NICARAGUA Mondi locali ed ecosistemi a rischio

Un sacco di riso transgenico proveniente dagli Usa costa
meno di un sacco di riso naturale prodotto in Nicaragua.
È sempre più incerto il futuro di indigeni e contadini di fronte all’avanzata dell’Alca, del Piano Puebla-Panamà, del Corridoio biologico mesoamericano.
A tutto ciò si aggiungono le zone franche e le fabbriche
di assemblaggio (maquilas), che certamente non aiutano lo sviluppo locale.

Managua. L’America Centrale – come scriveva Pablo Neruda – è la cintura del continente americano e al centro troviamo il Nicaragua. A Managua, la capitale, abbiamo incontrato esponenti della società civile impegnati nella difesa della sovranità alimentare e di un modello di sviluppo economico congruente con i bisogni della maggioranza dei nicaraguensi.
Il settore agricolo e l’allevamento hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo da protagonisti nello sviluppo economico e sociale del piccolo paese. L’agricoltura è da sempre la componente più importante dell’economia nicaraguense ma, negli anni, è stata segnata profondamente dalla travagliata storia del Nicaragua. Dopo i 50 anni di dittatura somozista (finiti nel 1979 con la rivoluzione sandinista), nel 1990 l’agricoltura ha cominciato a subire le conseguenze dell’applicazione del modello neoliberale. Da una parte, infatti, i governi subentrati negli anni Novanta non hanno fatto altro che promuovere questa tendenza economica e dall’altra le riforme strutturali imposte al paese hanno aggravato la già difficile situazione della classe contadina.
Ne parliamo con José Adan Rivera Castillo, vicepresidente della Atc-Unapa (Associazione dei lavoratori della campagna), l’associazione più rappresentativa degli agricoltori nicaraguensi.
«La nostra organizzazione – ci spiega – lavora con due blocchi di persone: lavoratori salariati raggruppati in 131 sindacati e piccoli produttori raccolti in 345 cornoperative. L’Atc ha iniziato a lavorare nel 1977 prima del trionfo della Rivoluzione del Fronte sandinista di liberazione nazionale, avvenuto nel 1979, quando cadde la dittatura di Anastacio Somoza. Dopo questa data ebbe inizio un processo in cui per la famiglia rurale contadina si aprì uno spazio nuovo: la riforma agraria, dove si distribuì la terra a coloro che la lavoravano, cioè ai contadini. Questo grande cambiamento in effetti colpì molto i proprietari terrieri e nel 1984 gli Stati Uniti iniziarono la guerra contro il Nicaragua.
È stata questa guerra che fece rimanere incompiuta la riforma agraria, perché essa non consisteva soltanto nel consegnare la terra ai contadini ma anche nell’avere accesso alla formazione, alla tecnologia, all’educazione, alle reti commerciali: insomma integrazione verticale e orizzontale nel sistema produttivo contadino. Non ci fu il tempo di portare a compimento la riforma agraria perché la guerra, l’invasione, i porti minati e le migliaia di morti non lo permisero. Seguì una pressione estea che finì nel 1990 con il disarmo totale di tutte le parti in conflitto: la controrivoluzione da una parte e il popolo e i contadini dall’altra. Poi iniziarono i governi neoliberali. Questi stabilirono uno schema giuridico agrario a favore della controriforma agraria, che mirava a spogliare i contadini delle loro terre per beneficiare i grandi proprietari terrieri, che erano fuggiti 25 anni prima e che volevano la restaurazione delle loro proprietà. Tutto ciò fece sì che gli ultimi tre governi – come quello di Doña Violeta Barrios de Chamorro del 1990, quello di Aoldo Aleman del 1996 e l’attuale governo di Enrique Bolaños del 2000 – decostruirono quelli che erano gli strumenti di appoggio alla piccola produzione, cominciando dalla Banca nazionale di sviluppo (che si occupava del finanziamento ai piccoli produttori), che privatizzarono. In seguito crearono una serie di leggi che riguardavano la proprietà per obbligare i contadini ad abbandonare la loro terra e non dettero nessun tipo di appoggio alle associazioni di contadini organizzati: fu un piano strutturato per spogliarci delle nostre terre. Perché noi, come contadini, ci troviamo in totale svantaggio e per uscire da questa situazione stiamo stimolando l’associazionismo; in tal senso abbiamo approvato una nuova legge generale delle cornoperative che è il modello dell’organizzazione a cui vogliamo dare impulso. L’obiettivo è poter sviluppare l’attitudine imprenditoriale presso i piccoli produttori e contadini del Nicaragua, che rappresentano più dell’80% della produzione alimentare nazionale e hanno un grande potenziale di sviluppo. Non si tratta di dire: “il Cafta e l’Alca sono cattivi”; “quella è una politica colonialista”».
«Noi dobbiamo cercare una risposta alternativa. Io credo che ci siano due modelli in conflitto: un modello esclusivo, concentratore, punitivo e un altro partecipativo, autogestionario, umanista e di solidarietà. Sono due sistemi contrapposti, è una lotta ideologica permanente in tutti i campi. Stiamo creando strategie comuni con il movimento sociale e con le università perché difendano le posizioni contadine. In altre parole; stiamo ricostruendo le alleanze sociali per affrontare questo fenomeno, quest’offensiva neoliberale costituita dall’Alca, dal Plan Puebla-Panamà, dal Corridoio biologico mesoamericano».

