Le operazione di mantenimento della pace

Il «Dipartimento delle operazioni di mantenimento della pace» (Dpko) delle Nazioni Unite è stato istituito nel 1992 ed ha come mandato principale il mantenimento della pace e della sicurezza, nonché la prevenzione di conflitti a livello internazionale.
Il Dpko è presente con le sue «missioni di pace» in tutti i continenti, ma prevalentemente in Africa dove nell’ultimo decennio è stata registrata una terribile escalation di guerre e conflitti interni. Nonostante il Dpko sia amministrativamente uno dei dipartimenti del segretariato delle Nazioni Unite ed abbia sede nel «palazzo di vetro» di New York, mantiene una certa indipendenza ed ha al suo servizio circa 11.000 funzionari. Nessuna agenzia od altro dipartimento dell’Onu impiega ed ha mai impiegato un così grande numero di personale, specializzato nei più svariati settori (finanza, ingegneria, logistica, trasporto aereo, personale, etc.). Se poi includiamo anche i contingenti militari (i cosiddetti «caschi blu») – che sono in prestito dai vari stati membri – sorpassiamo abbondantemente le 75.000 persone. Il budget operativo è peraltro sostanzioso e sfiora i 4 miliardi di dollari per l’anno corrente. E non vorrei dimenticare di ricordare che Kofi Annan, prima di assumere la carica di segretario generale dell’Onu, fu il dirigente apicale di questo dipartimento.
Le origini e gli obiettivi del Dpko sono certamente nobili. Quasi duemila sono i funzionari caduti in servizio dal 1948 dalla prima operazione di pace. Chi non ricorda, ad esempio, il brasiliano Sergio Viero de Mello ucciso, insieme ad altri colleghi, a Baghdad nell’agosto 2003? Molti però sono anche gli scandali attribuiti ai caschi blu operanti sotto la bandiera dell’Onu. Alcuni di questi scandali sono certamente stati ingigantiti e strumentalizzati dalla stampa americana per diffamare le Nazioni Unite.
Negli ultimi 5 anni il Dpko è cresciuto quasi esponenzialmente sia in termini di personale che di budget, proprio per poter far fronte alle continue emergenze. Delle 21 operazioni di pace presenti nei 5 continenti, vorrei ricordare quelle in Etiopia-Eritrea (Unmee), in Congo (Monuc), in Costa d’Avorio (Onuci), in Sudan (Unmisud), in Liberia (Unmil) ed in Haiti (Minustah).

Non facciamoci però ingannare da questo improvviso ed apparente «buonismo». Infatti, come ricorda il proverbio, non tutto quello che luccica è oro. Sulla base della politica della «guerra preventiva» promossa dagli Stati Uniti e dai suoi alleati, e di cui l’invasione dell’Iraq è stato un esempio spettacolare, non ci sono solo motivi umanitari o di prevenzione di conflitti ad avere facilitato la costituzione, in tempi relativamente rapidi, di queste nuove operazioni di pace.
Facendo la parte dell’«avvocato del diavolo», vorrei farvi notare che tutte queste operazioni di pace (ad esclusione di Haiti e dell’Eritrea) si trovano in paesi notoriamente ricchi in risorse naturali (essenzialmente petrolio, oro e pietre preziose) che hanno sempre fatto gola ai due membri permanenti più importanti del Consiglio di sicurezza: ovvero Usa e Regno Unito.
Come si spiegano invece gli interventi in Haiti ed in Eritrea-Etiopia? Haiti: molto semplicisticamente si potrebbe dire che gli Usa non vogliono trovarsi nuovamente migliaia di profughi sulle loro coste come accadde ripetutamente negli anni passati. Infatti, addirittura prima che la missione di pace in Haiti (Minustah) fosse approvata dal Consiglio di sicurezza nel giugno 2004, in febbraio gli Usa già avevano inviato i propri marines a prelevare il presidente Aristide ed a mantenere l’ordine pubblico.
L’Eritrea e l’Etiopia invece, dopo l’11 settembre, hanno assunto un ruolo geopolitico rilevante come baluardo contro il dilagante fondamentalismo islamico e contro i confinanti «paesi canaglia» (Sudan, Yemen, Somalia). Inoltre, la politica americana in Etiopia ed in Eritrea è particolarmente ambigua: un giorno si dà un colpo alla botte, il giorno dopo al cerchio. E intanto il processo di pace tra i due paesi africani (i cui due presidenti sono cugini di primo grado) continua a non decollare. Uno stallo virtuale appositamente prolungato.

Le operazioni di mantenimento di pace dell’Onu sono autorizzate dal Consiglio di sicurezza di cui, non dimentichiamolo, fanno parte 5 membri permanenti con potere di veto. Usa e Regno Unito, entrambi membri permanenti del Consiglio di sicurezza, non solo hanno un fortissimo controllo politico sulle sue risoluzioni, ma contribuiscono anche molto efficacemente a «piazzare» i propri uomini all’interno del Dpko.
È una strategia collaudata, ben pianificata e che è finanziata purtroppo coi soldi di tutti i 191 stati membri, inclusi quelli dei contribuenti italiani. L’Italia, pur contribuendo sostanzialmente (dal 5 al 6 contributore annuale in termini assoluti) al budget operativo del Dpko, non ha nessuna voce in termini di decisioni e di presenza di funzionari civili. E gli organigrammi del personale «civile» impiegato nelle varie missioni di pace dimostrano quanto sopra.
La maggior parte del personale in posizioni apicali è «anglosassone», ovvero inglesi, americani e australiani. Se poi si perfeziona ulteriormente l’indagine si scopre che la quasi totalità di questo personale «civile» è formato da ex militari di professione. Ma come entrano tutti questi ex militari nel sistema delle Nazioni Unite? Un’opera di «intelligence» e di «lobbying» efficacemente realizzata da parte di questi governi.
Se ne vedono tanti di «007» nei corridoi del Palazzo di vetro, anche se certamente non altrettanto astuti, simpatici e coraggiosi come i James Bond televisivi al servizio della regina.

Barbara Mina

Barbara Mina




Sharon e Abu Mazen uomini di pace?

Dopo sessant’anni anni di tormenti, Sharon e Abu Mazen provano la pace. Gli Stati Uniti hanno deciso di imporla nel modo più semplice: non sono disposti a svenarsi per sostenere l’occupazione selvaggia e l’impianto di nuove colonie nel bantu land palestinese. Costa troppo e non se ne vede la fine. Quindi, tagliano i soldi. Il nodo che si poteva sciogliere negli anni Cinquanta (ma anche Sessanta, Settanta, Ottanta, Novanta), finalmente comincia ad allentarsi. Prima era colpa dell’Egitto di Nasser: Londra e Washington non lo sopportavano da quando aveva nazionalizzato il Canale di Suez. Poi entra in scena Arafat. Quel mitra in una mano e l’ulivo nell’altra sul palco delle Nazioni Unite (è il 13 novembre 1974) con l’impegno di «inventare» un popolo la cui identità non convince né arabi né ebrei. Adesso è semplice scaricare sul suo fantasma mezzo secolo di incomprensioni. Il calendario di oggi ricomincia dal 1948 (o dal 1967, guerra prima guerra dopo) ma con mappe aggiornate dall’allargamento «indispensabile alla sicurezza di Israele». Nuovi profughi, bombe ed invasioni.
Si dice: con Abu Mazen si può trattare. Ha promesso di fermare jihad e kamikaze. È un notabile borghese che non sfigura alla Casa Bianca. Con lui sarà facile. Davvero facile? Abraham Yehoshua è lo scrittore il cui genio quieto propone la vita quotidiana di una Israele, dove ebrei e palestinesi sgelano la diffidenza provando a parlare. «Ogni volta che spunta la parola pace il discorso torna a Gerusalemme. Ciascuna parte ne pretende una fetta, più grande, meno grande. Sarebbe bello se tutte le parti rinunciassero all’egoismo della storia dalla quale discendono, ricordando che fra le pietre di Gerusalemme si è rivelata la volontà di un solo Dio: cambia nome, ma può essere lo stesso. Gerusalemme, città del Dio che unisce e non divide: sarebbe bello se non appartenesse a nessuno». Allora la pace può cominciare mentre il muro divora la campagna palestinese? E poi Gaza, un milione di abitanti, uno sull’altro nei 363 chilometri quadrati di una striscia tagliata da colonie israeliane non semplici da sgombrare. Sharon ritira le truppe per schierarle ai margini della linea verde. Un futuro da gigantesco lager: nessun permesso per aeroporti; proibizione per le barche da pesca; le sorgenti dell’acqua che restano in mano israeliana: può chiudere ed aprire i rubinetti mentre i palestinesi radicali vogliono trasformare la libertà controllata dall’esterno in un laboratorio interno per la lotta armata.
Ma l’attentato impossibile da prevenire è la bomba biologica. Fra 7 anni il numero degli arabi della grande Israele doppierà gli ebrei che ne sono padroni. I profughi fanno più figli anche se resta l’eterna domanda: profughi da dove? Nel tempo la differenza si allargherà. Difficile governare una maggioranza ristretta in piccoli territori senza moltiplicarne le tensioni. Ecco il destino che unisce i due uomini incaricati della pace: li si presenta come protagonisti obbligati ad una scelta impossibile da rimandare. Le biografie non consolano l’inquietudine. Nascondono pagine imbarazzanti.

Abu Mazen, padre di Mazen, figlio primogenito, si chiama Mahmud Abbas. È cresciuto all’ombra di Arafat, ombra profonda: diplomazie segrete, contatti con Cia e servizi israeliani. Studia scienze politiche ad Amman, frequenta l’università orientale di Mosca. Proprio a Mosca trasforma in libro la tesi con la quale si è laureato nel 1981 in Giordania dove ristampa in arabo l’opera: «Legami segreti tra nazisti e direzione del movimento sionista». Nell’introduzione, l’autore anticipa i dubbi che il testo vorrebbe dimostrare. Non sono 6 milioni gli ebrei bruciati dall’Olocausto: «solo» 896 mila. Mahmud Abbas precisa che il numero minore non cambia la dimensione rivoltante del crimine, ma incide sull’uso politico che Israele ne fa. I 5 milioni di ebrei che mancano al suo appello sono morti «fuori» non dentro i lager. Nelle guerre russe, bombardamenti e scontri armati in Europa. «Ma i sionisti hanno calato quei 6 milioni sul tavolo per strappare il massimo possibile dalle grandi potenze. Il prezzo si chiama Palestina». È l’idiozia che ha nutrito generazioni di profughi palestinesi e scatenato la rabbia dei superstiti dai lager. Eppure sarà Abu Mazen a firmare la possibile pace. Controfirmata da Sharon.

