COME STA FATOU? Manuel Antonio ce la farà


Prima di partire per una nuova destinazione, un medico dell’Organizzazione mondiale della sanità fa il bilancio della propria esperienza in un paese uscito distrutto da una lunga guerra civile. Tanti problemi, tanta sofferenza, ma anche esperienze umane indimenticabili.

Manuel Antonio mi guarda con un sorriso aperto. Anche sua madre sorride. Il medico le ha appena detto che questa volta suo figlio è salvo. Sì, Manuel Antonio ce la farà. Era stato colpito dalla malaria 5 giorni fa. La malaria si era subito complicata perché il bambino era molto denutrito.
Il villaggio di Manuel Antonio è alla periferia del mondo, in una Angola martoriata dalla guerra per tanti anni e dove la maggior parte della popolazione vive nella povertá estrema. Non c’erano farmaci antimalarici, né un medico o un infermiere per aiutare Manuel Antonio.

MAMMA ANGELINA
Come tante altre mamme angolane, Angelina ha dovuto percorrere piú di 200 chilometri, in parte a piedi, in parte con veicoli di fortuna, o militari, prima di arrivare all’ospedale provinciale. È durata tre giorni la corsa disperata contro il tempo per portare Manuel Antonio all’ospedale di Kuito, la capitale della provincia di Bié: è una zona che è stata a presa in mezzo da una guerra che ha distrutto un paese e la sua gente per più di 30 anni. Duecento chilometri di polvere, fame, fatica e paura, per strade, sentirneri e campi seminati di mine antiuomo.
Nel paese oggi c’è la pace, dopo che, nell’aprile 2002, l’esercito nazionale ha firmato l’armistizio con le forze dell’Unita. Angelina ha perso gli altri figli nella guerra. Dopo gli accordi di pace, si è ricongiunta con suo marito da cui era rimasta separata per 5 lunghi anni. Lo aveva dato per morto o per disperso in guerra. Angelina, come altri 4 milioni di persone, è tornata al suo villaggio, con la speranza di rivedere i suoi cari e rifarsi una vita.
La lunga guerra non ha piegato gli angolani. Sono fieri della loro terra e ora sperano che la pace durerà per sempre. È incredibile come sia stato possibile che, in così breve tempo, tanta gente sia ritornata a casa. È incredibile che, dopo 30 anni di guerra tutti adesso sembrano essersi già dimenticati che il loro vicino di casa era il nemico da abbattere.

I POSTUMI DELLA GUERRA
In una Angola traboccante di petrolio, diamanti ed altre ricchezze minerarie, con una potenzialità enorme anche per le risorse turistiche ed agricole, è incredibile che la povertà estrema riguardi il 69 per cento della popolazione.
È incredibile ma è vero che, seppur la guerra sia finita da piú di due anni, ancor oggi la gran parte della popolazione si ritrovi a lottare disperatamente per la sopravvivenza, per poter mettere i figli in una scuola e per riuscire a trovare un infermiere per curarsi. Sono i postumi della guerra la nuova condanna da cui ora ci si deve liberare. Sono i suoi effetti devastanti, fisici e culturali. I signori della guerra, interni ed estei al paese, hanno mantenuto acceso il conflitto a lungo per potersi arricchire; ma ora la popolazione vuole costruire un futuro di pace, fatto di scuole elementari, centri sanitari periferici, amministrazioni municipali funzionanti.
Solo pochi dei 163 municipi del paese possono già permettersi il lusso di una organizzazione e di un finanziamento pubblico che consenta gettare le basi di uno sviluppo produttivo, di una ricostruzione del tessuto sociale della comunitá, e l’accesso all’istruzione primaria e alla sanità di base.
Guardo Manuel Antonio e vedo in lui un milione di bambini che in Angola sono colpiti ogni anno dalla malaria, una malattia ormai scomparsa dal mio paese che qui invece uccide ogni anno almeno 30.000 bambini sotto i cinque anni e piú di mille donne gravide. Quando penso a questi bambini che muoiono ogni anno, non voglio vederli come cifre, statistiche da manuali asettici. Voglio vedee i volti, per capire che dietro questi numeri in realtá ci sono persone, bambini come i miei figli, donne come mia moglie.
Guardo Angelina ed il suo Manuel Antonio. E mi chiedo come sia possible che tante Angeline e tanti Manuel Antonio vivano la tragedia della malaria nell’era della tecnologia. Cosa sta succedendo in questa strano mondo perché, nella sola Angola, ogni anno altri 40.000 muoiano di malattie contagiose ma facilmente prevenibili, come la denutrizione, la diarrea, le malattie respiratorie, il morbillo e la malattia del sonno.
Per questo, appena arrivato in Angola, mi sono sentito preso dal lavoro, nell’impossibile pretesa di fare qualcosa di sostanziale per cambiare le cose, per rendere l’organizzazione dei servizi piú funzionale, piú efficiente e migliorare la qualitá dell’accesso alla sanitá di base.
Ora, con l’avvento della pace, c’è bisogno di lavorare ancor piú sodo e senza sosta con il governo per ricostruire il paese in fretta, per evitare tante morti e tanta sofferenza. C’è bisogno di lavorare con le Ong e le altre agenzie delle Nazioni Unite. Di coinvolgere maggiormente le ambasciate, le compagnie private e sostenere la crescita della società civile angolana, ancora così debole e dare una voce a chi non ce l’ha mai avuta.
In quattro anni, dal 2000, l’ufficio dell’Oms in Angola è cresciuto da 17 a piú di 100 dipendenti, di cui tre quarti medici gestori e tecnici sanitari e sono stati aperti dai due iniziali, altri 18 uffici a livello provinciale per aiutare le autoritá sanitarie.
Le attivita hanno dato priorità all’analisi sistemica della realtá socio-sanitaria e identificazione delle prioritá sanitarie; essere in grado di riconoscere le malattie, notificarle e combatterle d’accordo alle risorse disponibili, preparazione di schemi di diagnosi e cura per evitare le morti matee e infantili; integrazione dei programmi e implementazione di una strategia che consenta, attraverso la presenza a livello periferico di stock di farmaci essenziali e di professionisti della sanitá, di garantire un pacchetto ‘minimo di servizi’ a tutta la popolazione, dalla vaccinazione contro la polio, il morbillo ed il tetano, alla lotta alle malattie sessuali e al’Aids.
Mentre ho ancora nel cervello l’immagine di Manuel Antonio che mi sorride, penso alle molteplici inizitive che abbiamo instancabilmente prodotto in questo paese. Penso ai generatori consegnati, ai tre Tir e ai due camion di zanzariere con insetticida, materiali di laboratorio e farmaci antimalarici che abbiamo distribuito in sei province con alta mortalitá infantile e matea per malaria in questi ultimi mesi grazie al finanziamento dell’Unione europea. Penso al sistema di sorveglianza delle malattie a trasmissione sessuale, tra cui l’Aids, che è stato possibile costruire grazie a finanziamenti italiani.
Penso ai colleghi dell’Oms, medici e tecnici, che lavorano senza risparmiare energie nelle 18 province del paese ed al loro impegno costante per aiutare i direttori sanitari provinciali a capire le prioritá di gestione, a elaborare piani d’azione, a eseguire e valutare le attivitá.
Quando al mattino corro nella ‘marginal’ di Luanda, penso a come potrei migliorare le nostre azioni sul territorio e creare migliori opportunitá di politica sanitaria per i piú vulnerabili con le poche risorse a disposizione. Quando dormo, penso a come meglio appoggiare le attivitá dei nostri colleghi del ministero della sanità angolano. A come pappoggiare il vice-ministro, generoso e convinto della sanità di base, ad accelerare le strategie integrate per aumentare l’accesso ai servizi sanitari, attraverso la sua influenza. Spero che possa continuare in questa lotta quotidiana e generosa a favore della sua gente troppo martoriata dalla miseria e dalle malattie. Penso a come potremmo accelerare gli sforzi, aggirare le lentezze, gestire le difficoltá di comprensione e le paure nell’esecuzone delle strategie.
Penso a Manuel Antonio, sei mesi, diagnosi di malaria grave che questa volta è riuscito a scamparla. Ma ci riuscirà anche nelle altre due volte che prenderà la malaria? Già, perché ogni bambino in Angola, si prende la malaria in media tre volte all’anno…
Angelina mi guarda e sorride. Si sente meglio oggi. Ha lottato per il suo bambino, con disperazione e dignità. E ce l’ha fatta. Manuel Antonio è sfuggito al destino impietoso che ogni anno non risparmia migliaia di bambini come lui. La sua mamma che ci ha creduto, i medici e gli infermieri che l’hanno curato, chi l’ha accompagnata nella lunga strada che separava il suo villaggio dall’ospedale, i colleghi del ministero della sanità angolano, il mio amico e compadre vice- ministro ed io, questa volta ce l’abbiamo fatta. Tutti i nostri sforzi ne valevano la pena: Manuel Antonio è salvo.
Guardandomi allo specchio, credo di essere invecchiato 8 anni in questi 4 anni, ma credo di poter dire che ce l’ho messa tutta. Ora mi aspetta un nuovo paese e una nuova avventura umana.

Pier Paolo Balladelli




NICARAGUA Ventiquattrore nella discarica

El Pantanal e Acahualinca sono quartieri che circondano «la Chureca» nelle vicinanze del lago di Managua. «La Chureca» è una parola che non compare nel dizionario, ma è un’auto-definizione creata dalla gente che abita qui. Si tratta di una discarica di oltre 47 metri di profondità che esiste dagli anni Cinquanta, ovviamente senza alcun tipo di controllo.

Un bambino che non avrà neppure 14 anni affonda le mani in una montagna di spazzatura: è vestito con dei pantaloni marroni, che forse una volta erano bianchi, una maglietta grigia e un cappellino rosso molto sporco che probabilmente ha trovato tra la spazzatura. È uno dei tanti bambini-lavoratori che incontriamo durante la nostra visita alla discarica. Porta a tracolla un sacco grande quasi quanto lui, dove mette tutte le cose che trova (bottiglie di vetro o plastica; pezzi di ferro, legno e materiali riciclabili in genere) e che proverà poi a vendere per poter – almeno quel giorno – mangiare qualcosa. Continuiamo ad addentrarci nella Chureca e l’odore è sempre più nauseabondo: un misto di esalazioni di animali morti, spazzatura e prodotti chimici che arrivano dal contaminatissimo lago di Managua, che si trova a pochi metri dalla Chureca.
Qui arrivano ogni giorno più di 1.400 tonnellate di spazzatura e con esse la speranza di mangiare per più di 100 famiglie. Per tutte loro la discarica rappresenta l’unico mezzo di sopravvivenza. Queste persone lavorano con ritmi estenuanti: per tutta la notte e altri fin dal mattino presto, frugano tra i rifiuti cercando qualcosa con un minimo di valore, circondati da animali morti, cani randagi, avvoltorni, mucche e cavalli che pascolano sul posto.
Nelle vicinanze del lago di Managua, al Nord della capitale, abbiamo incontrato Eddy Perez, che in passato lavorava raccogliendo spazzatura, e oggi è un educatore di strada che lavora da anni con le popolazioni dei quartieri, che circondano e sopravvivono con la Chureca.
«La Chureca – ci spiega Eddy – è la principale discarica della capitale, che produce, secondo le stime ufficiali, un totale giornaliero di 1.400 tonnellate di spazzatura, ma noi crediamo che siano molte di più. La sua estensione è di 64 ettari e al suo interno lavorano 1.300 persone, di cui più della metà sono minori di 18 anni. Questa è una parte della popolazione urbana che si è vista obbligata a vivere qui spinta dalla difficile situazione economica. La Chureca permette loro di mangiare: è l’unica strada che la gente può percorrere per sopravvivere. Nella Chureca vivono 133 famiglie in baracche del tutto inadeguate, senza servizi igienici, né acqua potabile né elettricità, costruite con materiali di recupero, a loro volta scartati da altre persone, che li ritenevano inservibili. La gente qui alla Chureca vende magari un chilogrammo di alluminio, rame, vetro, carta o plastica e risolve in questo modo le necessità basiche di un giorno per loro e i loro figli. Sono persone che non sanno misurare il domani, perché non hanno la certezza di arrivarvi. Questa realtà non glielo permette, non consente loro di avere nessun progetto per il futuro».
Aldilà dei materiali che si possono vendere per il riciclaggio i churequeros raccolgono anche scarti di cibo come ossa di maiali, scarti di pesce e verdura marcia che arrivano dal mercato orientale, il mercato più grande di Managua. Con questi scarti cucinano e mangiano famiglie intere, molte volte anche sul posto, con conseguenze per la salute facilmente immaginabili. Purtroppo, la metà di questi lavoratori sono bambini a cui non viene riconosciuto nessun diritto, la cui vita non conosce scuola, né giochi, e il cui futuro è gravemente compromesso.
Sono stati fatti molti progetti per far uscire dalla povertà questa parte di popolazione, ma la spazzatura rimane la loro unica certezza. Nel frattempo, la Chureca continua a rappresentare una contraddizione umana per chiunque si guardi attorno: da un lato trova la bellezza del tropico e l’esuberanza della natura, dall’altro indifferenza, miseria e fame.
Josè Carlos Bonino

Josè Carlos Bonino




NICARAGUA Mondi locali ed ecosistemi a rischio

Un sacco di riso transgenico proveniente dagli Usa costa
meno di un sacco di riso naturale prodotto in Nicaragua.
È sempre più incerto il futuro di indigeni e contadini di fronte all’avanzata dell’Alca, del Piano Puebla-Panamà, del Corridoio biologico mesoamericano.
A tutto ciò si aggiungono le zone franche e le fabbriche
di assemblaggio (maquilas), che certamente non aiutano lo sviluppo locale.

Managua. L’America Centrale – come scriveva Pablo Neruda – è la cintura del continente americano e al centro troviamo il Nicaragua. A Managua, la capitale, abbiamo incontrato esponenti della società civile impegnati nella difesa della sovranità alimentare e di un modello di sviluppo economico congruente con i bisogni della maggioranza dei nicaraguensi.
Il settore agricolo e l’allevamento hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo da protagonisti nello sviluppo economico e sociale del piccolo paese. L’agricoltura è da sempre la componente più importante dell’economia nicaraguense ma, negli anni, è stata segnata profondamente dalla travagliata storia del Nicaragua. Dopo i 50 anni di dittatura somozista (finiti nel 1979 con la rivoluzione sandinista), nel 1990 l’agricoltura ha cominciato a subire le conseguenze dell’applicazione del modello neoliberale. Da una parte, infatti, i governi subentrati negli anni Novanta non hanno fatto altro che promuovere questa tendenza economica e dall’altra le riforme strutturali imposte al paese hanno aggravato la già difficile situazione della classe contadina.
Ne parliamo con José Adan Rivera Castillo, vicepresidente della Atc-Unapa (Associazione dei lavoratori della campagna), l’associazione più rappresentativa degli agricoltori nicaraguensi.
«La nostra organizzazione – ci spiega – lavora con due blocchi di persone: lavoratori salariati raggruppati in 131 sindacati e piccoli produttori raccolti in 345 cornoperative. L’Atc ha iniziato a lavorare nel 1977 prima del trionfo della Rivoluzione del Fronte sandinista di liberazione nazionale, avvenuto nel 1979, quando cadde la dittatura di Anastacio Somoza. Dopo questa data ebbe inizio un processo in cui per la famiglia rurale contadina si aprì uno spazio nuovo: la riforma agraria, dove si distribuì la terra a coloro che la lavoravano, cioè ai contadini. Questo grande cambiamento in effetti colpì molto i proprietari terrieri e nel 1984 gli Stati Uniti iniziarono la guerra contro il Nicaragua.
È stata questa guerra che fece rimanere incompiuta la riforma agraria, perché essa non consisteva soltanto nel consegnare la terra ai contadini ma anche nell’avere accesso alla formazione, alla tecnologia, all’educazione, alle reti commerciali: insomma integrazione verticale e orizzontale nel sistema produttivo contadino. Non ci fu il tempo di portare a compimento la riforma agraria perché la guerra, l’invasione, i porti minati e le migliaia di morti non lo permisero. Seguì una pressione estea che finì nel 1990 con il disarmo totale di tutte le parti in conflitto: la controrivoluzione da una parte e il popolo e i contadini dall’altra. Poi iniziarono i governi neoliberali. Questi stabilirono uno schema giuridico agrario a favore della controriforma agraria, che mirava a spogliare i contadini delle loro terre per beneficiare i grandi proprietari terrieri, che erano fuggiti 25 anni prima e che volevano la restaurazione delle loro proprietà. Tutto ciò fece sì che gli ultimi tre governi – come quello di Doña Violeta Barrios de Chamorro del 1990, quello di Aoldo Aleman del 1996 e l’attuale governo di Enrique Bolaños del 2000 – decostruirono quelli che erano gli strumenti di appoggio alla piccola produzione, cominciando dalla Banca nazionale di sviluppo (che si occupava del finanziamento ai piccoli produttori), che privatizzarono. In seguito crearono una serie di leggi che riguardavano la proprietà per obbligare i contadini ad abbandonare la loro terra e non dettero nessun tipo di appoggio alle associazioni di contadini organizzati: fu un piano strutturato per spogliarci delle nostre terre. Perché noi, come contadini, ci troviamo in totale svantaggio e per uscire da questa situazione stiamo stimolando l’associazionismo; in tal senso abbiamo approvato una nuova legge generale delle cornoperative che è il modello dell’organizzazione a cui vogliamo dare impulso. L’obiettivo è poter sviluppare l’attitudine imprenditoriale presso i piccoli produttori e contadini del Nicaragua, che rappresentano più dell’80% della produzione alimentare nazionale e hanno un grande potenziale di sviluppo. Non si tratta di dire: “il Cafta e l’Alca sono cattivi”; “quella è una politica colonialista”».
«Noi dobbiamo cercare una risposta alternativa. Io credo che ci siano due modelli in conflitto: un modello esclusivo, concentratore, punitivo e un altro partecipativo, autogestionario, umanista e di solidarietà. Sono due sistemi contrapposti, è una lotta ideologica permanente in tutti i campi. Stiamo creando strategie comuni con il movimento sociale e con le università perché difendano le posizioni contadine. In altre parole; stiamo ricostruendo le alleanze sociali per affrontare questo fenomeno, quest’offensiva neoliberale costituita dall’Alca, dal Plan Puebla-Panamà, dal Corridoio biologico mesoamericano».

