DOSSIER VIETNAM Storie esemplari di persecuzione

Prigionieri… di coscienza

Controllo, repressione e persecuzione statale colpiscono tutte le comunità religiose e chiunque critichi il regime. Si può rischiare la prigione anche navigando su internet.

Thadeus Nguyen Van Ly,
prete cattolico di 59 anni, nel 2001 aveva inviato una lettera al Congresso americano, per chiedere un ritardo nella ratifica degli accordi commerciali bilaterali fra Stati Uniti e Vietnam, citando le violazioni dei diritti umani e le persecuzioni religiose compiute in Vietnam.
Arrestato e condannato a 15 anni di carcere, poi ridotti a 10, ha ottenuto recentemente da una corte locale un ulteriore sconto: 5 anni di prigione e altrettanti agli arresti domiciliari. L’agenzia di stato Vietnam News Agency ha riportato la motivazione: al padre è stata riconosciuta una «buona condotta in carcere».
A Hué si dice che in prigione padre Van Ly abbia scritto e firmato lettere inneggianti al socialismo vietnamita e alla politica del partito comunista. Secondo alcune persone che hanno potuto visitarlo, il sacerdote mostra segni di squilibrio mentale e potrebbe essere stato drogato al fine di «rieducarlo».
Anche la delegazione vaticana, guidata da mons. Piero Parolin, nel suo viaggio in Vietnam alla fine di aprile 2004, ha potuto parlare del caso Van Ly con le autorità di Hanoi. Per tutta risposta i rappresentanti del governo hanno mostrato le lettere di Van Ly che manifestano la sua «avvenuta rieducazione».
Ma vari gruppi americani per i diritti umani considerano padre Van Ly un prigioniero di coscienza e hanno fatto pressioni sul governo statunitense per il suo rilascio.
La notizia della riduzione della pena è arrivata proprio alla vigilia di una visita di rappresentanti dell’Unione europea in Vietnam, in occasione di un convegno sui diritti umani, nel quale si è parlato anche del trattamento dei prigionieri.

Giovanni Bosco Pham Minh Tri,
66 anni, monaco della Congregazione di Maria Corredentrice, è stato arrestato il 20 maggio 1987, insieme a una sessantina di altri cattolici, preti e laici, per aver organizzato corsi di formazione e aver distribuito pubblicazioni religiose senza il permesso del governo.
Processato nell’ottobre dello stesso anno, insieme ad altri 22 arrestati, è stato condannato per il solito reato: «Propaganda contro il regime socialista, minaccia per la politica di unità e di sicurezza nazionale». Condannato a 20 anni di reclusione, continua a scontare la pena nelle patrie galere di Xuan Loc, provincia di Dong Nai, insieme al confratello laico Nguyen Thien Phung. Il padre soffre di disturbi mentali.
Nguyen Hong Quang,
pastore della chiesa mennonita, è stato arrestato l’8 giugno 2003. Mentre si trovava in casa, nella periferia di Ho Chi Minh, con un gruppo di scout, 30 poliziotti hanno circondato l’abitazione e dopo averlo arrestato, hanno sequestrato il suo computer, carte personali e numerosi documenti, compresi i casi di violazione dei diritti umani di cui Quang si stava occupando.
Il pastore è stato accusato di «istigazione e resistenza a pubblico ufficiale» e condannato a tre anni di carcere, insieme a 5 «complici», condannati a pene tra i 9 mesi e i 2 anni di prigione. Al processo, concluso in una sola giornata, non sono stati ammessi testimoni di difesa né giornalisti. L’accusa si riferisce alla protesta di Quang e decine di suoi fedeli contro l’arresto di 4 pastori mennoniti, avvenuta nel marzo 2004.
Quang, 45 anni, è segretario generale della chiesa mennonita in Vietnam, non approvata ufficialmente dal governo. Avvocato, ha difeso i contadini delle province e denunciato gli arresti di dissidenti politici e religiosi. In particolare, egli aveva scritto e pubblicizzato via internet un rapporto su uno dei più noti prigionieri cristiani, padre Nguyen Van Ly.
La domenica 21 novembre 2004, mentre la moglie del pastore, Le Thi Phu Dung, guidava un servizio religioso nella propria casa, sono intervenuti 40 poliziotti e hanno interrotto la funzione con la forza, denunciando tutti i presenti per «incontro illegale» e «uso di abitazione a scopo religioso».
L’incursione della polizia è solo l’ultimo di una serie di intimidazioni e denunce contro la donna protestante, già fatta oggetto di minacce, se non metteva fine alle sue attività religiose.
La situazione di alcune comunità protestanti, come quella mennonita, è un esempio emblematico della politica repressiva del governo contro la libertà di fede: le attività religiose sono permesse solo in luoghi approvati dallo stato e guidate da capi autorizzati; ma il governo continua a negare spazi e permessi per la costruzione di nuove chiese e luoghi di culto, per cui molte denominazioni cristiane usano le abitazioni private per incontri di preghiera.

Nguyen Vu Binh
giornalista, è stato arrestato il 25 settembre 2002 nella sua abitazione di Hanoi; il 31 dicembre 2003 è stato condannato a 7 anni di carcere e 3 di arresti domiciliari. Poco prima del suo arresto aveva scritto un articolo in cui criticava gli accordi in materia di confini con la Cina, nei quali il governo aveva ceduto un pezzo di Vietnam.
Dopo aver lavorato per quasi 10 anni al Tap Chi Cong San, pubblicazione del Partito comunista vietnamita, Binh aveva lasciato la sua posizione per partecipare alla formazione di un gruppo d’opposizione indipendente, chiamato Liberal Democratic Party e da allora aveva scritto numerosi articoli per criticare l’attuale linea di governo e chiedere una riforma politica. Ma il documento ufficiale della sentenza diceva che Binh era in possesso di «documenti scritti che chiedevano un intervento esterno negli affari interni del paese».
All’inizio dello scorso anno, la Corte suprema ha respinto il suo ricorso in appello, riconfermando la pena a 7 anni di carcere per spionaggio. «Per me, o la libertà o la morte – ha dichiarato Binh dopo aver udito la sentenza -. Se le autorità non mi rilasceranno, inizierò uno sciopero della fame».
Secondo le fonti del Cpj, infatti, Binh avrebbe rifiutato di mangiare dalla fine del processo. Il giornalista è attualmente detenuto nel carcere New Hoa Lo di Hanoi.

Do Nam Hai,
è uno scrittore. Negli ultimi 5 mesi del 2004 é stato arrestato ripetutamente e sottoposto a vari interrogatori anche in pubblico. Il 6 agosto la polizia lo aveva trattenuto per due giorni; il 3 dicembre è rimasto in carcere per 24 ore. Un uomo, poi identificato dallo scrittore come un poliziotto, avrebbe sequestrato il computer di Do Nam cancellando vari documenti.
Durante il 2000 e il 2001, Hai si era trasferito in Australia, dove sotto pseudonimo aveva scritto e pubblicato in internet una serie fortunata di articoli sulla storia e sulla politica del Vietnam. Negli articoli proponeva alcune idee per arrivare a una riforma pacifica e chiedeva alle autorità più democrazia e, soprattutto, l’adozione di un sistema formato da più partiti politici.
Il 10 dicembre scorso Hai ha scritto una lettera aperta alle autorità denunciando tutte le difficoltà che ha dovuto affrontare negli ultimi mesi. «Avete definito i miei articoli contro rivoluzionari, contro il partito e contro il governo, ma io la penso diversamente: credo che sia materiale per la democrazia» dice nella lettera.
Secondo la testimonianza del Cpj, le pressioni sullo scrittore sono cresciute dall’inizio del 2005 e si teme un nuovo arresto.

Thich Huyen Quang,
supremo patriarca della chiesa buddista unificata del Vietnam (Ubcv), è agli arresti domiciliari quasi ininterrottamente dal 1977. Il suo vice, Thich Quang Do, condannato a due anni di domicilio coatto, fu rilasciato a giugno scorso. Ma nel mese di ottobre, tutti e due sono stati rimessi agli arresti domiciliari in località diverse, insieme ad altri 30 importanti monaci.
Il venerabile Thich Huyen Quang, all’età di 87 anni, continua a essere considerato un pericolo da parte del governo. Recentemente, ricoverato in ospedale, gli è stato impedito di ricevere le visite dai suoi monaci.
Ai primi di novembre, un gruppo di giovani del movimento «La famiglia buddista» erano in partenza per un pellegrinaggio in India, per visitare i luoghi sacri del buddismo: al momento dell’imbarco, sono stati prelevati e interrogati all’interno dell’aeroporto di Ho Chi Minh e poi rispediti ai propri monasteri.
Il viaggio era stato organizzato già da un anno e i pellegrini avevano espletato tutte le formalità necessarie per ottenere passaporto e visto. La polizia ha spiegato che il viaggio era stato annullato «per questioni di sicurezza nazionale», senza chiarire quali fossero i pericoli concreti. È probabile che si sia voluto impedire ai giovani vietnamiti di partecipare al congresso di Bodh Gaya in India, dove avrebbero incontrato i connazionali di movimenti buddisti americani, canadesi, europei e australiani.
Intanto il governo continua a vietare e scoraggiare la partecipazione alla Ubcv e richiedere ai monaci di passare sotto l’egida della chiesa centrale buddista, aggiogata al regime.

Guyen Dan Que,
endocrinologo di 63 anni, è uno dei più noti attivisti per la democrazia in Vietnam. È stato arrestato il 17 marzo 2003, per aver mandato un documento a un parente negli Stati Uniti da un internet cafè. Nel documento egli sosteneva la necessità di riforme politiche e garanzie dei diritti umani in Vietnam e criticava la gestione della libertà di informazione da parte del governo.
Il 29 luglio è stato condannato a 2 anni e mezzo di carcere, per «abuso di libertà democratiche antigovernative». Quindi è stato trasferito a quasi 2 mila km a nord di Saigon e rinchiuso nel carcere di Lam Son, noto per essere un campo di lavori forzati per criminali.
La sorella, Quan Nguyen, ha raccontato in che modo le autorità hanno disposto il trasferimento: «Hanno avvertito la moglie di Que di portare più medicine e soldi perché lo stavano portando lontano da Saigon. Lui non sapeva nulla. In questo modo vogliono isolarlo, nella speranza di mettere a tacere la sua voce».
Dopo il trasferimento le autorità vietnamite hanno rifiutato alla moglie il permesso di visitare il marito; il viaggio richiede comunque più di 2 giorni. Non è possibile parlare con lui telefonicamente e in molti temono la noncuranza dei carcerieri verso la sua salute precaria: soffre di ipertensione, ulcera e calcoli renali.
Quella di Dan Que è una storia esemplare: ha già scontato più di 20 anni di prigione, torture, arresti domiciliari a causa dei suoi appelli pubblici per un sistema politico multipartitico e la fine della censura in Vietnam. Nel 1978 fu incarcerato senza processo per aver criticato il sistema politico del paese. Rilasciato, ha fondato High Tide Humanism (Marea dell’Umanesimo), movimento moderato e non violento per l’affermazione dei diritti umani in Vietnam.
Medico da sempre impegnato a favore dei poveri, ha istituito una clinica basata sul lavoro di volontari, si è battuto per il miglioramento del sistema carcerario, per i diritti umani e per le minoranze etniche nel paese. Ha chiesto al governo vietnamita di investire di più nelle politiche sociali e di ridurre la grandezza dell’esercito.
Nuovamente arrestato nel giugno 1990 e, sempre senza essere processato, è rimasto in carcere fino a settembre 1998, quando fu costretto agli arresti domiciliari, sotto costante sorveglianza, con restrizioni su spostamenti e uso di ogni mezzo di comunicazione.
Nel 2004, l’Accademia delle scienze di New York gli ha assegnato il premio Pagels per i diritti umani degli scienziati. La motivazione: «Per il suo sforzo di migliorare la vita quotidiana della gente e promuovere una transizione pacifica verso la democrazia e la libertà in Vietnam».
Il Vietnam è attualmente uno dei 53 membri della Commissione per i diritti umani dell’Onu. Quindi ha ratificato la Convenzione internazionale sui diritti politici e civili che, in base all’articolo 19, protegge il diritto individuale di «dare, ricevere e scambiare informazioni o idee di ogni genere e tipo senza limiti di frontiere, sia oralmente, in forma scritta o stampata, o attraverso ogni altro mezzo di comunicazione».

