La storia sui… binari

Si tratta della «Transcanadese», pezzo del nostro immaginario collettivo
dove il viaggio è visto ancora come esplorazione e conquista.
Attraverso luoghi incantati, carichi di storia, i segni del non sempre facile rapporto tra nativi e «invasori», tra autonomia e cedimenti alla moda dei… vicini.

Le tratte ferroviarie entrate a far parte della mitologia del viaggio, inteso come esplorazione e conquista, sono diverse, ma soltanto queste due – Transiberiana e Transcanadese – continuano a destare nell’immaginario collettivo quella miscela di fascino, mistero, avventura di cui oggi molti sentono la mancanza.
Se la Transiberiana è riuscita in gran parte a mantenere intatta la sua seduzione e a riproporre luoghi e popolazioni cambiati poco o niente nel corso della vita centenaria, la Transcanadese si è evoluta di pari passo con le conquiste tecnologiche, il progresso, i nuovi usi e costumi, perdendo molto del significato originario che era stato alla base della sua costruzione.
La Transiberiana è il frutto di una cultura e di uno spirito – quello russo – già formatosi e radicato nella popolazione, mentre le ferrovie canadesi hanno anticipato il decorso storico del Canada stesso, tanto da non apparire esagerato affermare che, se oggi il paese americano è una nazione, lo si deve essenzialmente alle sue ferrovie.
La Nova Scotia, il New Brunswick nel 1864 e la British Columbia nel 1871 siglarono il trattato di unione con la Confederazione solo dopo aver ottenuto dall’allora primo ministro J.A. Macdonald la promessa che le loro province sarebbero state unite al resto del paese con collegamenti ferroviari: rispettivamente, l’Imperial Canada Railway e la Canadian Pacific Railway (Cpr).
Lungo i binari di queste strade ferrate si sono consumati drammi umani, come la sconfitta del leggendario meticcio franco-indiano Louis Riel, nel 1885; o scandali politici, come quello che costrinse lo stesso Macdonald alle dimissioni nel 1873. Per la costruzione della Cpr sono stati ingaggiati migliaia di lavoratori dall’Asia e dall’Europa, tra cui 8 mila italiani; nuovi ceppi etnici che hanno reso città canadesi come Toronto, Montreal, Vancouver vivaci insalatiere etniche.
Ma la Cpr è stata anche lo strumento che ha portato il Canada ad adottare un atteggiamento così differente dagli Stati Uniti nei confronti degli aborigeni: la colonizzazione dell’ovest canadese da parte degli europei è proceduta di pari passo con la legge dello stato, evitando l’anarchia e gli stermini avvenuti più a sud.
E leggere la storia di un paese sui binari di un treno, osservandone i cambiamenti in atto, è l’intento che io, mia moglie Yasuko e mio figlio Daigo, ci siamo dati per questo viaggio che, a differenza di quanto accaduto per la Transiberiana, ha visto ridurre al minimo l’improvvisazione, grazie alla disponibilità, la cordialità e l’efficienza delle persone e degli enti contattati per ottenere interviste e visite.
Così, se da un lato percorrere la Transcanadese non presenta inconvenienti e problemi, dall’altro questa perfezione organizzativa ha in parte dissolto il clima pionieristico che è ancora tangibile, mentre si percorre il tratto russo. Anche lo schoc culturale, che un visitatore del vecchio mondo subisce nel giungere nel paese, non è così traumatico come può sembrare, osservando sull’atlante geografico la distanza che separa i due continenti.