GOVERNI SUCCUBI, LAVORATORI IN GINOCCHIO
La classe dirigente centroamericana al potere (fatta eccezione per la Costa Rica, unico paese dell’America Centrale ad aver resistito all’Alca) non ha una strategia alternativa, un progetto autoctono di sviluppo, solamente ripete gli argomenti della controparte statunitense che chiaramente ha un progetto ben preciso e sta tentando in tutti i modi di ottenere il via libera. La classe contadina ha un suo progetto di sviluppo ma è molto difficile da attuare visto che le negoziazioni sono state fatte in segreto come ci spiega Hermogenes Rodriguez della giunta direttiva della Fenacornop (Federazione nazionale di cornoperative agricole, di allevamento e agroindustriali), la federazione di cornoperative più importante del Nicaragua formata da 620 cornoperative (di cui 371 si occuppano di produzione agricola e di allevamento e 249 cornoperative prestano servizi vari).
«Noi che abbiamo seguito queste negoziazioni, all’inizio molto segrete, le abbiamo trovate molto compartimentate, per questo abbiamo dovuto impegnarci molto per conoscere i testi originali. Prima è stato necessario conoscerli a livello di dirigenza della Federazione e poi trasmetterli alle nostre basi sociali. Noi crediamo che il Nicaragua e, perché non dirlo, l’America Centrale si siano avventurati in una negoziazione di un trattato complesso e pericoloso, come l’Alca, sotto la pressione dell’ondata di globalizzazione mondiale. Quindi, si tratta di una imposizione che il paese sta soffrendo e che non ha avuto una seria analisi da parte del governo. Queste trattative per la loro natura sono state condotte da governo a governo, in modo molto isolato, tagliando fuori il settore sociale e produttivo. Solo molto tempo dopo, i politici hanno inscenato un più ampio coinvolgimento per giustificarsi e poter dire che la società civile e i settori coinvolti in questo trattato hanno dato il loro parere».

