BIRMANIA Liberi dalla paura

La leader birmana e premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, parla alle nostre coscienze.
Note per una vera conversione.

Era il 1998. Una sera, di passaggio in una libreria di Baltimora, mi capitò in mano un libro fotografico di donne importanti. Sfogliandolo, mi soffermai su un ritratto di donna che emanava una bellezza singolare: guardava verso l’obiettivo della macchina fotografica con tranquillità, pace, fermezza, senza durezza o arroganza. Lessi il nome della donna; un nome complicato, composto di tre o quattro parole, che avevo già udito e che era stato citato sulla stampa recentemente. Non avrei mai immaginato che il pensiero e gli scritti della persona di cui stavo guardando il ritratto fossero destinati a influenzarmi, fino a cambiare alcuni aspetti della mia vita.

PAESE DIMENTICATO

Due anni fa mi fu chiesto di scrivere un articolo su Aung San Suu Kyi. All’inizio avevo accettato felicemente, ma in un secondo tempo mi ero scoraggiato. Che cosa potevo raccontare di questa persona?
Ma un giorno di marzo di quest’anno ho iniziato a pensare più seriamente a quest’idea e ho trovato due motivi che mi hanno scrollato dalla mia apatia. Il primo è che ogni volta che provo a discutere la situazione della Birmania la gente sembra cadere dalle nuvole: non ne sa assolutamente nulla, non per disinteresse, ma piuttosto per la scarsa informazione sull’argomento.
Altre nazioni che lottano per ottenere giustizia, come il Tibet, possono contare su persone celebri che perorano la loro causa in Occidente e nel mondo. Quella della Birmania, invece, è una lotta dimenticata: la repressione di 45 milioni di abitanti va avanti indisturbata.
Il secondo motivo è che mi accorgo sempre di più come la filosofia non violenta di Aung San Suu Kyi e della Lega nazionale per la democrazia (Nld) indichino un cammino di rinnovamento e di cambiamento interiore d’importanza fondamentale per il mondo, specialmente in questo periodo in cui le forze della violenza e della paura sembrano prendere il sopravvento.
In Birmania come in Tibet sono in corso due dei rari tentativi al mondo di cambiare lo status quo attraverso la non violenza. Dimenticare la lotta per la democrazia in Birmania e, soprattutto i valori sui quali tale lotta è basata sarebbe disastroso non solo per il popolo birmano, ma anche per il mondo intero.
Inoltre, la visione di cambiamento non violento propugnato dalle forze democratiche in Birmania è in perfetta consonanza con il concetto della conversione cristiana.


GOVERNATI DALLA PAURA

La Birmania è uno stato del sud-est asiatico di rara bellezza, ricco di risorse naturali. Il suo territorio è popolato da diversi gruppi etnici di cui quello dei birmani è il prevalente. Dal 1962, il paese è dominato da una giunta militare, che costituisce uno dei regimi più brutali e violenti che esistano al mondo. Tale giunta, conosciuta in precedenza con il sinistro acronimo Slorc (State law and order restoration council), è ora chiamata Spdc (State peace and development council), dopo che una ditta di relazioni pubbliche americana aveva suggerito il cambiamento del nome a fini «cosmetici».
L’Spdc mantiene la popolazione sotto un pugno di ferro, imponendo lavori forzati, lavoro minorile e reprimendo violentemente ogni tentativo d’instaurare nel paese un qualunque dibattito politico.
Il popolo birmano vive totalmente isolato dal resto del mondo. La legge proibisce, infatti, il possesso e l’uso di fax e modem e l’unica forma di stampa permessa è quella sponsorizzata dal governo. Di conseguenza, intere generazioni di birmani sono cresciute pensando di non potersi permettere nulla più del regime in cui vivono, dato che non hanno la possibilità di sapere come si vive in altre nazioni.
Ciò non toglie che molti birmani si oppongano a questa situazione e chiedano dibattito politico, riforme e democrazia. Alla fine degli anni ’80, il Movimento per la democrazia divenne molto attivo nel richiedere riforme al sistema, grazie soprattutto al coinvolgimento degli studenti universitari nel dibattito politico. Tale fermento causò un’ondata di repressione violenta da parte del governo. Fortunatamente, la Nld trovò un leader naturale nella persona di Aung San Suu Kyi.
All’età di due anni, San Suu Kyi perse in un attentato il padre Aung San, leader del movimento per l’indipendenza della Birmania negli anni ’40. Vissuta a lungo lontana dal suo paese, prevalentemente nel Regno Unito dove aveva sposato un cittadino britannico, era rientrata in Birmania nel 1988 per prestare le cure alla madre gravemente ammalata e che morì di lì a poco.
L’arrivo della donna in Birmania coincise fatidicamente con l’apice delle lotte politiche nel paese e, ben presto, la sua guida carismatica galvanizzò la Nld e i suoi simpatizzanti. Proprio in quel periodo e alquanto inaspettatamente, l’allora presidente dello Slorc, Ne Win, decise di concedere elezioni democratiche, contando, erroneamente, in una sicura vittoria del partito di regime. Le elezioni risultarono invece un trionfo a stragrande maggioranza della Nld, che si aggiudicò l’80% dei voti.
Come risposta, lo Slorc dichiarò l’invalidità delle elezioni e iniziò una violenta ritorsione contro gli esponenti della Nld, tra cui Aung San Suu Kyi, posta agli arresti domiciliari. Migliaia di altri membri del partito d’opposizione vennero aggrediti, arrestati, torturati e gli uffici del partito vennero chiusi.
Questo primo periodo di arresti domiciliari durò per più di cinque anni, a cui seguì un periodo di relativa libertà personale in cui, comunque, a San Suu Kyi venne negato il diritto di uscire dalla capitale Rangoon. Un tentativo di lasciare la città per recarsi a Mandalay, nel 2000, le procurò un altro lungo periodo di arresti domiciliari.
Da notare che la leader birmana si ritenne sempre fortunata per il trattamento a lei riservato, se comparato alla sorte di altri membri della Nld, sottoposti a condizioni inumane di carcerazione.
Nel 2003, fu di nuovo rilasciata, ma alcuni mesi dopo il regime sferrò un altro violento attacco contro la Nld, uccidendo circa 600 dei suoi membri e simpatizzanti. San Suu Kyi venne nuovamente arrestata e condannata agli arresti domiciliari, che perdurano fino ad oggi.