Nostalgia di indipendenza

Il Québec, la porta d’accesso al Canada per la maggioranza degli europei, ha mantenuto intatta quell’atmosfera da Nouvelle France che tanto la differenzia da ogni altro stato nordamericano: le vie delle cittadine ripropongono nomi di personaggi reali e della chiesa preconciliare, come Boulevard Roi Louis xvii o Pie ix; nei negozi si vendono formaggi speziati e i villaggi si preannunciano con i campanili delle chiese cattoliche, attorno a cui si stringe la vita comunitaria.
La religione, assieme alla lingua, è uno dei due caratteri che hanno permesso al Québec di mantenere quel carattere mediterraneo che lo rende così unico e diverso dalle altre province canadesi. Del resto, fu il cardinale di Richelieu che, dopo aver fondato la Compagnie de la Nouvelle France nel 1627, diede il via alla sistematica colonizzazione e alla cristianizzazione di tutti i possedimenti francesi del Nord America; e fu ancora la chiesa cattolica a divenire l’elemento di riferimento per la comunità francofona dopo il 1760, anno in cui gli inglesi conquistarono Montreal e s’impadronirono del Québec.
L’occupazione britannica risparmiò ai cittadini della Nouvelle France il crollo politico e morale della madrepatria di Luigi xiv e permise al clero di mantenere intatta quella considerazione popolare che gli venne tolta in Europa dalla rivoluzione francese.
Al di fuori dall’Asse Laurenziano, la regione compresa tra Montreal e Québec City, l’inglese diventa una lingua sconosciuta, parlata tutt’al più con un forte accento francese da ben poche persone. Mentre ci addentriamo nella regione della Gaspesie, tra villaggi che ricordano quelli della costa normanda o bretone, ci accorgiamo di quanto lontana sembra essere Ottawa, la capitale politica del Canada, e quanto vicina, invece, sia Parigi!
Qui, tutti ricordano la memorabile visita di De Gaulle a Montreal nel 1967, quando dal balcone del municipio gridò entusiasta: «Vive Montreal! Vive le Québec! Vive le Québec libre!».
Oltre a infervorare i secessionisti, il grido scosse le fondamenta del parlamento canadese, il quale iniziò a varare una serie di leggi che permisero al Québec di mantenere la sua autonomia culturale e politica, senza distaccarsi dalla madrepatria. «È stato il nostro Sessantotto» – ci dice Robert Yvon, responsabile del Dipartimento dell’educazione del distretto di Lac Saint Jean, oggi in pensione. «Non abbiamo vinto, ma abbiamo ottenuto l’indipendenza economica e amministrativa».
A Chicoutimi, all’estremità del Fiordo di Saguenay, l’idea separatista è ancora viva nel 90% della popolazione. Il Front de Libération du Québec, organizzazione armata particolarmente attiva negli anni Settanta, qui conta ancora diversi nostalgici e la storia della regione, scritta dai «Martyres patriotes» del 1826 o quelli delle Ribellioni del 1837-38, viene ancora insegnata con orgoglio ai bambini. «Je me souviens»: io mi ricordo, si legge sulle targhe automobilistiche della provincia del Québec; un ricordo che nessuno vuole cancellare, così come nessuno, nel vicino Ontario, desidera dimenticare l’eredità britannica ricevuta dagli antichi colonizzatori.

Influsso anglo-americano

In questa provincia, grande più di tre volte l’Italia, ma con una popolazione sei volte inferiore, le bandiere nazionali canadesi sventolano accanto all’Union Jack. La fedeltà alla Corona è ancora oggi testimoniata dall’orgogliosa ostentazione nei cognomi dell’appellativo UE (United Empire), concesso nel 1789 dalla regina per ringraziare i 40 mila lealisti inglesi che, pur di non sottostare alle leggi dei Rebels, si trasferirono in Canada durante la guerra d’indipendenza americana. Attraversiamo città, i cui nomi ricopiano quelli dell’Inghilterra: Kingston, London, Thames, sino ad arrivare a Toronto, che fino al 1834 si chiamava York.
Oggi, con i suoi 4 milioni di abitanti, le vie che si intersecano ad angolo retto, i grattacieli che si specchiano nel lago, le fabbriche che circondano la periferia, Toronto è la città più grande del Canada, ma anche la più statunitense, sebbene nessun «toronter» ami questo accostamento. Loro sono canadesi e la sola idea di essere considerati una copia culturale e politica dei vicini è insopportabile.
Costeggiando il lago Ontario, arriviamo alle cascate del Niagara, la cui naturale maestosità è stata rovinata dalla mano dell’uomo che, per attirare il turismo dagli Stati Uniti, ha costruito un guazzabuglio indecente di locali nottui, sale da gioco, fast-food, negozietti stracolmi di gadgets. Preferiamo la quiete di Niagara-on-the-Lake, cittadina piuttosto artificiale, ma immersa nelle colline coperte di vigneti, da cui si produce il famoso e costoso Ice Wine.
Vicino a Fort Gorge, dove il fiume Niagara si tuffa nell’Ontario, un cartello indica che nel xviii secolo i gloriosi anglo-canadesi sconfissero gli «invasori» americani (è scritto proprio così: invasori). Il contrasto fra le due Niagara è stridente: tanto insulsa, americana, pacchiana è la Falls, quanto colta, rilassante e aristocratica è la On-the-Lake.
Qui, ogni anno, si apre lo Shaw Festival, che attira appassionati di teatro da tutto il mondo. E, sempre qui, vive una delle più numerose comunità di italo-canadesi del paese, discendenti di quei 410 mila emigranti italiani che, dal 1945 al 1967, hanno solcato l’oceano in cerca di una vita più dignitosa per sé e i propri figli.
Maria Rocca, che assieme al marito Léon Martin gestisce la B&B dove alloggiamo, è la figlia di uno di questi: professoressa di lettere e italiano, rappresenta un esempio di integrazione sociale e culturale, conclusasi con successo.
Ma la storia canadese ha conosciuto anche posizioni di rigetto, sino a rasentare la xenofobia. All’inizio del secolo, il teorico dell’imperialismo, George Parkin, affermava che il rigido clima invernale canadese aveva risparmiato al Canada la creazione di città come New York, Chicago, Saint Louis che, oltre a quello che lui definiva il «problema negro», attiravano «masse di vagabondi dall’Italia o da altri paesi dell’Europa del Sud».
Pochi anni prima a Regina, nel Saskatchewan, Louis Riel era stato impiccato al termine di una rivolta iniziata a Winnipeg, nel 1869. Riel guidò una ribellione di meticci, appoggiata anche dalla chiesa cattolica, per evitare che gli inglesi protestanti si appropriassero delle loro terre. Ancora oggi, nel quartiere francese di Saint-Boniface a Winnipeg, la piccola comunità francofona considera Riel un eroe.
Nel cimitero di fronte alla cattedrale cattolica, la sua tomba è meta di pellegrinaggi, mentre a Regina, durante l’estate, nella sala comunale viene riproposto il processo che lo condannò a morte.