PRODUTTORI LOCALI SCHIACCIATI DAL MERCATO
Il trattato dell’Alca e più precisamente il Cafta è indispensabile per gli Stati Uniti, innanzitutto perché consente loro di piazzare su un mercato esterno (quello centroamericano) le loro eccedenze agricole e la produzione industriale che non è competitiva all’interno della loro economia. In secondo luogo, l’Alca è indispensabile per incrementare il processo di remissione dall’estero di utilità, pagamenti per royalties e capitali, processo che sostiene l’economia statunitense. Infine, gli Usa hanno bisogno di questo megamercato latinoamericano per facilitare le sue transnazionali nell’appropriazione di risorse strategiche indispensabili per aumentare la loro competitività. Di fronte a questa chiara strategia politico-economica, il governo nicaraguense ha ceduto incondizionatamente e ora pretende di far diventare il Nicaragua un paese ancora più povero e analfabeta. A tal proposito abbiamo incontrato Alvaro Fiallos Oyanguren, presidente della Unag (Unione nazionale agricoltori e allevatori), organizzazione contadina che con i suoi 72.634 membri è il consorzio più importante dei produttori e allevatori medi del Nicaragua.
«Il governo del Nicaragua ha elaborato la teoria che questo paese debba svilupparsi in base al settore dei servizi, come il turismo e le zone franche, convertendo il piccolo produttore – considerato non efficiente – in operaio di maquila e addetto del turismo.
L’attuale situazione di crisi ha fatto aumentare l’analfabetismo, che nella campagna raggiunge ormai il 60%, e, in generale, ha peggiorato le condizioni di vita della gente. Infatti la popolazione in stato di povertà si aggira intorno al 70%, di cui un 20-25% si trova in una situazione di estrema povertà. Questo è, a mio parere, il prodotto dell’applicazione delle riforme strutturali, della politica del Fondo monetario internazionale e della preferenza espressa da questo governo per le politiche di investimento estero, a totale scapito dei produttori nazionali.
Con la ratifica del Trattato di libero commercio (Alca) l’effetto sarà completamente negativo: non c’è nessuna capacità reale di competere – soprattutto nel settore rurale – con i produttori degli Stati Uniti che hanno tutte le condizioni materiali ed economiche a loro favore, come la modeizzazione tecnologica e i grandi sussidi da parte dello Stato. Ovviamente tutto ciò altera le relazioni commerciali. Arrivano in Nicaragua prodotti statunitensi sussidiati a competere con i nostri prodotti che non hanno neanche il finanziamento di base, con la paradossale conseguenza che un sacco di riso transgenico Usa costa meno di un sacco di riso naturale coltivato in Nicaragua. Ne deduciamo che la competitività che dovrebbe stabilirsi in un trattato tra eguali non esiste».

BIODIVERSITÀ A RISCHIO
Accanto al Cafta c’è il Ppp (Piano Puebla-Panama) orientato ad offrire l’infrastruttura al megamercato americano. Il suo disegno è stato realizzato dai tecnocrati della Banca mondiale e del Bid (Banca interamericana di sviluppo) e nella sua formulazione comprende uno spazio che si estenda dallo Stato di Puebla nel sudest del Messico, attraverso altri 8 stati messicani, per arrivare a comprendere tutti i paesi Centroamericani fino a Panamà. Il finanziamento complessivo si aggira intorno ai 4.4 mila milioni di dollari, di cui il 96.3% è assegnato alla costruzione di strade, il restante 3.7% è per lo sviluppo sostenibile e la protezione del Cbm (Corridoio biologico mesoamericano) che si estende dal Chiapas messicano fino al Panamà.
Il Ppp prevede la costruzione di reti di autostrade, oleodotti e gasdotti, porti, aeroporti, dighe e un sistema di interconnessione energetica, oltre all’impiantazione di zone franche in tutta quest’area geografica. Tutto questo in una delle aree più incontaminate del pianeta, coperta ancora per gran parte dalla foresta pluviale e che, a livello mondiale, è seconda, per biodiversità, solo all’Amazzonia. Infatti quest’area, pur coprendo appena lo 0,5% della superficie totale del pianeta, alberga il 7% di tutta la biodiversità conosciuta nel mondo. Appare dunque evidente come uno degli obiettivi principali degli Usa sia proprio estrarre la riserva biogenetica da questa area con l’aiuto del Cbm, con lo strumento giuridico del brevetto delle specie biogenetiche e con l’ausilio dell’infrastruttura prevista dal Ppp. A questo quadro allarmante va aggiunta la risorsa-acqua che in questo momento, con la rivoluzione biotecnologica, è diventata un patrimonio strategico.