Il vero Sharon è diverso dal generale moderato di oggi. Il vero Sharon non ha mai nascosto idee fin troppo chiare. Nel colloquio con Amos Oz, raccolto in un libro uscito a Tel Aviv nel 1982, subito dopo la strage di Sabra e Chatila (killers cristiano-maroniti che Sharon proteggeva per lasciarli lavorare in pace), lo scrittore israeliano lo descrive così: pantaloni corti, figura pesante, corpo abbronzato di uomo biondo che vive al sole. Risponde allungando gambe pelose sul tavolo della casa di campagna. Sintetizza ciò che pensa con voce roca per troppo fumo: «Meglio un giudeonazista vivo che un santo morto. Non mi preoccupa se mi considerano una specie di Gheddafi. Non cerco l’ammirazione dei Gentili. La storia insegna che chi non uccide verrà ucciso. Secondo lei i cattivi del mondo se la passano male? Siamo pronti a un’altra guerra, distruggeremo ancora e ancora fino a che quelli (nota di Oz, “i palestinesi”) ne avranno abbastanza. Il salutare bombardamento di Beirut e quel modesto massacro (Sabra e Chatila, appunto: 1240 civili trucidati nel sonno) avremmo dovuto farlo noi, non lasciarlo ai falangisti cristiani; queste ultime operazioni hanno troncato i merdosi discorsi su un “popolo eccezionale”. Finalmente non sentiremo ripetere le assurdità sulla famosa morale ebraica, immagine della purezza e virtù dei superstiti emersi dalle camere a gas». Non ho visto In the land of Israel in Italia. L’edizione della mia biblioteca è datata 1984, Vintage Book, New York. Ma il libro di Oz è uscito nel 1983 in Francia, tradotto dall’ebraico da Guy Seniak e Calmann Levy. In Israele, è un pocket ristampato.
Speriamo che Sharon e Abu Mazen abbiano sepolto i pensieri del passato, altrimenti quale pace possiamo aspettare?

(*) Maurizio Chierici, giornalista e scrittore, già ambasciatore dell’Unicef, è uno dei più noti inviati italiani. Per trent’anni ha girato il mondo per il Corriere della Sera. Ha scritto una quindicina di libri. Tra questi ricordiamo: I guerriglieri della speranza. Arafat racconta (Mondadori), Malgrado le amorevoli cure (Einaudi), Tropico del cuore (Baldini e Castoldi), Lungo viaggio d’addio (Baldini e Castoldi).
Il titolo di questa rubrica, La pelle degli altri, riprende un libro scritto nel 1986 (Rizzoli Editore) e pluripremiato (Premio Unicef, Premio Colomba della pace). Con La pelle degli altri, Maurizio Chierici inizia la sua collaborazione con Missioni Consolata.

Maurizio Chierici




DOSSIER ANZIANI Glossario essenziale

Vita quotidiana:

attesa di vita: indicatore demografico che illustra in modo sintetico quanti anni di vita ci aspettano. È detto anche «speranza di vita» o, più semplicemente, «vita media». Il Giappone ha l’attesa di vita più lunga, seguito dall’Italia.
badante: termine di recente introduzione con cui si indicano le persone, di norma extracomunitarie, che si prendono cura delle persone anziane.
pensione: prestazione economica previdenziale prevista dalla legge in favore di determinati soggetti, di norma lavoratori che hanno raggiunto una certa età.
ospizio: nome popolare (e non proprio elegante) per indicare le case di riposo per anziani.
dipendenza (non-autosufficienza): la dipendenza è una condizione nella quale si trovano alcune persone che, per ragioni legate alla mancanza o alla perdita di autonomia fisica, psichica o intellettuale, hanno bisogno di un’assistenza e/o di grossi sostegni per compiere quelle azioni legate alla vita quotidiana. Per le persone anziane la dipendenza può essere aggravata o essere causata dalla mancanza di integrazioni sociali, di relazioni affettive e di risorse economiche sufficienti (definizione del Consiglio d’Europa).

Patologie:
osternoporosi: malattia caratterizzata dalla riduzione della massa ossea e da alterazioni della microarchitettura del tessuto osseo, che portano ad un’accentuata fragilità dello scheletro e a un maggior rischio di fratture ossee. La frattura del femore è la conseguenza forse più funesta dell’osternoporosi ed è una delle cause principali di disabilità negli anziani. Il 12-20% delle persone con una frattura del femore è destinato a morire entro un anno dall’evento e la mortalità cresce progressivamente con l’avanzare dell’età.
arteriosclerosi: processo di alterazione degenerativa delle arterie con progressiva modificazione del vaso sanguigno (perdita di elasticità, indurimento ed ispessimento delle pareti, restringimento del lume), dovuta principalmente alla formazione di placche (ateromi). È considerata un importante fattore di rischio per le ischemie. In genere, si pensa all’arteriosclerosi come ad un processo tipico dell’età avanzata: gli anziani che faeticano, che non hanno più memoria, che non riconoscono i parenti. In realtà, essa inizia già nel periodo infantile.
demenza: compromissione delle capacità di affrontare i problemi quotidiani. La malattia di Alzheimer è la causa più comune di demenza.
malattia di Alzheimer: malattia caratterizzata da un declino progressivo e globale delle funzioni intellettive, associato a un deterioramento della personalità e della vita di relazione. Dopo la diagnosi restano 8-12 anni di vita, caratterizzati da un decadimento progressivo, da problemi clinici intercorrenti e da crescenti bisogni assistenziali.
malattia di Parkinson: malattia cronico-degenerativa del sistema nervoso centrale (Snc), che compare in età matura. I pazienti parkinsoniani presentano una compromissione dell’equilibrio (ad esempio, frequenti cadute o importanti barcollamenti), deambulazione difficoltosa, tremori (spesso soltanto unilaterali; ad esempio, ad una mano).
disturbi del sonno: il ciclo sonno-veglia cambia molto a seconda delle età. Se il neonato dorme dalle 16 alle 20 ore al giorno, l’anziano arriva a 5-6. Nell’età avanzata tendono ad aumentare i risvegli durante la notte così come cresce la frequenza degli addormentamenti durante il giorno. Si calcola che il 20% degli anziani (soprattutto donne) faccia uso di sonniferi, ovvero di farmaci che, in dosi opportune, facilitano l’insorgenza del sonno attraverso un’azione sul Snc.
incontinenza urinaria: si intende la perdita involontaria delle urine. Se si esaminano le persone con più di 75 anni che vivono a domicilio, troviamo che circa il 10% di esse presenta un quadro di incontinenza urinaria saltuaria o persistente. Nelle istituzioni geriatriche e nei reparti ospedalieri può raggiungere e superare il 50%.
artrosi: processo degenerativo a carico della cartilagine articolare (il tessuto che riveste l’interno delle articolazioni), che si assottiglia con il passare degli anni. Tale processo infiammatorio comporta dolore, immobilità e deformazione delle ossa.

Fonte: Istituto di ricerche farmacologiche «Mario Negri», Milano

Paolo Moiola e Giuseppina de Cesare




DOSSIER ANZIANI “Anch’io gli ho voluto bene… (ma senza retorica)”

La vecchiaia, la malattia, la morte del papa.

«In quei giorni», all’inizio di gennaio 2004, quando mia mamma iniziava «la fine del principio», anche il papa appariva sempre più sofferente, iniziando per lui «il principio della fine». Ho vissuto contemporaneamente la malattia e la morte della mamma carnale e la malattia e il declino del padre (nella fede). Il rapporto del papa con la malattia ha permesso ai malati di guardarla e viverla in modo più dinamico e vitale, mentre ai sani ha insegnato che la malattia non è una maledizione, ma un momento della vita da cogliere come tappa inevitabile che diventa occasione evangelica di conversione e redenzione. Il magistero profetico che il papa ci ha lasciato è che anche la malattia e la morte sono «tempi» di Dio.
«In quei giorni» ho visto il papa invecchiare, aggravarsi e morire insieme a mia mamma; l’ho accompagnato all’ospedale, gli sono stato accanto nella convalescenza post-operatoria e ho visto realizzarsi in lui la profezia di Gesù a Pietro: «Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi» (Gv 21,18). Mai la sua presenza è stata così intensa e profonda come quando le sue finestre hanno messo in luce la sua assenza fisica. Malato nel suo letto come un vecchio qualsiasi, egli è stato un assente-presente in mezzo al suo popolo orante, in mezzo ai giovani che durante la vita ha curato come la pupilla dei suoi occhi.
Dice il Qoelet 3,1 che «c’è un tempo per ogni cosa». Verrà il tempo della valutazione globale del pontificato di papa Giovanni Paolo, del suo significato religioso e politico, oggi è ancora il tempo del silenzio e della preghiera, il tempo per cogliere quattro «segni dei tempi» di «quei giorni» di grazia e peccato.

Il primo «segno» è stata la reazione spontanea del popolo e dei popoli alla notizia dell’aggravarsi del papa. Per un momento, si è avuta la percezione che il mondo intero fosse unito nella preghiera, attraversato da sentimenti di unità, superando di colpo divisioni e fratture, odio e lacerazioni secolari. Insieme alla folla dei giovani che spontanea affollava piazza S. Pietro, popoli interi, culture e religioni senza distinzione di lingua, di colore o sistema politico avanzavano in corteo attorno al letto del vecchio papa morente, dando fisicamente la testimonianza che un altro mondo era possibile: il mondo della pace e della frateità per cui «questo» papa aveva messo in gioco se stesso e la sua credibilità. Attoo a quel letto, per un breve tempo, tutto il mondo cessava di sbranarsi per essere «uno» come dovrebbe essere, come forse sarà. Tutti parlavano la stessa lingua. Il secondo «segno» è stato lo scempio dell’ostensione del papa e il comportamento dei media. «In quei giorni» essi lo hanno sbranato e impietosi ne hanno mostrato brandelli di carne senza la pietas che si deve ai malati terminali. Ho penato per lui, quando lo ho visto vittima e protagonista nel tritacarne dei media che lo esigevano a qualunque costo per mostrarlo alle folle. Quanta pena nel vedere che i «prossimi» del papa permettevano lo scempio di dissetare la morbosità spastica delle tv piuttosto che custodirlo con amore filiale nel mantello della riservatezza e del pudore. Il papa alla finestra che si sforza di parlare con la scena atroce del microfono offerto e sùbito ritirato, mi è parso come l’agnello muto davanti alla folla dei suoi tosatori di cui parla Is 53. Toa alla memoria la figura di Noè, le cui scomposte nudità il figlio irrispettoso Cam irrise mostrandole ai suoi fratelli Set e Jafet che, invece, si rifiutarono di partecipare alla sconcia esposizione. Essi con gesti sacrali coprirono il padre e lo custodirono salvaguardando la sua dignità, il suo decoro e la decenza dei figli stessi (Gen 9,22-25). Attoo al papa, ho visto emergere la tribù di Cam e sconfiggere i sentimenti di Set e Jafet. Il terzo «segno» è stato offerto da preti e religiosi che hanno affollato le trasmissioni tv che ripetevano sempre noiosamente le stesse cose fino a provocare un rigetto per overdose. I suoi figli primogeniti, preti, vescovi e religiosi, che avrebbero dovuto stare in silenzio immersi nella preghiera con e per il «padre» agonizzante, sedevano comodi e ciarlieri in tutti i salotti tv che fino a qualche ora prima erano stati il tempio pagano dell’effimero e dell’immoralità. Il papa muto e orante bruciava senza consumarsi come il roveto di Mosè e il clero mediatico partecipava all’abbuffata di Sodoma e Gomorra, celebrata da quei giornalisti, officianti del vacuo e delle vane parole che il 31 marzo scorso, addirittura nella tv di stato, ritardarono la «prima» notizia dell’improvviso aggravarsi del papa (che era un vero scornop giornalistico) per non turbare il «porta a porta» elettorale del presidente del consiglio, che ammanniva prosopopea, sapendo che il papa stava morendo. Un’occasione perduta per un meschino calcolo di bottega. Il quarto «segno» è stata la reazione dei politici nostrani e dei potenti. Coloro che hanno voluto la guerra preventiva contro ogni diritto e contro lo stesso papa che, inutilmente, l’aveva dichiarata immorale, hanno affollato compunti e dolenti le messe «importanti» (cioè riprese dalle tv), spendendosi in elogi e ringraziamenti al papa «grande», artefice della storia e uomo degli sconvolgimenti inteazionali. Da nessuno ho sentito dire, anche una sola volta, che «questo» è stato il papa che ha condannato la guerra e che si è speso fino allo spasimo per evitare un conflitto di religione. Nessuno ha detto che è stato il solo a distinguere tra terrorismo e musulmanesimo. Molti hanno messo in evidenza con enfasi solo il suo ruolo nella caduta del comunismo, dimenticandosi di ricordare che, proprio in America, il papa aveva condannato severamente il capitalismo mercantile e il liberalismo senza anima e colmo di ingiustizia. Ho rivisto fino alla nausea le immagini della visita del papa al parlamento italiano (14.11.2002), dove, applauditissimo, aveva chiesto un segno di clemenza per i detenuti. Il papa, anche da morto, aspetta ancora una risposta.