GOVERNI SUCCUBI, LAVORATORI IN GINOCCHIO
La classe dirigente centroamericana al potere (fatta eccezione per la Costa Rica, unico paese dell’America Centrale ad aver resistito all’Alca) non ha una strategia alternativa, un progetto autoctono di sviluppo, solamente ripete gli argomenti della controparte statunitense che chiaramente ha un progetto ben preciso e sta tentando in tutti i modi di ottenere il via libera. La classe contadina ha un suo progetto di sviluppo ma è molto difficile da attuare visto che le negoziazioni sono state fatte in segreto come ci spiega Hermogenes Rodriguez della giunta direttiva della Fenacornop (Federazione nazionale di cornoperative agricole, di allevamento e agroindustriali), la federazione di cornoperative più importante del Nicaragua formata da 620 cornoperative (di cui 371 si occuppano di produzione agricola e di allevamento e 249 cornoperative prestano servizi vari).
«Noi che abbiamo seguito queste negoziazioni, all’inizio molto segrete, le abbiamo trovate molto compartimentate, per questo abbiamo dovuto impegnarci molto per conoscere i testi originali. Prima è stato necessario conoscerli a livello di dirigenza della Federazione e poi trasmetterli alle nostre basi sociali. Noi crediamo che il Nicaragua e, perché non dirlo, l’America Centrale si siano avventurati in una negoziazione di un trattato complesso e pericoloso, come l’Alca, sotto la pressione dell’ondata di globalizzazione mondiale. Quindi, si tratta di una imposizione che il paese sta soffrendo e che non ha avuto una seria analisi da parte del governo. Queste trattative per la loro natura sono state condotte da governo a governo, in modo molto isolato, tagliando fuori il settore sociale e produttivo. Solo molto tempo dopo, i politici hanno inscenato un più ampio coinvolgimento per giustificarsi e poter dire che la società civile e i settori coinvolti in questo trattato hanno dato il loro parere».

PRODUTTORI LOCALI SCHIACCIATI DAL MERCATO
Il trattato dell’Alca e più precisamente il Cafta è indispensabile per gli Stati Uniti, innanzitutto perché consente loro di piazzare su un mercato esterno (quello centroamericano) le loro eccedenze agricole e la produzione industriale che non è competitiva all’interno della loro economia. In secondo luogo, l’Alca è indispensabile per incrementare il processo di remissione dall’estero di utilità, pagamenti per royalties e capitali, processo che sostiene l’economia statunitense. Infine, gli Usa hanno bisogno di questo megamercato latinoamericano per facilitare le sue transnazionali nell’appropriazione di risorse strategiche indispensabili per aumentare la loro competitività. Di fronte a questa chiara strategia politico-economica, il governo nicaraguense ha ceduto incondizionatamente e ora pretende di far diventare il Nicaragua un paese ancora più povero e analfabeta. A tal proposito abbiamo incontrato Alvaro Fiallos Oyanguren, presidente della Unag (Unione nazionale agricoltori e allevatori), organizzazione contadina che con i suoi 72.634 membri è il consorzio più importante dei produttori e allevatori medi del Nicaragua.
«Il governo del Nicaragua ha elaborato la teoria che questo paese debba svilupparsi in base al settore dei servizi, come il turismo e le zone franche, convertendo il piccolo produttore – considerato non efficiente – in operaio di maquila e addetto del turismo.
L’attuale situazione di crisi ha fatto aumentare l’analfabetismo, che nella campagna raggiunge ormai il 60%, e, in generale, ha peggiorato le condizioni di vita della gente. Infatti la popolazione in stato di povertà si aggira intorno al 70%, di cui un 20-25% si trova in una situazione di estrema povertà. Questo è, a mio parere, il prodotto dell’applicazione delle riforme strutturali, della politica del Fondo monetario internazionale e della preferenza espressa da questo governo per le politiche di investimento estero, a totale scapito dei produttori nazionali.
Con la ratifica del Trattato di libero commercio (Alca) l’effetto sarà completamente negativo: non c’è nessuna capacità reale di competere – soprattutto nel settore rurale – con i produttori degli Stati Uniti che hanno tutte le condizioni materiali ed economiche a loro favore, come la modeizzazione tecnologica e i grandi sussidi da parte dello Stato. Ovviamente tutto ciò altera le relazioni commerciali. Arrivano in Nicaragua prodotti statunitensi sussidiati a competere con i nostri prodotti che non hanno neanche il finanziamento di base, con la paradossale conseguenza che un sacco di riso transgenico Usa costa meno di un sacco di riso naturale coltivato in Nicaragua. Ne deduciamo che la competitività che dovrebbe stabilirsi in un trattato tra eguali non esiste».

BIODIVERSITÀ A RISCHIO
Accanto al Cafta c’è il Ppp (Piano Puebla-Panama) orientato ad offrire l’infrastruttura al megamercato americano. Il suo disegno è stato realizzato dai tecnocrati della Banca mondiale e del Bid (Banca interamericana di sviluppo) e nella sua formulazione comprende uno spazio che si estenda dallo Stato di Puebla nel sudest del Messico, attraverso altri 8 stati messicani, per arrivare a comprendere tutti i paesi Centroamericani fino a Panamà. Il finanziamento complessivo si aggira intorno ai 4.4 mila milioni di dollari, di cui il 96.3% è assegnato alla costruzione di strade, il restante 3.7% è per lo sviluppo sostenibile e la protezione del Cbm (Corridoio biologico mesoamericano) che si estende dal Chiapas messicano fino al Panamà.
Il Ppp prevede la costruzione di reti di autostrade, oleodotti e gasdotti, porti, aeroporti, dighe e un sistema di interconnessione energetica, oltre all’impiantazione di zone franche in tutta quest’area geografica. Tutto questo in una delle aree più incontaminate del pianeta, coperta ancora per gran parte dalla foresta pluviale e che, a livello mondiale, è seconda, per biodiversità, solo all’Amazzonia. Infatti quest’area, pur coprendo appena lo 0,5% della superficie totale del pianeta, alberga il 7% di tutta la biodiversità conosciuta nel mondo. Appare dunque evidente come uno degli obiettivi principali degli Usa sia proprio estrarre la riserva biogenetica da questa area con l’aiuto del Cbm, con lo strumento giuridico del brevetto delle specie biogenetiche e con l’ausilio dell’infrastruttura prevista dal Ppp. A questo quadro allarmante va aggiunta la risorsa-acqua che in questo momento, con la rivoluzione biotecnologica, è diventata un patrimonio strategico.

CONTRO GLI INDIGENI, CONTRO I CONTADINI
Un altro aspetto importante della strategia occulta del Ppp consiste nel costruire un sistema di 30 dighe lungo l’asse Puebla-Panamà e in questo modo interrompere le reti di sviluppo autoctone e smembrare le popolazioni delle comunità indigene e delle popolazioni contadine, che per il loro stretto rapporto di interdipendenza con la natura sono i più indifesi di fronte a questo tipo di cambiamenti. In un secondo momento il Plan Puebla-Panamá intende consegnare titoli di proprietà a queste stesse popolazioni, in cui l’uso della terra è invece ora comunitario, per poter smembrae definitivamente l’economia collettiva.
Queste popolazioni stanno resistendo al Ppp, perché coscienti che esso verrà a sconvolgere il fragile equilibrio del loro sistema ecologico ed eco-compatibile. Di questo ci parla José Adan Rivera dell’Atc.
«Noi siamo stati tutto questo tempo in resistenza di fronte a questa situazione che viene a coronarsi con macro-programmi come il Ppp perché si sono rivelati illusori e dannosi. Quest’ultimo infatti si è tradotto solamente nell’articolazione della strada Panamericana , ma, al di fuori di questa, tutte le strade intee verso le comunità sono distrutte, non c’è nessun tipo di comunicazione intea, a conferma che la infrastruttura viaria del Ppp è stata concepita per favorire il passaggio di merce del Nord verso il Sud e per saccheggiare risorse dal Sud verso gli Stati Uniti.
Anche nel settore energetico il quadro appare contraddittorio. Nel campo dell’energia, infatti, ci sono grandi interconnessioni elettriche ma ancora il 40% delle comunità locali non hanno l’elettricità. In base a tutte queste considerazioni, possiamo davvero affermare che il Nicaragua sia stato convertito in una discarica a cielo aperto per quanto riguarda l’ambiente, e in una riserva di mano d’opera a basso costo per quanto riguarda l’aspetto sociale. Non è infatti un caso se tutta la strada Panamericana è stata disseminata di zone franche che, oltre all’elevato profitto delle multinazionali, producono lo smembramento culturale della gioventù contadina con false illusioni di guadagno.
Con la diminuzione numerica degli occupati nel settore agricolo, i Paesi centroamericani, vincolati dai nuovi trattati neoliberali, diventeranno ancor più dipendenti dalle importazioni alimentari estere, con gravi ripercussioni sulle condizioni di vita della popolazione».

A VOI L’INQUINAMENTO, A NOI IL PROFITTO
In questa direzione si sta muovendo l’attuale governo nicaraguense che ha deciso di dare forte impulso al cosiddetto «Piano nazionale di sviluppo» (Plan nacional de desarrollo o Pnd). Scopo principale di tale iniziativa è quello di creare dei clusters, ovvero una serie di concentramenti di attività economiche composte da infrastrutture come fabbriche, reti di comunicazione, forza lavoro ecc.
Sono sei i clusters previsti: energia, turismo, prodotti tessili, prodotti caseari, prodotti forestali e agrumi. Dietro alla creazione di questi clusters c’è un lungo elenco di trasnazionali, come Enron, Chiquita Brands, Del Monte Foods, Nestlé, Philip Morris, Danone, Parmalat ecc. Queste transnazionali si doteranno di concimi, macchinari, consulenza tecnica di alto livello ecc. provenienti dall’estero e all’estero toeranno anche i guadagni (come nel caso della maquilas o zona franca) e pertanto non lasceranno al Nicaragua altro che un salario da fame.
Infatti, questo tipo di economia in America Latina venne chiamata «economia rondine», con allusione al carattere volatile di tali investimenti. Tutto questo senza parlare dell’inquinamento che lasceranno dietro di sé queste industrie, a causa dell’inesistenza di norme a difesa dell’ambiente.
Il Nicaragua è un paese povero e non sarà certo grazie a questo vecchio modello di agricoltura d’esportazione che uscirà dalla povertà. Invece, a nostro parere, una possibile via d’uscita sostenibile si trova nel modello alternativo proposto dalle organizzazioni contadine di piccoli e medi produttori e allevatori (che in Nicaragua rappresentano il 99%), dalle cornoperative e dalla gente che lavora nel settore terziario. Questo nella convinzione che l’economia popolare abbia la capacità di risolvere i problemi laddove ha fallito il modello agricolo d’esportazione, come ci racconta Orlando Nuñez Soto, direttore del Cipres (Centro di ricerca e promozione dello sviluppo rurale e sociale), un centro di ricerca che appoggia, attraverso 30 progetti specifici, lo sviluppo rurale di 150 comunità contadine, 5mila famiglie in tutto il Nicaragua.
«La nostra proposta è di sussidiare le famiglie contadine perché producano latte, uova, carne, frutta, verdure e cereali, e in questo modo compensino con la produzione alimentare i problemi che l’economia commerciale crea loro.
La nostra proposta di produzione alimentare è integrale e si irradia all’interno delle famiglie, all’interno delle cornoperative, all’interno delle comunità. Questo permette alla comunità di amministrare meglio le relazioni con la città, tanto a livello commerciale quanto a livello politico: è questa la nostra strategia. Il problema è che al Nicaragua è stato chiesto dai Paesi ricchi di produrre beni commerciali per l’esportazione come legno, caucciù, oro, cotone e caffè a seconda delle necessità delle metropoli europee e nordamericane. Parallelamente i contadini hanno prodotto per mangiare perché la produzione commerciale non ha mai lasciato eccedenze al Nicaragua a causa della vendita sottoprezzo di tali beni d’esportazione. In questo modo il Nicaragua si trova al centro di un circolo vizioso: più produce più si decapitalizza, più esporta più le sue terre diventano sterili, più sfrutta le risorse ambientali e più perde la sua biodiversità e la sua gente emigra. Oggi, con il “Piano nazionale di sviluppo”, assistiamo a un’offensiva ancora maggiore: non solo ci richiedono i beni commerciali per l’esportazione, come nel passato, ma addirittura ci viene proposto che il Nicaragua si trasformi in mercato per i paesi industrializzati. È noto infatti che l’Europa e il Nord America producano e vendano alimenti e abbiano problemi per “piazzare” le loro eccedenze: pertanto hanno bisogno dell’America Latina, e in questo caso del Nicaragua, come mercato di consumo dei loro prodotti. Si tratta di una lotta in corso tra noi che vogliamo continuare a produrre alimenti per conservare la nostra sovranità alimentare e i paesi ricchi e le imprese transnazionali che vogliono il contrario. Praticamente è in atto il tentativo di smantellamento dell’agricoltura centroamericana che, se riuscisse, costringerebbe il Nicaragua a vendere, per poter sopravvivere, le spiagge, le sorgenti d’acqua e gli ultimi boschi che restano».