Asia news e Comimitee to protect Joualists




DOSSIER VIETNAM La chiesa cattolica: martirio e profezia

Nel segno della croce

Non esiste in Asia una chiesa tanto perseguitata da secoli e così radicata nella cultura del popolo come quella vietnamita. Fecondata dal sangue dei martiri, essa resiste all’asfissiante controllo del regime comunista, per non essere asservita al potere e conservare la sua natura profetica.

Secondo la notizia tramandata dagli Annali imperiali della corte annamita, I-ne-Khu (Ignazio) fu il primo missionario che, nel 1533, predicò il vangelo nella provincia di Nam Dinh (Tonchino) e fu subito colpito da un editto di proscrizione. Nel 1580 ci riprovarono, nella Cocincina, alcuni francescani delle Filippine, ma anche la loro opera fu presto cancellata.
Ufficialmente la chiesa vietnamita nasceva il giorno di pasqua del 1615, quando due gesuiti, il napoletano Francesco Buzzoni e il portoghese Diego Carvalho, approdarono a Tourane (Cocincina) e celebrarono la messa con un gruppo di cristiani giapponesi esiliati dal loro paese natale. L’anno seguente la comunità contava 300 neofiti.
La presenza missionaria era scarsa e discontinua, poiché tutto dipendeva da una nave portoghese, che ogni anno portava da Macao merci e doni ai sovrani del Tonchino e della Cocincina, i due regni ostili in cui, già in quel tempo, era divisa la penisola indocinese.
Nel 1626 altri gesuiti arrivarono ad Hanoi e avviarono l’evangelizzazione del Tonchino. Uno di essi era il pistorniese Baldinotti. Un giorno, questi assistette a una curiosa rappresentazione teatrale all’aria aperta per la popolazione cinese di Hanoi: un personaggio vestito da portoghese, con una pancia enorme, da cui entrava e usciva un piccolo vietnamita. Si fece spiegare la scena: era una parodia del battesimo cristiano, in cui si «rinasce portoghesi».

L’APOSTOLO DEL TONCHINO
Il vero fondatore della chiesa vietnamita fu il gesuita francese Alessandro de Rhodes (1583-1660). Esperto matematico, eminente linguista, padre de Rhodes arrivò a Hué nel 1625; due anni dopo passò ad Hanoi ed ebbe subito grande successo: con un orologio e un’opera di matematica di Matteo Ricci incantò il re, che fece edificare una chiesa ad Hanoi; battezzò la sorella del monarca; convertì nel primo anno 200 vietnamiti, in maggioranza bonzi, altri 2.000 nel secondo, più di 3.000 il terzo anno.
Ma nel 1630 fu espulso. Si stabilì a Macao, dove mantenne i contatti, tramite i missionari che potevano entrare nel paese, con i catechisti che vi aveva formato. Tra il 1640 e il 1645 toò in Cocincina e fu espulso altre tre volte: la terza fu imprigionato e bandito dal paese sotto pena di morte. E non mise più piede nel paese.
Inviato a Roma come procuratore (1649), sollecitò Propaganda fide perché ordinasse preti locali e istituisse la gerarchia, nominando vicari apostolici per l’Indocina, in modo da sottrarre l’attività della chiesa dal sistema del padroado portoghese. Fece conoscere in Italia e in Francia quel campo di missione, procurando personale e altri aiuti: dopo 50 anni di evangelizzazione c’erano 300 mila cattolici in Tonchino e altri 500 mila in Cocincina.
Tale successo è dovuto alla notevole bontà naturale della gente, che il missionario ricambiò con profondo e rispettoso amore. Per prima cosa, de Rhodes affrontò lo studio della lingua, arrivando a possederla perfettamente. Vero colpo di genio fu la trascrizione dei suoni della lingua parlata con le lettere dell’alfabeto latino, al posto degli ideogrammi cinesi, scrittura inaccessibile alle folle.
La lingua parlata, nella trascrizione in caratteri latini, permetteva la comunicazione delle idee religiose e le novità scientifiche dell’Occidente in modo comprensibile anche al popolo semplice. La stessa lingua diventò uno strumento letterario con cui i vietnamiti cominciarono a esprimere la propria cultura, attraverso opere scritte di religione, storia, poesia, legislatura…, per la prima volta staccata dalla letteratura cinese.
Sullo stile di adattamento praticato dai gesuiti a Pechino, padre de Rhodes si immerse totalmente nella vita e mentalità del popolo, per trovare i mezzi più consoni a trasmettere i valori evangelici: nella sua catechesi sfruttava gli elementi culturali locali, come poesia e spettacoli religiosi; rispettava i riti dei defunti, che riteneva «molto innocenti e senza danno per la santità della religione»; si preoccupava di presentare il messaggio cristiano in modo che non desse l’impressione di essere una dottrina straniera o una «legge dei portoghesi».
Geniale fu pure l’idea di evangelizzare i vietnamiti mediante i vietnamiti. A tale scopo fondò la Congregazione dei catechisti: li istruiva nella conoscenza e nella pratica della fede; li addestrava nella medicina; dava personalmente l’esempio, insegnando il catechismo e soccorrendo poveri e malati. Dopo un periodo di formazione, emettevano i voti di povertà, di celibato e obbedienza.
I catechisti vivevano nella stessa casa con i missionari e il personale della missione, formando una sola famiglia cristiana e apostolica. Oltre ad istruire la gente, esercitavano tutte le funzioni che non richiedevano il sacerdozio. Nasceva così una chiesa quasi autosufficiente dal punto di vista dell’evangelizzazione, che continuò anche in assenza dei missionari. Di fatto, dopo l’espulsione dei missionari dalla Cocincina (1645) e dal Tonchino (1663), furono i catechisti a mantenere viva la chiesa in Vietnam, nonostante le ricorrenti maree di persecuzioni e martirio.
centomila martiri
Alcuni incidenti banali offrono la chiave di lettura delle successive ostilità contro i cristiani: abbattutasi una forte siccità in una zona, la popolazione cacciò i missionari, con questa accusa: «Con il pretesto di insegnare la via del cielo, rovinano la nostra terra». Nella concezione vietnamita, infatti, cielo e terra erano elementi che esprimevano una visione della vita sulla quale era costruito l’intero tessuto sociale, che la predicazione cristiana sembrava mettere in pericolo.
Lo stesso de Rhodes e il compagno padre Márquez, per aver battezzato alcuni moribondi, furono accusati dagli stregoni di possedere «un’acqua di morte che avrebbe spopolato il regno». Nel 1629 il re del Tonchino emanò tre editti per proibire ai vietnamiti di farsi battezzare e di avvicinare i missionari, rimandati a Macao con la prima nave portoghese. L’accusa ai cristiani di minare le fondamenta dello stato dura ancora oggi.
Nella Cocincina gli olandesi sparsero una calunnia infame: i missionari di Macao erano l’avanguardia della conquista portoghese. Nel 1640 i missionari furono tutti espulsi. De Rhodes e compagni ritornarono a più riprese, finché il re proibì ai suoi sudditi di «abbracciare la legge predicata» dagli europei e di frequentare i missionari.
E cominciò la persecuzione. Nel 1645 il catechista Andrea, fu pescato in casa dei missionari e condannato alla decapitazione. La stessa sorte toccò a Ignazio e Vincenzo, altri due importanti catechisti. Un altro centinaio di cristiani persero la vita nelle ondate persecutorie che seguirono fino alla fine del secolo.
Le difficoltà della presenza di missionari stranieri rendeva più che mai urgente la creazione del clero locale. Nel 1668 arrivarono due vicari apostolici, che ordinarono preti due catechisti, uno in Tonchino e l’altro in Cocincina. Nello stesso periodo fu fondato l’istituto femminile delle «Amanti della croce».
Le ordinazioni si moltiplicarono per tutto il secolo seguente; si registrò una forte espansione cristiana, specie al nord. Ma proseguirono pure le persecuzioni, con fasi altee, prima in Cocincina, poi in Tonchino, facendo circa 30 mila martiri tra i cristiani vietnamiti e missionari stranieri.
I cristiani godettero di un periodo di relativa tolleranza a partire dal 1802, quando le due regioni furono riunite sotto un unico imperatore Gia Long. Questi salì al potere con l’aiuto di un contingente di soldati francesi, inviato su sollecitazione del vicario apostolico, mons. Pietro Pigneau de Behaine.
Alla morte di Gia Long (1820), il successore Minh Mang pose le basi per una nuova ondata di persecuzione. Dichiaratosi «figlio del cielo», padre e madre del suo popolo, pontefice, legislatore e giudice assoluto, impose al Vietnam una politica di isolamento e, nel 1833, ordinò a tutti i cristiani di «abbandonare» la religione straniera. E poiché questi non rinnegavano la fede, la persecuzione si abbatté su di loro con particolare virulenza in un clima di terrore.
Il terrore cessò nel 1840 e gli incidenti furono saltuari sotto il nuovo imperatore Thieu Tri. Gli successe Tu Duc (1847) che proclamò un’amnistia generale. Ma l’anno dopo scatenò una nuova persecuzione che, col trascorrere degli anni, sfociò in autentici massacri (1851-1862).
Nonostante le persecuzioni e uccisioni, distruzione di chiese ed esilio di cristiani, la missione perdurò, anzi fece progressi. In quasi 50 anni ci furono oltre 70 mila martiri, che, sommati a quelli del secolo precedente, fanno più di 100 mila. Di questa schiera di eroi, 117 furono beatificati in date differenti e tutti canonizzati nel 1988: 8 vescovi e 21 missionari stranieri, 37 preti indigeni, 20 catechisti e seminaristi, 1 suora e 20 altri cristiani.