Da parte del papa resta la figura gigante di un credente che non ha avuto paura né della sofferenza, né della malattia e tanto meno della vecchiaia che ha saputo vivere e piegare alla sua volontà indomita. Né la vita né la morte lo hanno posseduto, ma egli si è abbandonato nelle braccia dell’una e dell’altra con la docilità di chi sa che entrambe sono un dono di Colui che lo ha chiamato a rendere ragione della morte durante la sua vita e della vita nel momento della sua malattia e della morte. La sua ultima parola è stata un sussurrato «Amen!» come sigillo di adesione alla volontà di Dio, compiuta fino in fondo. Ancora una volta e per sempre resta per noi il suo sguardo morente rivolto verso la finestra vuota quasi a volersi precipitare tra la folla di giovani che lo accompagnava nella morte: «Sono venuto a cercavi. Siete venuti a trovarmi. Grazie». Quelle parole sono state, ancora, una carezza e un bacio dati a ciascuno.
Mia mamma è morta all’inizio di sabato, il papa alla fine del sabato (2 aprile) e al principio della domenica «delle vesti bianche» che egli aveva dedicato alla «Divina Misericordia», quasi a dire che il mondo intero è circondato e assediato dalla misericordia/tenerezza di Dio.
A distanza di un mese, resta dentro di noi come marchio di fuoco l’eco della sua voce profetica che annuncia le stesse parole del Risorto: «Non abbiate paura!» per sfumare nell’abbandono filiale e senza riserve nel grembo della Madre: «Totus tuus!». •

Paolo Farinella




DOSSIER ANZIANI “La vecchiaia piombò in casa nostra e vi pose dimora”

Quando la vecchiaia è sofferenza e dolore fisico. Quando la morte è il dono più atteso. Questo è il racconto di una storia personale ed intima. Abbiamo pensato di pubblicarlo perché crediamo che in molti potrebbero ritrovarsi in queste righe e soprattutto in questi sentimenti.

Ho visto invecchiare mia mamma. L’ho vista morire. Ho sempre pensato che mia mamma Rosa fosse eterna e incapace di invecchiare. Non ero pronto a vederla trasformata, quasi di colpo, in una donna curva, fragile e col bastone, lei che è sempre stata una quercia, capace di affrontare ogni tempesta e uragano con grinta straordinaria. No, non ero pronto!
Da prete ho vissuto tanta parte della mia vita tra gli anziani, accompagnandoli nel lento declino fino alla morte. Ho sempre amato e stimato gli anziani che ho incontrato lungo la mia strada. Con loro mi trovavo a mio agio, anche se spesso impotente di fronte alle loro necessità. La mamma, no! Non l’ho mai immaginata, vecchia e malata. Nel mio subconscio, semplicemente non poteva: è la mamma! Ancora oggi non riesco a parlarne «al passato», perché, anche se morta, la vedo e la contemplo nella sua vecchiaia e nella sua giovinezza.

MAMMA ROSA
Rosa è una quercia stabile che nessuna tempesta di vento può scuotere nella solidità della sua forza e stabilità. È lei che dà sempre sicurezza e prospetta soluzioni. Non si smarrisce mai davanti alle difficoltà ed ha sempre il coraggio di sapere ricominciare daccapo.
La mamma non ha studiato, è arrivata alla quarta elementare negli anni ’30 in pieno regime fascista. Non può più frequentare la classe quinta perché «mista» e i suoi genitori preferiscono toglierla da scuola piuttosto che mandare una bambina in mezzo ai ragazzi maschi. Erano i tempi.
La mamma ha uno spiccato senso del sapere e della conoscenza. Legge, legge, legge, divorando libri. Nella sua vecchiaia ha tre passatempi: il lavoro ad uncinetto o a maglia in cui è artista (non ho mai comprato un maglione, avendoli sempre avuti «originali» e… «fatti a mano»). Devo a lei l’inesauribile sete di studio e di ricerca che mi porto dentro. Ricordo che quand’ero bambino, attorno al fuoco nel braciere (dove mettevamo patate e salsicce dentro la carta stagnola), lei ci leggeva romanzi o raccontava quelli che aveva appena letto. Insieme al latte mi fece succhiare il gusto della lettura e mi trasmise la curiosità del sapere.
Quando la vecchiaia comincia a diventare pesante per i dolori, seduta nella sua poltrona, là accanto al calorifero, ogni giorno legge il giornale dando valutazioni politiche di alta pertinenza. Difficilmente sbaglia diagnosi. Pensare a lei e pensarla sempre giovane e sempre efficiente significa anche pensare la mia vita con una assicurazione di garanzia senza fine.
Nel 1982, a 57 anni, la mamma, madre di cinque figli maschi, perde il terzogenito, Santo di 31 anni con moglie di 29 e due figli di 6 e 3. Santo muore in un incidente sul lavoro: schiacciato da un treno, mentre sostituiva un collega in ritardo. Ricordo quel giorno come adesso. Era domenica 28 marzo e stavo andando all’altare. Ebbi la notizia. Mi feci sostituire e corsi a casa dei miei genitori. Mentre andavamo in macchina sul luogo della tragedia, annunciai loro il vangelo della morte: Santo è morto.
Da quel momento la vita di mio papà e di mia mamma cambiò. Per sempre. Tutto si trasformò. Il cimitero divenne il santuario del pellegrinaggio perenne e la vecchiaia piombò in casa nostra e vi pose dimora.
Nel 1995 all’età di 79 anni muore mio papà, Giuseppe. La mamma ha 70 anni. Finché ha potuto ha continuato ad andare al cimitero come ad un appuntamento vitale, luogo di energia e di forza. Non va al cimitero, ma va ad un appuntamento importante: incontrare il figlio e il marito. Poi lentamente, invecchiando giorno dopo giorno, comincia a diradare, sostituendo le visite con la celebrazione della messa nell’anniversario della morte e nel giorno di compleanno. Oggi mi rendo conto che la sua vecchiaia ebbe inizio in quella domenica, 28 marzo 1982. La morte del figlio a cui diede la vita è l’inizio della sua morte, lenta e inesorabile che passa attraverso il torchio della vecchia per spremere da lei ogni goccia di vita, una ad una.
Gli ultimi dieci anni della vita di mamma Rosa sono un tormento e una palestra di dolore fisico: la consunzione della spina dorsale non solo l’ingobbisce e la rende storta, ma deforma anche le ossa della spina dorsale, i cui dischi appuntiti a coda di rondine premono in maniera costante e sistematica sui nervi causando un dolore ininterrotto che nessuna terapia sa lenire. Donna resistente al dolore fisico, è capace di soffrire in silenzio per non disturbare e non preoccupare noi figli. Si lamentava quando non ne poteva più. Ultimamente il lamento è diventato abituale, seppure impercettibile. Continua a lavorare a maglia finché le mani e le forze glielo permettono. Conservo ancora oggi le tovaglie d’altare o altri paramenti ricamate da lei su misura: un vero capolavoro!
Nell’agosto del 2004 cade in casa e si spezza il femore con conseguente operazione, riabilitazione e ritorno alla vita non più normale. Ora cammina storta, appoggiandosi al bastone sostegno, ma anche sicurezza incerta. La rottura del femore è un colpo decisivo, un giro di boa.
La guardo e la vedo invecchiata ancora di più. Ai miei occhi non appare più la donna vigile e attenta, piena di grinta e di voglia di lottare, la donna che mi teneva testa in ogni circostanza e situazione, la donna indistruttibile ed «eterna» che avevo sempre coltivato dentro di me. Ora vedo, per la prima volta, una vecchietta ricurva, sofferente che invoca la morte come un dono; vedo una donna instabile fisicamente, ma che sa di non potere morire perché c’è ancora un problema che attende e necessita la sua presenza; ancora una volta, come dieci anni prima, all’età di 70 anni compiuti, di fronte alla tragedia che si abbatte sulla famiglia, schiacciata, ma non oppressa, smarrita ma per nulla sconfitta, vedo una donna che ha la forza di dire ai figli: «Rimbocchiamoci le maniche e ricominciamo daccapo». Vuole morire, ma non può e resiste nonostante la sua giornata sia diventata una lenta agonia senza nemmeno un’ora di respiro. S’immola fino alla fine. Oltre la fine.
Fa la comunione ogni volta che vado a trovarla, perché ora non può partecipare alla messa domenicale e quella in Tv non le piace, anche se la segue. Prima di essere operata al femore mi chiede il sacramento dell’olio: bisogna essere pronti a qualsiasi evenienza. Il suo desiderio è la morte, la sua condanna è la vita. Nel frattempo, arriva l’ultimo regalo: un tumore al fegato e un riversamento polmonare e addominale. Gli ultimi due mesi di vita. Una vecchiaia lacerata, strappata pezzo per pezzo, senza risparmiare nulla. Un tormento per lei e per noi che l’assistevamo impotenti. Scorticata come san Bartolomeo.
Mi dice che hanno un bel dire coloro che inneggiano all’allungamento della vita visto come traguardo di civiltà. Vedendo se stessa invecchiata in mezzo ad altri vecchi che stanno anche peggio di lei, sì, con la vita allungata, ma in mezzo a sofferenze indescrivibili, fisiche e morali, commenta: non si è allungata la vita, prolungano la sofferenza. Ancora una volta non aveva sbagliato diagnosi.
Circondata da una siepe di affetto e di presenza, non possiamo lenire il suo dolore e fermare il suo invecchiare lento e inesorabile davanti ai nostri occhi e alla nostra impotenza che inconsciamente chiede al Signore il miracolo impossibile. Forse avevamo paura per noi stessi più che per lei: la certezza che sarebbe morta e che quindi ci sarebbe stata tolta, ci rendeva più vecchi di lei, più incurvati, più fragili e più piccoli. Eravamo sempre presenti perché volevamo godercela più a lungo possibile, sapendo che ogni giorno poteva essere rapita al nostro sguardo, ma non al nostro cuore.

