Appunti (nostalgici) di un giovane missionario

DOVE L’UTOPIA MUOVE LE MONTAGNE

Tre anni trascorsi tra gli indios Nasa del Cauca.
Viaggio di ricordo tra tanti ricordi all’orizzonte un futuro diverso

Il fuoristrada bianco con il quale ho condiviso tanti chilometri durante questi ultimi due anni e mezzo di vita missionaria scende, quasi controvoglia, per la strada sterrata che da Toribío conduce alla pianura della valle del Cauca, destinazione l’aeroporto di Cali. Sembra quasi che la macchina rifletta i sentimenti di chi, in questi mesi, a lei si è affidato per potersi spostare fra le varie comunità, come se avesse un’anima anche lei, povero ammasso di ferro e plastica, e volesse manifestare il dispiacere dell’addio.
Non guido – il piccolo incidente al ginocchio che ha fatto anticipare il mio rientro in patria non me lo permette – e questo fa sì che possa guardare con calma dal finestrino, ripercorrere tratti di cammino conosciuti, vedere per l’ultima volta luoghi familiari e visi che riconosco e che saluto con un cenno del capo. La tristezza sta nel fatto che da oggi in avanti di questi posti e di questa gente potrò solo parlare ad altri, senza aver più un giornaliero contatto diretto con loro. Non mi sono trattenuto molto in questi luoghi, poco meno di tre anni.
Non c’è momento più denso e adatto dell’addio, credo, per iniziare una piccola relazione di un’esperienza di missione, come se in un’ultima fotografia si potesse rappresentare la totalità delle immagini che hanno riempito la mia mente in tutti questi giorni. È come rigirarsi fra le mani un’istantanea che rappresenta una comunità, con la sua organizzazione, i suoi giovani, i suoi anziani e tutte le persone che le strade polverose del Cauca mi hanno fatto incontrare.
Con questa comunità, con queste persone, cammina da più di vent’anni l’equipo misionero, un gruppo formato da missionari della Consolata, religiose e laici, che condividono vita e lavoro al servizio di questa gente (box).

CONTRATTO A TERMINE
È in questo contesto dove sono atterrato, nel settembre del 2002, con in tasca una specie di contratto a termine con la missione vissuta, per così dire, sul campo. In tasca qualche sogno, molte paure e tanta, tanta voglia di conoscere.
Il primo passo che ho dovuto fare è stato quello di rendermi conto che, sebbene fossi stato destinato alla Colombia per un tempo relativamente breve, non avrei potuto svolgere il mio lavoro in maniera efficiente senza impegnarmi totalmente in questa nuova realtà. È stato quindi necessario cercare di dimenticare, per quanto possibile, il futuro ed attenermi alle circostanze presenti, lasciandomi coinvolgere dalla situazione come se avessi dovuto lavorare per sempre in quel contesto. Come si può facilmente immaginare non è stata un’operazione facile, ma in questo sono stato aiutato enormemente dall’equipo misionero e dallo stile di missione che, in questi anni, esso ha cercato di portare avanti.
Il grande lavoro di riflessione e di progettazione che il gruppo aveva condotto durante la sua storia era lì a mia disposizione, un immenso materiale che ben presto ha riempito la mia stanza, pronto per essere letto, assimilato e discusso nelle periodiche riunioni che l’equipo organizza con lo scopo di valutare ed orientare il lavoro nel modo più omogeneo possibile.
La chiesa latinoamericana, nei suoi documenti di Medellín, Puebla e Santo Domingo ha sempre spinto il lavoro missionario verso un’opera di evangelizzazione che fosse in sintonia con le culture alle quali era diretta, liberatrice e condivisa dalle varie forze ecclesiali che la animano. Queste tre dimensioni sono state accolte dalla nostra presenza nel Cauca come una sfida da portare avanti con coerenza nel suo progetto di lavoro.
La dimensione del lavoro in équipe aiuta a comprendere meglio una realtà culturalmente differente permettendo, a coloro che si uniscono in un secondo tempo, di approfittare di un cammino già fatto, di evitare errori già commessi e di dar valore ai contributi che vengono dai membri stessi della comunità in modo che il messaggio del vangelo trovi nel contatto con un’altra cultura tutta la sua forza liberatrice. Chiaramente tutto ciò mette in crisi, almeno all’inizio, il desiderio di “fare”, di buttarsi immediatamente nella mischia e richiede una buona dose d’ascolto e di condivisione. Ciò che uno ha appreso negli anni di formazione o di precedente esperienza pastorale e che forma la sintesi personale, il sogno della missione di ciascuno, deve entrare in contatto con una realtà specifica, che richiede preparazione, adattamento e talvolta sacrificio da parte del singolo operatore pastorale.