BOX 1
Questo viaggio…

In questo viaggio attraverso l’America Centrale abbiamo raccolto molte testimonianze. Abbiamo voluto seguire una linea immaginaria che transita per i quattro paesi, partendo dal Nicaragua, passando per l’Honduras e El Salvador ed infine arrivando in Guatemala. Questa linea tocca i punti deboli di ognuna di queste piccole realtà, diverse tra loro, ma con problematiche che si estendono all’intera area centroamericana. Per il Nicaragua, ad esempio, abbiamo intervistato esponenti e leader contadini alla luce della crisi della sovranità alimentare, che espone i contadini al rischio di sparizione e fa sì che il problema della povertà acquisisca dimensioni endemiche e probabilmente irreversibili. Dal Nicaragua abbiamo viaggiato verso nord, verso Tegucigalpa, capitale dell’Honduras, dove abbiamo incontrato dirigenti sindacali, donne leader contadine e diversi esponenti dei Centri di difesa dei diritti umani. Abbiamo voluto investigare sulla situazione delle zone franche o «maquillas» (che in castigliano antico significava: «quegli avanzi» che si lasciano al proprietario del mulino per l’utilizzo dei suoi macchinari) e più specificamente la situazione dei diritti delle donne che vengono pagate intorno ai 25 centesimi di euro all’ora e costituiscono la quasi totalità della mano d’opera all’interno delle zone franche.
Andando ancora al nord, a 5 ore di strada dalle montagne di Tegucigalpa, troviamo El Salvador, probabilmente il paese più piccolo dell’America Latina, chiamato non per altro «il pollice d’America». A San Salvador – la capitale – abbiamo avuto degli incontri con economisti rappresentanti di organizzazioni sociali e contadine e con i membri di un Centro di difesa dei diritti umani. Abbiamo cercato di capire di più sul perché oltre un quarto della popolazione salvadoreña è residente negli Stati Uniti: sarà forse perché più del 90 per cento dei suoi fiumi sono inquinati, la campagna senza acqua si sta svuotando, le città crescono a ritmi impressionanti e con queste le enormi bidonvilles che la circondano.
Infine, siamo arrivati in Guatemala, paese per più della metà indigeno. A Città del Guatemala abbiamo intervistato il procuratore dei diritti umani e alcune donne indigene che sono impegnate nella «ricostruzione della memoria storica» dopo il conflitto armato che finì solo nel 1996 e che per tre decenni pesò sulle popolazioni indigene del Guatemala con più di 250.000 vittime. Queste donne lottano per la difesa dei diritti umani, per il compimento degli accordi di pace, per la partecipazione femminile alla vita politica e civile e per il risarcimento delle vittime della guerra.
L’America Centrale per tanti aspetti è la parte più debole dell’America Latina e non reggerà di certo alle conseguenze che deriveranno dai trattati come il Cafta, il Ppp e il Cbm nella attuale situazione in cui si trovano. Proveremo a spiegare il perché lasciando parlare i protagonisti delle società civili centroamericane.

BOX 2
Glossario


Alca: «Area di Libero Commercio delle Americhe». Trattato commerciale firmato al summit di Miami nel 1994 dai 34 capi di stato del continente americano. Prevedeva una tappa iniziale di «preparazione», fino al 1998 con l’intenzione di concludere l’accordo nel 2005. In termini di mercato coinvolge una popolazione di 780 milioni di abitanti, un terzo del prodotto lordo globale e il 20% del commercio mondiale. L’Alca è promosso dagli Stati Uniti, che pretendono di utilizzarlo come strategia per riacquistare la sua egemonia perduta in materia di competitività nei confronti dell’Europa e dei paesi asiatici. Attualmente molti paesi dell’America Latina hanno opposto resistenza, tra essi principalmente il Brasile, il Venezuela e l’Argentina.

Ppp: «Piano Puebla-Panamà». Vi partecipano i 9 stati più poveri del sud del Messico, insieme ai paesi centroamericani e a Panamà. È un macro programma centrato nella costruzione di infrastrutture (porti, autostrade, reti ferroviarie, corridoi energetici, ecc.) lungo l’America Centrale, che permetterà in futuro di estrae le risorse e trasportare merce verso l’America del Sud.

Cafta: «Area di Libero Commercio per l’America Centrale». Sessione dell’Alca circoscritta ai paesi dell’America Centrale.

Cbm: «Corridoio Biologico Mesoamericano». Ne fanno parte Messico, Belize, Guatemala, El Salvador, Honduras, Nicaragua, Costa Rica e Panamà. È un sistema di cornordinamento territoriale di aree protette. Proposta parallela al Ppp e al Cafta, viene cornordinata dai ministri dell’ambiente dei paesi dalla Mesoamerica all’interno della Commissione centroamericana dell’ambiente e lo sviluppo (Ccad).


Josè Carlos Bonino




Appunti (nostalgici) di un giovane missionario

DOVE L’UTOPIA MUOVE LE MONTAGNE

Tre anni trascorsi tra gli indios Nasa del Cauca.
Viaggio di ricordo tra tanti ricordi all’orizzonte un futuro diverso

Il fuoristrada bianco con il quale ho condiviso tanti chilometri durante questi ultimi due anni e mezzo di vita missionaria scende, quasi controvoglia, per la strada sterrata che da Toribío conduce alla pianura della valle del Cauca, destinazione l’aeroporto di Cali. Sembra quasi che la macchina rifletta i sentimenti di chi, in questi mesi, a lei si è affidato per potersi spostare fra le varie comunità, come se avesse un’anima anche lei, povero ammasso di ferro e plastica, e volesse manifestare il dispiacere dell’addio.
Non guido – il piccolo incidente al ginocchio che ha fatto anticipare il mio rientro in patria non me lo permette – e questo fa sì che possa guardare con calma dal finestrino, ripercorrere tratti di cammino conosciuti, vedere per l’ultima volta luoghi familiari e visi che riconosco e che saluto con un cenno del capo. La tristezza sta nel fatto che da oggi in avanti di questi posti e di questa gente potrò solo parlare ad altri, senza aver più un giornaliero contatto diretto con loro. Non mi sono trattenuto molto in questi luoghi, poco meno di tre anni.
Non c’è momento più denso e adatto dell’addio, credo, per iniziare una piccola relazione di un’esperienza di missione, come se in un’ultima fotografia si potesse rappresentare la totalità delle immagini che hanno riempito la mia mente in tutti questi giorni. È come rigirarsi fra le mani un’istantanea che rappresenta una comunità, con la sua organizzazione, i suoi giovani, i suoi anziani e tutte le persone che le strade polverose del Cauca mi hanno fatto incontrare.
Con questa comunità, con queste persone, cammina da più di vent’anni l’equipo misionero, un gruppo formato da missionari della Consolata, religiose e laici, che condividono vita e lavoro al servizio di questa gente (box).

CONTRATTO A TERMINE
È in questo contesto dove sono atterrato, nel settembre del 2002, con in tasca una specie di contratto a termine con la missione vissuta, per così dire, sul campo. In tasca qualche sogno, molte paure e tanta, tanta voglia di conoscere.
Il primo passo che ho dovuto fare è stato quello di rendermi conto che, sebbene fossi stato destinato alla Colombia per un tempo relativamente breve, non avrei potuto svolgere il mio lavoro in maniera efficiente senza impegnarmi totalmente in questa nuova realtà. È stato quindi necessario cercare di dimenticare, per quanto possibile, il futuro ed attenermi alle circostanze presenti, lasciandomi coinvolgere dalla situazione come se avessi dovuto lavorare per sempre in quel contesto. Come si può facilmente immaginare non è stata un’operazione facile, ma in questo sono stato aiutato enormemente dall’equipo misionero e dallo stile di missione che, in questi anni, esso ha cercato di portare avanti.
Il grande lavoro di riflessione e di progettazione che il gruppo aveva condotto durante la sua storia era lì a mia disposizione, un immenso materiale che ben presto ha riempito la mia stanza, pronto per essere letto, assimilato e discusso nelle periodiche riunioni che l’equipo organizza con lo scopo di valutare ed orientare il lavoro nel modo più omogeneo possibile.
La chiesa latinoamericana, nei suoi documenti di Medellín, Puebla e Santo Domingo ha sempre spinto il lavoro missionario verso un’opera di evangelizzazione che fosse in sintonia con le culture alle quali era diretta, liberatrice e condivisa dalle varie forze ecclesiali che la animano. Queste tre dimensioni sono state accolte dalla nostra presenza nel Cauca come una sfida da portare avanti con coerenza nel suo progetto di lavoro.
La dimensione del lavoro in équipe aiuta a comprendere meglio una realtà culturalmente differente permettendo, a coloro che si uniscono in un secondo tempo, di approfittare di un cammino già fatto, di evitare errori già commessi e di dar valore ai contributi che vengono dai membri stessi della comunità in modo che il messaggio del vangelo trovi nel contatto con un’altra cultura tutta la sua forza liberatrice. Chiaramente tutto ciò mette in crisi, almeno all’inizio, il desiderio di “fare”, di buttarsi immediatamente nella mischia e richiede una buona dose d’ascolto e di condivisione. Ciò che uno ha appreso negli anni di formazione o di precedente esperienza pastorale e che forma la sintesi personale, il sogno della missione di ciascuno, deve entrare in contatto con una realtà specifica, che richiede preparazione, adattamento e talvolta sacrificio da parte del singolo operatore pastorale.

L’INCONTRO CON LA CULTURA NASA
La prima grande sfida che ho dovuto affrontare è stata quella relativa al dialogo fra culture e all’inculturazione del messaggio cristiano. L’aver sempre vissuto, come nel mio caso, in un contesto occidentale (Italia, Inghilterra e Stati Uniti) ha significato un cambio di rotta e un’apertura ad una cultura differente, il passaggio da un mondo tecnicizzato ad un universo tutto sommato ancora mitico, seppur messo in crisi dal rapido avanzare della modeità. Il modo di ragionare “circolare”, dove non sempre le conclusioni sono il frutto di un sillogismo, la visione collettivista della vita e la poca importanza data alla persona, il continuo appellarsi a forze spirituali e naturali come veri responsabili dei vari avvenimenti che segnano il corso dell’esistenza e che cancella quasi completamente la responsabilità personale, sono solo alcuni esempi della difficoltà di entrare in un mondo diverso, senza lasciarsi condizionare dai pregiudizi frutto della nostra formazione.
Uno dei grandi aiuti che ho ricevuto è stato il poter seguire la formazione dei delegados de la palabra, i catechisti locali. È a loro che devo il merito di essermi potuto inserire gradualmente in un mondo che non conoscevo. Ciò che avevo appreso negli anni precedenti e che potevo offrire nel campo della catechesi e della pastorale veniva restituito generosamente sotto forma di indicazioni su come muovermi meglio all’interno della cultura nasa. Me lo ricordava prima della mia partenza José Gentil, il delegato della comunità del Berlín, poche case e una scuola aggrappate sul dorso della montagna, “passare del tempo con noi è la miglior maniera per poter penetrare nel nostro modo di vivere senza rimanere per sempre uno straniero”. In verità ci si rende conto che stranieri si rimarrà per sempre, che non si possono cancellare di colpo forme mentali che ci appartengono dal giorno della nostra nascita, ma si possono ridurre le distanze e porre le basi per un dialogo che sia confronto e non scontro di culture.
La stessa cosa si può dire parlando del dialogo interreligioso. Anche dopo 500 e più anni di evangelizzazione l’indio nasa vive la sua spiritualità in maniera propria, dove elementi di cristianesimo si fondono con l’eredità religiosa e culturale degli antenati. A un gruppo relativamente ristretto di persone che oggi cercano di opporre i valori della Ley de origen, e della visione del cosmo nasa a quelli trapiantati del cristianesimo, corrisponde un numero ben più alto di persone che vivono in modo spontaneo e naturale queste due realtà. E questo è ciò che colpisce maggiormente e pone più difficoltà all’operatore pastorale che si trova a lavorare in questo contesto. È qui dove ci si rende conto che tre anni di esperienza nel mondo indigeno sono troppo pochi per poter fare una sintesi sufficientemente accurata dell’esperienza stessa. La pastorale sacramentale, quella della salute, nonché l’istruzione religiosa nelle scuole devono fare i conti con questa realtà quotidianamente. Che risposte può dare il povero missionario alle prime armi quando una famiglia ti chiede un battesimo per i loro figli perché invitata a far ciò dal medico tradizionale (sciamano), cattolico egli stesso, e che ha visto nella vita della famiglia un influsso negativo di qualche spirito e nel battesimo la forza della benedizione di Dio che può ristabilire l’armonia che si era perduta? O che dire alla famiglia di una piccola comunità della montagna che ti chiama, come mi è successo, un venerdì santo, perché visiti e benedica una ragazza inferma, 24 anni e madre di tre figli, e che rifiuta il trasferimento della stessa all’ospedale in quanto il medico tradizionale aveva diagnosticato la caduta della ragazza sotto l’influsso negativo dell’arcobaleno?
Il delegado de la palabra, catechista preparato e costantemente formato sulla parola di Dio e sull’essenza del messaggio cristiano, ma nello stesso tempo persona che vive inserito nella realtà culturale del suo popolo, è l’unica persona che può dare una risposta, che può aiutarti a far luce su cose e atteggiamenti che a prima vista appaiono incomprensibili o che può orientare le persone della sua comunità a vedere un bene anche in elementi culturali estranei alla propria esperienza.

“LOS SEMILLEROS DE LA PAZ”
L’utopia della pace è il disincanto rappresentato da una situazione di conflitto armato che dura ormai da più di cinquant’anni. Ecco un altro grande spazio della mia missione nel Cauca colombiano. Ricordo quando, prima di partire mi imbattei in una delle nostre riviste in una foto di giovani italiani che partecipavano ad una delle varie attività estive di formazione missionaria. Tutti indossavano la maglietta con la scritta “Credo alla pace perché ho visto la guerra”. Non so in verità quanti di loro avessero toccato concretamente con mano la realtà della guerra, un po’ come il sottoscritto, cresciuto ascoltando i racconti di genitori e familiari che erano passati attraverso le crudezze della seconda guerra mondiale, ma mai prima d’ora tanto vicino ad un’esplosione o a un colpo di mitragliatore.
Cosa fare in questa situazione? Come trasformare l’utopia di una pace fondata su criteri di giustizia, nel mezzo di un conflitto duro e assurdo che coinvolge direttamente la gente della tua parrocchia? Una guerra come molte delle guerre che si stanno combattendo in questi giorni, per molti lati incomprensibile, dove, come ha scritto il filosofo e scrittore francese Beard-Henry Levy in un suo saggio sulla guerra, il male e il fine della storia, “all’orrore di morire si aggiunge l’orrore di morire senza una ragione”.
Anche in questo frangente è importante ascoltare, saper leggere i segni del tempo, cercare di capire le ragioni degli uni e degli altri, con in mano, come diceva Karl Barth il vangelo e il giornale, affinché la parola di Dio non si esaurisca in un irenico ma sterile messaggio, ma possa invece trasformarsi in parola di liberazione per i tanti che soffrono a causa del conflitto. Anche in questo contesto mi ha aiutato molto poter condividere con altri il mio lavoro, sostenersi vicendevolmente per difendersi dallo stress provocato dalle sparatorie, stabilire norme di azione pastorale che potessero essere il più possibile coerenti e uniformi. Ma aldilà dell’equipo misionero anche l’organizzazione della comunità, autorità tradizionali come il cabildo o entità come il “Progetto nasa” (l’associazione dei cabildos delle tre riserve indigene che formano il municipio di Toribío) sono elementi importanti ai quali far riferimento per poter affrontare i momenti di conflitto con più serenità.
La gente di queste zone ha assunto ufficialmente una posizione ben chiara rispetto al conflitto armato che ne insanguina la terra, una posizione che reclama a viva voce l’autonomia politica e territoriale in conformità con i diritti garantiti agli indios colombiani dalla Costituzione politica della repubblica colombiana del 1991. Detta opposizione alle ingerenze dello stato e della guerriglia (nel territorio di Toribío è presente un grosso contingente delle Farc, il più importante e numeroso gruppo guerrigliero del paese) è attuata in forma pacifica, come segno alternativo alla logica di violenza che attanaglia da decenni la Colombia. È la stessa linea nella quale si muove l’equipo misionero e in cui ho provato ad inserirmi, cercando nel mio piccolo di essere un segno di pace e di speranza. Girando per il paese o visitando le molte veredas sparse sui fianchi della montagna con l’occasione di celebrare un sacramento o di visitare una scuola si ha modo di avvicinare la gente, parlare con loro, soprattutto ascoltare e rendersi conto di come vive o subisce la realtà del conflitto. Facendo sentire la vicinanza non solo spirituale, ma anche fisica del missionario, si può con più autorità parlare ai giovani del rischio rappresentato dal cedere al richiamo dei gruppi armati o alle sirene del narcotraffico, che della guerra è il principale finanziatore. Si può predicare la giustizia sociale, a tutti i livelli, incominciando da quello familiare, sapendo che la pace in Colombia sarà possibile nel momento in cui crolleranno certe barriere sociali che marginalizzano troppe categorie di persone a beneficio di pochi gruppi economicamente più avvantaggiati.
Anche qui, il sogno di costruire un mondo di pace si scontra con la dura realtà di una situazione contingente che lascia poco spazio alla speranza. Fortunatamente è la gente stessa che ti insegna a non disperare, a non lasciarsi cogliere dal puro disincanto e a vivere anche di utopia. In questo senso a Toribìo è nato uno dei programmi più semplici e più belli di quelli ai quali ho potuto partecipare, Los Semilleros de la Paz (I seminatori della pace). Nato nel 1998 per iniziativa di un padre tanzaniano, padre Thomas Ishengoma, missionario della Consolata, oggi formatore nel suo paese, e di Marìa Esperanza, una volontaria laica originaria di Medellin, los Semilleros sono un gruppo di bambini del centro abitato e delle varie frazioni circostanti che, una volta al mese, si riuniscono in parrocchia per fare attività formativa di educazione alla pace. Sono loro, in fondo, il futuro e la speranza vera di questa terra che saprà crescere ulteriormente nei sentirneri della tolleranza e della convivenza pacifica nella misura in cui avrà un ricambio di leaders capaci di testimoniare e credere in questi valori.