DAL COLONIALISMO AL COMUNISMO
Con l’occupazione francese dell’Indocina (1886) cessarono le persecuzioni sanguinose. Ciò permise alla chiesa vietnamita di espandersi, fino a diventare la più importante tra le chiese in Asia (quasi il 10% della popolazione), dopo quella delle Filippine.
Ma non finirono le difficoltà per la comunità cattolica: da una parte la politica anticlericale della Francia del tempo ne condizionava il lavoro; dall’altra i nazionalisti vietnamiti continuavano a presentare il cristianesimo come una religione straniera, con l’aggravante, ora, del sospetto di favorire la colonizzazione.
Tali sospetti furono enfatizzati dal partito di Ho Chi Minh, tanto che, nel 1931, un prete vietnamita e alcuni cristiani furono massacrati dai comunisti in un villaggio dell’Annam.
Il peggio per i cristiani è cominciato con la fine del colonialismo (1955), quando il paese fu diviso in due: nel nord, nella «Repubblica democratica» di Ho Chi Minh, cominciarono subito le purghe contro coloro che non si mostravano entusiasti del nuovo regime, facendo 1 milione e mezzo di morti. I cristiani furono i primi bersagli.
Oltre 860 mila nord vietnamiti fuggirono nel sud: di essi più di 676 mila (75%) erano cattolici. L’esodo di altri milioni continuò negli anni seguenti e durante la guerra del 1963-75, periodo in cui i vietnamiti cattolici si sono dimostrati fortemente anti-comunisti e, quindi, favorevoli ai governi sostenuti dagli Stati Uniti.
La successiva unificazione del paese, nel 1975, sotto il regime comunista del nord, segnò un’ulteriore pagina di sofferenza e di emarginazione per i cattolici vietnamiti: chiusura di tutti i seminari e noviziati; confisca delle scuole; incarcerazione del vescovo coadiutore di Saigon, ingerenze del governo negli affari della chiesa, espulsione del delegato apostolico, impedimenti ai vescovi di comunicare con la Santa Sede.
Nel 1989 il card. Roger Etchegaray, inviato speciale del papa, poté visitare 10 delle 25 diocesi del Vietnam. Tale visita è servita in certo senso per sbloccare la situazione, avviando un dialogo col regime comunista. In seguito, una decina di delegazioni del Vaticano si sono recate ad Hanoi per trattare con il governo; nell’ultima, in giugno 2001, sembra che le autorità vietnamite si siano mostrate più aperte e cordiali rispetto alle visite precedenti.
Ora in Vaticano si parla di «segnali di buona volontà» provenienti da Hanoi. L’ultimo è del gennaio 2005: negli incontri tra il presidente vietnamita Tran Duc Luong e quello della camera italiana, Ferdinando Casini, in visita al Vietnam, Tran ha affermato che «non vi sono contrasti tra Hanoi e Vaticano» e che per i «rapporti diplomatici» tra i due è solo «questione di tempo».
I mezzi di comunicazione di stato hanno dato risalto a tale evento, usando espressamente i «rapporti diplomatici»: per alcuni sarebbe quasi un impegno da parte del governo vietnamita. Ma altri sospettano che si tratti della solita carota, per imbonire l’opinione internazionale e nascondere il solito bastone.
chiese piene
Negli anni successivi all’unificazione, la politica del governo marxista-stalinista mirava a distruggere la chiesa cattolica. Poi, sull’esempio della Cina, ha cercato di fondare una specie di chiesa patriottica, chiamata «Associazione dei cattolici patriottici»; ma senza successo: i pochi aderenti sono solo a Ho Chi Minh.
Non potendo sopprimerla, e grazie ai mutamenti politici seguiti alla caduta del muro di Berlino, lo stato non considera più la chiesa «oppio» del popolo, ma continua a essere sospettoso e cerca di asservirla alla sua causa, usando il bastone e la carota.
Alcune chiese e proprietà confiscate nel passato, ormai ridotte in uno stato fatiscente, sono restituite con solenni cerimonie ufficiali. In tali occasioni partecipano sempre eminenti personalità del regime, che elogiano e incoraggiano l’opera della chiesa, soprattutto perché si prende cura di handicappati, ospedali, lebbrosari, orfanotrofi, asili infantili e altre opere sociali.
Ma intanto lo stato continua a mantenere il pieno controllo su tutte le attività caritative, sociali, educative e culturali della chiesa, specialmente quelle rivolte ai giovani.
Ancora più asfissiante è il fiato del regime sul collo del personale ecclesiastico: lo stato controlla le nomine episcopali e le ordinazioni sacerdotali; gli spostamenti di vescovi, preti, religiosi, suore anche per fini pastorali; le ammissioni e la formazione dei seminaristi, alcuni dei quali devono aspettare anche 10 anni prima di poter essere ammessi.
Nonostante le restrizioni, continua la fioritura di vocazioni sacerdotali e religiose, specialmente nella vita consacrata femminile. In ogni diocesi sono almeno 100 giovani disponibili a entrare in seminario, ma i seminari concessi dal governo sono appena 6 e ciascuna diocesi non può mandarvi più di 10 seminaristi ogni due anni.
Ma il problema più grande, riguarda la formazione e l’aggioamento del clero. Il governo impone ai seminaristi lo studio della filosofia marxista-leninista, materia normalmente riservata ai membri del partito comunista.
Nonostante il clima di ostilità in cui vive, la chiesa vietnamita è viva, attiva, entusiasta della propria fede: la pratica religiosa è altissima (80-90%); i laici continuano con coraggio il loro impegno nella chiesa e nella vita sociale. Continuano le conversioni, perfino tra le fila degli impiegati statali, col rischio di perdere il lavoro o almeno di essere considerati impiegati di serie «B».

PROFEZIA A RISCHIO?
Un giorno il regime comunista sparirà anche dal Vietnam, come è avvenuto in altri paesi. Ma come sarà la chiesa vietnamita, quando riavrà la sua piena libertà? L’interrogativo che si pone anche padre Chan Tin, redentorista vietnamita di 84 anni.
Egli denuncia l’«arsenale giuridico» con cui il governo soffoca la libertà religiosa, ma lamenta anche la «rassegnazione» della chiesa vietnamita nell’accettare l’ingerenza del potere nei suoi affari, illusa dagli scampoli di apparente libertà.
«Il fatto che lo stato esige la sua previa approvazione nella formazione, nomina e collocamento interno alla chiesa – spiega padre Chan -, fa sì che quanti lavorano nella chiesa e per la chiesa siano, alla lunga, alla mercé del potere, pronti a conformarsi alle sue esigenze. Senza contare che, dai ruoli guida nella chiesa, rimangono escluse le persone più competenti e capaci di autentica testimonianza cristiana. Alla fine la chiesa diverrà a poco a poco un docile strumento nelle mani del potere. Una volta giunto a questo stadio, il potere potrà lasciarle libertà totale, perché essa non avrà altra capacità che quella di eseguire gli ordini del partito e dello stato».
Tale politica sottile e peiciosa, lamenta padre Chan, sta minando alla radice il carattere profetico della missione della chiesa, la quale si accontenta di vedere le chiese strapiene la domenica, ma che di fronte a certi casi di abuso di potere, rimane in silenzio o al più accenna a qualche timida protesta.
«La politica religiosa di questo regime sta snaturando la chiesa cattolica e le altre chiese del paese – confessa padre Chan -. Temo che quando esso sarà passato, la mia chiesa non sarà più una chiesa autentica; che essa non possa più andare a testa alta, fiera dei suoi sacrifici e del suo coraggio, come lo ha fatto nel passato, gloriandosi delle centinaia di migliaia di martiri».
Più ottimista è il messaggio che Giovanni Paolo ii ha affidato ai vescovi del Vietnam, durante la visita ad limina, alla fine di gennaio 2004. Per la prima volta il governo vietnamita ha «concesso» a tutti di recarsi a Roma. «Quando farete ritorno al vostro nobile paese – ha detto il papa -, fate sapere ai vostri sacerdoti, religiosi, religiose, catechisti, fedeli laici e specialmente ai giovani, che il papa prega per loro e li incoraggia ad affrontare le sfide che pone il vangelo, prendendo esempio dai santi e dai martiri che li hanno preceduti lungo il cammino della fede e il cui sangue versato rimane un seme di vita nuova per l’intero paese…
La vitalità e il coraggio dei laici vietnamiti che anche oggi vivono e celebrano la loro fede in condizioni spesso difficili, la decisione altrettanto coraggiosa dei sacerdoti nell’annuncio del vangelo, come pure la fioritura delle vocazioni alla vita consacrata, specialmente nella vita religiosa femminile, sono fattori molto importanti per il futuro della chiesa in questo paese dalla storia così spesso travagliata».

Benedetto Bellesi




DOSSIER VIETNAM Ultima legge in materia di fede e religione.

È tutto… sotto controllo

Il 15 novembre 2004 in Vietnam è entrata in vigore l’Ordinanza sulle credenze e le religioni. È tutta basata sul sistema di «richiesta e concessione»: il perfido sistema «del bastone e della carota». Così lo stato controlla tutto: personale e attività, fino al sentimento religioso, compreso quello legato ai culti tradizionali del paese.

Dopo 6 anni di gestazione, il 18 giugno 2004 il Comitato permanente dell’Assemblea nazionale ha approvato i 6 capitoli e 41 articoli dell’Ordinanza sulle credenze e religioni. La legge è entrata in vigore il 15 novembre dello stesso anno.
Il documento ribadisce il principio costituzionale della libertà religiosa: «Ogni cittadino può seguire o non seguire una religione», ma tale premessa è oscurata negli articoli successivi: in essi si «permettono» diverse attività, ma sempre e solo dopo previa «autorizzazione» governativa.
Il controllo statale si esercita a 3 livelli: distrettuale, provinciale e nazionale. I primi 2 livelli sono gestiti dai Comitati del popolo, mentre l’ultimo è di competenza dell’Ufficio per gli affari religiosi e del primo ministro. Il Fronte patriottico è un altro mezzo di controllo. I suoi membri hanno il dovere di «incoraggiare i fedeli e i religiosi ad applicare l’ordinanza» e possono partecipare alla «stesura e supervisione» di ulteriori ampliamenti all’Ordinanza.