L’INCONTRO CON LA CULTURA NASA
La prima grande sfida che ho dovuto affrontare è stata quella relativa al dialogo fra culture e all’inculturazione del messaggio cristiano. L’aver sempre vissuto, come nel mio caso, in un contesto occidentale (Italia, Inghilterra e Stati Uniti) ha significato un cambio di rotta e un’apertura ad una cultura differente, il passaggio da un mondo tecnicizzato ad un universo tutto sommato ancora mitico, seppur messo in crisi dal rapido avanzare della modeità. Il modo di ragionare “circolare”, dove non sempre le conclusioni sono il frutto di un sillogismo, la visione collettivista della vita e la poca importanza data alla persona, il continuo appellarsi a forze spirituali e naturali come veri responsabili dei vari avvenimenti che segnano il corso dell’esistenza e che cancella quasi completamente la responsabilità personale, sono solo alcuni esempi della difficoltà di entrare in un mondo diverso, senza lasciarsi condizionare dai pregiudizi frutto della nostra formazione.
Uno dei grandi aiuti che ho ricevuto è stato il poter seguire la formazione dei delegados de la palabra, i catechisti locali. È a loro che devo il merito di essermi potuto inserire gradualmente in un mondo che non conoscevo. Ciò che avevo appreso negli anni precedenti e che potevo offrire nel campo della catechesi e della pastorale veniva restituito generosamente sotto forma di indicazioni su come muovermi meglio all’interno della cultura nasa. Me lo ricordava prima della mia partenza José Gentil, il delegato della comunità del Berlín, poche case e una scuola aggrappate sul dorso della montagna, “passare del tempo con noi è la miglior maniera per poter penetrare nel nostro modo di vivere senza rimanere per sempre uno straniero”. In verità ci si rende conto che stranieri si rimarrà per sempre, che non si possono cancellare di colpo forme mentali che ci appartengono dal giorno della nostra nascita, ma si possono ridurre le distanze e porre le basi per un dialogo che sia confronto e non scontro di culture.
La stessa cosa si può dire parlando del dialogo interreligioso. Anche dopo 500 e più anni di evangelizzazione l’indio nasa vive la sua spiritualità in maniera propria, dove elementi di cristianesimo si fondono con l’eredità religiosa e culturale degli antenati. A un gruppo relativamente ristretto di persone che oggi cercano di opporre i valori della Ley de origen, e della visione del cosmo nasa a quelli trapiantati del cristianesimo, corrisponde un numero ben più alto di persone che vivono in modo spontaneo e naturale queste due realtà. E questo è ciò che colpisce maggiormente e pone più difficoltà all’operatore pastorale che si trova a lavorare in questo contesto. È qui dove ci si rende conto che tre anni di esperienza nel mondo indigeno sono troppo pochi per poter fare una sintesi sufficientemente accurata dell’esperienza stessa. La pastorale sacramentale, quella della salute, nonché l’istruzione religiosa nelle scuole devono fare i conti con questa realtà quotidianamente. Che risposte può dare il povero missionario alle prime armi quando una famiglia ti chiede un battesimo per i loro figli perché invitata a far ciò dal medico tradizionale (sciamano), cattolico egli stesso, e che ha visto nella vita della famiglia un influsso negativo di qualche spirito e nel battesimo la forza della benedizione di Dio che può ristabilire l’armonia che si era perduta? O che dire alla famiglia di una piccola comunità della montagna che ti chiama, come mi è successo, un venerdì santo, perché visiti e benedica una ragazza inferma, 24 anni e madre di tre figli, e che rifiuta il trasferimento della stessa all’ospedale in quanto il medico tradizionale aveva diagnosticato la caduta della ragazza sotto l’influsso negativo dell’arcobaleno?
Il delegado de la palabra, catechista preparato e costantemente formato sulla parola di Dio e sull’essenza del messaggio cristiano, ma nello stesso tempo persona che vive inserito nella realtà culturale del suo popolo, è l’unica persona che può dare una risposta, che può aiutarti a far luce su cose e atteggiamenti che a prima vista appaiono incomprensibili o che può orientare le persone della sua comunità a vedere un bene anche in elementi culturali estranei alla propria esperienza.