CONTRO GLI INDIGENI, CONTRO I CONTADINI
Un altro aspetto importante della strategia occulta del Ppp consiste nel costruire un sistema di 30 dighe lungo l’asse Puebla-Panamà e in questo modo interrompere le reti di sviluppo autoctone e smembrare le popolazioni delle comunità indigene e delle popolazioni contadine, che per il loro stretto rapporto di interdipendenza con la natura sono i più indifesi di fronte a questo tipo di cambiamenti. In un secondo momento il Plan Puebla-Panamá intende consegnare titoli di proprietà a queste stesse popolazioni, in cui l’uso della terra è invece ora comunitario, per poter smembrae definitivamente l’economia collettiva.
Queste popolazioni stanno resistendo al Ppp, perché coscienti che esso verrà a sconvolgere il fragile equilibrio del loro sistema ecologico ed eco-compatibile. Di questo ci parla José Adan Rivera dell’Atc.
«Noi siamo stati tutto questo tempo in resistenza di fronte a questa situazione che viene a coronarsi con macro-programmi come il Ppp perché si sono rivelati illusori e dannosi. Quest’ultimo infatti si è tradotto solamente nell’articolazione della strada Panamericana , ma, al di fuori di questa, tutte le strade intee verso le comunità sono distrutte, non c’è nessun tipo di comunicazione intea, a conferma che la infrastruttura viaria del Ppp è stata concepita per favorire il passaggio di merce del Nord verso il Sud e per saccheggiare risorse dal Sud verso gli Stati Uniti.
Anche nel settore energetico il quadro appare contraddittorio. Nel campo dell’energia, infatti, ci sono grandi interconnessioni elettriche ma ancora il 40% delle comunità locali non hanno l’elettricità. In base a tutte queste considerazioni, possiamo davvero affermare che il Nicaragua sia stato convertito in una discarica a cielo aperto per quanto riguarda l’ambiente, e in una riserva di mano d’opera a basso costo per quanto riguarda l’aspetto sociale. Non è infatti un caso se tutta la strada Panamericana è stata disseminata di zone franche che, oltre all’elevato profitto delle multinazionali, producono lo smembramento culturale della gioventù contadina con false illusioni di guadagno.
Con la diminuzione numerica degli occupati nel settore agricolo, i Paesi centroamericani, vincolati dai nuovi trattati neoliberali, diventeranno ancor più dipendenti dalle importazioni alimentari estere, con gravi ripercussioni sulle condizioni di vita della popolazione».