L’ULTIMO NATALE
Quando a Natale del 2004 avemmo la sentenza che non sarebbe arrivata oltre i tre mesi, decidemmo di portarla a casa sua, nel suo ambiente, nel suo angolo di cucina, dove trascorreva il tempo che ormai era scandito solo dal dolore e dall’attesa della morte. Assistita dall’«Associazione Gigi Ghiotti», sotto morfina 24 ore su 24, camminammo insieme incontro alla morte perché lei era a conoscenza del suo male e del suo destino. Camminava a fatica e il giorno di Natale, volle vestirsi di tutto punto e sedersi a tavola con figli e nipoti. Disse: «Voglio dirvi due cose. Primo: siamo alla fine. Secondo: chiedo perdono a tutti se ho fatto del male e se l’ho fatto non l’ho fatto apposta».
Scavata nel volto e lenta nei movimenti, aveva ancora il timbro di una voce decisa e solenne, indomita e autorevole. Invecchiata, ma non vecchia! Figli, nipoti e nuore presenti abbiamo avuto la certezza che stavamo vivendo il vero Natale. Con una differenza: non nasceva in casa nostra un bambino, ma una donna anziana, malata di tumore e consapevole di morire, stava rinascendo lei e ci coinvolgeva nella sua rinascita. Ci sembrava di ascoltare il messaggio del natale di Betlemme: non celebrate la mia nascita perché «Io-Sono» da sempre, celebrate piuttosto la vostra ri-nascita di creature nuove. Accanto alla culla del Bambino c’è la croce della mamma anziana e malata che sta andando per rinascere ad una nuova vita insieme al marito e al figlio. La culla e la croce. Era solita ripetere una filastrocca che sua mamma le aveva insegnato da piccola: «Quando nacqui, una voce mi disse: “tu sei nata a portar la tua croce”». La culla e la croce furono la dimensione della mia mamma che nella sua vita coniugò due soli verbi: soffrire e servire. Nacque per soffrire, soffrì vivendo.
La mamma con la sua richiesta di perdono e con la sua trasparenza di vecchiaia divenuta semplicità di bambina, esercitò il suo alto magistero di vita perché in un istante unificò il tempo e l’eternità, fondendoli insieme. Una donna anziana che sta per morire e ancora capace di generare senza calcoli e senza interessi. Gratuitamente visse, gratuitamente si accomiata da se stessa, ma non da noi che ancora non vogliamo credere che la fine sia vicina.
Fu impressionante scoprire come la mamma, anziana e malata, bambola di pezza in mani altrui e incapace ormai anche di leggere, fosse ancora il fulcro di contenimento di quanti la circondavano. Attoo a lei fragile e decadente anziana senza più movimenti autonomi, in balia di dipendenza dagli altri per ogni esigenza e necessità, ruotano i figli, le nuore, i nipoti e la pronipote di due anni con il fratellino in arrivo. Il futuro è appeso al gancio della vecchiaia che lo culla e lo custodisce come un tesoro prezioso. La vecchia sterile partorisce sette volte, oltre il tempo, oltre ogni speranza, a dispetto della morte. La donna forte di cui il libro dei Proverbi 31,10 tesse l’elogio è qui davanti a noi. È la mamma: «La donna forte chi la troverà?». Noi l’abbiamo trovata.
Di fronte alla prospettiva della morte, sa dire: «Facciamo quello che Dio vuole» e senza saperlo trasforma in vita le parole dell’alleanza del Sinai in Es 24,7: «Ciò che il Signore ha detto, noi faremo e ascolteremo» e del Padre nostro: «Sia fatta la tua volontà» di Mt 6,10.
Come il popolo del Sinai, la mamma prima ha fatto e poi ha ubbidito. Antico e Nuovo Testamento, insieme in un unico progetto, Isaia 53 e Mt 6: «Come un agnello condotto al macello, come pecora muta davanti ai suoi tosatori non aperse bocca… Padre… venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà».
Il 6 gennaio, solennità dell’epifania, inizia l’ultimo tratto della via crucis, dolorosa e terribile. La vecchiaia e la malattia diventano crocifissione: il male prende la lingua e la bocca con atroci dolori che nemmeno la morfina sa lenire. Non può inghiottire e deglutire nulla. Non può fare nemmeno la comunione, che ormai da giorni è il suo unico nutrimento.
Ho pregato Dio che prendesse me al suo posto o desse a me i suoi dolori e le sue sofferenze e che se questo non era possibile, che la facesse morire, ma che in ogni modo ponesse fine ad uno scorticamento disumano che a me pareva gratuito e perverso. Se lì c’era Dio, non sapevo come c’era.
In quei giorni ho pensato alle vittime delle torture in Iraq ad Abu Graib e in tutti i luoghi dell’orrore delle guerre dimenticate, ma in pieno esercizio in ogni parte del mondo. Ho pregato, ho pregato, ma il Signore non ha ascoltato il grido di un figlio che voleva solo che fosse alleggerita un poco la sofferenza della sua vecchia mamma.
Mai come in quei momenti ho capito il Giobbe della bibbia e l’urlo di Gesù sulla croce, quando grida il suo abbandono al Padre. Da quel giorno seduto accanto a lei mentre invecchiava, soffriva e si trasformava, cominciai a preparare l’omelia del suo funerale o meglio del suo «Ad-Dio» e del nostro «Arrivederci», mentre guardavo la mamma ormai vecchia, malata e moribonda.
Quel giorno ebbi la certezza che la vecchiaia avrebbe avuto il sopravvento sulla speranza e che la mamma sarebbe morta. Quel giorno fu il giorno più lungo per l’anima mia che si rifiutava di accettare questa certezza, nonostante desiderassi la sua morte per non vederla più soffrire. Si può desiderare la morte per amore? Oh, sì se si può! Con la mamma ho provato anche questo contrasto di desideri: la morte e la vita contemporaneamente. Il tutto e il nulla. Il vuoto e il pieno.

OLTRE LA VITA E LA MORTE
Finalmente dopo otto giorni, nella bibbia numero simbolico che celebra il Messia, il 14 di gennaio 2005 alle ore 17,00, la mamma muore tra le braccia dei figli presenti. Mai morte fu liberazione come questa. Noi figli respirammo subito un sollievo per lei e godemmo che non soffrisse più, ma restammo orfani, nonostante siamo adulti e io sulla soglia dell’anzianità.
Il momento della morte coincideva con l’inizio del sabato ebraico, il giorno che per la liturgia cristiana inizia, ma non termina perché si prolunga nella domenica, il giorno del Signore, illuminato dalla risurrezione, giorno senza tramonto perché Dio stesso e l’agnello sono la sua luce e il suo riposo. È il giorno dove la vecchiaia si fonde con la giovinezza, la notte con l’alba, il buio con la luce e Dio stesso diventa la sintesi del paolino «Tutto in tutti» (1 Cor 12,6).
Dice una leggenda ebraica che in ogni generazione vi sono nascosti 36 giusti, sconosciuti gli uni agli altri e a chiunque; 36 come gli anni di Isacco quando dovette essere immolato da Abramo sul monte Moria per obbedire ad un ordine di Dio. Il giusto Isacco fu sostituito dal montone procurato da Dio stesso. La leggenda sta ad insegnare che ogni generazione sta in piedi perché poggia su 36 colonne di «giusti» nascosti che con il loro silenzio, la loro sofferenza, il loro dolore e la loro vecchiaia vissuta con dignità, reggono il peso dell’umanità in modi e stili a noi incomprensibili e per la nostra sensibilità spesso inaccettabili. Di questi giusti credo che buona parte siano anziani con il fardello della solitudine e della malattia, del silenzio e, a volte, dell’abbandono. Essi sono l’icona vivente della nostra società faticosamente in cammino verso la morte che non accettano come parte della vita. Verso la vita. Oltre la vita e la morte.
La mia mamma fu per la sua e la nostra generazione una di questi 36 giusti nascosti, ma eletti da Dio e associati al mistero della sua croce. Mistero di dolore e di morte che genera la risurrezione degli altri. Prego Iddio di farmene degno. Per sempre. •

Paolo Farinella




DOSSIER ANZIANI “Se non incontro lo specchio non mi accorgo di essere vecchia”

Una donna descrive il suo invecchiare come sintesi della sua vita insieme ad altri vecchi che ama (marito, madre, parenti e amici) e se fisicamente non può più andare per mare e per monti, il suo cuore vola verso alture un tempo impensabili, ma solo ora possibili.

Il sentirnero dell’Alta Via si snoda dolce ed ombroso sul crinale. Da una parte, il bosco scende ripido verso Coreglia, mentre la corona dei monti, oati dell’ultima neve, ti circonda come un abbraccio; dall’altra parte, il bosco scende e si perde nel golfo color smeraldo.
L’ombra dei lecci è discreta e ospitale. Eppure facciamo fatica a camminare e ogni tanto dobbiamo sedere su qualche sasso e intanto ormai ogni gesto, ogni sguardo, ogni avvenimento mentre lo viviamo si fa già ricordo. Senza dircelo, sappiamo che ogni attimo ha un sapore che va vissuto intensamente con tutti i sensi tesi a raccoglierlo e spesso in queste nostre camminate sempre più facili e lente ci ripassiamo i ricordi: nevicate, tramonti, campi di girasoli e di lavanda, laghetti ghiacciati, mari in burrasca, grotte e musei, quadri e libri… tante finestre nel nostro cuore che si spalancano giorniose riportandoci il gusto della festa.
Altri ricordi, altri dolori e difficoltà ci riportano a giorni di lotte e di battaglie. Non sempre vinte, ma comunque superate con onore perché sono state la nostra scuola di vita alla quale ci siamo temprati come piccoli soldati e ora ci brillano in cuore come medaglie.
È stato il crinale sul quale abbiamo sempre un po’ gustato l’avventura dell’esistenza che ora ci dà ancora il senso del nostro andare. Un equilibrio sempre più precario: sul versante in ombra, le delusioni, i rimpianti del «poteva essere diverso», del desiderio di essere più capiti e più amati, la nostalgia; ma, dall’altra parte, il sole e il richiamo a vivere leggeri come bambini nell’attimo che viene, pronti a dare, amare sempre e per primi come si può e come si è capaci, ma sempre al meglio di noi stessi, come se la passione per la vita fosse intatta e immacolata.
Non voglio, comunque, rinunciare all’ombra che mi fa risaltare il sole e me lo fa più cercare e amare. Non voglio rinunciare a niente di questa vita impastata di albe e tramonti che mi propone ancora mille curiosità e mille possibilità di «imparare».
Imparare a tenermi dritta su questo sentirnero dove vedi la vetta sempre più vicina e sempre più in alto. Quando entro in un ospedale o in una cosiddetta «Casa di riposo», allora la vetta si fa impervia e mi terrorizza. Sarò in grado di raggiungere «quella» vetta? Nell’avere bisogno di tutto, sarò in grado di abbandonarmi totalmente, di continuare a ringraziare, di non aspettarmi nulla dagli altri nel continuare a servire Dio nell’offerta di ogni debolezza?