LIBERTÀ RELIGIOSA… PERMESSA
In base a tale legge, ogni organizzazione, per vivere, deve essere riconosciuta e registrata presso gli uffici per gli affari religiosi. Lo stesso vale per «congregazioni, conventi e forme di vita religiosa in comune».
Per quanto riguarda l’educazione, si possono istituire scuole per la formazione di personale religioso, ma solo dietro autorizzazione del primo ministro. In questi istituti lo stato stabilisce anche i programmi didattici e extra didattici e seleziona gli iscritti. Obbligatorio l’insegnamento della storia e delle leggi del Vietnam.
Attività e iniziative dei gruppi religiosi riconosciuti vanno programmate annualmente e si possono eseguire solo dopo autorizzazione governativa. Eventi fuori programma devono avere l’approvazione degli uffici per gli affari religiosi, come pure feste, riti, credenze, congressi e conferenze.
Anche l’ecumenismo, la collaborazione, l’unità, il trasferimento, la distribuzione del personale, ecc… nelle varie organizzazioni cadono sotto il controllo dello stato: tutto deve essere comunicato e approvato dalle autorità governative.
Ordinazioni, promozioni e nomine all’interno delle gerarchie religiose, sono regolate dai «codici e dalle procedure delle singole comunità». I candidati, però, vengono valutati dallo stato, che ne giudica la validità dal punto di vista morale e civico.
Pubblicazioni, stampa e diffusione di materiale religioso necessitano di autorizzazione. Produzione e vendita di oggetti per il culto e la pratica religiosa devono rispettare le regolamentazioni governative.
La predicazione è permessa solo nei luoghi di culto, anche questi stabiliti dalle autorità statali.
Per quanto concee le proprietà, le terre dove sono situati edifici religiosi devono essere utilizzati in modo regolare e permanente. Il rischio possibile, in caso di inadempimento, e la confisca delle terre stesse.

LIBERTÀ RELIGIOSA… SOSPESA
Il testo dell’Ordinanza prevede anche la possibilità di «sospendere» la libertà religiosa. Le motivazioni che possono spingere il governo ad adottare tale provvedimento sono vaghe e si prestano a diverse interpretazioni e strumentalizzazioni.
La legge dice che la libertà religiosa in Vietnam viene sospesa nei casi in cui «minacci l’unità dello stato» (secondo il testo, infatti, ecclesiastici e religiosi «devono» insegnare ai fedeli «i valori della patria e il rispetto delle leggi»), sia «contraria ai buoni costumi, minacci «la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico», rappresenti un pericolo per «la vita, la dignità, l’onore e la proprietà».
La nuova Ordinanza suggerisce alle comunità religiose l’impegno nei problemi sociali, incoraggiandole «a prendersi cura dei bambini, dei malati, dei poveri e dei disabili», ma sempre «in accordo con le regolamentazioni statali».
L’Ordinanza, inoltre, prevede che chi è stato in prigione per motivi religiosi e ha finito di scontare la pena può tornare a svolgere attività quali preghiera, evangelizzazione, partecipazione a funzioni solo dopo l’approvazione dell’Ufficio affari religiosi.

MEGLIO AL TEMPO DI HO CHI MINH
Anche se l’Ordinanza è in vigore dal novembre scorso, il testo della legge era stato presentato in via provvisoria nel dicembre 2000. Fin da allora ci sono state reazioni negative, interventi e suggerimenti da parte del clero ed episcopato cattolico, pastori protestanti e monaci buddisti, ma senza alcun risultato.
I vescovi della provincia di Ho Chi Minh hanno affermato: «La libertà religiosa è un diritto; e un diritto non si accontenta di un sistema che funziona per domande e concessioni dell’autorizzazione».
Stesso concetto è stato ribadito di recente da mons. Etienne Nguyen Nhu The, vescovo di Hué. Egli afferma che l’Ordinanza «non segna un’apertura sufficiente» per la piena libertà religiosa nel paese, perché «restiamo dentro un principio contrario alla libertà religiosa: quello di chiedere permesso e ottenere concessioni dal governo» in tema di libertà, di credo e di culto.
«Bisogna sempre domandare al governo la possibilità di fare ogni cosa – continua mons. Nguyen Nhu The -. Se il governo non dà il permesso, non si può fare niente». Di conseguenza «la chiesa non può organizzarsi come dovrebbe. Non abbiamo il diritto di organizzarci come vorremmo; bisogna sempre essere autorizzati in ogni scelta e decisione: per questo non c’è ancora piena libertà».
Durante l’assemblea generale di fine settembre 2004, la Conferenza episcopale vietnamita ha scritto una lettera all’Ufficio degli affari religiosi del governo di Hanoi affermando che «la nuova legge sulla vita religiosa è ancora inscritta in un sistema di “richiesta e concessione” in tema di libertà religiosa. Questa situazione non è ancora quella di una piena libertà, perché si è ancora sotto controllo».
In molti ritengono la legge sulle credenze e le religioni ancor più restrittiva delle precedenti norme. Il cardinale Jean-Baptiste Pham Minh Man, arcivescovo di Ho Chi Minh, ha definito l’Ordinanza «peggiore della legge di Ho Chi Minh del 1955», giudicata più liberale di quella attuale, ma di fatto mai applicata.
Secondo padre André Mals, delle Missions Etrangères de Paris (Mep), per molti anni missionario in Vietnam, poi espulso dal governo di Hanoi, nel paese c’è una restrizione liberticida verso le religioni e un netto peggioramento per la libertà religiosa: «Finora si voleva controllare la pratica pubblica dei vari culti. Ora si decide di determinare direttamente il sentimento religioso delle persone».

PERICOLO… PERSECUZIONE
Critici verso la legge sono soprattutto i gruppi di cristiani protestanti, che ne hanno lamentato la pericolosità. Il reverendo Pham Dinh Nhan, capo degli evangelici del Vietnam ha avvertito che «l’Ordinanza creerà problemi e disuguaglianze soprattutto a riguardo dei luoghi di culto e di preghiera».
Tale legge mira «a bandire in modo definitivo le case che abbiamo dovuto adibire a chiese e che dal 1975 aspettano un riconoscimento statale – rincara il pastore -. Molti articoli dell’Ordinanza foiscono alle autorità locali una giustificazione legale alla persecuzione delle chiese in Vietnam».
Dalla fine della guerra, nel 1975, il governo ha chiuso o convertito ad altri scopi molti luoghi religiosi. Il reverendo Pham ha di recente invitato i fedeli a digiunare e pregare 3 giorni al mese, da settembre a novembre, affinché il governo cancelli l’Ordinanza, metta fine a «pregiudizi e persecuzioni» contro la chiesa e le sue attività.
La pesante repressione governativa è visibile nelle aree rurali più che nelle grandi città; ma soltanto perché il governo, impegnato nella ricostruzione del paese, non vuole attirare l’attenzione dei suoi partner commerciali e delle autorità inteazionali sul mancato rispetto dei diritti umani.

* Per gentile concessione di Asia News.

BOX 1

Alcuni aricoli dell’ordinanaza

Art. 1 – Il cittadino ha il diritto di godere della libertà di credenza e religione e di aderire o meno a una religione. Lo stato garantisce la libertà di credenza e religione dei cittadini. Niente può minare questo diritto.

Art. 16 – Il primo ministro approva le organizzazioni religiose che operano in molte province e città sotto la diretta amministrazione del governo centrale.
Il presidente del Comitato del popolo di una provincia o città… approva le organizzazioni religiose che operano principalmente in tale provincia o città. La registrazione delle attività religiose e la procedura per riconoscere le organizzazioni religiose devono essere approvate dal governo.

Art. 17 – La fondazione, divisione, fusione e unificazione di gruppi religiosi locali devono essere approvate dal Comitato del popolo provinciale.

Art. 18 – Convegni e conferenze di organizzazioni religiose locali hanno bisogno dell’approvazione del Comitato provinciale del distretto. Per convegni o conferenze a livello nazionale è necessaria l’approvazione dell’Ufficio per gli affari religiosi del governo centrale.

Art. 21 –
Capi di conventi religiosi hanno la responsabilità di registrare presso il Comitato del popolo del villaggio i nuovi membri reclutati.

Art. 22 – Ordinazioni, promozioni, nomine, elezioni… devono essere concordate in antecedenza con l’Ufficio per gli affari religiosi del governo centrale.
Le organizzazioni religiose hanno la responsabilità di registrare i loro candidati e informare gli uffici competenti della dimissione e rimozione di ecclesiastici.

Art. 23 – Trasferimento di ecclesiastici o religiosi da un luogo all’altro devono essere notificati al Comitato del popolo del distretto nel luogo di partenza e registrare presso quello del luogo di destinazione.

Art. 24 – L’apertura di scuole per la formazione di operatori religiosi deve essere autorizzata dal primo ministro.
Ogni reclutamento per tali scuole deve essere fatto secondo principi pubblici e regole approvate, e deve offrire agli studenti libertà di arruolamento.
La storia e le leggi del Vietnam sono soggetti obbligati del programma scolastico per la formazione degli operatori religiosi.

Art. 33 – Lo stato incoraggia e provvede condizioni favorevoli per le organizzazioni religiose perché si impegnino nel prendersi cura di bambini fisicamente e mentalmente disabili; assistano i centri sanitari per i poveri, disabili, persone colpite da Hiv/Aids, lebbrosi o handicappati mentali; aiutino lo sviluppo di scuole infantili e prendano parte in altre attività a scopo umanitario o caritativo.

(Asia Focus)

Marta Allevato




DOSSIER VIETNAM Una foglia di fico (introduzione)

Nell’immaginario collettivo il Vietnam resta legato alla lunga e sanguinosa guerra cosiddetta «americana», che infiammò e divise il mondo per 15 anni (1960-1975). In qualcuno rimangono anche le tragiche immagini dei boat people, che affrontarono l’oceano su fragili imbarcazioni per fuggire al regime comunista (1975-1979) e alla miseria (1988-1990).
Oggi il Vietnam occupa il 101° posto nell’Indice dello sviluppo umanitario. Negli ultimi anni è passato dall’isolazionismo internazionale all’apertura alla comunità mondiale, dall’economia pianificata del socialismo a un sistema economico più aperto, simile alla Cina. Ma ben poco è cambiato nel campo della libertà e diritti umani, che continuano a essere negati e calpestati.

Grande come l’Italia, ma con oltre 80 milioni di abitanti, il Vietnam si estende lungo la parte orientale della penisola indocinese. Geograficamente è costituito da tre regioni: a nord il Tonchino, quasi un’appendice geografica della Cina; al centro la lunga e stretta fascia dell’Annam; al sud la regione della Cocincina.
Per quasi un millennio, a partire dal secolo 3° a.C., il Tonchino fu vassallo dell’impero cinese, che vi impose le proprie istituzioni politiche e culturali, compresi gli ideogrammi per la lingua vietnamita, il pensiero di Confucio, gusti artistici e musicali.
Una serie di sollevamenti a intermittenza cercarono invano di scrollarsi di dosso il dominio cinese, finché nel 939 le forze vietnamite di Ngo Quyen riuscirono a sconfiggere le truppe di occupazione e a instaurare uno stato monarchico indipendente. Seguirono varie dinastie che rintuzzarono le mire di vecchi e nuovi invasori: nei secoli xi e xii resistettero ai cham e ai mongoli di Gengis Khan; nel xv e xvi secolo respinsero i cinesi delle dinastie Ming e Ching, nel xviii i khmer, finché estesero il loro territorio verso il sud, fino a comprendere la foce del Mekong dando origine al Dai Viet (Grande Viet).
Intoo al 1620, per le rivalità tra clan di corte Trinh e Nguyen, la monarchia cominciò a perdere potere e il Dai Viet fu diviso in due zone di influenza: il nord dominato dai Trinh, con capitale Hanoi; il sud dagli Nguyen, con capitale Hué. I contrasti tra nord e sud si inasprirono con l’arrivo degli europei, giunti nel sud-est asiatico per motivi commerciali e per diffondervi il cristianesimo.
Dalla fine del 1600, per oltre un secolo, le alleanze dei vari feudatari con gli europei si alternarono a violente proteste contro gli stranieri, sfociando nella persecuzione contro i cristiani, finché il territorio fu riunificato sotto un unico regno (1789), per opera dei fratelli Tay Son. Poco tempo dopo, Nguyen Anh, unico sopravvissuto degli Nguyen del sud, con l’aiuto dei francesi riprese il sopravvento e nel 1802 si autoproclamò imperatore e ribattezzò il paese con il nome attuale: Vietnam (1804).

