebrarvi la messa. Il primo piano diventerà un laboratorio di elettronica e informatica per i ragazzi del quartiere, in collaborazione con il Sena, Centro di formazione nazionale, che metterà a disposizione alcuni insegnanti volontari.
Padre Testa ha comprato dei gerani per la sua casa di Caracolí, perché chi entra possa trovare un po’ di colore e abbia voglia di fermarsi. Sono soprattutto i bambini a invadere la casa: bussano timidamente, mettono la testa oltre la porta e appena incontrano gli occhi di padre Juan, corrono ad abbracciarlo e sanno che lui non si risparmierà: è un uomo che dà. Un sorriso, una carezza, un pezzo di pane.
– Padre Juan, oggi è il mio compleanno, gli dice un bambino.
– E allora andiamo a scegliere un regalo.
In una bottega del quartiere dove si vendono caramelle, biscotti, yogurt e telefonate, il bimbo si alza in punta di piedi: «Voglio quello», un bocadillo (dolce di frutta e zucchero) da 200 pesos che per lui è il secondo grande dono di quel giorno speciale: «Guarda cosa mi ha regalato il mio padrino» dice il bimbo, tirando fuori da una tasca un pacchetto di crackers. Perché la miseria è grande quaggiù, ma la gioia può esserlo altrettanto e con molto poco.

Aiutare un ragazzo di Caracolí a studiare costa 15 euro l’anno. Con gli aiuti che la città di Bra (CN) non fa mancare al suo concittadino, padre Testa sta progettando un centro per i bambini e i giovani del quartiere, che potrebbe essere pronto per la fine del 2006.
Capace di accogliere ben 900 ragazzi, il centro diventerà la sede di una scuola superiore «virtuale», la prima e unica del quartiere, in collaborazione con l’Università pedagogica nazionale di Bogotá, che potrà offrire formazione giornaliera tramite computer. Sono previsti anche corsi di avviamento al lavoro, con laboratori di cucito, elettronica, informatica, cucina, assemblaggio di computer, infermieristica e coltivazioni idroponiche, per educare all’autosostentamento, mantenendo la memoria della terra abbandonata a causa della guerra.
La sanità, l’istruzione e la fame sono i tre grandi nodi sociali lasciati scoperti dalla politica dell’attuale governo, che ha deciso di investire quasi esclusivamente nell’esercito, per raccogliere i consensi di gran parte dei ceti medio-alti, che invocano la sicurezza in una nazione dove la guerriglia e il paramilitarismo da decenni minano la possibilità di muoversi liberamente.
Attualmente, il sistema nazionale copre una parte delle spese sanitarie di chi non ha un lavoro, però i ceti poveri faticano a pagare persino il 10% richiesto dallo stato. Per questo, il centro contempla l’apertura di un ambulatorio di primo soccorso, un dispensario medico e una mensa gestita dai ragazzi.
Sono previsti anche corsi di musica, teatro, arti marziali, ginnastica, pittura, per dare spazio e possibilità di sfogo, divertimento e aggregazione a tutti i giovani del quartiere che decideranno di frequentare il centro, che potrà nascere e mantenersi grazie agli aiuti economici di chi vorrà impegnarsi in un piccolo gesto sociale.
Oltre alla città di Bra, l’ambasciata del Giappone potrebbe finanziare parte del progetto; e già ci si muove attivamente sul territorio colombiano per reperire un gruppo di insegnanti volontari.
L’idea della costruzione di un centro giovanile a Caracolí nasce come continuazione della bella esperienza della Fundación niños de la guerra, hombres de paz, promossa nel 2000 dai missionari della Consolata come «gesto di consolazione» per l’anno santo, con l’idea di assistere i figli degli sfollati dalla guerra.
Nel 2001, padre Testa inizió a lavorare a Carmen de Apicalá (piccolo centro nel dipartimento del Tolima, a un’ottantina di chilometri dalla capitale) con un primo gruppo di bambini, la maggior parte provenienti da Caracolí, in una finca (azienda agricola) immersa nella zona tropicale, dove il clima caliente e la vegetazione dai colori forti e dalle forme enormi, fanno dimenticare in fretta il cielo grigio della capitale.
Le urla dei ragazzi accolgono ogni martedì la camionetta che arriva carica della spesa per la settimana. Il clacson suona e chiede un poco di respiro, ma i bambini non ascoltano: continuano a urlare e invadono i vetri di mani, facce e parole: «Padre Juan, padre Juan!».
Padre Testa passa tutta la giornata con i ragazzi, ascolta i racconti della settimana, li aiuta con i compiti, controlla come vanno le coltivazioni del piccolo campo adiacente alla struttura, dà consigli e distribuisce i piccoli pacchi che i genitori mandano ai figli.
«C’è qualcosa per me?» chiede ogni settimana il piccolo Nanchito, 7 anni, pelle nera e occhi grandi. No, nessuno si ricorda di lui; però padre Juan ha comprato un pacco di biscotti e con la penna blu ha scritto in un angolo della carta rossa: «Nanchito, te lo manda papà». E non è una bugia; non è un inganno: è solo un regalo che dà la sensazione di esistere.
Originariamente la finca apparteneva a un generale dell’aeronautica; oggi i tre diciottenni ospiti della fondazione occupano la casa del generale, mentre quella dei contadini è stata abbattuta per dare spazio a un primo blocco a due piani, adibito ad aule per lo studio. Oltre a una nuova cucina, sono stati costruiti 4 dormitori con letti a castello. Per le educatrici e gli ospiti, ci sono 6 stanze con servizi.
La gestione della finca richiede un grosso impegno economico, perché, oltre alla costruzione, ampliamento e manutenzione della struttura, bisogna pensare ai vestiti, al trasporto giornaliero fino alla scuola, alla divisa, cibo, materiale scolastico e personale professionale: una psicologa, una pedagoga e una cuoca che vivono 24 ore su 24 con i ragazzi.
I 43 ospiti della finca vanno tutti i giorni a scuola e nel pomeriggio, dopo i compiti, coltivano il piccolo campo, raccolgono cacao, banane, pomodori, allevano polli e maialini.
I ragazzi fanno votazioni periodiche per eleggere il presidente, vicepresidente, segretario e i responsabili di quattro aree: studio, lavoro nel campo, spiritualità e convivenza. Ogni settimana c’è un’assemblea per discutere i problemi quotidiani e per scrivere su un foglio a quadretti, sottoscritto in calce dai partecipanti, le richieste di materiale da inoltrare a padre Juan.
Gli adulti hanno diritto a parlare ma non al voto, ed è così, attraverso l’educazione all’autoresponsabilizzazione, che bambini di strada, abituati alla violenza e portatori di ferite profonde e rabbia, si avvicinano a se stessi e agli altri con l’idea di una convivenza possibile.