“LOS SEMILLEROS DE LA PAZ”
L’utopia della pace è il disincanto rappresentato da una situazione di conflitto armato che dura ormai da più di cinquant’anni. Ecco un altro grande spazio della mia missione nel Cauca colombiano. Ricordo quando, prima di partire mi imbattei in una delle nostre riviste in una foto di giovani italiani che partecipavano ad una delle varie attività estive di formazione missionaria. Tutti indossavano la maglietta con la scritta “Credo alla pace perché ho visto la guerra”. Non so in verità quanti di loro avessero toccato concretamente con mano la realtà della guerra, un po’ come il sottoscritto, cresciuto ascoltando i racconti di genitori e familiari che erano passati attraverso le crudezze della seconda guerra mondiale, ma mai prima d’ora tanto vicino ad un’esplosione o a un colpo di mitragliatore.
Cosa fare in questa situazione? Come trasformare l’utopia di una pace fondata su criteri di giustizia, nel mezzo di un conflitto duro e assurdo che coinvolge direttamente la gente della tua parrocchia? Una guerra come molte delle guerre che si stanno combattendo in questi giorni, per molti lati incomprensibile, dove, come ha scritto il filosofo e scrittore francese Beard-Henry Levy in un suo saggio sulla guerra, il male e il fine della storia, “all’orrore di morire si aggiunge l’orrore di morire senza una ragione”.
Anche in questo frangente è importante ascoltare, saper leggere i segni del tempo, cercare di capire le ragioni degli uni e degli altri, con in mano, come diceva Karl Barth il vangelo e il giornale, affinché la parola di Dio non si esaurisca in un irenico ma sterile messaggio, ma possa invece trasformarsi in parola di liberazione per i tanti che soffrono a causa del conflitto. Anche in questo contesto mi ha aiutato molto poter condividere con altri il mio lavoro, sostenersi vicendevolmente per difendersi dallo stress provocato dalle sparatorie, stabilire norme di azione pastorale che potessero essere il più possibile coerenti e uniformi. Ma aldilà dell’equipo misionero anche l’organizzazione della comunità, autorità tradizionali come il cabildo o entità come il “Progetto nasa” (l’associazione dei cabildos delle tre riserve indigene che formano il municipio di Toribío) sono elementi importanti ai quali far riferimento per poter affrontare i momenti di conflitto con più serenità.
La gente di queste zone ha assunto ufficialmente una posizione ben chiara rispetto al conflitto armato che ne insanguina la terra, una posizione che reclama a viva voce l’autonomia politica e territoriale in conformità con i diritti garantiti agli indios colombiani dalla Costituzione politica della repubblica colombiana del 1991. Detta opposizione alle ingerenze dello stato e della guerriglia (nel territorio di Toribío è presente un grosso contingente delle Farc, il più importante e numeroso gruppo guerrigliero del paese) è attuata in forma pacifica, come segno alternativo alla logica di violenza che attanaglia da decenni la Colombia. È la stessa linea nella quale si muove l’equipo misionero e in cui ho provato ad inserirmi, cercando nel mio piccolo di essere un segno di pace e di speranza. Girando per il paese o visitando le molte veredas sparse sui fianchi della montagna con l’occasione di celebrare un sacramento o di visitare una scuola si ha modo di avvicinare la gente, parlare con loro, soprattutto ascoltare e rendersi conto di come vive o subisce la realtà del conflitto. Facendo sentire la vicinanza non solo spirituale, ma anche fisica del missionario, si può con più autorità parlare ai giovani del rischio rappresentato dal cedere al richiamo dei gruppi armati o alle sirene del narcotraffico, che della guerra è il principale finanziatore. Si può predicare la giustizia sociale, a tutti i livelli, incominciando da quello familiare, sapendo che la pace in Colombia sarà possibile nel momento in cui crolleranno certe barriere sociali che marginalizzano troppe categorie di persone a beneficio di pochi gruppi economicamente più avvantaggiati.
Anche qui, il sogno di costruire un mondo di pace si scontra con la dura realtà di una situazione contingente che lascia poco spazio alla speranza. Fortunatamente è la gente stessa che ti insegna a non disperare, a non lasciarsi cogliere dal puro disincanto e a vivere anche di utopia. In questo senso a Toribìo è nato uno dei programmi più semplici e più belli di quelli ai quali ho potuto partecipare, Los Semilleros de la Paz (I seminatori della pace). Nato nel 1998 per iniziativa di un padre tanzaniano, padre Thomas Ishengoma, missionario della Consolata, oggi formatore nel suo paese, e di Marìa Esperanza, una volontaria laica originaria di Medellin, los Semilleros sono un gruppo di bambini del centro abitato e delle varie frazioni circostanti che, una volta al mese, si riuniscono in parrocchia per fare attività formativa di educazione alla pace. Sono loro, in fondo, il futuro e la speranza vera di questa terra che saprà crescere ulteriormente nei sentirneri della tolleranza e della convivenza pacifica nella misura in cui avrà un ricambio di leaders capaci di testimoniare e credere in questi valori.