SOLIDARIETÀ
Il fuoristrada bianco continua la sua discesa, siamo ormai giunti al termine della strada sterrata. L’asfalto che tra poco incontreremo porterà via più velocemente i ricordi, i profumi di questa terra magica, i suoi colori più vivi, i sapori di frutta, le emozioni forti che genera. Non sarà la terra promessa dove “scorrono latte e miele”, ma è comunque un mondo per me ricchissimo per quanto ha saputo offrirmi in tutti questi mesi, nelle cose forse banali che formano il quotidiano.
Sono passato davanti alla casa di Dany Gustavo, un bambino di 8 anni affetto da istiocitosi di Langerhans, una forma tumorale molto rara. Lo curano a Cali con sessioni massicce di chemioterapia per cercare di sanare il fegato e di dargli qualche speranza di vita.
La solidarietà è da sempre il centro dell’attività dell’equipo misionero, ma in questi ultimi anni si è voluto dare un enfasi del tutto speciale a questo aspetto, non solo come testimonianza personale del messaggio dell’amore evangelico, ma anche come formazione della comunità ad un valore che trascende uno degli elementi etici fondamentali della cultura nasa: la reciprocità, il fare qualcosa per gli altri aspettando qualcosa in cambio o come risposta a un qualcosa che si è ricevuto.
Il sogno è quello di veder cambiare per sempre situazioni che ci fanno soffrire soltanto al contemplarle, sogno che si blocca davanti ad una realtà che ci supera e che frustra i nostri desideri; davvero il regno dei cieli è qui presente, ma non ancora pienamente realizzato. Il disincanto, frutto della coscienza dei nostri limiti davanti alla complessità della realtà, solo ci spinge a sognare di più, a continuare ad offrire il nostro piccolo bicchiere per svuotare un oceano di dolore che sembra essere a prima vista inestinguibile.
A questo sogno tentano di rispondere varie iniziative che vogliono essere azioni concrete di solidarietà: il progetto di adozioni a distanza organizzato in collaborazione con l’associazione romana “Italia Solidale” che coinvolge ormai più di 1300 bambini e le loro famiglie di tutte le riserve indigene del Nord del Cauca, il progetto di assistenza ai carcerati indigeni e alle loro famiglie, orientato a dare un po’ di luce a quelle persone che sono finite in una prigione con accuse varie che possono andare dalla lotta armata, al narcotraffico, a episodi di delinquenza comune e che spesso vengono abbandonate dalle loro comunità e dai loro parenti. Anche il progetto di assistenza dei bambini disabili vuole essere una piccola risposta ad un problema grande della comunità. A questo riguardo si è formato un piccolo ambulatorio in Toribío, dove operano una fisioterapista e una logopedista. Aldilà di un aiuto specifico ai soggetti interessati e alle loro famiglie, l’ambulatorio offre anche la possibilità di coscientizzare la comunità sul fenomeno dell’handicap psico-fisico.

MAI SMETTERE DI ESPLORARE
Facendo una valutazione finale del mio operato, penso che quanto, in questi anni, ho saputo offrire in termini di disponibilità, aldilà delle mie limitazioni umane, è stato enormemente superato da quanto ho ricevuto, imparato, assimilato. La comunità nasa chiede all’equipe missionaria di essere un punto di riferimento etico-spirituale in questa nuova fase della sua storia e questo fatto obbliga la persona che vuole impegnarsi con il processo comunitario a crescere in queste dimensioni, se vuole essere un segno significativo al suo interno. Si tratta, in fin dei conti, di formarsi per poter essere un domani formatori.
Il flusso dei miei pensieri si interrompe a causa della voce del soldato che, come in un nastro registrato, chiede i documenti e di poter perquisire la vettura. Un suo commilitone riconosce tra i passeggeri “il padre di Toribio” e ci lascia proseguire.
Passato il posto di blocco dell’esercito situato nella vereda de “El Palo”, ci separano 50 chilometri dall’aeroporto di Cali. Più speditamente la macchina inizia ad attraversare la grande pianura solcata dal fiume Cauca, coltivazioni di canna da zucchero interrotte da qualche piccolo centro abitato generalmente da famiglie afro-colombiane. Lasciamo alla nostra sinistra Cali, la capitale del dipartimento del Valle, la “succursale del cielo” come orgogliosamente la definiscono i suoi stessi abitanti. Chissà cosa deve essere il cielo, penso, se Cali ne è la succursale. Solo per un attimo penso ai due padri che vivono là, in una parrocchia del barrio Antonio Nariño, occupandosi della pastorale afro e immersi fino al collo nei molti problemi di ordine socio- economico che stanno trasformando il quartiere in una zona difficile. Ma è un pensiero di breve durata, il fuoristrada bianco ha ormai imboccato il viale dell’aeroporto, già si affacciano sullo scenario altri panorami, altri sogni, che si riuniscono tutti nell’unica grande utopia della missione.
Da domani la vita sarà differente, altre situazioni e altre sfide si apriranno ai miei orizzonti. Ricordo per darmi coraggio la frase di un celebre poeta inglese che recita, se la memoria non mi tradisce: “Non dobbiamo mai smettere di esplorare e alla fine di tutte le nostre ricerche arriveremo un’altra volta lì dove abbiamo iniziato e conosceremo quel posto per la prima volta”.

BOX 1
DALLE ANDE ALLE ALPI

Capita a volte di fare dei ritrovamenti impensati. Mezzo nascosto tra scaffali polverosi ho trovato nella biblioteca della parrocchia di Toribío un libro di Claudio Magris intitolato “Utopia e Disincanto”. Nel primo capitolo, quello che dà il titolo all’intero volume, l’autore analizza l’inizio del nuovo millennio alla luce di queste due cornordinate. Ho pensato che sarebbe stato interessante applicarle alla missione e alle diverse sfaccettature con le quali essa si è presentata alla mia esperienza.
L’utopia è la tensione verso il futuro, il fine che anima e orienta il nostro presente verso spazi immaginati ma non ancora conosciuti, verso ideali grandi che sono stati, nel mio caso, il frutto di una lunga formazione. Il disincanto è invece l’attenersi alla realtà, la resa dei conti con le circostanze che limitano l’utopia, ma che al tempo stesso non le lasciano prender piede, non permettono che sfoci nell’irrealtà, nella fantasia, che ti fa, in altre parole, rimanere con i piedi ben piantati per terra. Dal dialogo costante fra utopia e disincanto dovrebbe nascere la giusta misura, il corretto relazionarsi con la propria missione, il viverla con buon senso, senza lasciarsi travolgere dal sogno e senza neppure venir troppo frenati dalla cogente realtà di tutti i giorni.
Vorrei quindi narrare qualcosa di questi anni, iniziando dalla mia esperienza personale, da ciò che ho sentito e compreso, dalla risposta che il mio viaggiare ha dato alle tante aspettative che avevo e di come la realtà ha giocoforza sagomato il mio essere missionario nel nord del Cauca colombiano. In un secondo momento vorrei raccontare, in modo più diretto e specifico, qualcosa della comunità che mi ha ospitato, degli indigeni nasa (o páeces), delle utopie che continuano ad ispirae il progetto di vita, nel mezzo di una situazione contingente di grande difficoltà, dell’alternativa che essa vuole rappresentare, in aperto contrasto alle logiche di potere portate avanti sia dal governo colombiano che dai movimenti eversivi. In un terzo articolo narrerò qualcosa dei giovani, che di questa comunità rappresentano la linfa vitale, il futuro, del loro “pensamiento joven” (il pensiero giovane), che cerca di opporsi alla mentalità disincantata degli anziani, ad un mondo nel quale non si riconoscono più e al quale vogliono offrire qualcosa di nuovo e più vicino alle loro esigenze e alla loro sensibilità.
U.Po.

BOX 2
STORIA E SCOPI DELL’EQUIPO MISIONERO

L’equipo misionero di Toribío venne fondato il 4 marzo del 1979 su iniziativa del padre Alvaro Ulcué Chocué (sacerdote indigeno e parroco delle comunità di Toribio e Tacueyó), insieme ad alcune suore missionarie della Madre Laura. L’iniziativa voleva essere una risposta al processo di rinnovamento ecclesiale e pastorale, in corso in America Latina negli anni che seguirono il Concilio Vaticano II e le grandi conferenze episcopali di Medellín e Puebla.
La scelta di vivere in un équipe apostolica di vita e attività pastorale doveva, nel disegno del padre Alvaro, condurre ad una evangelizzazione inculturata e liberatrice, con una chiara opzione per i poveri ed un’enfasi verso il mondo indigeno e il suo processo storico di recupero della terra, organizzazione e sviluppo che, tra molti conflitti e a prezzo di molto sangue versato, la comunità stava vivendo da alcuni anni a quella parte.
Dopo la morte del padre Alvaro, assassinato a Santander de Quilichao il 10 novembre del 1984 per il suo impegno in favore della causa indigena, l’esperienza dell’equipo misionero venne raccolta dai missionari della Consolata. Coordinato a partire dal 1988 da padre Antonio Bonanomi, il gruppo è oggi formato da circa 20 persone: sacerdoti, religiose, e laici sia estei come facenti parte della comunità nasa.
U.Po.

BOX 3
SCHEDA

Superficie: 1.141.748 Kmq
Popolazione: 45.300.000 abitanti (proiezione per il 2005)
Lingua: spagnolo (ufficiale); in Colombia sono però presenti 84 popoli indigeni con 64 lingue differenti
Religione: cattolica (ufficiale, 93%).
Capitale: Santa Fe de Bogotá (7.029.928 abitanti)
Ordinamento politico: repubblica presidenziale
Presidente: Alvaro Uribe Velez, dal 7 agosto 2002
Economia: Il caffè è il principale prodotto legale da esportazione. Il sottosuolo contiene giacimenti di petrolio, carbone, oro, platino, argento e smeraldi. Le coltivazioni di marijuana, coca e papavero da oppio alimentano il floridissimo traffico illegale degli stupefacenti. Si stima che dalla Colombia provenga 80% della produzione mondiale di cocaina.
Moneta: peso colombiano (3.000 pesos = 1 Euro nel 2004)

BOX 4
CARISSIMO GUSTAVO

Carissimo Gustavo,
sono passati ormai alcuni mesi dall’ultima volta che ci siamo visti, da quell’8 di novembre dell’anno scorso quando, in silenzio come sempre, la tua anima si è riunita al “ks’a’w wala”, il grande spirito di Dio. Quel giorno, ironia della sorte, avevi deciso di prendere la chiva, la corriera locale che ti avrebbe portato con gli altri delegados della palabra fino al Cecidic, il collegio dove tutto era pronto per celebrare l’annuale assemblea su padre Alvaro dedicata al tema della solidarietà nella comunità che aveva sognato e per la quale era morto e che tu, inseguendo lo stesso sogno, avevi servito come catechista e come ricercatore storico. Dico “ironia della sorte”, perché tu non avevi certo bisogno della corriera per fare i tre chilometri che separano la parrocchia di Toribío dal collegio, abituato come eri a camminare per le tue montagne. Tre chilometri che avevi già percorso in senso contrario quella stessa mattina, per venire a vedere in paese chi era arrivato, per riunirti con i tuoi compagni, fare colazione e scambiare due chiacchiere prima dell’inizio dell’assemblea. La chiva si è capottata proprio davanti alla collina dove da qualche tempo vivevi, davanti a casa tua, intrappolando il tuo corpo sotto il peso della sua grande carrozzeria e spegnendo di un botto i tanti sogni che avevi iniziato a coltivare.
Ho ancora ben chiara in mente la volta che mi hai accompagnato a celebrare le prime comunioni nella cappella de La Primicia. Era la mia prima uscita “in vereda”, ed ero nervosissimo: ero arrivato da soli due giorni, la gente non mi conosceva ancora e nello spazio antistante la cappella c’erano vari guerriglieri, figure alle quali dovevo ancora fare l’abitudine. Mi hai spiegato in poche parole (non sei mai stato un uomo di grandi discorsi) quello che succedeva e ciò che la comunità si aspettava da me. Tutto è filato liscio come l’olio. Da quel giorno in avanti abbiamo condiviso molti chilometri, molte celebrazioni ed incontri. Era fondamentale, per esempio, quella tua introduzione alla liturgia, espressa in un linguaggio che la gente coglieva immediatamente, molte volte in nasa yuwe, la lingua del popolo nasa che tu dominavi alla perfezione.
Sapevi quello che dicevi. Negli ultimi anni, oltre alla catechesi, ti eri dedicato anima e corpo al progetto della “Cattedra nasa-Unesco”, un programma di ricerca storica all’interno della comunità basato sulle testimonianze dei protagonisti. Avevi intervistato moltissimi anziani che ti avevano parlato delle loro credenze, dei valori tradizionali, delle lotte per l’autonomia e il recupero della terra. Credevi, come padre Alvaro, che “l’utopia muove le montagne” e non ti rassegnavi a vivere come se niente avesse potuto cambiare solo perché alcuni volevano così. Sapevi che il passato orienta il nostro presente affinché, a partire da ciò che siamo, si possa camminare verso un futuro disegnato in modo differente.
Il giorno prima di lasciarci avevi comprato qualche regalino per Yuni Alexandra, la tua bambina di otto mesi: un vestitino azzurro, un atlante geografico e un dizionario. E a chi ti prendeva in giro facendoti notare che forse era un po’ azzardato regalare un dizionario di spagnolo a una bimba di neanche un anno, avevi risposto candidamente che questi strumenti sempre servono e sempre serviranno, che ora avevi i soldi e che chissà che prezzo avrebbero avuto quando Alexandra fosse andata a scuola. Grande Gustavo, grazie per questa iniezione di fiducia, per questa speranza che hai portato dentro e che fino all’ultimo, con poche parole, ma molte scelte pratiche, mi hai testimoniato.
padre Ugo

BOX: AUTORI
(*) Ugo Pozzoli, missionario torinese (1962), è rientrato in Italia per lavorare a Missioni Consolata. Da marzo 2005 è redattore in pianta stabile nella redazione della rivista.
A padre Ugo, un benvenuto e un augurio di buon lavoro.

(**) Enzo Baldoni, lo sfortunato giornalista free-lance rapito ed ucciso in Iraq, fu ospite nel Cauca dei missionari della Consolata. Le foto di questo servizio sono un suo regalo.

Ugo Pozzoli




Al supermercato delle religioni (4) Scientology

CHIESA ALLA MAC DONALD’S

Nata come pratica filosofica che mira alla «felicità eterna», Scientology pretende di essere una religione. Pochi stati la riconoscono tale; molti la ritengono una setta affaristica, dai contorni poco trasparenti.