Quando i ragazzi tornano alla finca, dopo un breve periodo di vacanza nei quartieri di Bogotá, ci vuole almeno un mese per riportare l’equilibrio nel gruppo, perché nei quartieri periferici, dove la prepotenza è l’arma del vincitore, è costante la tentazione della droga e il ricorso alla violenza.
Nel sud della capitale i paramilitari stanno reclutando giovani per i loro «servizi» di ordine sociale: li attirano col miraggio di qualche migliaio di pesos per impiegarli come spie o direttamente nella lotta armata.
Ecco perché è forte il bisogno di dare al più presto ai bambini e ai giovani uno spazio alternativo, dove sia possibile imparare a fidarsi di se stessi e degli altri, nella prospettiva di un impegno comune e una solidarietà che conservi la memoria del passato e apra al presente.
Sono i bambini a dare ragione a padre Testa: sono i loro sorrisi, la vitalità che hanno dentro, l’immediatezza nel togliersi i vestiti per buttarsi nel fiume e la voglia di credere che quello spazio, un po’ sospeso tra il tropico e l’inferno, sia davvero un piccolo paese dove tutto può accadere. Ci si può arrabbiare e ci si può picchiare, si può chiedere scusa e si può ricominciare. Si deve ricominciare.
Lo si capisce vedendo la felicità sulla faccia di Nanchito, che ha il colore rosso di un pacco di biscotti e un nome scritto a penna. Lo si capisce vedendo la felicità sulla faccia di Nanchito e provandone stupore.
Stupore e meraviglia per un piccolo, fondamentale passo nella costruzione di un uomo che un giorno potrà raccontare che la vita, a lui, in fondo ha dato la possibilità di scegliere come diventare. Pur venendo da Caracolí, o soprattutto per quello.

Paola Cereda