SOLIDARIETÀ
Il fuoristrada bianco continua la sua discesa, siamo ormai giunti al termine della strada sterrata. L’asfalto che tra poco incontreremo porterà via più velocemente i ricordi, i profumi di questa terra magica, i suoi colori più vivi, i sapori di frutta, le emozioni forti che genera. Non sarà la terra promessa dove “scorrono latte e miele”, ma è comunque un mondo per me ricchissimo per quanto ha saputo offrirmi in tutti questi mesi, nelle cose forse banali che formano il quotidiano.
Sono passato davanti alla casa di Dany Gustavo, un bambino di 8 anni affetto da istiocitosi di Langerhans, una forma tumorale molto rara. Lo curano a Cali con sessioni massicce di chemioterapia per cercare di sanare il fegato e di dargli qualche speranza di vita.
La solidarietà è da sempre il centro dell’attività dell’equipo misionero, ma in questi ultimi anni si è voluto dare un enfasi del tutto speciale a questo aspetto, non solo come testimonianza personale del messaggio dell’amore evangelico, ma anche come formazione della comunità ad un valore che trascende uno degli elementi etici fondamentali della cultura nasa: la reciprocità, il fare qualcosa per gli altri aspettando qualcosa in cambio o come risposta a un qualcosa che si è ricevuto.
Il sogno è quello di veder cambiare per sempre situazioni che ci fanno soffrire soltanto al contemplarle, sogno che si blocca davanti ad una realtà che ci supera e che frustra i nostri desideri; davvero il regno dei cieli è qui presente, ma non ancora pienamente realizzato. Il disincanto, frutto della coscienza dei nostri limiti davanti alla complessità della realtà, solo ci spinge a sognare di più, a continuare ad offrire il nostro piccolo bicchiere per svuotare un oceano di dolore che sembra essere a prima vista inestinguibile.
A questo sogno tentano di rispondere varie iniziative che vogliono essere azioni concrete di solidarietà: il progetto di adozioni a distanza organizzato in collaborazione con l’associazione romana “Italia Solidale” che coinvolge ormai più di 1300 bambini e le loro famiglie di tutte le riserve indigene del Nord del Cauca, il progetto di assistenza ai carcerati indigeni e alle loro famiglie, orientato a dare un po’ di luce a quelle persone che sono finite in una prigione con accuse varie che possono andare dalla lotta armata, al narcotraffico, a episodi di delinquenza comune e che spesso vengono abbandonate dalle loro comunità e dai loro parenti. Anche il progetto di assistenza dei bambini disabili vuole essere una piccola risposta ad un problema grande della comunità. A questo riguardo si è formato un piccolo ambulatorio in Toribío, dove operano una fisioterapista e una logopedista. Aldilà di un aiuto specifico ai soggetti interessati e alle loro famiglie, l’ambulatorio offre anche la possibilità di coscientizzare la comunità sul fenomeno dell’handicap psico-fisico.