È la «Casa di riposo» che mi attira ora come luogo di pensiero e di meditazione: che cosa è «casa» e che cosa è «riposo»? Penso alla mia «casa» come luogo di rifugio e di raccolta di oggetti, libri, abitudini, riti, ma anche al distacco con cui, in questi ultimi tempi, vado coltivando il mio cercar «casa» nel mio cuore. Così come cerco il riposo standomene tranquilla nella mia solitudine interiore alla ricerca continua dell’amico di sempre e per sempre. Ce la farò?
La mia vita intanto scorre senza sosta con mille impegni e tra mille difficoltà e spesso è mattina e sera, è Natale e Pasqua e il tempo si fa sempre più breve e veloce perché è di nuovo compleanno.
L’amore per i «miei» (marito, genitori, figli, nipoti) mi dà una cadenza di servizio che mi scalda (e mi distrugge di fatica). L’amore con i fratelli di fede mi nutre e mi fa sentire così compagna in questo viaggio, così impegnata verso la mèta. Leggere nei loro volti le mie stesse tensioni, paure, coraggi, mi commuove, mi consola, mi travolge in una fusione di cuori sempre più profonda.
Anche le lacrime sono nuove, sono di pietà e di misericordia, lacrime di attesa. Il dolore per questo povero mondo dove poveri piccoli uomini pensano di poter dettare leggi e uccidere e arricchire come se la vecchiaia e la morte non potessero sfiorarli. Mi mette in cuore una grande nostalgia del cuore di Dio, dove trovare ancora il senso del futuro e della Speranza e anche un desiderio di preghiera e riparazione.
La mia vita è piena e se non m’incontro con lo specchio, non mi accorgo d’essere vecchia. Del resto alle mie prime rughe, la mia nipotina Chiara, un giorno mi ha detto: «Nonna, che bello!, ti sono venuti tutti i raggi intorno agli occhi». •

Luisa del Piatto




DOSSIER ANZIANI “Nonanona!” (Il grido delle badanti rumene)

«Il vecchietto dove lo metto» cantava Domenico Modugno. Quel vecchio ritornello dolce-amaro nasconde un problema che oggi è serio e sempre più diffuso. Attualmente la soluzione più in voga pare quella dell’affidamento a donne extracomunitarie, soprattutto dell’Est europeo (Romania, Ucraina, Moldavia) e del Sudamerica (Perù, Ecuador). Sono le «badanti» di cui sono piene le nostre città. E senza le quali ci sarebbero grossi problemi.

Nelle case italiane, soprattutto delle regioni settentrionali, il ritornello «nonanona!» è diventato una consuetudine. È il modo in cui le assistenti familiari, più popolarmente indicate come badanti, chiamano le nonne, o i nonni, che assistono. Pronunciato in modo gentile ma deciso è una specie di richiamo all’ordine.
L’allungamento dell’età biologica rapportato ad una scarsa considerazione sociale dell’anziano (negata, ma effettiva) ha creato una zona d’ombra nella quale i vecchi sono chiamati a vivere non già un meritato riposo, ma una sorta di calvario finale caratterizzato da solitudine, abbandono, tristezza ed un frustrato desiderio di morte, vista come una liberazione.

LA CONOSCENZA, RICCHEZZA DEGLI ANZIANI
La funzione degli anziani è stata storicamente quella di produrre conoscenza. Chi poteva farlo meglio di loro? Chi meglio di un vecchio deportato può spiegare cosa sia stato il nazismo? Una conoscenza legata ai sentimenti ed al ricordo, lontana dalla cultura nozionistica.
Nel mondo del progresso-sviluppo-crescita tale ricchezza immateriale è superflua. Il nonno, un tempo capotavola, ha inesorabilmente preso la via del soprammobile ingombrante. Tutte quelle storie sui partigiani e i fascisti, la povertà, la frutta rubata dagli alberi, il dialetto, che un tempo inchiodavano nipoti più o meno grandi perché realmente avventurose sono diventate noiose, inutili, improduttive.
La famiglia di per sé in via di disintegrazione a causa delle continue e corpose dosi di individualismo somministrate dal modello «culturale» imperante, non riesce o non vuole dedicare il molto tempo che gli anziani chiedono. Il lavoro, la carriera, gli amici, il sesso, i divertimenti, l’affitto, le mille preoccupazioni che infarciscono la vita del cittadino moderno non danno molta possibilità di scelta… «Non ho tempo!». Stesso discorso da parte dello Stato che, teoricamente, dovrebbe garantire a tutti i cittadini dignitose opportunità di vita. Ma tutti i governi hanno sempre trattato gli anziani come parassiti che chiedono pensioni troppo esose, si ammalano troppo e non producono.
Gli olandesi, nel loro sconcertante pragmatismo, hanno risolto il problema. Gli uomini e le donne intorno a 70-75 anni sono consapevoli di essere un peso per la società e autonomamente si ritirano in centri per anziani, di solito ultra confortevoli. Dicono di essere felici di tale scelta e viverla come una conquista.
In Italia, il retaggio della famiglia patriarcale resiste creando lo scontro tra drastiche risoluzioni pratiche e crisi di coscienza.

CLANDESTINE, MA INDISPENSABILI
«Il vecchietto dove lo metto, dove lo metto non si sa, non c’è posto, non c’è posto per carità!», cantava Domenico Modugno. Un ritornello dolce amaro che apparentemente ha trovato una soluzione equa per nuove e vecchie esigenze. Quale? Angela, Elena, Maria, Sandra e molte altre sono ragazze giunte dai paesi dell’Est, soprattutto da Romania e Ucraina e loro sono «la soluzione» al «problema» (esiste una definizione più politicamente corretta?) del nonno. Sono le badanti, o collaboratrici familiari. Un esercito (solo in provincia di Torino sono 35.000) di lavoratrici che si prende cura delle persone anziane.
Il 90% è extracomunitaria, il 91% sono donne. Il 77% di loro ha la licenza media, il 15% la licenza elementare. Ragazze sì, ma anche donne adulte. Il 58% ha un’età compresa tra i 30 ed i 50 anni.
Applicando tali statistiche alla realtà torinese risulta che una famiglia su dieci ricorre al loro aiuto per assistere i nonni.
Molti analisti sostengono che sia l’ennesimo passo verso la totale privatizzazione del sistema sociale.
La badante vive in casa dell’anziano non più autosufficiente o con grosse difficoltà. Cucina i pasti, provvede a lavarlo, somministra medicine, vigila che non combini pasticci e ascolta in maniera professionale le storie del passato raccontate a oltranza. Fungono anche da difesa definitiva contro il pericolo delle truffe cui sono sottoposti molti anziani che vivono da soli.
Il boom di richieste di tale figura professionale sta portando ad un flusso continuo di ragazze che, lasciata la famiglia nei paesi di origine, giungono come clandestine ma già con un lavoro sicuro.

E LO STIPENDIO VA A CASA
Lo stipendio varia. Da un minimo 750 euro ad un massimo di 1.200, dipende dall’impegno che necessita la persona da assistere, se sono regolarizzate o meno, se devono lavorare anche il fine settimana. La tredicesima e la liquidazione finale vengono quasi sempre riconosciute. Il vitto e l’alloggio sono ovviamente offerti dalla famiglia.
Non tutte sono interessate alla regolarizzazione in quanto consapevoli di non essere considerate come un pericolo. «La polizia italiana non cerca noi che siamo sempre chiuse in casa e non rappresentiamo alcun pericolo per gli italiani. Economicamente poi non guadagneremmo nulla perché i versamenti fatti li perderemmo, in quanto un po’ tutte desideriamo solamente fare un buon gruzzolo e tornare a casa» dice Elena, badante-compagna di vita di Caterina anziana signora torinese.
La buona retribuzione ricevuta unita ad una semi mancanza di spese ha portato la categoria badanti ad essere un cliente ambitissimo dai trasportatori di soldi. Gli stipendi vengono di solito pagati in contanti, ed il gruzzolo che si forma viene nascosto in casa. La propensione al risparmio è elevatissima. Sono soprattutto le clandestine che ricorrono ai corrieri informali per spedire i soldi a casa con i quali riescono a mantenere tutta la famiglia. I bidoni esistono ma meno di quanto si possa immaginare.

LA STRANA COPPIA
Le dinamiche che si creano all’interno della strana coppia badante-nonno possono risultare bizzarre. Non sempre rose e fiori, talvolta un amore-odio reso vivibile dalle abili mosse diplomatiche dei parenti coinvolti, interessati che la convivenza sia pacifica quindi fruttuosa per tutti. Il rapporto di lavoro si conclude con la morte dell’assistito, e la famiglia del caro estinto solitamente non esita ad aiutare la badante con la quale ha creato un rapporto quasi familiare.
Racconta sempre Angela delle sue esperienze lavorative vicine ai nonni: «La vita da badante è faticosa. Il nostro impegno è continuo e, il peggioramento delle condizioni dell’anziano può talvolta risultare pesantissimo per tutti. Io temo molto di più il degrado psicologico che quello fisico perché difficilmente gestibile. Mi è capitato infatti che il nonno che assistevo non mi riconoscesse più e avesse crisi di panico. Oppure in altre occasioni che facesse resistenza passiva. È sicuramente un lavoro molto duro».
Eccolo dunque il popolo invisibile delle badanti. Talvolta capiscono male l’italiano, ma apprendono con impegno. Alcune imparano anche il dialetto.
La «soluzione badante» può essere un buon punto d’equilibrio tra la casa di riposo, non amata dagli italiani, e la vita in famiglia del nonno che comporterebbe sacrifici difficilmente sopportabili nell’epoca modea.

Maurizio Pagliassotti




DOSSIER ANZIANI “Cara anziana, caro anziano…”

Qualsiasi politica pubblica per gli anziani deve considerare che questi non sono dei «terminali passivi», ma una «risorsa». Per sé e per gli altri.