La dinastia Nguyen, temendo intromissioni della Francia nei suoi affari, riprese la persecuzione contro i missionari e i vietnamiti convertiti, fino all’esecuzione di alcuni cristiani. Quando vennero lesi anche gli interessi commerciali e militari francesi, Napoleone iii inviò varie spedizioni punitive, finché il Vietnam fu costretto a cedere la Cocincina alla Francia (1860) e poi accettare il protettorato sulle altre due regioni, Annam e Tonchino, che diventarono parte dell’Unione Indocinese, insieme al Laos e la Cambogia.
Nonostante i tentativi di modeizzazione introdotti dal sistema coloniale, i vietnamiti furono ben presto delusi: l’imperatore fu posto sotto tutela, la maggioranza della popolazione fu esclusa dall’amministrazione e privata della libertà politica, di associazione e di espressione. Ad arricchirsi erano solo i colonizzatori e una ristretta élite di vietnamiti e cinesi. Il malcontento causò l’apparire di movimenti nazionalisti e rivoluzionari. Nel 1927 venne costituito il Partito nazionalista vietnamita; nel 1930 Ho Chi Minh fondò a Hong Kong il Partito comunista di Cambogia, Laos e Vietnam, che ben presto si divise in tre sezioni nazionali.
Durante la seconda guerra mondiale il Vietnam fu occupato dai giapponesi. I comunisti diedero vita al Viet Minh (Lega per l’indipendenza) e organizzarono la resistenza, cornoperando con gli alleati, senza nascondere l’intenzione di sbarazzarsi anche del regime coloniale. Di fatto, dopo la capitolazione del Giappone, Ho Chi Minh lanciò l’appello all’insurrezione nazionale: il partito comunista si insediò ad Hanoi e proclamò l’indipendenza della Repubblica democratica del Vietnam (1945).
Nei negoziati del marzo 1946, la Francia, che controllava ancora la Cocincina, riconobbe l’indipendenza del Vietnam nell’ambito della Unione francese, aspettando l’occasione per restaurare il dominio coloniale: in giugno dello stesso anno, i francesi formarono un governo guidato dall’imperatore Bao Dai, ultimo regnante della dinastia Nguyen.
Per quasi otto anni (1946-1954), le forze del Viet Minh, guidate dal generale Giap, combatterono una sanguinosa guerriglia, culminata nella battaglia di Dien Bien Phu, in cui i francesi furono definitivamente sconfitti. La conferenza di Ginevra (20 giugno 1954) sancì la fine della colonia francese e divise provvisoriamente il Vietnam in due stati indipendenti, con l’impegno di tenere votazioni generali nel 1956, per riunire il paese sotto un unico governo.
A nord del 17° parallelo si formò la Repubblica democratica del Vietnam, capeggiata da Ho Chi Minh e appoggiata da Urss e Cina; a sud la Repubblica del Vietnam, guidata dal filo-occidentale Ngo Dinh Diem, sotto l’ombrello francese, poi degli Stati Uniti.

Gli sviluppi politici non consentirono lo svolgimento delle elezioni previste dagli accordi di Ginevra. A Saigon, capitale del sud, Diem rovesciò Bao Dai e instaurò un regime autoritario e repressivo, alienandosi l’appoggio di buona parte della popolazione. Gli oppositori del regime (democratici, socialisti, nazionalisti e marxisti) si unirono nel Fronte di liberazione nazionale (Fln), detti «vietcong», per riprendere la guerriglia, con l’appoggio del governo di Hanoi.
Iniziava così la «seconda resistenza» contro i governi militari che si succedettero a Saigon e soprattutto contro gli Stati Uniti, i quali all’inizio foirono armi e consiglieri militari allo stato del sud, poi entrarono direttamente nel confitto (1965), fino a contare 580 mila soldati effettivi. Sul Vietnam furono scaricate più bombe di quelle lanciate in tutta la seconda guerra mondiale e furono sperimentate armi chimiche e batteriologiche.
La lunga e sanguinosa guerra si concluse soltanto nel 1975, col ritiro statunitense e l’occupazione del sud da parte dei vietcong e dell’esercito nordvietnamita: nord e sud furono riuniti nella nuova Repubblica socialista del Vietnam; Saigon, mutò il nome in Ho Chi Minh.

La drammatica situazione ereditata dalla lunga guerra, le crescenti tensioni intee, le politiche attuate dal nuovo regime provocarono esodi di massa: 1 milione e 300 mila persone lasciarono il paese con imbarcazioni di fortuna (i cosiddetti boat people), altri si rifugiarono nei paesi confinanti. Problemi di frontiera con Laos e Cambogia, riaccesero le mire espansionistiche dei comunisti vietnamiti verso i due paesi. Alla fine del 1978 occuparono la Cambogia e vi insediarono un governo filovietnamita.
Le proteste inteazionali provocarono l’isolamento del paese e l’embargo dei paesi occidentali. La lentezza della ricostruzione, la collettivizzazione dell’agricoltura e nazionalizzazione delle imprese aggravarono i problemi sociali ed economici: nel 1986 l’inflazione arrivò al 700%. E riprese l’esodo di circa 800 mila boat people.
Con la salita al potere di dirigenti riformisti e, soprattutto, cessati gli aiuti sovietici in seguito al collasso dell’Urss, il Vietnam ritirò le sue truppe dalla Cambogia (1989) e imboccò la strada delle riforme economiche. Per attirare gli investimenti stranieri, la nuova Costituzione, adottata nel 1992, rinunciava al marxismo-leninismo e riconosceva la proprietà privata.
Tutto ciò ha consentito al paese di uscire dall’isolamento internazionale e ristabilire rapporti diplomatici con molti paesi europei e asiatici, attirando così investimenti stranieri. Dall’inizio del 1994 anche gli Stati Uniti hanno revocato l’embargo economico e ristabilito legami diplomatici, permettendo al Vietnam di accedere ai crediti del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale per ricostruire e sviluppare il paese.
Negli ultimi anni, sull’esempio della Cina, il Vietnam ha aperto i battenti al libero mercato e firmato un importante accordo commerciale anche con gli Stati Uniti, favorendo una forte accelerazione della crescita economica. Tuttavia resta ancora profondo il fossato tra il sud, più sviluppato, e il nord, dove molti milioni di persone vivono con un’agricoltura di sussistenza e il cui sviluppo è ancora condizionato, oltre che da gravi inondazioni, dai drammatici effetti delle armi chimiche usate dagli Stati Uniti durante la guerra.

Nelle città e nelle aree dove è in corso il processo di modeizzazione il regime è costretto a mostrare agli stranieri una faccia più rispettabile, rispetto al passato; ma nelle zone rurali e lontane da occhi indiscreti continua la politica di oppressione.
La Costituzione del Vietnam ribadisce il ruolo unico di guida del Partito comunista, il quale mantiene saldamente il controllo su tutti gli aspetti della società vietnamita. Senza contare che anche l’ordinamento giudiziario, pur essendo basato sul sistema francese, continua a ispirarsi alla dottrina giuridica marxista.
Ma da quando il governo ha adottato il sistema capitalista, nessun comunista crede più all’ideologia comunista, ma solo al potere e al denaro, molto denaro (ma guai a dirlo apertamente!). Tale ideologia, ormai, è diventata la «foglia di fico» per opprimere e seminare terrore, sfruttare il popolo e, soprattutto, per coprire la piaga di una corruzione dilagante, mai vista in tutta la storia del Vietnam.
B.B.

Benedetto Bellesi




Intervista al vescovo mons. Macram Gassis

Sudan: la chiesa tra i nuba
40 ANNI DI CROCIFISSIONE

Nel gennaio scorso è stato firmato un accordo di pace per il sud Sudan, che suscita molte perplessità, anche perché il Darfur non è compreso nell’accordo.
Si spera, comunque, che l’accordo possa portare buoni frutti.


Il 31 ottobre 2004 mons. Macram Gassis, vescovo di El Obeid (Sudan) ha benedetto il restauro della chiesa di San Rocco «simbolo di pace» a Rivoli (TO). Gli abbiamo rivolto alcune domande sulla situazione della sua gente e un messaggio per i cristiani della vecchia Europa.

Eccellenza, come gruppo Bakhita-Follereau, la conosciamo dal 1994; attraverso le sue testimonianze e lettere partecipiamo alle sofferenze della sua gente, cercando di offrire concreti gesti di solidarietà. Può dirci com’è diventato missionario comboniano e poi vescovo di El Obeid?

Fu il vescovo di Khartoum, mons. Agostino Guaroni, italiano di Bologna, a incoraggiarmi perché diventassi comboniano. Nel 1955, partii per l’Inghilterra, feci il noviziato e gli studi di filosofia presso i comboniani. Nel 1960 mi fu concessa una breve vacanza e, dopo cinque anni, potei riabbracciare la mia famiglia a Khartoum, mio luogo di nascita.
Frequentai, poi, i corsi di teologia in Italia, a Venegono e Verona, e fui ordinato prete nel 1964, proprio a Verona alla vigilia della festa dei Santi Pietro e Paolo dal card. Gregorio Pietro Aghagianian, prefetto di Propaganda fide. Il giorno della festa dell’Assunta feci l’ingresso nella cattedrale di Khartoum: ero il primo e unico sacerdote religioso della diocesi di Khartoum. Attualmente in Sudan ci sono 12 vescovi, di cui 10 sudanesi, ma io sono l’unico vescovo del nord Sudan, di madre lingua araba e cresciuto in ambiente islamico. Riesco, perciò, a leggere tra le righe i discorsi del governo.
Provengo da una famiglia cristiana o meglio ecumenica: mio padre era cattolico, mia madre protestante ed i nonni matei ortodossi copti. Dal 1964 al 1979 prestai il mio ministero nella diocesi di Khartoum, prima come vice parroco e poi come parroco per aprire nuove parrocchie. Inoltre, poiché potevo dialogare con il governo, ebbi molti incarichi a livello diocesano (cancelliere, incaricato delle scuole cattoliche, cappellano dell’Associazione san Vincenzo de Paoli).
Nel 1984 fui nominato amministratore apostolico della diocesi di El Obeid, allora vacante, e nel 1988 vescovo della stessa. È così iniziata la mia via crucis. Portai, infatti, sacerdoti e suore di varie congregazioni (Maryknoll, Comboniani, Aposteles of Jesus, suore di Madre Teresa di Calcutta), ma a tutti non fu permesso di restare nel paese.
Nel 1990 lasciai la diocesi per motivi di salute; poi mi fu consigliato di non rientrare perché molto pericoloso. Avevo, infatti, denunciato apertamente le ingiustizie contro la mia gente. Come già dissi nella mia visita a Torino del giugno 1994, il 4 gennaio di quell’anno ero tornato in Sudan e potei visitare 4 diocesi del sud Sudan ma non la mia. Incontrai, però, una delegazione di circa 100 cristiani della mia diocesi che dai Monti Nuba aveva camminato per 70 giorni a piedi per potersi incontrare con me. Fu un incontro davvero ricco di emozioni.