Appena si parla di scientology, la chiesa americana fondata dallo scrittore di fantascienza Ron Hubbard intorno alla metà del secolo scorso, gli animi si scaldano e le opinioni si polarizzano.
Basta cliccare la parola scientology su internet e si trovano migliaia di pagine che raccontano le peggiori storie di sopraffazione, circonvenzione di incapace, spionaggio, e molto altro. In un mare di durissime critiche e accuse, qualche sito, invece, ne tesse lodi sperticate e ne racconta le magnifiche sorti progressive.
Per esempio, siti in inglese, francese, tedesco, spagnolo e italiano (www.xenu.com-it.net/aiuto.htm) spiegano dettagliatamente e con termini decisamente allarmanti cosa fare, qualora il proprio figlio inizi a fare scientology: come parlargli, cosa dirgli, cosa non fare perché non si disconnetta: la prima cosa, infatti, è il rifiuto del dialogo con chiunque critica scientology, in primis i genitori.
Sempre nella rete, dozzine di siti riportano le querele contro i mezzi di informazione. Scientology ha duramente combattutto contro i suoi critici, querelando giganti come Time o Washington Post. Gran parte delle battaglie legali hanno visto prevalere le opinioni dei giornali, che però hanno dovuto impegnare forti capitali in parcelle agli avvocati.
La combattività di scientology, verso gli organi di stampa è proverbiale. Alcuni analisti sostengono che tale tignosità sia dovuta a una spasmodica ricerca di pubblicità, supportata da capacità finanziarie notevoli. In effetti, una querela al Time, anche se persa in partenza, è un’ottima occasione per farsi conoscere.
Salendo ancora di un gradino, scientology è finita al centro di furiose dispute inteazionali, riguardanti i diritti umani tra i governi degli Stati Uniti, Francia e Germania.

COS’E’ SCIENTOLOGY
Non è facile spiegare cosa sia, anche perché il suo fondatore L. Ron Hubbard, nella sua lunga e tumultuosa vita, ha scritto tutto e il contrario di tutto. «Scientology è una filosofia religiosa nel suo più alto significato e conduce l’uomo alla libertà totale»(1); ma anche «una libertà infinita è una trappola perfetta, la paura di tutto… Fissato su troppe barriere, l’uomo brama la libertà; ma, lanciato nella libertà totale, è senza scopi e miserevole»(2).
La filosofia religiosa di Hubbard è nata nel 1950; inizialmente aveva il nome Dianetics, scienza modea della salute mentale. Nel 1954 venne trasformata in scientology: nuovi aspetti spirituali si innestarono su quelli para-scientifici iniziali. In quell’anno scientology si autodefinì per la prima volta «chiesa».
In sostanza, la filosofia religiosa scientology è un insieme di nozioni pseudo scientifiche, psicologiche e spirituali che vedono all’interno dell’essere umano due entità distinte: la mente analitica e la mente reattiva.
Il refuso alle filosofie orientali diventa chiaro quando scientology sostiene che la mente reattiva, responsabile delle pulsioni umane, è aberrante e deve essere ridotta il più possibile, affinché l’uomo possa finalmente avere solo una mente analitica e raggiungere lo stato «clear» (limpido).
Compito di scientology è portare l’uomo a essere clear, affinché possa iniziare un cammino di perfezionamento che conduca il suo thetan (la sua parte immortale) a recuperare i suoi infiniti poteri, decaduti a causa della mente reattiva.
In poche parole, tutti noi siamo potenziali dèi, con poteri infiniti ma dimenticati, e potremmo recuperarli, applicando letteralmente la teoria scientology.
Come si entra nel giro
Di solito chi si avvicina a scientology viene sottoposto a un test che appurerebbe quanto il thetan sia decaduto e quindi da quale livello iniziare la risalita verso la «libertà totale». Questa classificazione è denominata «quadro della valutazione umana» ed è gratuito.
I detrattori sostengono che il test, composto da 200 domande di tipo personale, tende a evidenziare le frustrazioni della persona, acutizzando i problemi e promettendo una facile soluzione. I clienti vengono «agganciati» per strada, nei supermercati e luoghi molto affollati.
Chi decidesse di iniziare la pratica scientology cerca inizialmente la soluzione per i propri guai; poi, dopo una fideizzazione più forte, proseguirà nel cammino, comprando una serie di costosissimi corsi esoterici, che hanno lo scopo di recuperare l’onnipotenza perduta, cioè il thetan operante.
All’interno del cammino, chiamato anche auditing, lo scientologo (il cliente-fedele) viene sottoposto a un test psico-meccanico: una specie di macchina della verità (elettrometro) che indaga sui lati più oscuri della vita. Esso è infatti caldamente consigliato a confessare tutti i lati peggiori della propria mente reattiva, ovvero le «aree di sofferenza» che rendono la vita insopportabile.
Scientology sostiene che tale pratica, porta grandi benefici a chi vi si sottopone, in quanto crea un quadro d’insieme più preciso, affinché si possano eliminare gli ostacoli psichici che impediscono all’individuo di raggiungere la «libertà totale».
I detrattori, tra cui molti ex scientologisti pentiti, ribattono accusando la chiesa di creare con questa tecnica un archivio personale, contenente le eventuali perversioni o scandali dei clienti-fedeli, da utilizzare qualora questi si ribellino.
La chiesa di scientology assicura agli aderenti di raggiungere il risultato sperato: «Scientology funziona nel 100% dei casi. Nella nostra storia non si è mai verificato un fallimento della tecnologia. Gli unici fallimenti sono stati organizzativi, quando la tecnologia non era nota o non era applicata»(3). Eventuali fallimenti di tale tecnica sono da imputare alla scarsa o cattiva applicazione da parte del cliente-fedele.
Hubbard ha ideato un sistema che prevede soluzioni pratiche semi-immediate per tutti gli aspetti della vita: affari, amore, salute, piccoli e grandi problemi.
gli affari sono affari
La vera novità introdotta dallo scrittore fantascientifico statunitense è la commistione dello spirituale con il tecnologico. Inizialmente scelse di fondare una nuova disciplina che avesse basi molto pratiche, ma poi, vista l’inesauribile domanda di novità spirituali negli Stati Uniti degli anni ’50, ma anche attuale, divenne indispensabile innestare un lato soprannaturale.
La chiesa di scientology sostiene inoltre di non contrapporsi a nessuna altra professione religiosa, anche con quelle che non comprendono la reincarnazione, cosa invece prevista nella chiesa di Hubbard.
Anche in questo caso le interpretazioni sono bivalenti. A fronte di chi vede una innovativa apertura culturale, molti sostengono che scientology abbia scelto la via della plasticità religiosa, ovvero adattare il messaggio alle realtà che si incontrano zona per zona nel mondo. Un po’ come fa McDonald’s che, dopo gli insuccessi del polpettone, ha deciso di adattare il fast food alle cucine locali: in Italia la pizza, in Messico i tacos, in Francia le insalate…
Nonostante il linguaggio ermetico utilizzato dagli scientologi, la formula complessiva è abbastanza semplice. Ma perché scientology non diffonde gratuitamente il suo sapere, ma lo vende a caro prezzo ai suoi clienti? Domanda banale, ma che racchiude tutte le contraddizioni della chiesa di Hubbard.
La risposta potrebbe essere che scientology vende nella solidarietà e commiserazione delle «misemozioni», emozioni negative di cui sbarazzarsi. Ma ciò non spiega perché, dopo ogni catastrofe, i venditori di scientology si accalchino intorno ai disperati, a volte con risultati imbarazzanti, come in Sri Lanka, dove recentemente la Protezione civile ha vibratamente protestato, perché membri italiani della chiesa si attribuivano i meriti degli aiuti provenienti dalle donazioni italiane. Accusa immediatamente smentita dal portavoce italiano di scientology.
Scientology non sceglie la via della gratuità per diffondere il proprio pensiero, ma quella della commercialità spinta e sostiene di avere 8 milioni di fedeli nel mondo. Cifra che i critici ritengono gonfiata. In Italia un rapporto del Ministero degli Intei del 1998 afferma che i seguaci della chiesa di scientology erano circa settemila.
Pochi o tanti che siano, i seguaci della filosofia religiosa inventata da Hubbard sono disposti a investimenti economici consistenti e possono giungere a spendere anche decine di migliaa di euro nei corsi. Scientology afferma che tale ingentissima massa monetaria altro non è che donazioni, ma questo mal si addice alla presenza di un listino prezzi e di formule commerciali che ricordano le promozioni da supermercato.
Non di poco conto è anche la notevole spinta pubblicitaria portata da «eroi» hollywoodiani, aderenti a scientology, tra tutti, John Travolta, Tom Cruise, Nicole Kidman. I tempi degli apostoli stracciati e poveri sono passati. Oggi vanno di moda i belli del cinema.

USA VERSUS FRANCIA E GERMANIA?
Le critiche, anzi, vere e proprie accuse si sprecano. Ma la chiesa di scientology può vantare il riconoscimento del Cesnur (Centro studi sulle nuove religioni) che la giudica legittima e non vi riscontra particolari rischi o depravazioni; queste, caso mai, sono da imputare a comportamenti distorti di pochi singoli.
Il direttore del Cesnur, Massimo Introvigne, ospite fisso di Bruno Vespa in qualità di esperto di estremismo islamico, è stato un forte difensore di scientology, non trovando nelle sue dottrine particolari pericoli. La sua posizione è in netto contrasto con la francese «Missione interministeriale di lotta contro le sette» (Mils), che ha inquadrato la pratica scientology in una visione opposta rispetto al Cesnur.
La polemica tra Cesnur e Mils si inserisce in un quadro di tensioni politiche tra Usa ed Europa, in particolare Francia e Germania.
Tutto nasce dal fatto che, riconosciuta come movimento religioso, scientology ha avuto il diritto all’esenzione fiscale da parte del fisco statunitense nel 1993. Un suo portavoce sostenne che «gli scientologisti hanno fornito al governo informazioni sufficienti sui salari pagati ai suoi funzionari, per permettere di determinare che gli executives della chiesa non ricevano benefici impropri» (Chronicle of Philantropy, 1993). Una delle accuse storiche mosse a scientology è, infatti, di sfruttare il lavoro dei seguaci in maniera piuttosto brutale.
L’accordo foì a scientology la stessa posizione fiscale di cui beneficiano molte organizzazioni religiose e permise alla chiesa di Hubbard di risparmiare montagne di dollari evitando la tassazione.
I governi di Francia e Germania si trovarono quindi in frontale opposizione con gli Stati Uniti, in quanto consideravano scientology una pratica pericolosa per l’ordinamento democratico, non solo per le accuse di cui sopra, ma anche per pratiche di spionaggio internazionale, portate avanti da alcuni suoi aderenti.
Scientology schierò in campo l’artiglieria mediatica con una potente manovra di lobby sul presidente americano Bill Clinton, affinché facesse pressioni politiche in Europa, per liberare la chiesa da accuse così pesanti.
Iniziarono a volare recriminazioni di persecuzione religiosa e violazione dei diritti umani: in una lettera del 1997, firmata da 34 vip hollywoodiani, il governo tedesco veniva accusato di aver spostato il tiro dagli ebrei agli scientologi, fatto che ebbe eco planetaria. Il governo Usa non poteva sopportare di essere implicitamente accusato di sostenere un’organizzazione che metteva a repentaglio la democrazia.
In sostanza, per Germania e Francia scientology non è una religione, ma una setta; anzi, un’impresa che agisce a scopo di lucro e spesso in modo tutt’altro che trasparente e democratico.
Per gli americani invece, preoccupati di proteggere al massimo grado la libertà di culto nel loro paese, la chiesa di scientology deve essere messa in condizioni di muoversi senza intralci, in quanto non è stata provata alcuna pericolosità. Da qui la mossa più forte degli Stati Uniti, ovvero il Religious Liberty Protection Act, una proposta di legge che intende mettere le pratiche religiose al riparo da qualsiasi interferenza governativa o amministrativa.

Così scientology continua a scatenare polemiche, cause giudiziarie e accuse pesanti. Gli scientologi si sentono perseguitati a livello mondiale da una lobby internazionale, che non esiterebbe a fomentare false illazioni per ridue la potenza.
Già in vita, il fondatore Ron Hubbard era considerato dai seguaci una divinità votata al martirio, mentre migliaia di siti internet lo dipingono come un impostore, assetato di denaro. Nell’ottobre del 1984 un giudice della Califoia, disse di lui: «È un bugiardo patologico, in relazione al suo passato e alle sue imprese. Scritti e documenti presentati come prove riflettono ulteriormente il suo egoismo, la sua avarizia, smania di potere, vendetta e aggressività contro le persone ritenute ostili. Allo stesso tempo sembra un uomo carismatico e capace di motivare, organizzare, controllare, manipolare e ispirare i suoi seguaci»(4).
Dopo la colluvie di studi pro e contro tale movimento, rimane il dubbio: scientology è libertà totale o fregatura totale?

1) L. Ron Hubbard, Filosofia religiosa e pratica religiosa, 21 giugno 1960, rivisto il 18 aprile 1967.
2) L. Ron Hubbard, La ragione per cui, 15 maggio 1956.
3) Direttiva esecutiva n°450 del Religious Technology Center.
4) Giudice Breckenridge, Corte Superiore della Califoia, parlando di Ron Hubbard in una sentenza del 1984.

Maurizio Pagliassotti




003-Così sta scritto – Dalla bibbia le parole della vita (3)

«Adam, dove sei?»
(Gen 3,9)

«Chi sei, Signore?»
(At 9,5)

Porre domande e interrogarsi sul senso e la direzione della realtà è nella natura umana. L’uomo stesso è una domanda, un perché perenne. Non appena acquista l’uso della parola, il bambino popola la sua esistenza e la pazienza degli adulti con una teoria infinita di «perché?», che a loro volta sono premessa di altri interrogativi che disarmano gli adulti prosciugandoli nella loro capacità di risposta. L’uomo è assetato di conoscenza e la curiosità indagatrice lo porta sempre più oltre… a scoprire novità e orizzonti sempre più ampi.
Lo smarrimento, però, è sempre in agguato. L’uomo, come l’Adam dell’Eden, è insofferente del suo limite e cerca di superarsi, eliminando Dio dal suo orizzonte. Inutilmente, perché Dio resta il fine e il limite dell’uomo, in una parola, Dio è «il luogo» in cui convergono e si fondono la temporalità e l’eternità. Questa è la singolarità della persona umana: finitezza ed eternità, due cornordinate sempre in tensione tra loro. Il sopravvento dell’una o dell’altra a scapito del loro equilibrio, comporta conseguenze tragiche per l’uomo, per le sue relazioni con gli altri e per l’ambiente in cui vive.
La sovrumana potenza scatenata dallo tsunami che ha piegato e piagato il Sud-Est asiatico ha imposto agli uomini una visione fisica della impotenza dell’uomo e ha inferto (almeno lo si spera) una frustata terribile alla saccente onnipotenza dall’alto, della quale spesso l’uomo assalta, manomette e violenta la natura. Ecco la ragione della domanda sul «dove» dell’uomo di tutti i tempi che ci poniamo in questa rubrica.

Dopo le dieci parole/debarim con cui Dio crea l’universo e l’umanità, la prima parola/dabar che Dio rivolge all’uomo è un interrogativo che lo accompagnerà per sempre: «Dove sei?» (Gen 3,9). L’avverbio «dove» è più che un’indicazione locativa: esso indica una prospettiva e coinvolge la natura della persona umana di tutti i tempi. La parola di Dio non ha tempo, perché si pone «oggi» per interrogare l’attualità di ogni persona di ogni tempo.
Nessuno può oltrepassare il suo «oggi» e sfuggire al suo «dove sei?». Adam/persona, di fronte alle sue responsabilità e conseguenze delle sue scelte (non accettazione del limite, volontà di superare il confine umano, velleità di onnipotenza per sostituirsi a Dio, spodestandolo della signoria sul bene e sul male) si nasconde dalla familiarità con Dio, di cui ora ha paura (Gen 3,8.10). Ciò che prima era consuetudine d’intimità dialogica, diventa paura «preventiva»: prima ancora che Dio intervenga e ponga la domanda, Adam ha paura perché «sono nudo – ‘e¯rom» (Gen 3,10).
È la conseguenza di cedere al serpente, il più «scaltro/furbo – ‘a¯rûm» tra tutte le fiere della steppa. È evidente che l’autore della Genesi gioca al modo orientale, sull’assonanza ‘e¯rom/‘a¯rûm, nudo/scaltro, per mettere in evidenza che spesso scaltrezza e furbizia non sono altro che un nome diverso per indicare la nudità, cioè la inconsistenza e la vacuità.
Adam è nudo perché sfugge al suo «dove sei?» di cui non ha consapevolezza: questo stato d’inconsistenza lo porterà per sempre fuori del suo ambiente vitale, fuori dal giardino di Eden che era stato creato su misura per lui. Esule nella sua stessa umanità, profugo nella sua stessa carne, fuggiasco senza potere mai nascondersi da se stesso, l’uomo è rimasto senza un «dove», senza una prospettiva d’orizzonte.