MAI SMETTERE DI ESPLORARE
Facendo una valutazione finale del mio operato, penso che quanto, in questi anni, ho saputo offrire in termini di disponibilità, aldilà delle mie limitazioni umane, è stato enormemente superato da quanto ho ricevuto, imparato, assimilato. La comunità nasa chiede all’equipe missionaria di essere un punto di riferimento etico-spirituale in questa nuova fase della sua storia e questo fatto obbliga la persona che vuole impegnarsi con il processo comunitario a crescere in queste dimensioni, se vuole essere un segno significativo al suo interno. Si tratta, in fin dei conti, di formarsi per poter essere un domani formatori.
Il flusso dei miei pensieri si interrompe a causa della voce del soldato che, come in un nastro registrato, chiede i documenti e di poter perquisire la vettura. Un suo commilitone riconosce tra i passeggeri “il padre di Toribio” e ci lascia proseguire.
Passato il posto di blocco dell’esercito situato nella vereda de “El Palo”, ci separano 50 chilometri dall’aeroporto di Cali. Più speditamente la macchina inizia ad attraversare la grande pianura solcata dal fiume Cauca, coltivazioni di canna da zucchero interrotte da qualche piccolo centro abitato generalmente da famiglie afro-colombiane. Lasciamo alla nostra sinistra Cali, la capitale del dipartimento del Valle, la “succursale del cielo” come orgogliosamente la definiscono i suoi stessi abitanti. Chissà cosa deve essere il cielo, penso, se Cali ne è la succursale. Solo per un attimo penso ai due padri che vivono là, in una parrocchia del barrio Antonio Nariño, occupandosi della pastorale afro e immersi fino al collo nei molti problemi di ordine socio- economico che stanno trasformando il quartiere in una zona difficile. Ma è un pensiero di breve durata, il fuoristrada bianco ha ormai imboccato il viale dell’aeroporto, già si affacciano sullo scenario altri panorami, altri sogni, che si riuniscono tutti nell’unica grande utopia della missione.
Da domani la vita sarà differente, altre situazioni e altre sfide si apriranno ai miei orizzonti. Ricordo per darmi coraggio la frase di un celebre poeta inglese che recita, se la memoria non mi tradisce: “Non dobbiamo mai smettere di esplorare e alla fine di tutte le nostre ricerche arriveremo un’altra volta lì dove abbiamo iniziato e conosceremo quel posto per la prima volta”.