«RIVOLUZIONE SPIRITUALE»

Alcuni elementi della lotta per la democrazia in Birmania rendono San Suu Kyi un caso unico al mondo. Il più importante consiste nel basare l’opposizione al regime sulla non violenza, ispirata al buddismo militante. Tale atteggiamento è in aperto contrasto con la repressione violenta da parte del regime, che rispetta il buddismo solo a parole.
Alla base della filosofia di San Suu Kyi c’è la convinzione buddista che non vi è alcun male insito nella persona umana, ma quelle che chiamiamo cattive azioni sono dovute a quattro influenze negative: odio, illusione, avidità e paura.
La paura è la causa primaria che guida tutte le altre influenze negative. Per paura di cosa accadrà domani accumuliamo beni economici e questo provoca avidità. Per paura dell’ignoto, dell’aprirsi agli altri, diventiamo aggressivi e questo provoca rabbia. E così via.
Aung San Suu Kyi sottolinea come sia la paura ciò che governa la Birmania e che il paese non si disporrà a un vero cambiamento fino a quando questa paura non verrà rimossa. Propone quindi una «rivoluzione spirituale», nella quale il popolo deve prima di tutto liberarsi dalla paura, in tutti gli aspetti della vita, in una ricerca personale della libertà. Le persone che si sono liberate interiormente possono, a questo punto, liberarsi dalla repressione, dato che nessuno ha più il potere di paralizzarle con la paura.
A conferma di tale verità, la stessa leader birmana cita spesso un episodio vissuto da lei e un gruppo di membri del suo partito: mentre passavano di fronte a un drappello di soldati, questi intimarono loro di fermarsi, senz’altra ragione se non quella di molestarli. Gli esponenti della Nld rifiutarono di fermarsi e i soldati non ebbero il coraggio di sparare su persone inermi.
Atti di coraggio come questo riflettono la profonda serenità spirituale e l’identificazione delle idee politiche con le convinzioni religiose, elementi cari a Gandhi e ad altri combattenti non violenti. Questa filosofia incoraggia la creazione di un «popolo nuovo», che rifiuta la scelta di soluzioni violente dei conflitti.
Il più delle volte, le rivoluzioni armate sfociano in governi che, essendo formati da persone cresciute in condizioni repressive e di paura, perpetrano a loro volta gli errori dei regimi a cui si sostituiscono.
La Nld è cosciente del fatto che quando in Birmania sarà finalmente instaurato un regime democratico, sarà necessario sviluppare un processo attivo di riconciliazione nazionale, per evitare che parte della popolazione, lungamente vessata dal regime al potere, abbia la tentazione, se non addirittura la determinazione, di vendicarsi dei tanti abusi subiti.