Nella bibbia la nudità è segno di spersonalizzazione, come il vestito è segno di personalità. Conoscere il proprio «dove» significa sapere sempre a che punto si è della propria storia, della memoria che la lega e della maturazione che la marca. Il «dove sei?» è l’angolo di visuale da cui affrontare la vita, il futuro, i problemi che sorgono e da dove individuae la soluzione.
«Adam, dove sei?» significa: Adam, qual è la tua consistenza di individuo e membro di un gruppo sociale, famiglia, comunità? Quando ti rapporti con te stesso, con la donna, con gli altri, con la terra… come ti poni? Quale orizzonte hai di fronte alle tue responsabilità nei confronti della storia di cui sei artefice e conseguenza? Di fronte alla miseria che priva i due terzi dell’umanità di quella porzione di Eden cui hanno diritto, qual è il tuo «dove»?
Nel contesto di una politica ed economia mondiali che prosperano sulla guerra, immaginata addirittura «preventiva», che produce centinaia di migliaia di morti anonimi, carne da macello d’innocenti colpevoli solo di esserci in mezzo, qual è il tuo «dove»?
Di fronte alla ingiustizia di un sistema economico mondiale che produce sperequazioni e devasta l’umanità in modo permanente più di qualsiasi tsunami, «dove» si colloca la coscienza civile, occidentale e cristiana?
Di fronte alla deriva istituzionale della nazione, in balìa di un potere personalistico che spazzola il diritto ad libitum e accorcia la dimensione democratica della convivenza civile, eliminando la nozione stessa del «bene comune», patrimonio irrinunciabile per il credente, è essenziale stabilire il proprio «dove sei?» e rivelare il proprio angolo di visuale, libero da ogni ideologismo di maniera e di cultura.

Non si può essere credenti e/o cittadini per tutte le stagioni. Di fronte ai tour operator, che pretendono di applicare la penale del 60% sui viaggi del Sud-Est asiatico, disdetti dopo l’apocalisse, di fronte a quella manciata di turisti che non vogliono rinunciare alle tanto sognate vacanze negli atolli asiatici e chiedono la garanzia di non volere vedere nulla di «sconveniente», mentre nell’atollo accanto, visibile ad occhio nudo, tutto è fango, epidemie e tratta di bambini, bisogna stabilire e identificare il proprio «dove sei?» come esigenza di sopravvivenza civile, prima che spirituale. Non c’è limite all’indecenza umana!
No! Adam, non puoi ritirarti tra gli alberi del tuo privato, alla ricerca di un rifugio in cui rinchiuderti per non vedere le conseguenze dell’apocalisse tsunami. Anche se ti nascondi su una spiaggia dietro l’angolo, anche se ti difendi col paravento, il tuo «dove sei?» è più forte della indegnità e prima o poi esigerà una risposta e una spiegazione.
Il tuo «dove sei?» non è privato, esso è il «luogo» dove puoi riconoscere i tuoi simili come parte di te e da dove puoi spiccare il salto per andare oltre te stesso e aprirti alla condivisione con ogni uomo e donna di buona volontà per essere insieme, per affrontare insieme, per stare insieme presenti nella storia, che è dell’uomo e di Dio, nel tempo e nell’eternità. Contemporaneamente.
Insieme ci si può salvare, da soli possiamo solo morire, credendo di divertirci: così insegnava la Scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani, i cui piccoli montanari avevano saputo cogliere e individuare il loro «dove» da cui guardare alla loro città, alla loro nazione, al mondo, di cui si sentivano cittadini a pieno titolo.

La domanda di Dio ad Adam sul «dove sei?», trova la risposta compiuta in un’altra domanda, posta da Saulo di Tarso, quando, disarcionato da cavallo sulla via di Damasco, si trova faccia a faccia con Colui che s’identifica con i perseguitati, vittime innocenti della ferocia persecutoria del fariseo zelante e fondamentalista, Saulo. «Egli (Saulo, caduto in terra) rispose: “Chi sei, Signore?”» (At 9,5).
Ora il «dove sei?» dell’uomo è stato illuminato dalla venuta del Logos/Verbo, la cui tenda è piantata nel cuore dell’umanità; e anche se le tenebre non lo accolgono, Egli resta la luce, quella che illumina ogni uomo in ogni «dove».
Dopo l’ingresso di Dio nella storia, «nato da donna, nato sotto la Torah» (Gal 4,4), tutto è illuminato, anche se in apparenza sembra buio senza confine; per questo la risposta dell’uomo non può essere che un’altra domanda, ma questa volta, centrata sulla stessa personalità di Dio: «Chi sei, Signore?».
Dal «dove sei?» della prima pagina della Genesi si passa al «chi sei?» della prima comunità cristiana. Non è più tempo di smarrire la prospettiva della vita, perché ora quella prospettiva ha i confini della risurrezione e dell’eternità. Resta solo il bisogno di ripristinare e rimettere in circolo quella familiarità con Dio che Adam aveva infranto con la sua paura «preventiva».
La risposta di Paolo è ancora più forte della domanda di Dio: «Chi sei, Signore?» significa: Signore, dammi la coerenza perché dal mio «dove» possa sempre riconoscere «Chi» sei negli eventi che scorrono la mia vita, nelle persone che incontro lungo la mia strada, nelle scelte che sono chiamato a fare, in quanto testimone della tua presenza.

Paolo Farinella




AfroItalyfashion in passerella

NON SOLO MODA

Da una frivola sfilata di moda a una solidarietà
attenta ai bisogni… lontani, ma resi più vicini dall’interesse e dallo scambio.

Successo inaspettato quello che gli organizzatori di AfroItalyFashion hanno ricevuto nella piazzetta Audifreddi, proprio sotto il palazzo comunale, nella parte antica di Cuneo: una manifestazione giunta alla sua quarta edizione, che ha avuto come partners l’Accademia di Belle Arti di Cuneo e l’Organizzazione «Mission Sinan Onlus» di Abidjan (Costa d’Avorio).
La manifestazione ha permesso al pubblico cuneese di conoscere la bellezza e l’originalità degli abiti realizzati dai giovani stilisti che, tra poco, usciranno dall’Accademia per affrontare il grande e variegato mondo della moda.
I preparativi per la sfilata sono stati cornordinati dalla vulcanica signora Lucchini, direttrice dell’Accademia che, avendo compreso appieno lo spirito della manifestazione, ha accettato senza remore di guidare il lavoro dei suoi allievi, preparandoli a quello che per molti è stato un vero e proprio… battesimo del pubblico.
Così, le creazioni italiane si sono miscelate alle migliori firme della moda africana e agli abiti fatti arrivare apposta da Kone Lacina, presidente di Mission Sinan; una trentina di abiti, creati per AfroItalyFashion da stilisti guidati da un ideale comune: dimostrare che quella africana è una cultura con radici antichissime, che l’Africa è un paese che segue i fasti di un tempo e che, proprio nella sua gente, ha la carta vincente per uscire da una situazione economica infelice e, a volte, drammatica.
«Abbiamo scelto la città di Cuneo – dice il direttore artistico della manifestazione, dott. Diego Cudia – per far conoscere un mondo lontano, eppure a noi molto vicino; per dare un segnale forte dell’impegno che persone di nazionalità diversa hanno preso, nella ricerca di un sogno possibile, per spirito umanitario».
Nato come semplice concorso di bellezza chiamato «miss Africa in Italy», la manifestazione si è arricchita di contenuti sociali e culturali, anche attraverso l’opera di professionisti e collaboratori che, con il tempo, hanno capito come AfroItalyFashion non è solo la presentazione di opere della moda, bensì la manifestazione di un pensiero che nasce dal cuore e trova ragione di essere attraverso l’arte e lo spettacolo.
Mission Sinan crede nella formula di questa manifestazione e ne supporta la realizzazione: «Il giorno in cui l’amico Diego Cudia mi ha telefonato – dice Kone Lacina -, sono stato felice di aderire, anche se ciò ha significato passare diverse settimane a cercare gli abiti migliori dei maggiori stilisti africani. Quando anche lo stilista personale di Nelson Mandela mi aveva concesso la sua fiducia, ho capito che stavo lavorando per qualcosa di molto importante e utile per tutti noi; così, attraverso gli abiti, la musica, le persone, gli oggetti che ho potuto inserire nella manifestazione AfroItalyFashion, posso comunicare al grande pubblico l’opera che Mission Sinan compie in Italia ogni giorno».

Mission Sinan» in Italia si preoccupa di raccogliere attrezzature e materiali sanitari dismessi e, grazie al lavoro di alcuni volontari, li recupera e ripristina il loro funzionamento originario, inviandoli nei paesi in cui queste tecnologie possono diventare un aiuto per la vita. L’organizzazione si preoccupa del benessere sociale, lotta contro la povertà, prevenzione delle malattie; infine, si fa carico e concorre in tutti i settori per finalità di pubblica utilità.
«Questo lavoro – continua Kone Lacina – richiede locali, automezzi, materiali dai costi molto pesanti; è solo attraverso varie attività di autofinanziamento che il gruppo riesce a sopravvivere e lavorare. Ecco perché Mission Sinan, in collaborazione con la Didacus Communication, organizza manifestazioni quali l’AfroItalyFashion in cui gli introiti sono destinati a finanziare l’organizzazione stessa».
I prodotti abbandonati (da ospedali, case di cura, ditte foitrici, singoli medici…), che non hanno più alcun valore nel mondo occidentale, trovano un’enorme rivalutazione nel terzo mondo e, in special modo, in Costa d’Avorio, paese a tutt’oggi diviso da una guerra civile assurda.
L’iniziativa di recupero dei materiali sanitari è nata nel 1998, anno in cui la clinica «Città di Bra» (nel cuneese) dismetteva le più svariate attrezzature ospedaliere. È stato così possibile raccogliere e inviare questo materiale nel centro di cura situato sull’autostrada Abobo Ayama, al fine di assistere i bisognosi e riabilitare i suoi centri chirurgici e diagnostici, i quali sono sprovvisti di materiali sanitari ed assistenziali.
Con la manifestazione AfroItalyFashion, Mission Sinan rivolge un appello a tutti coloro che possono collaborare per dare uno sviluppo all’Associazione, dai singoli individui, ai professionisti, alle grosse società. Essa ha bisogno di materiale sanitario, mobili e un eventuale deposito per sistemare il tutto, affinché venga ripristinato e spedito in Costa d’Avorio. Naturalmente, sono graditi anche contributi in denaro per l’acquisto di materiali, utili allo scopo.

I professionisti che lavorano per AfroItalyFashion hanno accettato di devolvere il proprio compenso economico a favore di Mission Sinan: la grande ballerina e coreografa Leo Navas, poi, ha saputo dare un’impronta musicale ben definita e professionalmente valida alla manifestazione.
«Collaboro ad AfroItalyFashion da diversi anni, con l’incarico di studiare e realizzare le coreografie migliori e sempre all’altezza del tono della manifestazione – dice Leo durante -. Il direttore artistico Diego Cudia è sempre molto esigente e ha ragione, perché questa manifestazione è tutta permeata di musica, per cui canzoni, balletti e coreografie devono trasmettere al pubblico non solo emozioni forti, ma anche sentimenti di umanità e riflessione verso la natura stessa dell’uomo e dell’ambiente che si trova ad occupare».
Con queste parole, Leo dimostra la grande professionalità e bravura che solo una ballerina di talento può avere, sia come retaggio culturale (Cuba è il suo paese d’origine), sia come esperienza nel mondo dello spettacolo.
Un’altra donna è stata chiamata per curare la fotografia e riprese video della manifestazione: è Gabriella Melfa, titolare dello Studio «Area Fotografica» di Torino. Sono riuscito ad avvicinarla mentre organizzava con i suoi tecnici il parco luci intorno alla passerella allestita per la sfilata, cercando i punti adatti per ottenere i migliori risultati.
«Sono stata selezionata fra decine di professionisti; molti si presentavano con i lavori più differenti; io avevo il mio portfolio, composto in larga misura di ritratti di persone e, soprattutto, di bambini. Il direttore artistico mi aveva chiamato dicendomi che, se ero stata così brava a riprendere le espressioni più belle dei bambini, potevo essere in grado di valorizzare al massimo gli abiti e gli stessi indossatori/indossatrici di AfroItalyFashion».
Queste immagini fanno il giro del mondo attraverso giornali, tv, internet; così è possibile raggiungere i paesi più lontani, dando dimostrazioni di grande solidarietà verso chi è meno fortunato di noi e si trova in condizioni molto povere.
Arrivederci, allora, alla prossima edizione di AfroItalyFashion!

Per informazioni, si può contattare la sede italiana di Mission Sinan in via Emanuela Loi, 8 – 12100 Cuneo;
tel. 0171.403.574; oppure comporre i nn. 320-3734039 – 339-3701387 (Didacus Communication).Successo inaspettato quello che gli organizzatori di AfroItalyFashion hanno ricevuto nella piazzetta Audifreddi, proprio sotto il palazzo comunale, nella parte antica di Cuneo: una manifestazione giunta alla sua quarta edizione, che ha avuto come partners l’Accademia di Belle Arti di Cuneo e l’Organizzazione «Mission Sinan Onlus» di Abidjan (Costa d’Avorio).
La manifestazione ha permesso al pubblico cuneese di conoscere la bellezza e l’originalità degli abiti realizzati dai giovani stilisti che, tra poco, usciranno dall’Accademia per affrontare il grande e variegato mondo della moda.
I preparativi per la sfilata sono stati cornordinati dalla vulcanica signora Lucchini, direttrice dell’Accademia che, avendo compreso appieno lo spirito della manifestazione, ha accettato senza remore di guidare il lavoro dei suoi allievi, preparandoli a quello che per molti è stato un vero e proprio… battesimo del pubblico.
Così, le creazioni italiane si sono miscelate alle migliori firme della moda africana e agli abiti fatti arrivare apposta da Kone Lacina, presidente di Mission Sinan; una trentina di abiti, creati per AfroItalyFashion da stilisti guidati da un ideale comune: dimostrare che quella africana è una cultura con radici antichissime, che l’Africa è un paese che segue i fasti di un tempo e che, proprio nella sua gente, ha la carta vincente per uscire da una situazione economica infelice e, a volte, drammatica.
«Abbiamo scelto la città di Cuneo – dice il direttore artistico della manifestazione, dott. Diego Cudia – per far conoscere un mondo lontano, eppure a noi molto vicino; per dare un segnale forte dell’impegno che persone di nazionalità diversa hanno preso, nella ricerca di un sogno possibile, per spirito umanitario».
Nato come semplice concorso di bellezza chiamato «miss Africa in Italy», la manifestazione si è arricchita di contenuti sociali e culturali, anche attraverso l’opera di professionisti e collaboratori che, con il tempo, hanno capito come AfroItalyFashion non è solo la presentazione di opere della moda, bensì la manifestazione di un pensiero che nasce dal cuore e trova ragione di essere attraverso l’arte e lo spettacolo.
Mission Sinan crede nella formula di questa manifestazione e ne supporta la realizzazione: «Il giorno in cui l’amico Diego Cudia mi ha telefonato – dice Kone Lacina -, sono stato felice di aderire, anche se ciò ha significato passare diverse settimane a cercare gli abiti migliori dei maggiori stilisti africani. Quando anche lo stilista personale di Nelson Mandela mi aveva concesso la sua fiducia, ho capito che stavo lavorando per qualcosa di molto importante e utile per tutti noi; così, attraverso gli abiti, la musica, le persone, gli oggetti che ho potuto inserire nella manifestazione AfroItalyFashion, posso comunicare al grande pubblico l’opera che Mission Sinan compie in Italia ogni giorno».