BOX 1
DALLE ANDE ALLE ALPI

Capita a volte di fare dei ritrovamenti impensati. Mezzo nascosto tra scaffali polverosi ho trovato nella biblioteca della parrocchia di Toribío un libro di Claudio Magris intitolato “Utopia e Disincanto”. Nel primo capitolo, quello che dà il titolo all’intero volume, l’autore analizza l’inizio del nuovo millennio alla luce di queste due cornordinate. Ho pensato che sarebbe stato interessante applicarle alla missione e alle diverse sfaccettature con le quali essa si è presentata alla mia esperienza.
L’utopia è la tensione verso il futuro, il fine che anima e orienta il nostro presente verso spazi immaginati ma non ancora conosciuti, verso ideali grandi che sono stati, nel mio caso, il frutto di una lunga formazione. Il disincanto è invece l’attenersi alla realtà, la resa dei conti con le circostanze che limitano l’utopia, ma che al tempo stesso non le lasciano prender piede, non permettono che sfoci nell’irrealtà, nella fantasia, che ti fa, in altre parole, rimanere con i piedi ben piantati per terra. Dal dialogo costante fra utopia e disincanto dovrebbe nascere la giusta misura, il corretto relazionarsi con la propria missione, il viverla con buon senso, senza lasciarsi travolgere dal sogno e senza neppure venir troppo frenati dalla cogente realtà di tutti i giorni.
Vorrei quindi narrare qualcosa di questi anni, iniziando dalla mia esperienza personale, da ciò che ho sentito e compreso, dalla risposta che il mio viaggiare ha dato alle tante aspettative che avevo e di come la realtà ha giocoforza sagomato il mio essere missionario nel nord del Cauca colombiano. In un secondo momento vorrei raccontare, in modo più diretto e specifico, qualcosa della comunità che mi ha ospitato, degli indigeni nasa (o páeces), delle utopie che continuano ad ispirae il progetto di vita, nel mezzo di una situazione contingente di grande difficoltà, dell’alternativa che essa vuole rappresentare, in aperto contrasto alle logiche di potere portate avanti sia dal governo colombiano che dai movimenti eversivi. In un terzo articolo narrerò qualcosa dei giovani, che di questa comunità rappresentano la linfa vitale, il futuro, del loro “pensamiento joven” (il pensiero giovane), che cerca di opporsi alla mentalità disincantata degli anziani, ad un mondo nel quale non si riconoscono più e al quale vogliono offrire qualcosa di nuovo e più vicino alle loro esigenze e alla loro sensibilità.
U.Po.

BOX 2
STORIA E SCOPI DELL’EQUIPO MISIONERO

L’equipo misionero di Toribío venne fondato il 4 marzo del 1979 su iniziativa del padre Alvaro Ulcué Chocué (sacerdote indigeno e parroco delle comunità di Toribio e Tacueyó), insieme ad alcune suore missionarie della Madre Laura. L’iniziativa voleva essere una risposta al processo di rinnovamento ecclesiale e pastorale, in corso in America Latina negli anni che seguirono il Concilio Vaticano II e le grandi conferenze episcopali di Medellín e Puebla.
La scelta di vivere in un équipe apostolica di vita e attività pastorale doveva, nel disegno del padre Alvaro, condurre ad una evangelizzazione inculturata e liberatrice, con una chiara opzione per i poveri ed un’enfasi verso il mondo indigeno e il suo processo storico di recupero della terra, organizzazione e sviluppo che, tra molti conflitti e a prezzo di molto sangue versato, la comunità stava vivendo da alcuni anni a quella parte.
Dopo la morte del padre Alvaro, assassinato a Santander de Quilichao il 10 novembre del 1984 per il suo impegno in favore della causa indigena, l’esperienza dell’equipo misionero venne raccolta dai missionari della Consolata. Coordinato a partire dal 1988 da padre Antonio Bonanomi, il gruppo è oggi formato da circa 20 persone: sacerdoti, religiose, e laici sia estei come facenti parte della comunità nasa.
U.Po.

BOX 3
SCHEDA

Superficie: 1.141.748 Kmq
Popolazione: 45.300.000 abitanti (proiezione per il 2005)
Lingua: spagnolo (ufficiale); in Colombia sono però presenti 84 popoli indigeni con 64 lingue differenti
Religione: cattolica (ufficiale, 93%).
Capitale: Santa Fe de Bogotá (7.029.928 abitanti)
Ordinamento politico: repubblica presidenziale
Presidente: Alvaro Uribe Velez, dal 7 agosto 2002
Economia: Il caffè è il principale prodotto legale da esportazione. Il sottosuolo contiene giacimenti di petrolio, carbone, oro, platino, argento e smeraldi. Le coltivazioni di marijuana, coca e papavero da oppio alimentano il floridissimo traffico illegale degli stupefacenti. Si stima che dalla Colombia provenga 80% della produzione mondiale di cocaina.
Moneta: peso colombiano (3.000 pesos = 1 Euro nel 2004)