Sono assistente sociale da 11 anni ed ho avuto la grande opportunità di iniziare il mio percorso professionale in una Casa di riposo a Genova, nel quartiere di Quezzi. I miei studi di servizio sociale a Roma e l’esperienza di vita acquisiti hanno preparato e predisposto la mia sensibilità professionale ad accogliere con attenzione l’esperienza che si stava schiudendo per me.
Non ho avuto il privilegio di vedere invecchiare i miei genitori perché sono morti in età giovanile (57 anni la mamma e 60 anni il papà). Devo a loro, però, il dono del rispetto per i «vecchi» e la «vecchiaia»: in sintesi, il rispetto per la vita. Forse è anche qualcosa di più del riconoscimento di una stima: è il valore della persona.
Il mio primo lavoro fu, appunto, nella Casa di riposo di Genova, che accoglieva un gruppo di 60 anziani, fra uomini e donne, anche coppie, autosufficienti e parzialmente autosufficienti, pensionati fuoriusciti dal circuito lavorativo. Dagli anni Settanta in poi l’Opera nazionale pensionati d’Italia (Onpi) era l’ente preposto a garantire una continuità di vita ai pensionati fino al loro trapasso (1). Nel 1994 lo scenario della popolazione genovese era il seguente: 660.000 abitanti con una popolazione anziana di circa 200.000 unità di cui l’80% anziani dai 60 ai 100 anni. Tre grandi istituti cittadini accoglievano una popolazione di 1.000 anziani autosufficienti, non autosufficienti e parzialmente autosufficienti.
Attoo a questi istituti di lunga degenza ruotavano una serie di servizi e soprattutto molto volontariato. L’anziano comincia ad acquisire un suo peso politico a livello nazionale: diventa un «problema» sociale (riforma delle pensioni) e sanitario (stato di cronicità se anziano disabile). Si moltiplicano i convegni, i seminari e i forum perché il panorama nazionale di un’Italia che invecchia senza avere le risorse adeguate per sostenere l’invecchiamento della popolazione è uno scenario temibile e difficile da governare.
Viene recuperata, in termini generali, una prospettiva che rischiava e rischia di andare in disuso: la prevenzione. Gli studi sociali delineano la rete delle relazioni dell’anziano (tecnicamente definita network). Un programma di prevenzione dovrebbe considerare i bisogni primari di socializzazione e di integrazione della persona anziana (famiglia / parentela / vicini di casa / amici/ colleghi e comunità locale / operatori sociali / operatori sanitari / operatori volontari) con lo scopo di permettere all’anziano di riscoprirsi «risorsa» di aiuto per sé e per gli altri.
Forse è necessario ricordare che uno dei principi fondamentali del Servizio sociale è l’autodeterminazione della persona in difficoltà. L’anziano non può più essere un «terminale passivo» di una politica d’intervento. Una politica preventiva valorizza una serie di interventi sociali quali l’informazione, l’aspetto psicologico, l’attivazione e il cornordinamento di interventi volontari, l’utilizzo possibile di ricoveri temporanei, di centri diui, che potranno consentire all’anziano e ai suoi familiari di condurre un’esistenza vivibile, protetta sufficientemente, ma aiutata nei momenti di emergenza.

Il nuovo millennio si è aperto, dal punto di vista legislativo, con l’emanazione di una nuova legge per la realizzazione di un sistema integrato di interventi sociali e sanitari, la legge quadro n. 328/2000. Essa tutela il diritto soggettivo dei cittadini di beneficiare di prestazioni non solo di natura economica, ma più estesamente sociale (art. 2), proponendosi di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i cittadini alla vita del paese.
Il principio sottostante è la sussidiarietà in base al quale convergono e collaborano attori sociali, pubblici e privati, impegnati nella promozione e tutela del diritto di cittadinanza di ogni singolo individuo. Ciò segna il passaggio dal sistema dei servizi sociali pubblici (DPR 616/77) al sistema di interventi e servizi sociali a rete, in cui l’offerta di servizi nasce da una programmazione partecipata, segnata dalla presenza congiunta ed integrata di soggetti istituzionali diversi ed organizzazioni che non abbiano scopo di lucro. Questo cambiamento di logica riconosce un potere alla persona e nel nostro caso alla persona anziana che potrà finalmente accedere direttamente ad una serie di informazioni e di prestazioni utili ad una serena esistenza. •

BOX 1

ISTRUZIONE ALL’USO DEI SERVIZI SOCIALI

A chi chiedere

Una persona in difficoltà e quindi anche un anziano può rivolgersi presso l’assessorato ai servizi sociali del proprio comune di residenza per chiedere il recapito dell’Ufficio di servizio sociale più vicino alla propria zona di residenza. Generalmente a questo scopo sono attivi numeri verdi (gratuiti). Esistono anche «Sportelli del cittadino» che, in città grandi come Torino, Genova, ecc., sono dislocati in diversi punti della città offrendo tutte le informazioni necessarie.
All’ufficio di servizio sociale occorre chiedere un appuntamento con un/una assistente sociale che equivale ad un primo contatto definito tecnicamente Colloquio di segretariato sociale. È questo il momento in cui si dischiudono le porte alla conoscenza delle informazioni, delle prestazioni e dei servizi già attivi sul territorio dove si risiede.
Per correttezza è bene chiarire che per le richieste specificamente di carattere sanitario come ad esempio l’istruzione della pratica per il riconoscimento dell’invalidità civile, esistono già da qualche anno sul territorio nazionale gli U.R.P. (Ufficio di relazioni con il pubblico) dell’Azienda sanitaria locale, dove è possibile avere a disposizione personale che affianca la persona in difficoltà nell’istruire la pratica stessa. Ovviamente questi ultimi uffici sono preposti per tutte le informazioni a carattere sanitario.

Cosa chiedere

È doverosa una premessa. Gli interventi di seguito elencati riguardano una serie di prestazioni previste per legge.
Ogni Regione, però, ha facoltà di agevolare maggiormente un tipo di prestazione e questo in base al prevalere di una determinata situazione di necessità rispetto ad altre Regioni, per cui può prevedere interventi innovativi che concorrono alla risoluzione della difficoltà insorta.
Le prestazioni universalmente riconosciute sono:
• Informazioni di carattere generale sull’assistenza agli anziani e informazioni su procedura per inserimento (anche temporaneo) di anziani in residenze protette e residenze sanitarie-assistite.
• Assistenza domiciliare diretta, foita direttamente dal Comune.
• Assistenza domiciliare indiretta, foita indirettamente attraverso Cooperative convenzionate.
• Assegno servizi: si tratta di un contributo economico sotto forma di assegno fornito dal Comune per sostenere parte dei costi, per esempio, di una eventuale badante. L’importo dell’assegno servizi è calcolato in base al reddito della famiglia.
• Affido anziani: accompagnatore/trice per anziani soli, bisognosi di compagnia e di svolgere qualche piccola attività (spese, accompagnamento a visite specialistiche e altro).
• Contributo economico: concesso in casi straordinari.
Quale documentazione presentare
Al primo colloquio è sufficiente esibire il proprio documento di identità.
Eventuali documentazioni aggiuntive verranno richieste dall’assistente sociale relativamente al tipo di prestazione scelta.
M.C.P.

Maria Cristina Pantone




DOSSIER ANZIANI Jeanne Jugan e le “Piccole sorelle dei poveri”

Le «Piccole sorelle dei poveri» sono nate 160 anni or sono nella Francia nord occidentale, in Bretagna, a Saint-Servan, 70 km a nord di Rennes. Furono fondate da Jeanne Jugan, nata a Cancale, un vicino villaggio di pescatori nel 1792, tredici anni dopo la rivoluzione francese. Secondogenita di quattro fratelli, per aiutare la madre rimasta vedova del marito marinaio mai più ritornato da un viaggio di pesca, Jeanne, ancora adolescente, va a servizio nelle case. È la vita che le indica la strada.
Quando la giovane inizia l’avventura di servire gli anziani, che lei definiva «un’opera non ancora conosciuta», è la seconda metà del XIX secolo e l’avvento della società industriale e del capitalismo selvaggio. Sono gli anni che vedono lo sviluppo vertiginoso delle banche. Scrisse A. Dumas (figlio) che «la borsa diventò per quelle generazioni ciò che erano le cattedrali per il Medio Evo». C’è la corsa a depositare denaro nelle banche e la ricchezza accumulata nelle mani dei ricchi genera miseria tra la povera gente. Lo sfruttamento nelle miniere e nelle industrie tessili e manifatturiere o nei latifondi è la causa della povertà che si diffonde a macchia d’olio. Molti marinai, come il padre di Jeanne, vivono di pesca in mare aperto e spesso non tornano più a casa, lasciando vedove e figli senza sostegno e senza futuro, prede privilegiate della miseria e dei profittatori.
Nel 1832 nella cittadina di Saint-Servan, dove vive Jeanne Jugan, l’ufficio di beneficenza del comune aiuta oltre 2.000 poveri. Nel 1837, cinque anni dopo, diventano oltre 3.500 su una popolazione di 9.000 abitanti. Oltre un terzo degli abitanti cade in miseria senza che nessuno si occupi di loro. L’unica istituzione prospera è la banca che assicurava rendite per un futuro senza problemi. Non esistono previdenze, stato sociale, servizi di alcun genere, ma solo l’ufficio di carità in qualche comune.

Per contestare un mondo fondato sul «dio denaro», che si nutre della miseria generata dallo sfruttamento dei poveri, nel 1842 Jeanne Jugan fonda la congregazione delle «Piccole sorelle dei poveri» con l’unico scopo di assistere e servire gli anziani poveri, di cui vuole essere sorella. Qui sta il motivo del nome della sua opera: «piccole sorelle», cioè non padrone, non responsabili, non capi, non direttrici, ma solo «sorelle» che devono essere anche «piccole», perché di fronte ai poveri si deve stare in ginocchio. Il «povero» è Dio in persona e come si serve e si ama Dio si deve servire e amare i «poveri». Amare e servire i poveri come una familiare, una sorella, fu la vocazione di Jeanne a cui non solo resta fedele durante tutta la sua lunga vita (visse 86 anni), ma alla quale sono coerenti ancora oggi le oltre 3.000 suore sparse in tutti e cinque i continenti.
Per mantenersi vivono di «questua»: dipendono cioè ogni giorno dalla carità del prossimo. In un mondo di false certezze, Jeanne dichiara con la sua vita che tutto è provvisorio e che durante la provvisorietà della vita, «nessun uomo è un’isola», perché tutti sono interdipendenti e responsabili gli uni degli altri: nessuno può vivere da solo, ricco o povero, perché da soli siamo solo capaci di perderci, mentre insieme possiamo salvarci, condividendo la mensa della vita e il panorama della dignità.
Chi sceglie e ama il povero che aveva detto: «Avevo fame… avevo sete… ero nudo… senza casa… e mi avete assistito… Quando Signore?… Tutte le volte che lo avete fatto ad un povero lo avete fatto a me…» (Mt 25, 34-40), non può perdersi dietro gli onori del mondo, ma può consumarsi soltanto nell’amore e nel servizio dei poveri, immagine e sacramento di Dio.
Alcuni mesi prima di morire, Leone XIII, il papa dell’enciclica Rerum Novarum (1891), la prima enciclica di carattere sociale, approva le costituzioni della nuova congregazione fondata da una donna che ascoltando i bisogni del suo tempo, sa anticipare tutti i principi della dottrina sociale della chiesa, facendo la scelta privilegiata dei poveri come via maestra della fedeltà al Dio del vangelo (Rerum Novarum, 2; Conc. Ecum. Vat. II, Apostolicam Actuositatem, 8/944; Gaudium et Spes, 27/1403-04).
Oggi di fronte alle file degli indigenti che affollano le strade delle nostre città chiedendo l’elemosina; oggi di fronte alla massa di immigrati che bussa alle nostre porte per mangiare le briciole che cadono dalla mensa dei ricchi gaudenti, la figura di Jeanne Jugan si staglia come una lucerna sul candelabro (Mt 5,15) a ricordare che gli anziani non sono merce scadente da cestinare, ma sono lampade ad olio preziosissime, di pregiata fattura che illuminano la vita anche di coloro che non sanno vedere.