M ission Sinan» in Italia si preoccupa di raccogliere attrezzature e materiali sanitari dismessi e, grazie al lavoro di alcuni volontari, li recupera e ripristina il loro funzionamento originario, inviandoli nei paesi in cui queste tecnologie possono diventare un aiuto per la vita. L’organizzazione si preoccupa del benessere sociale, lotta contro la povertà, prevenzione delle malattie; infine, si fa carico e concorre in tutti i settori per finalità di pubblica utilità.
«Questo lavoro – continua Kone Lacina – richiede locali, automezzi, materiali dai costi molto pesanti; è solo attraverso varie attività di autofinanziamento che il gruppo riesce a sopravvivere e lavorare. Ecco perché Mission Sinan, in collaborazione con la Didacus Communication, organizza manifestazioni quali l’AfroItalyFashion in cui gli introiti sono destinati a finanziare l’organizzazione stessa».
I prodotti abbandonati (da ospedali, case di cura, ditte foitrici, singoli medici…), che non hanno più alcun valore nel mondo occidentale, trovano un’enorme rivalutazione nel terzo mondo e, in special modo, in Costa d’Avorio, paese a tutt’oggi diviso da una guerra civile assurda.
L’iniziativa di recupero dei materiali sanitari è nata nel 1998, anno in cui la clinica «Città di Bra» (nel cuneese) dismetteva le più svariate attrezzature ospedaliere. È stato così possibile raccogliere e inviare questo materiale nel centro di cura situato sull’autostrada Abobo Ayama, al fine di assistere i bisognosi e riabilitare i suoi centri chirurgici e diagnostici, i quali sono sprovvisti di materiali sanitari ed assistenziali.
Con la manifestazione AfroItalyFashion, Mission Sinan rivolge un appello a tutti coloro che possono collaborare per dare uno sviluppo all’Associazione, dai singoli individui, ai professionisti, alle grosse società. Essa ha bisogno di materiale sanitario, mobili e un eventuale deposito per sistemare il tutto, affinché venga ripristinato e spedito in Costa d’Avorio. Naturalmente, sono graditi anche contributi in denaro per l’acquisto di materiali, utili allo scopo.

I professionisti che lavorano per AfroItalyFashion hanno accettato di devolvere il proprio compenso economico a favore di Mission Sinan: la grande ballerina e coreografa Leo Navas, poi, ha saputo dare un’impronta musicale ben definita e professionalmente valida alla manifestazione.
«Collaboro ad AfroItalyFashion da diversi anni, con l’incarico di studiare e realizzare le coreografie migliori e sempre all’altezza del tono della manifestazione – dice Leo durante -. Il direttore artistico Diego Cudia è sempre molto esigente e ha ragione, perché questa manifestazione è tutta permeata di musica, per cui canzoni, balletti e coreografie devono trasmettere al pubblico non solo emozioni forti, ma anche sentimenti di umanità e riflessione verso la natura stessa dell’uomo e dell’ambiente che si trova ad occupare».
Con queste parole, Leo dimostra la grande professionalità e bravura che solo una ballerina di talento può avere, sia come retaggio culturale (Cuba è il suo paese d’origine), sia come esperienza nel mondo dello spettacolo.
Un’altra donna è stata chiamata per curare la fotografia e riprese video della manifestazione: è Gabriella Melfa, titolare dello Studio «Area Fotografica» di Torino. Sono riuscito ad avvicinarla mentre organizzava con i suoi tecnici il parco luci intorno alla passerella allestita per la sfilata, cercando i punti adatti per ottenere i migliori risultati.
«Sono stata selezionata fra decine di professionisti; molti si presentavano con i lavori più differenti; io avevo il mio portfolio, composto in larga misura di ritratti di persone e, soprattutto, di bambini. Il direttore artistico mi aveva chiamato dicendomi che, se ero stata così brava a riprendere le espressioni più belle dei bambini, potevo essere in grado di valorizzare al massimo gli abiti e gli stessi indossatori/indossatrici di AfroItalyFashion».
Queste immagini fanno il giro del mondo attraverso giornali, tv, internet; così è possibile raggiungere i paesi più lontani, dando dimostrazioni di grande solidarietà verso chi è meno fortunato di noi e si trova in condizioni molto povere.
Arrivederci, allora, alla prossima edizione di AfroItalyFashion!

Per informazioni, si può contattare la sede italiana di Mission Sinan in via Emanuela Loi, 8 – 12100 Cuneo;
tel. 0171.403.574; oppure comporre i nn. 320-3734039 – 339-3701387 (Didacus Communication).

Dino Sassi




SIRIA – Il monastero di san Mosè

IL DESERTO STA FIORENDO

Nel deserto siriano, un prete italiano ha rivitalizzato un antico monastero e raccolto attorno a sé una comunità che si propone, oltre alla preghiera e contemplazione, il dialogo tra culture e religioni, per far fiorire la pace in Medio Oriente.

Conobbi il Monastero di San Mosè l’abissino (Deir Mar Musa el-Habashi) nel 2000. Mi trovavo a Damasco. Raife, la signora presso cui vivevo, mi parlava sempre di un padre italiano, padre Paolo, che da qualche anno viveva in un antico monastero nel deserto, a una ottantina di chilometri da Damasco, nei pressi di Nebek a circa 1.400 metri di altezza.
Presi un autobus per Nebek; dove avrei potuto trovare un passaggio da qualche contadino che mi avrebbe accompagnata in prossimità del monastero. Non fu difficile trovare qualcuno che mi aiutasse, tutti conoscevano Deir Mar Musa, tutti conoscevano padre Paolo. Mi unii a due abitanti del luogo, anch’essi diretti al monastero.
Il ragazzo che ci aveva fatto salire sul suo motocarro ci accompagnò fino all’ultimo punto raggiungibile con mezzi di trasporto. Da lì avremmo dovuto continuare a piedi, perché l’unica via che portava direttamente al monastero era uno stretto sentirnero in salita tra le rocce. Il ragazzo ci disse di fare attenzione alle indicazioni che avremmo trovato, di non sbagliare sentirnero perché era quasi notte e poteva essere facile per noi perdere la strada.
Dopo 40 minuti di cammino, intravedemmo tra le rocce il lato posteriore di Deir Mar Musa. Entrammo attraverso una piccolissima porta di ferro, alta poco più di mezzo metro; questo era l’unico ingresso.
Ci venne incontro padre Paolo, che ci invitò a dividere con lui e alcuni compagni un piatto di patate e pomodori. Ci fece strada e ci condusse su un’enorme terrazza affacciata sulla valle.
A tutti gli ospiti e pellegrini che arrivavano al monastero non veniva chiesto niente a livello economico, solo di condividere tutto con la comunità, non solo il cibo e le stanze per dormire, ma anche partecipare attivamente alla vita quotidiana, aiutandoli nella cucina, nei lavori di pulizia, nell’organizzazione dei pasti e anche in lavori di costruzione e manutenzione dentro e fuori il monastero.

Ci sedemmo attorno alla tavola e padre Paolo iniziò a raccontare alcuni episodi della sua vita e del motivo per cui si trovava nel cuore del deserto siriano, a 1.400 metri di altezza.
Disse che è originario di Roma. Fu allievo dei gesuiti; dal 1977 è in Medio Oriente per servire l’impegno della chiesa nel mondo islamico. Nel 1982 arrivò alle rovine di Deir Mar Musa e se ne innamorò. Qui trovò la possibilità di realizzare i suoi sogni e desideri, quelli mistici, ma anche comunitari, culturali e politici.
Con l’aiuto di volontari del luogo e persone di passaggio iniziò i lavori di restauro del monastero e il recupero di oggetti e libri sparsi tra le macerie. Piano piano arrivarono altre persone, uomini e donne provenienti da diverse chiese e paesi. Nel 1991 nacque una comunità.
Raccontò che, fin dal tempo di Maometto, il monastero svolgeva una funzione socio-spirituale, nota, apprezzata e rispettata nel mondo musulmano. Costituiva un testimone della vita spirituale della regione. Diceva che, con l’impegno e lavoro suo e dei suoi compagni, voleva recuperare tale funzione e riproporla nel mondo attuale.
Deir Mar Musa si affaccia su una valle tra le montagne a oriente di Nebek. Quest’area era inizialmente abitata da cacciatori di gazzelle, pastori di capre e briganti. Era una zona ideale per il pascolo delle capre. Forse i romani avevano costruito inizialmente una torre di guardia.
In seguito i cristiani eremiti usarono le grotte naturali formatesi nella montagna come luoghi per la meditazione. Si creò quindi il primo centro monastico.
Sulla base della tradizione locale, San Mosè era il figlio del re dell’Etiopia. Rifiutò di accettare la corona, gli onori e un matrimonio, per dedicarsi alla ricerca di Dio. Iniziò a viaggiare in Egitto e in terra santa. Visse come un monaco a Qara, un villaggio siriano, e poi come un eremita tra queste montagne. Morì martirizzato dai soldati bizantini.
Con l’ausilio di studi storico-archeologici sappiamo, spiegava padre Paolo, che il monastero esisteva dalla metà del vi secolo, apparteneva al rito siriaco di Antiochia. Dalla traduzione delle iscrizioni arabe che si possono leggere sui muri, il monastero sarebbe stato costruito nel 450 dell’epoca islamica (1058 d.C.). Nel xv secolo è stato parzialmente ricostruito e allargato; ma dalla prima metà del xix secolo è stato completamente abbandonato. Lentamente cadde in rovina. Tuttavia rimase nella proprietà della diocesi siriana cattolica di Homs, Hama e Nebek. Gli abitanti di Nebek hanno sempre continuato a visitare il monastero con devozione e la parrocchia locale lottò per conservarlo.
Nel 1984 iniziarono i lavori di restauro, grazie a una comune iniziativa dello stato siriano, chiesa locale e un gruppo di volontari arabi e europei. Il restauro è stato completato nel 1994 grazie alla cooperazione tra gli stati italiano e siriano.

Il suono di una campanella ci informò che stava per iniziare, come ogni sera, l’ora del silenzio. Un’ora da dedicare interamente alla preghiera e riflessione. Improvvisamente ogni conversazione e ogni attività furono interrotte.
Terminato il silenzio, all’interno della chiesa padre Paolo iniziò a recitare i vespri secondo il rito siro-cattolico. Eravamo seduti attorno a lui, sopra dei grandi tappeti, con in mano una candela, perché il generatore di corrente non sempre riusciva a fornire energia sufficiente a illuminare tutte le stanze.
Dopo i vespri iniziò la messa.Terminata la lettura del vangelo, completamente in arabo, chi voleva poteva esprimere un suo giudizio, un suo pensiero, una sua riflessione sui brani letti. Poi nel momento della comunione, vennero fatti passare una ciotola con vino e una pagnotta di pane, con cui ognuno poteva condividere con gli altri il corpo e il sangue di Cristo.
Terminata la funzione padre Paolo mi indicò gli alloggi riservati alle donne, mentre gli uomini dormivano in stanze ricavate nella roccia fuori del monastero.

Il giorno seguente Elena, una ricercatrice in studi islamici, che avevo incontrato all’università di lingue orientali a Venezia e che per caso trovai lì, mi portò a fare un giro dell’edificio. Mi disse che, come padre Paolo, anch’essa era arrivata a Deir Mar Musa e se ne era innamorata. Aveva deciso di rimanere per aiutare, soprattutto nella riorganizzazione della biblioteca.
Mi accompagnò all’interno della chiesa dove, con la luce del sole, era più facile poter ammirare il ciclo di affreschi. Essi vengono fatti risalire al secolo xi-xii e rappresentano l’unico ciclo completo di affreschi sul giudizio universale scoperto in Siria.
La chiesa era stata costruita nel 1058. Lo spazio, circa 10×10 metri, era suddiviso in due parti: la più grande è a una navata centrale, illuminata da due piccole finestre; la seconda è il santuario con l’altare e l’abside. La piccola chiesa si affaccia sulla terrazza ed è situata nel cuore della costruzione.
Nelle altre zone si trovano la cucina, le stanze per dormire, un piccolo museo e una biblioteca, nati grazie al recupero di oggetti vari e libri.
Attraverso uno stretto passaggio, dove erano custodite delle enormi anfore di terracotta per conservare l’acqua, mi condusse fuori dal monastero dove stavano iniziando la costruzione di alloggi per i monaci e per gli ospiti. Al momento venivano utilizzate principalmente le grotte che servivano anche come stalle per il riparo degli animali. Ma la comunità si stava piano piano allargando, per questo risultavano necessarie nuove costruzioni.
Il materiale veniva portato dal paese con l’aiuto di muli e una piccola carrucola. Elena mi disse che moltissime persone del paese offrivano il loro aiuto, sia nel trasporto del materiale che nella costruzione degli edifici. Molto importante per loro era l’acqua. Stavano iniziando gli scavi di un pozzo, con il quale avrebbero non solo coperto il fabbisogno giornaliero degli ospiti, ma anche potuto creare un orto e frutteto.
Le parole di Elena, la vita della comunità con i suoi progetti, idee e sogni, il monastero con quell’atmosfera di pace e serenità, ma soprattutto di calore umano che regnava, mi avevano affascinata. Capivo benissimo le persone arrivate fin quassù e poi non più ripartite.
Quasi ogni volta che too in Siria passo da Deir Mar Musa, ogni anno ci sono dei cambiamenti, degli sviluppi. Ora è arrivato internet, c’è il telefono, il computer, anche se spesso le linee non funzionano.

La comunità che negli anni si è formata a Deir Mar Musa è una comunità di silenzio e preghiera. Attraverso la riscoperta dell’attività manuale e del valore del corpo e delle cose, vuole elaborare una vita di semplicità evangelica, in armonia con il creato e la società circostante.
L’ospitalità sta alla base di questa concezione di vita, punto di partenza anche per gli antichi monaci che popolavano questa zona. Il monastero è inteso come luogo di incontro, di approfondimento, di cultura, di comunione, dialogo e unità tra le chiese, senza perdere nulla della specificità siriaca e siro-cattolica del monastero stesso.
Vengono organizzati incontri interreligiosi a tema, cercando la mutua comprensione. La visita viene restituita andando a visitare moschee e centri islamici.
La relazione islamo-cristiana è l’obiettivo primario che cerca di raggiungere la comunità. Per questo viene utilizzata la lingua araba, non solo per la vita liturgica, ma anche per quella sociale, perché è lo strumento necessario per arrivare allo scopo prefisso.
Questo progetto, di approfondimento della collaborazione interculturale e interreligiosa, riceve aiuti dalla Comunità Europea, nell’ambito del programma per la diffusione della democrazia nel Mediterraneo, dalla Fondazione Remo Orseri di Roma e da altre associazioni.
A questo proposito, vengono organizzati seminari di studio e scambio di esperienze nel campo del discorso interculturale e interreligioso, sia sul piano locale che su quello internazionale. Attraverso gli scambi e i rapporti con altre realtà simili, favoriti dall’arrivo di internet, la comunità vuole partecipare alla creazione di una cultura condivisa, centrata sui valori della pace.
Sul piano sociale la comunità di Deir Mar Musa è impegnata nell’aiuto alle famiglie cristiane delle cittadine limitrofe. Il progetto di un dialogo interreligioso è infatti messo a rischio dalla continua migrazione di famiglie cristiane verso altri paesi, costrette a lasciare la Siria per motivi economici.
Un tempo il pluralismo culturale era molto importante in questa regione, era considerato un valore: un valore che la comunità di Deir Mar Musa vuole salvaguardare. Quindi il monastero aiuta, con il restauro di case tradizionali e con la costruzione di nuove, giovani famiglie della parrocchia, che non sarebbero in grado altrimenti di comprare o affittare una casa.
Su un piano puramente ambientale, la comunità ha avviato alcuni programmi di sviluppo agrario destinati alla pastorizia e alla coltivazione in luoghi desertici. Tale connessione di scopi ha favorito l’effettiva riconciliazione tra la comunità cristiana e musulmana per le quali il monastero è tornato a essere un simbolo di condivisione e riconciliazione.
La piccola biblioteca curata dai monaci, nata inizialmente dal recupero di testi trovati tra le rovine, si è negli anni sviluppata. L’intento è stato quello di raccogliere testi che potranno servire a operatori e formatori nel campo del dialogo. Essa non è esclusivamente specializzata sulle scienze religiose cristiane e musulmane, ma è anche foita di testi di antropologia, psicologia, sociologia e filosofia, discipline indispensabili per lo sviluppo del dialogo e la sua comprensione.
Un’attenzione particolare viene data agli studi di Louis Massignon (1883-1962). Questi fu uno dei precursori del dialogo tra cristiani e musulmani. Dedicò la sua vita al contatto spirituale tra il cristianesimo e l’islam. Le sue impegnate riflessioni e stile di vita sono fonte di costante ispirazione per la comunità.