Quali sono le cause della guerra che dal 1984 ha dilaniato i Monti Nuba? Quante sono state le vittime? È possibile descrivere la sofferenza dei cristiani?

La guerra è stata causata dalle ingiustizie inflitte dal governo. A dir la verità non l’ho mai chiamato governo ma «regime di Khartoum». I Monti Nuba sono sempre stati considerati popolati da negri e per questo si è cercato di arabizzarli, confiscando le 750 scuole private costruite dai missionari cattolici e protestanti.
L’espulsione dei missionari ha esacerbato l’anima della gente che ha visto, nel 1963, i loro pastori caricati sui camion come pecore da macello. Ha visto bruciare 161 chiese cattoliche e protestanti sui Monti Nuba. Quando c’è troppa oppressione e ingiustizia la situazione scoppia. Tutti i posti di potere sono sempre stati occupati dalla gente del nord, sia nel governo che nell’esercito. Alla gente del sud erano riservati ruoli subaltei. Le scuole ormai si erano trasformate in agenzie di arabizzazione e islamizzazione forzata. La gente si è ribellata.
È scoppiata la guerra civile, sfociata nel genocidio dei Nuba. Infatti, la parola genocidio è appropriata quando si vuole privare un popolo delle sue tradizioni, lingua e cultura. La questione del petrolio è venuta dopo. Abbiamo contato circa 2 milioni e mezzo di morti e 5 milioni di rifugiati.

Che cosa ha fatto la chiesa del Sudan e lei in particolare in questo periodo di guerra?

La chiesa ha portato la causa dei Monti Nuba davanti alla comunità internazionale, e io ne sono divenuto il portavoce. Per cinque anni ho presentato la causa dei Monti Nuba nei miei discorsi alla Commissione dei diritti umani di Ginevra. Sono diventato la voce della mia gente davanti al governo italiano, britannico, tedesco, svizzero, canadese e statunitense. Ho parlato apertamente dell’olocausto al presidente Oscar Luigi Scalfaro, Mary Robinson, Madelein Albright, Colin Powell, Butrous Ghali, al Congresso e al Senato americano.
Adesso il nome dei Monti Nuba è conosciuto. Il senatore americano John Danforth, nominato Presidential Envoy, ci ha visitati con la sua delegazione; abbiamo discusso sulle possibilità per arrivare al cessate il fuoco, che tuttora continua anche se ci sono ancora gravi incidenti commessi dalle forze armate di Khartoum. La chiesa per tutto il periodo dell’isolamento è stata ancora la speranza del popolo nubano.
Nel 1995 sono riuscito a portare due sacerdoti e un fratello religioso sui Monti Nuba; in seguito, altri sacerdoti hanno condiviso con la gente bombardamenti e devastazioni. Anch’io con grave rischio ho ripreso a visitare la mia gente per natale e pasqua. Malgrado tutto la chiesa è stata accanto alla gente come segno di speranza.

Può, con poche parole, definire la tragedia del Darfur?

Nel Darfur, che è parte della mia diocesi, si sta ripetendo quanto è successo sui Monti Nuba, cioè il genocidio di un popolo per la forzata arabizzazione e islamizzazione. L’unica differenza è l’interesse mostrato dai mass media. Molti nuba rifugiatisi nel Darfur, adesso, rientrano a casa e la chiesa cerca di aiutarli in questo reinsediamento, con appropriati micro-progetti.

Dopo il cessate il fuoco, stipulato nel 2002, e i colloqui di pace tra governo e Spla (Sudan People’s Liberation Army) terminati nel maggio 2004, quali sviluppi ha avuto e avrà la diocesi di El Obeid?

I catechisti sono sempre stati la «spina dorsale» della chiesa sui Monti Nuba: hanno mantenuto vivo il messaggio cristiano anche in assenza dei sacerdoti. Adesso stiamo, però, facendo aggioamenti e formazione, perché qualche catechista si riteneva diacono o addirittura sacerdote.
Dal 1995 ci sono sempre stati sacerdoti africani sui Monti Nuba nelle zone rurali, con grande rischio e pericolo, perché i grandi centri erano controllati dalle forze governative. Avevamo riaperto la parrocchia di Kauda, ripetutamente bombardata, e di Gidel. Ora è stata riaperta anche la parrocchia di Lumon, che ci ha dato parecchie vocazioni.
Abbiamo tre seminaristi che dovrebbero iniziare i corsi di filosofia a Khartoum. Ci sono sei sacerdoti e presto dovrebbero arrivae altri quattro. Abbiamo anche una quindicina di suore (Comboniane, Preziosissimo Sangue, Madre Teresa di Calcutta), che si occupano dell’istruzione e della promozione della donna, seguono i corsi di formazione e le cornoperative.
I catechisti sono circa 100 e le comunità cristiane con chiesa cappella una cinquantina. Abbiamo scuole elementari, ma procederemo con la costruzione di scuole superiori e tecniche. Abbiamo scavato 150 pozzi, portando acqua a molti villaggi. Stiamo costruendo un ospedale.
Abbiamo chiesto al card. Sepe di sollecitare le congregazioni missionarie a venire sui Monti Nuba, ora è possibile. I nostri sacerdoti sono giovani, ancora traumatizzati dalla guerra, e hanno bisogno di un sostegno morale, psicologico e di buoni esempi per ricostruire la chiesa su basi solide. I cattolici sui Monti Nuba sono ormai 100 mila. La nostra chiesa è una chiesa martire, che dona alle chiese d’Occidente i frutti del suo martirio.

Quale messaggio desidera inviare ai cristiani della vecchia Europa?

Viviamo in un mondo pieno di inganni, menzogne e falsità, permeato da secolarismo e indifferenza. Uomini e donne che vivono la verità sono crocifissi. Non abbiate paura di dichiarare che siete cristiani. Non dimenticate le vostre radici e tradizioni. Cristo era, è e sarà. Chi vive senza Dio non può portare la pace.
In Sudan essere cristiano vuol dire accettare la sofferenza. In Italia si dice che l’Europa è una chiesa che dona e l’Africa è una chiesa che riceve. Ed è vero. Ma anche la chiesa del Sudan è una chiesa che dona e la chiesa d’Europa è una chiesa che riceve. Noi doniamo la nostra sofferenza, il martirio dei nostri giovani, le lacrime delle nostre vedove, la schiavitù dei nostri bambini. Un dono grande di conciliazione alla chiesa universale perché siamo sulla croce di Cristo.
Pregate per il Darfur dove stanno sterminando cristiani e musulmani neri, perché ritenuti di seconda categoria. Dicono che è una guerra santa, ma non esiste una guerra santa! Dio non vuole la guerra.
Solo con un’adeguata conoscenza è possibile il dialogo. L’Europa si dimostra superficiale nel dare, dare senza adeguata conoscenza e preparazione. Non svendete i vostri valori e le vostre tradizioni. State giocando con il fuoco. Anch’io ho fatto pozzi, scuole e l’ospedale per cristiani e musulmani ed ho iniziato un autentico dialogo di pace.
Ricordate cosa disse il santo padre all’apertura della moschea di Roma: chiedete sempre la reciprocità.


Silvana Bottignole




Dalla parte degli esclusi

A mezzogiorno le strade di Camaçari sono ancora deserte. La gente sta sbadigliando tra le lenzuola, mentre qualche netturbino toglie dal marciapiede i resti dei fuochi accesi davanti alle abitazioni durante la notte di follie. È la festa di São João. A fine giugno tutto il popolo di Bahia perde la testa.
Importata dai portoghesi, originariamente mescolava il culto dei santi cattolici con quello della dea delle coltivazioni Feronia, cara ai Romani. Ma adesso è completamente diventata bahiana: un’occasione per scatenarsi con il ballo del forró e sparare tutta la notte mortaretti e fuochi d’artificio.
Un uomo apre lentamente il suo chiosco di dolciumi, ha ancora la testa stordita da tutta la birra bevuta. Dal negozio di pompe funebri, con le porte spalancate sulla via, esce il canto di una radiolina. Una fuoriserie fiammeggiante supera svogliata un uomo a cavallo e nell’aria, all’ora di pranzo, l’unica cosa che vibra è la voce roboante del predicatore della «chiesa universale», una delle tante congregazioni d’affari spirituali, sorte negli ultimi decenni ad opera di sedicenti vescovi ricchi e potenti, con l’appoggio, si dice, degli americani, per contrastare la forza sociale della chiesa cattolica brasiliana.
Il predicatore per tutta la notte si è sgolato contro il diabolico forró, che trascina i giovani sulla cattiva strada dei mille peccati, consumati nel grande spettacolo musicale, offerto dal sindaco che, per farsi rieleggere, «ha stipulato un patto con il popolo e con la verità», come si legge sul cartellone pubblicitario.