BISOGNO DI SPERANZA

Esiste un’altra nazione dove si sta svolgendo una lotta simile: il Tibet. Ma mentre la situazione tibetana è abbastanza conosciuta, grazie anche agli sforzi di politici e personalità del mondo dello spettacolo, la Birmania non ha una stella di Hollywood che perori la sua causa. Il silenzio più assoluto copre, a livello mondiale, i soprusi, violazioni di diritti umani, uso del lavoro forzato e minorile, profitti incassati dal governo con il traffico di droga, campagne di pulizia etnica… che affliggono la Birmania e sulla lotta non violenta che si oppone a tutte queste aberrazioni.
Il giorno che perderemo il Tibet e la Birmania, perderemo i due esempi più significativi al mondo di non-violenza. Dobbiamo dare speranza alla Birmania.
In questo particolare momento storico, noi occidentali possiamo imparare molto da questa lotta. Alcuni avvenimenti recenti hanno fatto sì che si incrementasse nei paesi industrializzati l’uso del sistema del «governare con la paura». L’11 settembre e altri attentati terroristici, hanno innescato nella gente il timore di vivere in un mondo apparentemente pericoloso. I governi hanno pilotato la paura a loro vantaggio, iniziando guerre con falsi pretesti, diminuendo la tutela dei diritti umani.
Similmente, la paura di perdere il nostro stile di vita benestante ha incoraggiato l’applicazione di leggi economiche basate puramente sulla predominanza del profitto invece che sulla ripartizione delle ricchezze in modo giusto ed equo per tutti.
La teoria della «libertà dalla paura» ha molto da insegnarci; la sua applicazione va ben al di là di nuove opportunità democratiche per la Birmania e il Tibet. Abbiamo tutti bisogno di questa liberazione, se vogliamo perseguire il sogno di un mondo migliore. Di conseguenza, appoggiare la rivoluzione spirituale in Birmania implica qualcosa di più del dare un supporto politico a un paese tiranneggiato da un regime brutale. Appoggiare la causa birmana significa instaurare un cambiamento di regime nelle nostre vite.
Tale appello diventa ancora più importante per i cristiani, che condividono queste realtà di conversione integrale, di rivoluzione interiore, di vera libertà. Quante volte leggiamo nel vangelo le parole che Gesù rivolge ai suoi discepoli: «Non abbiate paura!».

CONTINUARE LA PRESSIONE

Mentre alcune nazioni, in maggioranza asiatiche, intrattengono relazioni economiche con il governo di Rangoon, alcuni governi di paesi occidentali hanno rivolto la loro attenzione ai problemi della Birmania, imponendo, in accordo con richieste della Nld, dure sanzioni economiche.
Unione Europea e Stati Uniti sono stati coerenti nel richiedere al regime, troncando nel frattempo relazioni economiche e diplomatiche, di concedere libere elezioni e rimettere il potere nelle mani di un governo democratico. Ma c’è ancora molto da fare.
Alcune associazioni svolgono un ruolo importantissimo nel mantenere la pressione sul regime. Negli Stati Uniti, per esempio, la Free Burma Coalition, ora chiamata US Campaign for Burma, è riuscita a convincere 86 ditte americane e multinazionali a chiudere i rapporti d’affari con la Birmania, a smettere di vendere prodotti made in Burma e a convincere l’esercito americano a non acquistare vestiario prodotto in quella nazione.
Anche queste azioni, come quelle adottate nella lotta birmana, sono state non violente: sono consistite soprattutto nello scrivere una grande quantità di lettere per scoraggiare relazioni d’affari con la Birmania. E non si pensi che un’organizzazione come l’US Campaign for Burma sia una grossa entità: in questi giorni l’associazione ha pubblicato l’annuncio: ricerca di candidati da cui scegliere la… terza persona pagata a tempo pieno. La determinazione porta molto lontano.
Anche dall’Italia è possibile appoggiare la lotta in Birmania, sostenendo, per esempio, eventuali iniziative che Amnesty Inteational e organizzazioni non governative operanti nel campo di giustizia e pace stanno attivando a favore del popolo birmano e dei prigionieri politici di quel paese.
Un altro modo è boicottare i viaggi in Birmania e i prodotti made in Burma, sia personalmente, sia convincendo gli altri a fare altrettanto, sia spiegando ad agenzie turistiche e negozianti ciò che avviene in quel paese, esortandoli a non rendersi complici delle ingiustizie che vi si compiono.
Naturalmente, prima di fare ciò, è necessario informarsi. La via della conversione, della liberazione dalla paura, comincia dall’informazione.

Alfredo Garzino Demo