Jeanne è una semplice popolana che grida con la sua vita di silenzio e di piccolezza la dirompente profezia di non lasciarsi ammaliare dalla corsa all’arricchimento facile, causa di tante sofferenze e ingiustizie, ma vi si oppone con il coraggio dei profeti biblici che si ergono contro gli idoli, armati soltanto della loro vita che insieme ad ogni affanno gettano sul loro Dio (Sal 55/5,23).
Avendo scelto Dio come Signore unico, Jeanne, profeta dell’economia utopica non può avere padroni, ma per scelta sa farsi serva degli anziani poveri, cioè di quell’umanità che non conta, ma sulla quale i padroni di ogni tempo costruiscono la loro ingiusta ricchezza (Lc 16,9).
Muore nel 1879 a 86 anni, dimenticata da tutti, messa in un angolo da chi si appropriò della sua opera negandole anche il titolo di «fondatrice». Al prete che le rubò i meriti e la sua opera, privandola anche della autorità sulla congregazione, disse: «Voi mi avete rubato l’opera mia, ma io ve la dono con tutto il cuore», consapevole che Dio l’aveva chiamata non alla gloria, ma al servizio dei poveri.
Paolo Farinella

Gli indirizzi
Le «Piccole Sorelle dei Poveri»
in Italia sono a:
• Genova, Via Filippo
Corridoni 6 (foto a lato)
• Torino, Corso Francia 180
• Firenze, Via Andrea
del Sarto 15
• Bologna, Via Emilia
Ponente 4
• Messina, Via Emilia 25
• Acireale, Viale dello Ionio 34
• Roma, Piazza San Pietro
in Vincoli 6 (Casa provinciale)
• Marino (Roma), Corso Vittoria
Colonna 72 (Noviziato).

Paolo Farinella




DOSSIER ANZIANI Una perla per l’ultimo miglio

Non è un ricovero, né un ospizio, né un ospedale camuffato. Non ha nomi fasulli. Non chiede «rette», né contributi pubblici. A Genova, abbiamo visitato la casa per anziani delle «Piccole sorelle dei poveri». E…

A Genova, in via Corridoni 6, abbiamo trovato una perla: un luogo di accoglienza per anziani che non è un ricovero, né un ospizio, né un ospedale camuffato e non ha nomi fasulli. Non è nulla di tutto ciò che siamo abituati a vedere quando si parla di ricoveri per anziani… È semplicemente una casa che gli stessi anziani chiamano «casa mia», perché non sono ospiti paganti o posteggiati in attesa della morte, ma persone che vivono godendo ogni giorno di tutte le opportunità che la vita offre, anche nella lentezza del tempo e del camminare propri della vecchiaia. Abbiamo incontrato persone anziane giorniose e allegre nella loro vecchiaia.
Siamo stati liberi di visitare tutti i locali, d’incontrare gli anziani, di chiedere quello che volevamo, senza alcuna limitazione. Abbiamo conversato con Esperia, Rosa, Amelia. E con Giacomo di 100 anni e 4 mesi, ancora sulla breccia a coltivare il giardino e a potare rose. Tutti ci hanno detto, con il sorriso nel cuore e sul volto, che non si sentono in «ricovero», ma a «casa mia».
Siamo rimasti impressionati dalla vitalità e dalla gaiezza di questi «vecchietti» affatto in riposo, perché ognuno di loro partecipa alla gestione della casa con un ruolo personale, secondo le capacità anche fisiche.
L’edificio, costruito all’inizio del secolo scorso, si innalza su tre piani e ad ogni piano vi sono camerette singole o doppie, sale d’incontro e una sala da pranzo per piano. Non esiste un refettorio unico, dove radunare tutta la «truppa», ma si mangia a gruppi, per piano, come in una famiglia allargata. I tavoli sono a 4 posti e sono i normali tavoli che si trovano nelle sale delle nostre famiglie. Nulla richiama un collegio o un ospizio. Le sale sono preparate dagli stessi anziani e la cura anche nei minimi particolari dimostra la sensibilità e l’attenzione che tutti hanno.

Suor Maria Rosa, come si chiama la casa in cui ci troviamo?
«Istituto “Piccole sorelle dei poveri”. In alcune case è stata aggiunta anche la dizione “Casa mia”, perché non vogliamo che sia un ospizio, ma ogni anziano deve poter dire: qui è “casa mia”. Questa aggiunta non è un vezzo, ma esprime una realtà perché veramente gli anziani che vivono con noi sentono la casa come “casa loro”. È un’esperienza che viviamo quando gli anziani per qualsiasi motivo vanno fuori, presso parenti e spesso dicono: “No, no, portatemi a casa mia”».

Qual è il motivo del nome «Piccole sorelle dei poveri»?
«È il nome originario, voluto fin dall’inizio dell’opera (1839) dalla nostra fondatrice, Jeanne Jugan, che ha pensato a noi come “Sorelle degli anziani poveri”».

Ci sta dicendo che siete nate per servire come sorelle i poveri, specialmente gli anziani?
«Sì, esattamente. Siamo nate per accogliere gli anziani soli e poveri. La nostra congregazione formata oggi da oltre 3 mila sorelle e sparsa in tutti i 5 continenti, ha un’opera unica: assistere gli anziani e in particolare gli anziani poveri, di cui vogliamo essere ”sorelle”, come in una famiglia».

Voi per accettare qualcuno ponete una condizione: deve essere veramente povero. Cosa vuol dire «povero»?
«Non avere troppi soldi. In poche parole, essere veramente povero» (il tono della voce di suor Maria sottolinea il «veramente povero»).

Facciamo un esempio: se una persona anziana possiede uno o due appartamenti frutto del risparmio di una vita per assicurarsi una buona vecchiaia voi non lo accettate?
«Di regola, no».

Cosa gli consigliate?
«Di cercarsi un’altra soluzione dove può impegnare i suoi averi e goderseli».

Se una persona anziana vi dicesse: io vi dò i miei appartamenti o i miei averi in cambio della vostra assistenza fino alla morte, voi cosa fate?
«Abitualmente non accettiamo, perché se accettassimo, piano piano diventeremmo le “Piccole sorelle dei ricchi”. Ospitiamo circa 80 persone e, se tutti avessero uno o due appartamenti o risparmi per centinaia di migliaia di euro…, noi ci troveremmo a gestire un patrimonio enorme e verremmo meno all’ideale della fondatrice che ci volle espressamente “Sorelle dei poveri”. Non dobbiamo, non possiamo aiutare chi ha sufficienti mezzi di vita. Noi esistiamo per aiutare coloro che non hanno mezzi per sostenersi: i poveri, senza appartamenti, senza rendite e a volte anche senza pensione».

Vi rendete conto che siete una mosca bianca in mezzo ad un sistema di interesse economico che ruota attorno alla vita degli anziani, dal momento che le case per anziani sorgono dovunque e a costi enormi?
«Sì, lo sappiamo, ma sappiamo anche che nessuno ci crede… (le due sorelle sorridono come chi ne ha sentite tante). Nessuno crede che la nostra vita è vivere di carità perché oggi la gente crede che tutto si fa per i soldi. Si è smarrito il senso della gratuità. Le persone che vengono qui (forse pensano di dovere discutere sulla “retta” e tirare allo sconto), si meravigliano che non facciamo questione di soldi, perché non esiste “retta” o mensile, ma poniamo l’unica condizione essenziale per noi: che la persona richiedente sia veramente povera».

A questo punto abbiamo smarrito tutte le domande che avevamo preparato e restiamo in silenzio davanti a queste due donne, apparentemente fragili, ma solide nella loro chiarezza e ispirazione. Ci viene voglia di alzarci e andarcene in silenzio perché abbiamo la consapevolezza che ogni parola in più sia inutile e superflua. Ci sentiamo catapultati in un altro mondo e ci vengono in mente le parole di Gesù a Pilato in Gv 18,36: «Il mio Regno non è di questo mondo».
In mezzo ad una città che vive una vita frenetica all’inseguimento del denaro; con mezza città che cerca di vendere (non importa cosa) all’altra mezza che deve comprare e tutto ruota attorno ai soldi, senza i quali la vita non si capisce, queste due donne che non sanno di economia, non sono esperte di macrosistemi, non conoscono le leggi del mercato, con la loro scelta di vita non solo contestano, ma stravolgono il sistema economico che ci vuole adoratori del moloch denaro e servi delle leggi di mercato dentro il perverso sistema capitalistico che avvantaggia i ricchi e schiaccia i poveri.
Qui, davanti a queste due «sorelle dei poveri», Maria Rosa e Antonina, si capisce l’importanza e la forza della nudità delle parole di Gesù: «Non potete servire a due padroni… non potete servire Dio e Mammona» (Lc 16,13).
Le sorelle devono capire il nostro disagio perché ci vengono in soccorso e suor Maria Rosa, la superiora, aggiunge:

«Per statuto non possiamo avere convenzioni con gli enti pubblici e non possiamo accettare contributi statali per il nostro servizio, non abbiamo rette, ma da 165 anni serviamo gli anziani poveri come ha cominciato la nostra fondatrice, quando nell’inverno del 1839 prese con sé una vecchia abbandonata e mezza morta di freddo e le diede la sua stanza e il suo letto; e poi una seconda vecchia e poi un’altra… senza fine. Per mantenere queste persone e garantire loro una dignità elevata, prestò servizio presso alcune famiglie, ma il suo lavoro non bastava e allora… si fece questuante e cominciò a chiedere l’elemosina, in base al principio che se Dio manda i poveri, Dio stesso se ne prenderà cura attraverso la disponibilità di anime buone e generose. Chiedere l’elemosina significa non avere sicurezze di alcun genere e dipendere totalmente da Dio attraverso la carità del prossimo».

Ci state dicendo che vi mantenete con la questua che chiedete ogni giorno?
«Gli anziani che vivono con noi contribuiscono al loro mantenimento come a casa loro: danno la loro pensione (quasi sempre la minima) tranne il 10% che resta a ciascuno per le piccole spese personali, ma la pensione non basta per la gestione di una casa grande con tante persone per cui quello che manca è integrato dalla questua che due sorelle ogni giorno vanno a chiedere per la città. Abbiamo avuto una persona che ha vissuto qui per oltre un anno senza pensione perché non ne aveva l’età: era ed è un vero povero e aveva diritto di stare con noi».

Avete dei benefattori?
«Sì, abbiamo famiglie amiche che ci aiutano con un impegno mensile. Altri benefattori ci aiutano in tanti altri modi: per esempio, al mercato generale di frutta e verdura con i generi alimentari, offerte tramite CCP o, a volte, con qualche lascito… La fantasia della carità è inesauribile e noi lo sappiamo da 165 anni. Se siamo arrivati fin qui, vuol dire che “il trucco” funziona. Per questo dobbiamo essere “Sorelle povere”, perché il giorno in cui diventassimo “ricche”, questo flusso di grazia e di generosità si seccherebbe. Il senso della nostra opera e della nostra vita poggia tutto sulla Provvidenza, nella quale crediamo e della quale vogliamo vivere noi e gli anziani che il Signore manda a noi».

Qual è il segreto, oltre il carisma della fondatrice, per mantenere una realtà complessa come la vostra così a lungo?
«La fiducia, la fiducia che la nostra madre ha avuto nella Provvidenza e che ha trasmesso a noi e che noi cerchiamo di custodire con scrupolo. Le due sorelle che ancora oggi vanno fuori a chiedere l’elemosina sono anche l’espressione di questa continuità con la nostra madre perché come lo fu per lei, anche per noi la questua è un atto di fede in Dio e nel prossimo».