M a la città non è solo festa. Qui funziona un grande polo petrolchimico e la Ford ci ha costruito uno stabilimento. Tra le ciminiere fumanti svetta anche l’insegna della Monsanto, l’azienda americana di prodotti per l’agricoltura, redarguita dal governo italiano per aver importato illegalmente partite di semi di soia geneticamente modificati.
A prima vista, Camaçari si direbbe una cittadina sviluppata, per via delle industrie; invece solo pochi raggiungono un salario minimo e sono i tecnici altamente specializzati; per tutti gli altri, la manovalanza, lo stipendio è misero a fronte, per di più, di un lavoro pericoloso, logorante e non protetto dai sindacati.
Si viene a creare dunque una situazione di estrema disuguaglianza. Le imprese moltiplicano i loro guadagni mentre un terzo della popolazione vive in condizioni precarie, minacciata dalla disoccupazione, e il rischio della perdita di dignità, come persone e come cittadini, perpetua lo sfruttamento che fa del Nord-Est una delle regioni più arretrate del paese.
In questa difficile situazione socio-economica, i più colpiti sono i bambini. Non solo perché più esposti alle malattie respiratorie, provocate dall’inquinamento delle industrie chimiche, ma soprattutto perché, nella maggior parte dei casi, vivono soli accanto alla madre, talvolta con un padre adottivo, che declina le proprie responsabilità di educatore.
Tale stato permanente di instabilità mina gli stessi rapporti umani, a volte inquinati da violenza e alcol, e spinge sempre più persone verso gli strati più bassi della società.
Q uando don Paolo arrivò a Camaçari si mise subito a lavorare con gli esclusi, come aveva fatto a Saõ Salvador, dove aveva difeso dalla prepotenza di politici e poliziotti il diritto alla casa di tante famiglie costrette a invadere terreni su cui costruire abitazioni fatiscenti.
Nei suoi 30 anni brasiliani, la pastorale di don Paolo è stata sempre rivolta a quelli che non hanno voce, quelli che si devono accontentare delle briciole, che tuttavia incarnano una protesta non-violenta, una innata rivendicazione affinché la storia umana possa voltare pagina.
Oggi il «fischietto», ossia Apito, l’associazione a lui dedicata, è una colorata scuola matea, un ambiente pedagogico creativo e mirato alla formazione dei bambini in sintonia con i loro genitori, ed è inoltre un progetto di accompagnamento di famiglie bisognose, non solo di beni materiali, ma anche di una nuova coscienza.
Le 50 donne volontarie che fanno parte del progetto si riuniscono frequentemente per organizzare visite a domicilio, monitorare i casi d’indigenza e realizzare attività manuali e artistiche che coinvolgono le famiglie nella ricerca di una più forte autostima e di una piena consapevolezza dei propri diritti politici e umani.
Applicarsi nella produzione di medicine alternative o di cibi naturali sfruttando la saggezza popolare diventa un mezzo efficace per far emergere capacità che la miseria e l’ignoranza tendono a oscurare.
La fantasia e la calda solidarietà di queste volontarie sono i veri strumenti civili per far alzare la testa a chi l’ha sempre tenuta tra le ginocchia. Tra di loro si avverte sempre un clima giornioso, perché nessuno giudica l’altro, perché si è allegri con semplicità, si va dritti al centro delle emozioni accettando quello che viene oggi.

Intanto il giorno si è fatto caldo. Mezzogiorno è passato e il fumo dei fuochi ormai si è del tutto diradato, sebbene in lontananza si senta qualche piccola esplosione.
In mezzo al traffico un ragazzo spinge un carretto pieno di cappelli di paglia che nasconde uno stereo e scuote la testa al ritmo della musica distorta che buca le casse.
Sembra che all’improvviso debba accadere qualcosa di sconvolgente. Alcuni dicono che non succederà mai nulla. Altri hanno speranza.

BOX 1

Trenta anni nella Bahia

Paolo Maria Tonucci nacque a Fano il 4 maggio 1939. Fu ordinato sacerdote il 29 giugno 1962. Ottenuto il permesso di partire come missionario, arrivò in Brasile alla fine del 1965 e fu destinato alla parrocchia di Nossa Senhora de Guadalupe, nella città di São Salvador de Bahia. Vi lavorò per 15 anni insieme ad altri sacerdoti, per lo più provenienti dalla diocesi di Firenze.
Nella distribuzione delle responsabilità, don Paolo si dedicò soprattutto al quartiere di Fazenda Grande, dove stabilì la propria residenza, in una stanza dietro la cappella. Qui istituì la scuola professionale Primero de mayo, per la formazione di giovani tecnici e l’alfabetizzazione degli adulti. Fu tra i fondatori e poi il responsabile della Commissione diocesana Giustizia e Pace, per lo studio delle situazioni di ingiustizia e la difesa dei diritti umani.

Nel 1981, don Paolo lasciò la città di Salvador e si trasferì a 40 chilometri di distanza, nella cittadina di Camaçari, divenendone parroco. Con lo scopo di essere più vicino al popolo, per due volte don Paolo chiese la cittadinanza brasiliana, prima durante la dittatura militare (1964-1985), poi in tempo di democrazia. Gli fu sempre negata «per indegnità», in quanto negli archivi della polizia erano segnalati i suoi interventi in difesa dei senzatetto, proditoriamente sloggiati dalle loro baracche proprio dalle forze dell’ordine.
Il 19 ottobre 1992 il comune di Fano gli assegnò il premio «Fortuna d’oro», con la seguente motivazione: «Al missionario Paolo Maria Tonucci, per la sua attività umanitaria e spirituale a favore delle popolazioni povere del lontano Brasile e per aver saputo coraggiosamente lottare contro gli ostacoli e le incomprensioni di una dittatura militare».
Nell’agosto 1993 gli fu diagnosticato un tumore al cervello. A nulla valsero gli immediati ricoveri in Italia. Morì il 9 ottobre 1994 e fu sepolto a Fano.

Esattamente 10 anni dopo, contemporaneamente a Camaçari e a Fano, si sono svolte manifestazioni e incontri per commemorare il suo impegno di testimone del vangelo nel rispetto pieno della dignità umana.
Per l’ardore con cui lottò fino agli ultimi giorni a fianco dei diseredati, don Paolo è rimasto per sempre nei cuori dei brasiliani e di quanti, in Italia, lo hanno conosciuto. Coloro che hanno collaborato e vissuto con lui hanno dato continuità alla sua opera, costituendo due associazioni a lui intitolate in patria e in Brasile.
In Italia, il 5 dicembre 1996, fu costituita l’Associazione «Centro scuola don Paolo Tonucci» Onlus, con lo scopo di sostenere iniziative di promozione cristiana, umana e sociale delle persone più svantaggiate di Camaçari.
A Camaçari è nata l’Associazione Paolo Tonucci «Apito» (in brasiliano significa fischietto), che ha attivato diversi programmi sociali:
Fami-Apito si occupa delle circa 260 famiglie bisognose.
Centro-Apito attua programmi di educazione per l’infanzia, di cui usufruiscono 140 bambini dai 3 ai 6 anni.
Eco-Apito ha programmi di complemento scolastico per 120 ragazzi da 7 a 12 anni.
Arte-Apito è un biennio professionale per circa 80 giovani sopra i 14 anni.


Paolo Brunacci




LETTERE – Ma perché Cristo ha fatto seccare il fico?

Botta e risposta tra un lettore
e il nostro collaboratore don Paolo Farinella.

D i solito non contesto il contenuto degli articoli giornalistici, ma ora lo faccio, perché ho avuto la netta sensazione che la verità sia stata travisata. Si tratta dell’articolo «Perché il dolore e la morte?» di Paolo Farinella (Missioni Consolata, febbraio 2005).
«Dio non vuole né permette alcuna disgrazia». Questa frase non ha fondamento nelle sacre scritture! Il Vecchio Testamento è ricco di episodi che rivelano che Dio è intervenuto in maniera forte nei confronti dell’uomo. E nel Nuovo Testamento possiamo ricordare che Cristo fa seccare il fico che non dà frutti fuori stagione, poi c’è la parabola dei talenti, quella delle vergini sagge, il giudizio universale, ecc. Non ci è lecito inventare un Dio che non esiste.
Dio permette le disgrazie, non per vendetta, ma perché l’uomo rinsavisca e salvi la sua anima! Quindi anche in questo manifesta la sua bontà. A proposito dei bambini, non possiamo ragionare come i non credenti: la Perfetta Giustizia, i cui confini ci sono ignoti, li ricompenserà in modo sovrabbondante della sofferenza, sorretta e lenita dalla sua misericordia.
Nessuno si può permettere di giudicarLo. Domina gli eventi: dal vangelo ricordiamo la tempesta sedata, l’invito a pregare perché «non accada in inverno», l’affermazione che i «capelli sono contati» ecc.
Che dire di quanto è avvenuto a Vailankanni (India), nuova Lourdes, dove il mare si è fermato all’ingresso del santuario, come riferisce Avvenire e Eco di Medjugorje, dopo aver spazzato via ogni cosa? In questo caso il messaggio mi sembra chiaro: in Maria c’è la salvezza, soprattutto quella spirituale! «Dio è già là che aspetta, perché nessuno in quei tragici momenti si senta solo». Questa frase trova riscontro nel vangelo: basta pensare alla parabola del figliuol prodigo, dove il Padre lascia che il figlio cada nel «letame» che si è scelto, ma è anche pronto ad accoglierlo, senza rimproverargli nulla quando rinsavisce.
«In un tempo in cui attraverso i satelliti si riesce a individuare una formica nera su una pietra nera in una notte senza luna». La frase è completamente infondata. Questa presunta onnipotenza dell’uomo non esiste: in caso contrario Ben Laden sarebbe già stato catturato e la guerra irachena finita!
Maremoti, terremoti ed eruzioni vulcaniche non possono essere collegati alla gestione disordinata del nostro ecosistema, perché non si spiegherebbe l’eruzione del 79 d.C. o il maremoto che ha colpito Messina nel 1908. L’ipotesi che le catastrofi naturali possano essere causate dai nostri peccati, potrebbe essere plausibile, ma indimostrabile, perché l’intera umanità dovrebbe vivere per lunghi periodi senza peccare.
E veniamo alle affermazioni che riguardano il capo del governo: se ragionasse come l’autore dell’articolo vorrebbe, sarebbe riuscito a occupare l’attuale posizione? Per i suoi interessi riesce a sfruttare bene i nostri egoismi!
Due lettere della direzione offrono spunti di riflessione sugli armamenti e le fabbriche d’armi. La proposta di riconversione è un ritornello datato e affonda le sue radici nella propaganda politica degli anni sessanta e non è attuabile. Io penso che il cristiano non debba dare indicazioni su come si devono comportare gli altri, ma cercare le vie da seguire in conformità al messaggio evangelico.
E allora? I cattolici potrebbero dare un segnale molto forte. Ogni reddito scaturisce dal Pil. Quindi anche chi non lavora nell’industria bellica o chi non vi ha investito dei capitali, gode dei suoi frutti. Se calcoliamo in che percentuale l’industria bellica contribuisce alla formazione del reddito, conosciamo il suo apporto al nostro benessere.
Coscienti che quella ricchezza gronda sangue e sofferenze umane, potremmo offrirla in dono a quei popoli che subiscono la guerra a parziale riparazione.