A VOI L’INQUINAMENTO, A NOI IL PROFITTO
In questa direzione si sta muovendo l’attuale governo nicaraguense che ha deciso di dare forte impulso al cosiddetto «Piano nazionale di sviluppo» (Plan nacional de desarrollo o Pnd). Scopo principale di tale iniziativa è quello di creare dei clusters, ovvero una serie di concentramenti di attività economiche composte da infrastrutture come fabbriche, reti di comunicazione, forza lavoro ecc.
Sono sei i clusters previsti: energia, turismo, prodotti tessili, prodotti caseari, prodotti forestali e agrumi. Dietro alla creazione di questi clusters c’è un lungo elenco di trasnazionali, come Enron, Chiquita Brands, Del Monte Foods, Nestlé, Philip Morris, Danone, Parmalat ecc. Queste transnazionali si doteranno di concimi, macchinari, consulenza tecnica di alto livello ecc. provenienti dall’estero e all’estero toeranno anche i guadagni (come nel caso della maquilas o zona franca) e pertanto non lasceranno al Nicaragua altro che un salario da fame.
Infatti, questo tipo di economia in America Latina venne chiamata «economia rondine», con allusione al carattere volatile di tali investimenti. Tutto questo senza parlare dell’inquinamento che lasceranno dietro di sé queste industrie, a causa dell’inesistenza di norme a difesa dell’ambiente.
Il Nicaragua è un paese povero e non sarà certo grazie a questo vecchio modello di agricoltura d’esportazione che uscirà dalla povertà. Invece, a nostro parere, una possibile via d’uscita sostenibile si trova nel modello alternativo proposto dalle organizzazioni contadine di piccoli e medi produttori e allevatori (che in Nicaragua rappresentano il 99%), dalle cornoperative e dalla gente che lavora nel settore terziario. Questo nella convinzione che l’economia popolare abbia la capacità di risolvere i problemi laddove ha fallito il modello agricolo d’esportazione, come ci racconta Orlando Nuñez Soto, direttore del Cipres (Centro di ricerca e promozione dello sviluppo rurale e sociale), un centro di ricerca che appoggia, attraverso 30 progetti specifici, lo sviluppo rurale di 150 comunità contadine, 5mila famiglie in tutto il Nicaragua.
«La nostra proposta è di sussidiare le famiglie contadine perché producano latte, uova, carne, frutta, verdure e cereali, e in questo modo compensino con la produzione alimentare i problemi che l’economia commerciale crea loro.
La nostra proposta di produzione alimentare è integrale e si irradia all’interno delle famiglie, all’interno delle cornoperative, all’interno delle comunità. Questo permette alla comunità di amministrare meglio le relazioni con la città, tanto a livello commerciale quanto a livello politico: è questa la nostra strategia. Il problema è che al Nicaragua è stato chiesto dai Paesi ricchi di produrre beni commerciali per l’esportazione come legno, caucciù, oro, cotone e caffè a seconda delle necessità delle metropoli europee e nordamericane. Parallelamente i contadini hanno prodotto per mangiare perché la produzione commerciale non ha mai lasciato eccedenze al Nicaragua a causa della vendita sottoprezzo di tali beni d’esportazione. In questo modo il Nicaragua si trova al centro di un circolo vizioso: più produce più si decapitalizza, più esporta più le sue terre diventano sterili, più sfrutta le risorse ambientali e più perde la sua biodiversità e la sua gente emigra. Oggi, con il “Piano nazionale di sviluppo”, assistiamo a un’offensiva ancora maggiore: non solo ci richiedono i beni commerciali per l’esportazione, come nel passato, ma addirittura ci viene proposto che il Nicaragua si trasformi in mercato per i paesi industrializzati. È noto infatti che l’Europa e il Nord America producano e vendano alimenti e abbiano problemi per “piazzare” le loro eccedenze: pertanto hanno bisogno dell’America Latina, e in questo caso del Nicaragua, come mercato di consumo dei loro prodotti. Si tratta di una lotta in corso tra noi che vogliamo continuare a produrre alimenti per conservare la nostra sovranità alimentare e i paesi ricchi e le imprese transnazionali che vogliono il contrario. Praticamente è in atto il tentativo di smantellamento dell’agricoltura centroamericana che, se riuscisse, costringerebbe il Nicaragua a vendere, per poter sopravvivere, le spiagge, le sorgenti d’acqua e gli ultimi boschi che restano».