Dovete vedee di tutti i colori, immaginiamo!
«A volte, ma non importa. (suor Maria Rosa s’illumina e aggiunge:) Un giorno la nostra fondatrice uscì a chiedere l’elemosina e un signore le diede uno schiaffo, ma lei senza scomporsi rispose: “Signore, questo schiaffo è per me. Ora, la prego, mi dia qualcosa per i poveri”. Ecco, questo deve essere lo stile, se vogliamo vivere il vangelo».

E riuscite a fare fronte a tutte le spese necessarie per adeguarvi alle severe normative di legge?
«Abbiamo sempre difficoltà che è quasi la regola con cui il Signore ci mette ogni giorno alla prova, se veramente vogliamo dipendere totalmente da lui. Siamo state obbligate a fare lavori straordinari di adeguamento alle normative imposte dallo stato e i costi sono stati elevatissimi. A Milano, per esempio, non potendo sostenere simili spese, siamo state obbligate a chiudere la casa. Ogni tanto riceviamo una spinta, quasi un colpo d’ala che ci permette di fare qualcosa di più: un benefattore che morendo ci lascia un appartamento o qualcosa che noi vendiamo subito per impegnare il ricavato in quello che serve. Cose di questo tipo».

Possiamo dire che il fulcro del vostro sistema economico resta la questua (e la sua implicita provvisorietà) per le strade o tra le famiglie amiche?
«Per capire questo bisogna sapere che della nostra fondatrice non possediamo né scritti né opere né carte di alcun genere. Abbiamo solo una firma col nome di religiosa, suor Maria della Croce, posto in un atto del capitolo generale del 19 giugno 1865, quando fu chiamata a dirimere la questione che angustiava la congregazione: accettare rendite perpetue o rifiutarle. La fondatrice senza esitazione indica la rotta da seguire e il consiglio invia una circolare a tutte le case: “La congregazione non potrà possedere nessuna rendita, nessun introito fisso”. Questa decisione significava rinunciare immediatamente ad un lascito perpetuo di 4.000 franchi dell’epoca».

Quali sono i criteri dell’accoglienza?
«Come già detto, la nostra opera è unica e quindi possiamo accogliere solo anziani, singoli o in coppia, purché siano poveri. Soltanto per i poveri abbiamo il diritto di chiedere l’elemosina, e i 5 euro (o anche meno) che riceviamo in elemosina dobbiamo sempre spenderli per loro».

Chi è l’anziano «tipo» che chiede di vivere con voi?
«Inizialmente entrano anziani autosufficienti, che naturalmente restano qui fino alla morte, per cui se diventano non autosufficienti li assistiamo secondo le necessità. L’autosufficienza iniziale è importante perché aiuta l’anziano ad inserirsi in un ambiente che per quanto gradevole e sereno è sempre una novità da scoprire e accettare».

Il personale che assiste gli anziani come è composto?
«Siamo più di 3.000 sorelle sparse in tutto il mondo, tranne dove c’impediscono di fare le questuanti. In questa casa, a Genova, siamo 13 sorelle di cui alcune anziane e 32 dipendenti laici estei stipendiati che si occupano della lavanderia, della cucina, delle pulizie e dell’assistenza a 80 anziani, 45 donne e 35 uomini più tre coppie di sposi che vivono insieme e anche due anziani sacerdoti, un lombardo e un sanremese. Attualmente in Europa la chiesa attraversa una crisi di vocazioni, e così anche la nostra congregazione, mentre abbiamo vocazioni in India, Colombia, Cile, Filippine, America, Africa, ecc.».

Il rapporto tra personale e anziani è 1 a 2. Nemmeno negli alberghi di lusso si ha un rapporto così ottimale.
«Noi garantiamo un’assistenza 24 ore su 24 e per noi l’anziano è sempre al primo posto, al posto d’onore. Teniamo molto all’igiene personale e alla pulizia dell’ambiente, di ogni ambiente e questo esige presenza e attenzione. Tra il personale vi sono anche infermieri, perché gli anziani hanno sempre qualche problema di salute».

Vivono in stanze singole o multiple?
«Abbiamo 48 camere singole e 16 doppie molto grandi. Quasi tutti gli anziani autosufficienti vivono nelle singole. Gli ammalati e quelli che necessitano di assistenza particolare sono nelle doppie. Ognuno ha personalizzato la camera con i propri mobili, compreso il letto e l’arreda secondo il proprio gusto».

Qual è la giornata tipo dell’anziano in questa «casa mia»?
«Riguardo alla giornata, al mattino ognuno si alza quando vuole: chi si alza alle 6,00, chi alle 7,00 o alle 8,00. Non c’è un orario comune. La colazione si consuma tra le 8,00 e le 9,00. Mano a mano che gli anziani si alzano le sorelle aiutano coloro che ne hanno bisogno o quelli che non possono muoversi a fare colazione. C’è chi sistema le sale da pranzo, chi va’ fuori per commissioni come andare in farmacia, alla posta, ecc.; chi va’ nel laboratorio di cucito dove si sistema la biancheria personale; chi accudisce il giardino o altre piccole cose».

Avete anche l’orto, oltre al giardino?
«No! L’orto è impegnativo e necessiterebbe di più persone per una sana gestione. Per i nostri anziani sarebbe troppo pesante, quindi abbiamo ripiegato sul giardino che richiede altri ritmi e impegni, senza ansia. Del giardino si occupa oggi Giacomo di 100 anni e 4 mesi insieme ad altri due che possono farlo. Poi cerchiamo di valorizzare ciò che facevano nella vita, per cui se un anziano ha fatto il falegname o il calzolaio o l’imbianchino, o altro… qui esercita la sua professionalità misurata sulle sue forze e sempre in modo libero, organizzandosi il tempo secondo le proprie esigenze. Stiamo attente, perché vi sia un equilibrio tra i vari momenti della giornata».

Per voi tutto ciò è anche un valore aggiunto economico…
«Non è questo il fine. Lo scopo principale consiste nel fatto che gli anziani abbiano un’occupazione per sentirsi ed essere utili e non rinchiudersi in se stessi e magari passare tanto tempo davanti alla televisione. Per un’anziana che non poteva fare nulla, per esempio, una suora ha inventato un lavoro: farle tagliare la lana con cui riempire i cuscini che vengono venduti per aiutare le missioni indiane».

Qual è il rapporto con il territorio del quartiere?
«Gli anziani autosufficienti escono, entrano, vanno e vengono come vogliono, senza alcuna limitazione. Vanno a comprarsi il giornale; vanno in centro anche solo a passeggio; sbrigano commissioni. Se questa è una casa lo deve essere a tutti gli effetti. Da fuori, oltre i parenti viene qualcuno, non troppi. Vi è qualche gruppo che ci frequenta che è diventato amico con il quale si è instaurato un rapporto di amicizia. Per esempio, a carnevale è venuto un gruppo che ha animato tutto il pomeriggio riunendo insieme bambini, giovani e anziani».

Come vivono gli anziani che sono qui il legame con la famiglia di origine?
«Dipende. Normalmente è buono perché i parenti mantengono i rapporti e vengono a trovarli. Vi sono anche persone che non hanno più nessuno, ma hanno amici che di tanto in tanto vengono a fare una visita. Inoltre, si è creata una rete di amicizia qui dentro per cui non c’è nessuno veramente solo».

… e il distacco dalla famiglia?
«Cerchiamo sempre che sia l’anziano o anziana a volere venire qui. A questo scopo chiediamo a tutti di fare un periodo di esperienza: se si trovano bene, possono decidere di restare, diversamente se ne tornano a casa. Nessuno finora se n’è tornato da dove proveniva. Vi sono anche anziani che si rendono conto di non potere più badare a se stessi e allora decidono di venire da noi e questi hanno una motivazione personale già in partenza».

Ospitate anche persone per un tempo determinato?
«Se possiamo sì, ma di regola non possiamo, perché la camera di ciascuno è personalizzata. Per cui, se un anziano va in famiglia per un mese, non possiamo ospitare un altro e metterlo nella sua camera: non ci sembra giusto. È una questione di dignità e di rispetto».

Qual è l’atteggiamento degli anziani di fronte alla sofferenza e alla morte?
«Varia da persona a persona e in base alla nostra esperienza dipende molto dall’educazione con cui un anziano o anziana è cresciuta. C’è di tutto: c’è attenzione ammirevole, c’è motivazione religiosa, c’è anche rassegnazione. Gli anziani sono persone con le stesse contraddizioni di tutti gli altri».

BOX 1

Con Esperia , Rosa e Giacomo

Incontriamo alcuni anziani con i quali scambiamo qualche parola. «Io sono Paolo e lei è Cristina. Siamo venuti a conoscere questo luogo e a vedere come ci si sta». Le due anziane che ci stanno davanti ridono. Chiediamo il loro nome: «Io sono Esperia Roccatagliata di Genova, genovese al 100% fin dal 1300. Il cognome stesso lo dice». «Io sono Rosa Virdis e sono della Sardegna, ma vivo a Genova da oltre 50 anni».
Il nome “Esperia” è un programma: in spagnolo significa “speranza”, mentre “Rosa” richiama le rose del vostro giardino. È da molto che abitate qui?
Esperia: «Da 4 anni, ma frequentavo questa casa da 12 anni, specialmente per venire a trovare amici, oggi invece sono io ad abitare qui e altri vengono a trovare me».
Rosa: «Io da 5 anni al 3 di febbraio e qui sto bene».
Siete contente di stare qui?
Esperia: «D’incanto direi. Guardi che posto! Sembra di essere in una villa patronale… da bambina abitavo qui vicino e passavo davanti al cancello. Ma credevo che fosse una scuola senza sapere che un giorno sarebbe diventata casa mia. Sono contenta di essere qui».
Rosa: «Oh, sì, sto proprio bene!».
Di cosa vi occupate?
Esperia: «Sono specializzata in cucito e sono addetta al rammendo perché tutti devono essere lavati, puliti, stirati. Ordinati, insomma».
Rosa: «Preparo due volte al giorno la tavola e poi vado in laboratorio a piegare la biancheria».
Avete parenti?
Esperia: «Ho un figlio e due nipoti, ma vivono a Milano».
Rosa: «Io ho 5 figli (3 femmine e 2 maschi). Mi vogliono bene, però io ho voluto venire qua».
Incontriamo Giacomo di 100 anni e 4 mesi su un triciclo elettrico, arzillo e dritto come un cipresso. Ci dice che è emiliano e che si occupa del giardino. Alcuni giorni addietro ha potato le rose, che sono il suo orgoglio e la sua passione.
Andando ancora avanti, incontriamo altri anziani e anziane: chi in camera, chi a conversare, chi si sta già preparando per andare a letto. È sera ed ormai è tardi. Un’altra cosa che ci ha impressionato: per la casa abbiamo visto solo tre persone davanti alla tv, ma stavano chiacchierando tra loro.

Credevamo di entrare in un posto di «vecchi», abbiamo visitato una casa piena di vitalità, dove si respira un clima umano straordinariamente pacifico. Non abbiamo visto un anziano o un’anziana triste, ma sempre persone contente e giocose. Toiamo a casa con il sole nel cuore e la gratitudine per avere avuto il dono di incontrare anziani felici e persone come le «Piccole Sorelle dei Poveri» che riconciliano con il mondo e con Dio.
Pa.F. e M.C.P.

Paolo Farinella e Cristina Pantone