Elisabetta Bondavalli




DOSSIER VIETNAM -Intervista a Marie Tran Thi Huyen, missionaria laica

FARSI ABORIGENI FRA GLI ABORIGENI

Missionaria laica vietnamita, 67 anni, Marie Tran Thi Huyen lavora da 40 anni tra i chau ma e k’ho, gruppi etnici delle regioni montuose attorno a Bao Loc.
Intervistata da Uca News, parla della esperienza ed esigenze di adattamento alla vita della gente nei villaggi indigeni.

Ci racconti qualcosa della vostra équipe di lavoro.
Il nostro gruppo, chiamato «Famiglia dei testimoni di Cristo» è formato da 15 persone e fa parte del Centro di evangelizzazione degli aborigeni di Bao Loc, fondato dal padre Laurence Pham Giao Hoa, 85 anni, che dal 1958 svolge l’attività missionaria tra le minoranze etniche della regione.
È un gruppo laicale, ma i suoi membri, che da molti anni si sono uniti a padre Hoa, hanno scelto volontariamente di vivere una vita di celibato e povertà al servizio dell’evangelizzazione delle minoranze etniche. Nel 2002 il nostro gruppo è stato ufficialmente riconosciuto dal vescovo di Da Lat.

Qual è il vostro metodo di evangelizzazione?
In generale non rimaniamo sempre nello stesso posto, ma ci spostiamo di villaggio in villaggio. Scegliamo una famiglia presso cui dimorare. Lavoriamo insieme, mangiamo e dormiamo sul pavimento di bambù, intorno al fuoco come tutta la famiglia.
Poi cerchiamo di incontrare e conoscere altre famiglie, di guadagnare la simpatia e la fiducia delle persone più importanti della comunità, specie i gia lang, i capi villaggio.
Una volta che la gente ha iniziato a considerarci come membri delle loro famiglie, è più facile che si apra all’ascolto di quanto vogliamo comunicare loro. A questo punto iniziamo a usare immagini cattoliche per spiegare i fondamenti del catechismo e la figura di Gesù, e cerchiamo dei laici cattolici kinh (maggioranza vietnamita) che possano essere buoni padrini dei catecumeni. I semi del vangelo sono cresciuti in questo modo.
Inoltre, abbiamo un buon numero di collaboratori che ci aiutano nell’insegnamento del catechismo alle minoranze etniche che appartengono alle 25 parrocchie di Bao Loc.

Quali altre attività portate avanti nei villaggi?
Insegniamo canti e catechismo agli adulti e ai bambini, prepariamo le coppie al matrimonio, aiutiamo le donne durante il periodo della gestazione, al momento del parto, curiamo i loro bambini e accompagniamo gli infermi all’ospedale. Inoltre, insegniamo alla gente a confezionare i propri abiti e aiutiamo le spose ad acconciarsi i capelli e farsi belle. Soprattutto ci uniamo alla gente nel lavoro nei loro campi.

Quali sono le sfide che avete affrontato?
La difficoltà più grande è la malaria. Io stessa sono stata più volte in fin di vita a causa di questa malattia. Prima del 1975, in piena guerra, era terribilmente pericoloso evangelizzare nelle comunità indigene. I soldati Sud e Nord Vietnam ci tenevano entrambi sotto controllo e ci minacciavano: sospettavano che lavorassimo come spie. I comunisti ci arrestarono tre volte, minacciando di ucciderci. Ci proibirono categoricamente di continuare il nostro lavoro religioso nei villaggi indigeni.
Dopo il 1975 non fummo più arrestati; ma continuarono le restrizioni dei nostri movimenti e attività. Tuttavia siamo ritornate nei villaggi di nascosto e abbiamo continuato a predicare la buona notizia ai nostri fratelli e sorelle indigene. Alcuni catechisti locali ci hanno aiutato nell’insegnare il catechismo e in altre attività apostoliche.

Incontrate difficoltà nel vivere in mezzo agli indigeni?
Non è facile abituarsi al loro stile di vita. Anche condividere un pasto con loro a volte è un grande problema: essi puliscono i piatti con le loro gonne; mangiono il riso condito con sale grosso, pesce essiccato di basso prezzo, mam (salsa di pesce) e sangue di bufalo. Alcuni anni fa, a una esponente del nostro gruppo fu offerto un piatto di girini, cucinati in salsa di pesce.
Inoltre, dobbiamo rispettare le loro credenze e costumi tradizionali: essi credono che la vita delle persone, soprattutto dei malati, dipenda dagli yang (divinità) e sia sotto il loro influsso. I parenti dell’infermo uccidono un pollo o una capra come offerta agli yang; il sangue dell’animale viene spalmato sulla fronte del paziente, sulle porte e su un altare. Spesso il malato è portato allo sciamano per essere sottoposto alle sue cure, compensate con qualche dono.
Quando muore qualcuno, gli abitanti del villaggio non possono visitare la famiglia del defunto per 100 giorni per paura della morte. Tutte le cose appartenenti al defunto vengono poste accanto alla tomba, il corpo avvolto in fasci di bambù e trasportato al cimitero.
Intanto insegniamo alla gente, passo dopo passo, come curare l’igiene personale, come trattare il cibo in modo sano e accudire ai malati con uno spirito di servizio.

Cosa le ha insegnato l’esperienza vissuta nelle comunità indigene?
Prima di tutto che dobbiamo farci indigeni fra gli indigeni: vivere con loro, mangiare con loro, parlare il loro idioma e, soprattutto, dobbiamo amarli. Sono molto contenti che impariamo la loro lingua e si sentono orgogliosi quando possono insegnarcela. Questa è senza dubbio la via più rapida per conquistarsi l’affetto e la fiducia della gente.
Quando andiamo in un villaggio e parliamo la lingua del posto, siamo accolti come parenti. Se domandiamo qualcosa in vietnamita, la gente spesso tace o evita di rispondere.
Sono persone che non amano i ragionamenti complessi, formalità e cerimonie. Sono semplici, onesti, molto sinceri e fedeli. Per questo non possiamo mai tradire la loro fiducia. Se si manca, anche una sola volta, alla parola data, si perde per sempre la fiducia che hanno posto in noi.
(da Asia Focus)

Asia Focus




DOSSIER VIETNAM -I Montagnard: i più tartassati e… dimenticati

CACCIA APERTA… AL CRISTIANO

I francesi li chiamarono montagnard (montanari)
e gli americani storpiarono il nome in yards;
i vietnamiti li chiamano moi (selvaggi)
e il governo nguoi dan toc (popolo tribale).
Essi si definiscono degar, «figli delle montagne». Sono uno dei popoli più antichi del sud-est asiatico e vivono nella penisola indocinese da oltre 2 mila anni.

I montagnard rappresentano una quarantina di differenti gruppi aborigeni, appartenenti ai ceppi linguistici mongolo-tibetano e malese-polinesiano. La maggioranza vive nel Vietnam centrale; numerosi sono in Cambogia, molto meno in Laos. I due gruppi principali sono i bahnar (circa 400 persone) e i jarai (300 mila), seguono i rhade, koho, sedang, bru, pacoh, katu, jeh, cua, halang, hre, rongao, monom, roglai, cru, mnong, lat, sre, nop, maa, stieng…

TRA DUE FUOCHI
I montagnard non sono sempre stati sulle montagne. Più di 2 mila anni fa, occupavano gran parte del sud dell’Indocina, da Hué a punta Ca Mau. Sui monti furono spinti progressivamente dall’espansione di popolazioni più forti e numerose: dal sud i cham, di origine hindu, dal nord i vietnamiti, di origine cinese.
Alla fine del secolo xvii, quando i vietnamiti conquistarono anche il regno meridionale dei cham, i montagnard si trovarono definitivamente relegati tra gli altipiani centrali del Vietnam, dove trovarono rifugio e vissero in pace per molte generazioni, sviluppando le coltivazioni e l’allevamento del bestiame.
I vietnamiti, pur continuando la loro espansione, non si avventurarono mai tra i monti, anche perché li credevano infestati da spiriti, che avvelenavano i ruscelli che scendevano da quelle montagne, provocando la malaria.
Gli unici a entrare e vivere nel loro territorio furono i missionari, che vi impiantarono scuole e avviarono l’evangelizzazione.
I francesi fissarono i confini tra la colonia vietnamita e i due regni di Cambogia e Laos, sotto il proprio protettorato, frenando così l’espansione dei vietnamiti. Nel 1895 entrarono anche nel territorio dei montagnard, ma riconobbero loro il diritto sulle terre che occupavano e coltivavano. Nei negoziati del 1946, fu ratificato il diritto di essere nazione, chiamata Pays montagnards du Sud Indochinois (paese dei Montagnard dell’Indocina del sud).
Nella prima guerra indocinese tra francesi e indipendentisti (1946-54), i montagnard furono presi tra i due fuochi e, con la fine del colonialismo, videro i vietnamiti prendere il controllo del loro territorio, si sentirono chiamare moi (selvaggi) e subirono lo stesso trattamento avuto dagli indiani in America o dagli aborigeni in Australia: massacri, sfruttamento delle risorse, privazione di ogni diritto.
In quegli anni la popolazione dei montagnard contava 3 milioni di persone. Se avesse avuto la possibilità di crescere con lo stesso tasso di incremento del resto del paese, oggi sarebbe più che raddoppiata. I superstiti sono tra i 700 e gli 800 mila.
La resistenza
Finita la prima guerra indocinese i montagnard non volevano stare con il Vietnam del nord e neppure con quello del sud. Nel 1957 nacque il movimento Bajaraka, che chiedeva pacificamente l’autonomia del loro territorio. Il governo sud-vietnamita, però, represse brutalmente il movimento e imprigionò i loro leaders.
Durante la seconda guerra di Indocina (1963-1975), i montagnard si dimostrarono fortemente anticomunisti e si schierarono con i governi sostenuti dagli statunitensi. E quando gli americani entrarono in guerra, 40 mila montagnard si arruolarono dalla loro parte, nella speranza di vedere riconosciute le richieste di autonomia politica, sociale e culturale.
Il territorio diventò un sicuro rifugio per l’esercito vietnamita e i montagnard si trovarono di nuovo tra due fuochi: l’85% dei loro villaggi furono rasi al suolo da bombardamenti e rappresaglie d’ambo le parti.
Nel 1969, tra le popolazioni cristiane delle montagne nacque un altro movimento: il Fronte unificato di lotta delle razze oppresse (Fulro). Tale movimento rappresentava politicamente le minoranze etniche presso il governo di Saigon e faceva parte di quella «terza forza», che manifestava per la pace e non voleva né il governo militare filoamericano né un regime comunista come nel Vietnam del nord.
La vittoria dei comunisti spazzò via tutte le formazioni pacifiche e democratiche: il Fulro, insediatosi in Cambogia, continuò la resistenza militare fino al 1992, quando gli ultimi 400 membri furono consegnati alle Nazioni Unite.
Oggi 800 montagnard, rifugiati negli Usa, continuano a tener desta la speranza di libertà di quelle centinaia di migliaia di connazionali sopravvissuti ai genocidi e che non hanno mai accettato di sottostare al giogo del regime comunista, nonostante le decisioni prese dalla comunità internazionale.

COLPEVOLI DI ESSERE CRISTIANI
A Kontum, nel cimitero dell’istituto delle Missioni estere di Parigi, si possono contare più di 200 tombe di missionari e suore francesi che hanno dato la vita per gli indigeni. I missionari cattolici e protestanti, infatti, sono stati quasi gli unici, con alcuni funzionari dell’epoca coloniale, a interessarsi di loro, aprendo scuole e ospedali, istituti tecnici e professionali.
Gran parte dei montagnard sono cristiani. Negli anni ‘70 essi costituivano quasi il 40% dei cristiani sudvietnamiti. Le diocesi di Kontum, Ban Me Thuot e Dalat avevano propri sacerdoti e parrocchie, con tante conversioni e vocazioni.
Con la riunificazione del paese e il trionfo di Ho Chi Minh (1975), il regime comunista di Hanoi ha nazionalizzato le terre dei montagnard, non riconoscendo nessun diritto sui territori che abitavano da millenni. Centinaia di villaggi sono stati distrutti e spostati su terre meno fertili per far posto alle piantagioni di caffè di proprietà dello stato.
Il governo comunista non li ha mai sopportati, prima perché si erano alleati con gli americani, poi perché molti di loro sono cristiani e adesso anche perché l’unico interesse del governo è prendere le loro terre.
Mai rassegnati al regime oppressivo e persecutorio, i montagnard hanno fatto numerose manifestazioni pubbliche per reclamare l’indipendenza e il ritorno alle loro terre ancestrali e alla libertà religiosa.
Nel febbraio 2001, 20 mila persone manifestarono contro il governo. Ma secondo alcuni, è possibile che il governo abbia ordinato ai suoi quadri di suscitare tali proteste, per poter decimare tutti i capi dei montagnard, attirandoli nella trappola.
Sta il fatto che, con l’impiego di migliaia di poliziotti e soldati, i manifestanti furono dispersi; alcuni rimasero uccisi e, nelle settimane seguenti, centinaia di leader politici e religiosi furono arrestati e poi condannati a pene comprese fra i 3 e 12 anni di prigione.
L’organizzazione Human Right Watch (Hrw) ha documentato gravissime violazioni dei diritti umani ai danni della popolazione dei montagnard: arresti, detenzione e interrogatori arbitrari, torture della polizia e, più in generale, ripetute violazioni dei diritti alla libertà religiosa, restrizioni sui viaggi; rimpatri forzosi di coloro che avevano cercato di fuggire nella vicina Cambogia. Sempre secondo Hrw un centinaio di persone sono ancora detenute a causa di quella manifestazione.

«PASQUA DI SANGUE»
Più spietata fu la repressione della vigilia di pasqua, 10 aprile 2004. Oltre 130 mila cristiani, provenienti dai più sperduti villaggi, avevano raggiunto Buon Ma Thuot, capoluogo provinciale degli altipiani, per pregare e protestare pacificamente davanti agli edifici del partito comunista vietnamita contro la repressione religiosa e la confisca delle loro terre. Lo slogan era: «Felice giorno, Cristo è risorto!».
Le forze governative impedirono il raduno con le armi, causando centinaia di feriti e 10 morti (2 secondo il governo). La «pasqua di sangue» fu seguita dalla «caccia al cristiano», facendo salire a 400 il numero dei morti, secondo il Partito radicale.
L’incertezza delle cifre è dovuto al fatto che il governo ha chiuso l’area a tutti gli stranieri e giornalisti. Ma le notizie trapelano attraverso i fuggiaschi che riescono a raggiungere Phnom Penh, in Cambogia, dove esiste un rifugio per loro, sotto la protezione delle Nazioni Unite.
Centinaia di manifestanti sono stati arrestati, processati e condannati a vari anni di prigione a seconda delle accuse: turbativa dell’ordine pubblico, resistenza alla polizia, incitamento alla protesta, favoreggiamento della fuga oltre confine, attentato alla sicurezza e unità nazionale… I processi sono ancora in corso; l’ultimo di cui si ha notizia ha avuto luogo nel gennaio scorso.
Testimoni oculari, intervistati nei campi dei rifugiati in Cambogia, hanno parlato anche di uccisioni, varie forme di «crocifissione», iniezioni letali, pestaggi, trattamenti degradanti, cerimonie pubbliche in cui sono imposte dichiarazioni di fedeltà alla bandiera vietnamita e di ripudio della fede cristiana.

DIMENTICATI DA TUTTI
Nonostante l’allontanamento di preti, pastori e missionari, i montagnard continuano a tenere viva la loro fede grazie all’attività dei laici; seguono la preghiera liturgica ascoltando Radio Veritas, che ritrasmette da Manila i programmi della redazione vietnamita della Radio vaticana. In vari villaggi hanno ricostruito chiese di legno al posto di quelle distrutte dalla furia comunista.
Ma, più delle atrocità di cui sono vittime, i montagnard paventano il silenzio che regna sulla loro sorte. Non è solo il regime a nascondere i propri misfatti; ma anche l’opinione pubblica internazionale resta insensibile alle loro sofferenze. I paesi occidentali continuano a firmare accordi di cooperazione con il Vietnam, che includono solenni clausole sul rispetto dei diritti umani; dopo di che le clausole vengono ignorate e i finanziamenti arrivano regolari a foraggiare la tirannia.
C’è di più: i cristiani montagnard si sentono dimenticati anche dai loro fratelli di fede.

Benedetto Bellesi