Mario Rondina – PU

Signor Mario, di fronte alla sua lettera, mi sento in dovere di tentare una risposta, anche se penso che sia molto difficile, perché le sue argomentazioni spazzano via quattro secoli di studi e ricerche bibliche, come anche l’insegnamento del Concilio Ecumenico Vaticano ii, e cioè: che la Provvidenza non si sostituisce affatto all’autonomia delle realtà terrestri e alla responsabilità dell’uomo.
Lei ha ancora un approccio scritturistico di tipo «fondamentalista» o, per dirla con san Paolo, di natura «letterale».
Sono l’autore dell’articolo criticato e affermo quello che ho scritto da 30 anni e mai nessuno ne ha contestato la fondatezza sia biblica che teologica, perché l’impostazione del problema e la risposta sono coerenti: sfido chiunque a trovarvi qualcosa di «eterodosso». Se usiamo il sistema del «taglia-ritaglia-e-cuci», tutto è possibile, anche il suo contrario. A me pare che lei sia stato attento a «singole» affermazioni che, facendo problema alle sue personali convinzioni e tolte fuori dal loro contesto, dicono assolutamente nulla o fanno dire sciocchezze che mai sono passate per la mia mente.
Rispetto tutti gli approcci di natura religiosa, perché sono convinto che per arrivare a Dio vi siano tante strade quante sono le persone; ma non può pretendere di leggere «la scrittura» senza tenere conto degli studi e degli sviluppi degli ultimi quattro secoli, che oggi sono insegnamento comune in tutte le università cattoliche, comprese quelle pontificie (tranne qualcuna che, fraintendendo il significato di «tradizione», contesta tutto ciò che viene dopo il Concilio Vaticano ii).
Mi riferisco a Lefèvre e altri suoi seguaci, che vedono Dio come «giustizia» e mai come «misericordia». Noi attribuiamo a Dio un concetto di «giustizia modea», che non ha alcuna cittadinanza nella Bibbia, e dimentichiamo che in Dio il nuovo nome della giustizia è «misericordia» o, per dirla con la stessa Bibbia, «tenerezza» o, meglio, «fremito di viscere» (Sal 51/50).
Lei, signor Mario, ha un concetto «materialista» di Dio, di stampo cartesiano, e, inconsciamente, se lo immagina come un orologiaio che passa il tempo a sistemare meccanismi, ad aggiustare il tiro per tenere a bada tutta quell’umanità ribelle che non sta in riga. A me pare che lei abbia trasferito alla Bibbia l’idea di Dio che lei si è fatto nell’arco della sua formazione.
Per dare una risposta adeguata alle difficoltà che lei pensa di avere trovato nel mio articolo, dovrei scrivere un intero corso non solo di sacra scrittura, ma anche di teologia e di storia della teologia. Non è possibile. Penso che nella sua città non mancheranno occasioni di approfondimento. Posso solo garantirle che credo fermamente nella Provvidenza e proprio questa fede fonda la certezza che Dio è Padre e, come Padre, non può volere il male o la sofferenza per i suoi figli; ma quando questi accadono, perché sono intrecciati alla vita, Dio è già lì.
Questo è il succo dell’Antico e del Nuovo Testamento, al di là delle singole frasi che possono anche fare di Dio un assassino o un guerrafondaio o un sadico o un violento senza scusa o un cecchino che si diverte al tiro al bersaglio.
La Bibbia è parola di Dio scritta con parole umane (legga la Dei Verbum del Concilio Vaticano ii, che è vincolante per ogni cattolico); e gli agiografi scrivono con le conoscenze che hanno del loro tempo, i limiti propri e i propri sentimenti. Bisogna sapere distinguere questi livelli; ed è per questo che ho dedicato tutta la mia vita allo studio esclusivo della parola di Dio.
Il suo approccio sentimentale merita rispetto, ma lei non può pretendere che sia l’unico e il solo possibile; anzi le garantisco che non fa giustizia né a Dio né alla sua parola, perché lei facilmente corre il rischio di fare confusione tra rivelazione, che è vincolante per ogni credente, e tradizioncelle, anche dignitose, che sono e restano soltanto nell’ambito delle devozioni private, libere e non impegnative come le apparizioni della Madonna (comprese quelle di Fatima e Lourdes, riconosciute dalla chiesa, ma non imposte e non vincolanti per i credenti).
Lei fa riferimento ad una apparizione ancora sub iudice, come quella di Medjugorje (forse non sa che ai preti è proibito organizzare pellegrinaggi a quel santuario?), che non vuole assolutamente dire nulla. Dell’altra, in India, che ferma l’acqua davanti alla sua cappella e lascia che l’acqua distrugga le case della povera gente, beh, è meglio non parlarne, perché ritengo che la Madonna sia persona seria. Un cattolico che non crede alle apparizioni della Vergine non è meno cattolico di chi invece vi crede: questa è dottrina ufficiale della chiesa.
Lei contesta affermazioni che non sarebbero nella sacra scrittura e poi intende provare le sue affermazioni con le apparizioni della Madonna e, per giunta, con quelle che nemmeno la Chiesa ha riconosciuto né intende riconoscere. Strano modo di affrontare problemi gravi e solenni che toccano l’umanità, come il dolore e la sofferenza, che non sono armi con cui Dio ricatta l’umanità.
Questo Dio, caro signor Mario, è morto con Gesù Cristo, che appunto si è limitato a fare seccare un fico, per altro già secco, senza fare danni ad alcuno se non allo stupore dei discepoli.

Mario Rondina




LETTERE – Per Aldo era tutto interessante

Per Aldo era tutto interessante

Cari missionari,
il 4 gennaio 2005 è morto mio marito, dottor Aldo Casarotto, di 92 anni. Perché ve lo scrivo? Perché, quando arrivava la rivista Missioni Consolata, egli si sedeva e cominciava a leggerla dalla prima pagina all’ultima; per lui era tutto interessante; tuttavia su alcuni dossier si fermava più volte e voleva che li leggessi anch’io, per dargli conferma o meno della sua opinione in merito.
Ebbene, cari missionari, tutte le volte che arriverà Missioni Consolata, mi si rinnoverà il dolore pensando a mio marito, ma non potrò fare a meno di seguire l’esempio suo e, magari, mettere la rivista da parte per rileggerla più avanti con più attenzione come faceva lui.
Vi chiedo una preghiera per lui ed anche per me: soffro molto per la sua dipartita, anche se so che il suo spirito è vivo.
Grazie delle moltissime e belle ore che la rivista ha fatto trascorrere a mio marito, che tanto l’apprezzava. Porgo distinti saluti.

Ersilia Confalonieri, vedova Casarotto,
Seregno (MI)

Lettera bellissima, per lo spirito di apertura del carissimo dottor Aldo. Nell’affermare che tutta la rivista era interessante, con ogni probabilità non significa che sia stato interamente d’accordo con i temi trattati. Tuttavia era «semper paratus doceri», ossia sempre pronto ad imparare, a confrontarsi con nuove realtà: e non solo per giudicarle negativamente, anzi!
Signora Ersilia, grazie di averci trasmesso questo incomparabile insegnamento di suo marito.

Ersilia Confalonieri




LETTERE – Povero Tagikistan!

Cari missionari,
tempo fa, dopo aver letto Missioni Consolata di aprile 2004 sul Tagikistan, mi era venuto un dubbio: forse, nel descrivere la crisi della piccola repubblica ex-sovietica (in particolare nel dire che negli anni del comunismo le cose andavano meglio), Maria Bianca Balestra aveva esagerato.
Invece, qualche mese dopo, guardando un filmato di Rai Uno per la rubrica Superquark e, soprattutto, ascoltando la drammatica testimonianza di Donata Lodi, cornordinatrice di Unicef Italia, mi sono resa conto che non solo il mio dubbio era privo di fondamento, ma che la situazione è ancora più tragica di quella denunciata dalla vostra collaboratrice.
1 – La mortalità infantile è altissima, solo di poco inferiore a quella dei paesi africani più disastrati.
2 – In un paese pieno di nevi e ghiacci perenni, dove le montagne superano i 7 mila metri di altezza e ospitano ghiacciai come il Fedcenko (tra i più estesi del mondo), una delle emergenze più grandi è quella dell’acqua potabile, che non c’è, anche se assicurarla a tutti costerebbe pochissimo. Se è vero quanto ha dichiarato Donata Lodi, la sera in cui è stata ospite di Piero Angela, 72 mila euro sarebbero sufficienti a garantire acqua di ottima qualità a 98 mila bambini, scongiurando il rischio di dissenteria, che, come ha ricordato anche Bianca Maria Balestra, è la principale causa di morte al di sotto dei 5 anni di età….
3 – Le aree rurali sono ancora più povere di quelle urbane, tanto che perfino l’esercizio di una professione di medico procura non più di 2 dollari al mese (Donata Lodi ha detto proprio così: «Due dollari al mese»); pertanto anche i medici si vedono costretti ad accettare lavori di ripiego.
L’estrema povertà della popolazione tagika è l’ennesima conferma del fatto che il prodotto interno lordo (pil) non è un indicatore affidabile del grado di sviluppo raggiunto da una nazione e del livello di benessere della sua popolazione. Se si può prestar fede a certi dati statistici, nel 2000 il Tagikistan ha avuto un incremento del pil superiore all’8%, ma ciò non è servito a ridurre le sofferenze della stragrande maggioranza dei tagiki; anzi, l’impressione è che abbia contribuito ad aumentarle.

Stefania De Tigris
Urbino

Lettera volutamente monca. Manca la domanda: «Che c’è che non va in Tagikistan?»; e la risposta?
L’autrice dell’articolo sul Tagikistan, Bianaca Maria Balestra, chiama in causa (guarda caso) la guerra, mentre Stefania de Tigris allude alla pessima distribuzione dei proventi economici.

Stefania de Tigris




LETTERE – La bibbia sbaglia?

Cari missionari,
sono una vecchietta e, fin da bambina, leggo la vostra rivista, che un tempo aveva solo quattro paginette in bianco e nero e raccoglieva soldi per «battezzare i moretti».
Mi rivolgo a Paolo Farinella, che invita a farlo. Non ho mai letto la Bibbia, ma sono stata allevata da un nonno che la conosceva bene; la citava ogni giorno e spesso me ne leggeva pagine e pagine. Quando voleva insegnarmi l’orrore della bestemmia, mi leggeva un brano che diceva: «Che si secchi la mia lingua, che si paralizzi la mia mano destra se io offenderò Dio con la parola».
Non avevo più pensato a questo, ma da due anni il problema mi ronza nella mente, perché mio marito è stato colpito da un ictus devastante, che lo ha lasciato senza parola e paralizzato nella parte destra. Oggi sono anche la sua badante-infermiera e ho scarse possibilità di contatti veri estei.
Siamo sposati da 50 anni e posso garantire che non ho mai (nemmeno una volta) sentito mio marito nominare il nome di Dio invano. Pertanto le maledizioni bibliche, riportate sopra, non lo dovrebbero riguardare; però vorrei che qualcuno mi spiegasse questo… «svarione biblico». Non posso rivolgermi a mio nonno, morto mezzo secolo fa, convinto che anche le virgole della Bibbia fossero verità assoluta.
Complimenti per la rivista, che è sempre molto interessante.

Maria Pozzo
Torino

Cara signora Maria, lei abita a pochi passi da casa nostra. E noi desideriamo esserle ancora più vicini con la preghiera.
Con molto coraggio e altrettanta semplicità, lei solleva un problema cruciale: come interpretare la Bibbia, specialmente nella sofferenza? Il biblista don Farinella le ha già un po’ risposto con l’articolo «Perché il dolore e la morte?» (cfr. Missioni Consolata, febbraio 2005). Inoltre veda l’intervento nella pagina seguente.
Noi, sommessamente, la invitiamo a ricordare:
1. All’interrogativo «perché il dolore dell’uomo?», Dio ci risponde con il suo Figlio crocifisso, ma anche risorto.
2. La Bibbia non è da assumere in senso letteralistico: ossia parola per parola. Questo sconfina nel fondamentalismo religioso, che porta ad una forma di suicidio del pensiero (cfr. Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Città del Vaticano 1993).

Maria Pozzo