BOX 1
Questo viaggio…

In questo viaggio attraverso l’America Centrale abbiamo raccolto molte testimonianze. Abbiamo voluto seguire una linea immaginaria che transita per i quattro paesi, partendo dal Nicaragua, passando per l’Honduras e El Salvador ed infine arrivando in Guatemala. Questa linea tocca i punti deboli di ognuna di queste piccole realtà, diverse tra loro, ma con problematiche che si estendono all’intera area centroamericana. Per il Nicaragua, ad esempio, abbiamo intervistato esponenti e leader contadini alla luce della crisi della sovranità alimentare, che espone i contadini al rischio di sparizione e fa sì che il problema della povertà acquisisca dimensioni endemiche e probabilmente irreversibili. Dal Nicaragua abbiamo viaggiato verso nord, verso Tegucigalpa, capitale dell’Honduras, dove abbiamo incontrato dirigenti sindacali, donne leader contadine e diversi esponenti dei Centri di difesa dei diritti umani. Abbiamo voluto investigare sulla situazione delle zone franche o «maquillas» (che in castigliano antico significava: «quegli avanzi» che si lasciano al proprietario del mulino per l’utilizzo dei suoi macchinari) e più specificamente la situazione dei diritti delle donne che vengono pagate intorno ai 25 centesimi di euro all’ora e costituiscono la quasi totalità della mano d’opera all’interno delle zone franche.
Andando ancora al nord, a 5 ore di strada dalle montagne di Tegucigalpa, troviamo El Salvador, probabilmente il paese più piccolo dell’America Latina, chiamato non per altro «il pollice d’America». A San Salvador – la capitale – abbiamo avuto degli incontri con economisti rappresentanti di organizzazioni sociali e contadine e con i membri di un Centro di difesa dei diritti umani. Abbiamo cercato di capire di più sul perché oltre un quarto della popolazione salvadoreña è residente negli Stati Uniti: sarà forse perché più del 90 per cento dei suoi fiumi sono inquinati, la campagna senza acqua si sta svuotando, le città crescono a ritmi impressionanti e con queste le enormi bidonvilles che la circondano.
Infine, siamo arrivati in Guatemala, paese per più della metà indigeno. A Città del Guatemala abbiamo intervistato il procuratore dei diritti umani e alcune donne indigene che sono impegnate nella «ricostruzione della memoria storica» dopo il conflitto armato che finì solo nel 1996 e che per tre decenni pesò sulle popolazioni indigene del Guatemala con più di 250.000 vittime. Queste donne lottano per la difesa dei diritti umani, per il compimento degli accordi di pace, per la partecipazione femminile alla vita politica e civile e per il risarcimento delle vittime della guerra.
L’America Centrale per tanti aspetti è la parte più debole dell’America Latina e non reggerà di certo alle conseguenze che deriveranno dai trattati come il Cafta, il Ppp e il Cbm nella attuale situazione in cui si trovano. Proveremo a spiegare il perché lasciando parlare i protagonisti delle società civili centroamericane.

BOX 2
Glossario


Alca: «Area di Libero Commercio delle Americhe». Trattato commerciale firmato al summit di Miami nel 1994 dai 34 capi di stato del continente americano. Prevedeva una tappa iniziale di «preparazione», fino al 1998 con l’intenzione di concludere l’accordo nel 2005. In termini di mercato coinvolge una popolazione di 780 milioni di abitanti, un terzo del prodotto lordo globale e il 20% del commercio mondiale. L’Alca è promosso dagli Stati Uniti, che pretendono di utilizzarlo come strategia per riacquistare la sua egemonia perduta in materia di competitività nei confronti dell’Europa e dei paesi asiatici. Attualmente molti paesi dell’America Latina hanno opposto resistenza, tra essi principalmente il Brasile, il Venezuela e l’Argentina.

Ppp: «Piano Puebla-Panamà». Vi partecipano i 9 stati più poveri del sud del Messico, insieme ai paesi centroamericani e a Panamà. È un macro programma centrato nella costruzione di infrastrutture (porti, autostrade, reti ferroviarie, corridoi energetici, ecc.) lungo l’America Centrale, che permetterà in futuro di estrae le risorse e trasportare merce verso l’America del Sud.

Cafta: «Area di Libero Commercio per l’America Centrale». Sessione dell’Alca circoscritta ai paesi dell’America Centrale.

Cbm: «Corridoio Biologico Mesoamericano». Ne fanno parte Messico, Belize, Guatemala, El Salvador, Honduras, Nicaragua, Costa Rica e Panamà. È un sistema di cornordinamento territoriale di aree protette. Proposta parallela al Ppp e al Cafta, viene cornordinata dai ministri dell’ambiente dei paesi dalla Mesoamerica all’interno della Commissione centroamericana dell’ambiente e lo sviluppo (Ccad).


Josè Carlos Bonino