BOX 4
CARISSIMO GUSTAVO

Carissimo Gustavo,
sono passati ormai alcuni mesi dall’ultima volta che ci siamo visti, da quell’8 di novembre dell’anno scorso quando, in silenzio come sempre, la tua anima si è riunita al “ks’a’w wala”, il grande spirito di Dio. Quel giorno, ironia della sorte, avevi deciso di prendere la chiva, la corriera locale che ti avrebbe portato con gli altri delegados della palabra fino al Cecidic, il collegio dove tutto era pronto per celebrare l’annuale assemblea su padre Alvaro dedicata al tema della solidarietà nella comunità che aveva sognato e per la quale era morto e che tu, inseguendo lo stesso sogno, avevi servito come catechista e come ricercatore storico. Dico “ironia della sorte”, perché tu non avevi certo bisogno della corriera per fare i tre chilometri che separano la parrocchia di Toribío dal collegio, abituato come eri a camminare per le tue montagne. Tre chilometri che avevi già percorso in senso contrario quella stessa mattina, per venire a vedere in paese chi era arrivato, per riunirti con i tuoi compagni, fare colazione e scambiare due chiacchiere prima dell’inizio dell’assemblea. La chiva si è capottata proprio davanti alla collina dove da qualche tempo vivevi, davanti a casa tua, intrappolando il tuo corpo sotto il peso della sua grande carrozzeria e spegnendo di un botto i tanti sogni che avevi iniziato a coltivare.
Ho ancora ben chiara in mente la volta che mi hai accompagnato a celebrare le prime comunioni nella cappella de La Primicia. Era la mia prima uscita “in vereda”, ed ero nervosissimo: ero arrivato da soli due giorni, la gente non mi conosceva ancora e nello spazio antistante la cappella c’erano vari guerriglieri, figure alle quali dovevo ancora fare l’abitudine. Mi hai spiegato in poche parole (non sei mai stato un uomo di grandi discorsi) quello che succedeva e ciò che la comunità si aspettava da me. Tutto è filato liscio come l’olio. Da quel giorno in avanti abbiamo condiviso molti chilometri, molte celebrazioni ed incontri. Era fondamentale, per esempio, quella tua introduzione alla liturgia, espressa in un linguaggio che la gente coglieva immediatamente, molte volte in nasa yuwe, la lingua del popolo nasa che tu dominavi alla perfezione.
Sapevi quello che dicevi. Negli ultimi anni, oltre alla catechesi, ti eri dedicato anima e corpo al progetto della “Cattedra nasa-Unesco”, un programma di ricerca storica all’interno della comunità basato sulle testimonianze dei protagonisti. Avevi intervistato moltissimi anziani che ti avevano parlato delle loro credenze, dei valori tradizionali, delle lotte per l’autonomia e il recupero della terra. Credevi, come padre Alvaro, che “l’utopia muove le montagne” e non ti rassegnavi a vivere come se niente avesse potuto cambiare solo perché alcuni volevano così. Sapevi che il passato orienta il nostro presente affinché, a partire da ciò che siamo, si possa camminare verso un futuro disegnato in modo differente.
Il giorno prima di lasciarci avevi comprato qualche regalino per Yuni Alexandra, la tua bambina di otto mesi: un vestitino azzurro, un atlante geografico e un dizionario. E a chi ti prendeva in giro facendoti notare che forse era un po’ azzardato regalare un dizionario di spagnolo a una bimba di neanche un anno, avevi risposto candidamente che questi strumenti sempre servono e sempre serviranno, che ora avevi i soldi e che chissà che prezzo avrebbero avuto quando Alexandra fosse andata a scuola. Grande Gustavo, grazie per questa iniezione di fiducia, per questa speranza che hai portato dentro e che fino all’ultimo, con poche parole, ma molte scelte pratiche, mi hai testimoniato.
padre Ugo

BOX: AUTORI
(*) Ugo Pozzoli, missionario torinese (1962), è rientrato in Italia per lavorare a Missioni Consolata. Da marzo 2005 è redattore in pianta stabile nella redazione della rivista.
A padre Ugo, un benvenuto e un augurio di buon lavoro.

(**) Enzo Baldoni, lo sfortunato giornalista free-lance rapito ed ucciso in Iraq, fu ospite nel Cauca dei missionari della Consolata. Le foto di questo servizio sono un suo regalo.

Ugo Pozzoli