Giubbe rosse (di sangue)

Daigo, invece, è molto più attratto dai Royal Mounted Canadian Police (Rmcp, le famose Giubbe Rosse che a Regina hanno la loro accademia) e dalla loro mascott, Safety Bear, una sorta di orso Yoghi sempre circondato da bambini (e non solo da loro).
Al confine tra il Saskatchewan e l’Alberta, visitiamo il Cypress Hill, il luogo dove nel 1876 Ta-tanka I-yotank, da noi conosciuto come «Toro seduto», si rifugiò dopo la battaglia di Little Big Ho, per evitare la vendetta delle truppe statunitensi. Le Giubbe Rosse (colore scelto anche per distinguersi dalle famigerate Giubbe Blu), protessero i rifugiati e amministrarono tutti i territori della Corona, evitando che l’anarchia della «legge del Far West» si propagasse anche in Canada.
Ma anche le divise della Rmcp sono macchiate del sangue di canadesi. Nella memoria delle lotte sindacali è rimasto indelebile il Bloody Saturday, il sabato di sangue, consumatosi il 21 giugno 1919 a Winnipeg, al termine di una serie di scioperi per richiedere la settimana lavorativa a 40 ore. Quel giorno il sindaco della città, stanco delle rimostranze dei lavoratori, richiese l’aiuto delle Giubbe Rosse per ristabilire l’ordine. Il loro intervento lasciò per le strade cittadine due morti.
Il 1° luglio 1935, nel pieno della crisi economica, a Regina 500 agenti Rmcp si scontrarono con 2 mila lavoratori disoccupati, organizzati dal Relief Camps Worker Union, che tentavano di raggiungere Ottawa per perorare la loro causa al parlamento. I feriti, in quel caso, furono decine, mentre 130 manifestanti furono arrestati.
Le Montagne Rocciose dell’Alberta fanno da sfondo alle numerose tribù indiane che celebrano il pow-wow, la festa più importante dell’anno, con balli, danze, musiche. I variopinti colori dei costumi si mischiano con le mandrie di bufali, i rodei, i laghi cristallini in cui si specchiano le cime innevate. E dalle Montagne Rocciose discendiamo lentamente verso l’Oceano Pacifico, dove si concluderà il nostro viaggio.
Tutta questa terra, oggi facente parte della provincia della British Columbia, è stata a lungo contesa al Canada dagli Stati Uniti. Nel 1846, James Knox Polk scelse come parola d’ordine per la sua campagna presidenziale il terribile motto «Fifty-Four-Fifty or Fight!» (letteralmente: 54 gradi e 50 minuti di latitudine nord o guerra!) che fissava le cornordinate dei confini settentrionali statunitensi voluti da Polk, comprendendo il vasto territorio oggi occupato dalla British Columbia fino al confine con l’Alaska (allora territorio russo).
Lo slogan restò fortunatamente solo sulla carta, ma gli screzi con gli Stati Uniti e il pericolo di colonizzazione continuano ancora oggi, tanto da costituire, secondo la scrittrice Margaret Atwood, il tema centrale della specificità culturale e politica canadese.
Nel 1987, i rapporti con i due paesi si erano fatti così tesi, che il ministro della difesa canadese annunciò di voler acquistare dei sottomarini nucleari per difendere le proprie coste, continuamente violate dalla marina statunitense che oltrepassava i limiti territoriali, senza chiedere alcun permesso.
Il Canada ha comunque bisogno degli scomodi vicini, specie ora che Vancouver è stata designata sede dei giochi olimpici invernali del 2010. La città, immersa in una baia spettacolare che la rende una delle più belle di tutto il Nordamerica, è già in fermento; ma le associazioni di aiuto sociale e quelle ambientaliste si stanno giustamente preoccupando per l’inevitabile degrado che puntualmente colpisce le città olimpiche una volta passata l’ubriacatura dei giochi. Sono ancora troppo evidenti i tristi esempi di Montreal e Calgary, le cui comunità debbono ancora oggi, a distanza di decenni, pagare i costosi e inutili impianti, costruiti in occasione delle manifestazioni olimpiche, togliendo fondi preziosi agli investimenti sociali.

Il nostro viaggio si conclude a Vancouver Island, accolti dalla sua aristocratica capitale, che prende il nome dalla regina Vittoria. Ma è alla baia di Tofino, duecento chilometri più a nord, che prendiamo realmente congedo dalla Transcanadese. La costa si affaccia sull’Oceano Pacifico nel punto in cui questo si apre all’infinito ai nostri occhi. Daigo, a cui abbiamo detto che dall’altra parte della distesa d’acqua si trova il Giappone, si diverte tra le onde, fissando lo sguardo all’orizzonte. Davanti a sé ha un mondo intero da scoprire.

BOX 1

La danza propiziatoria, perché la caccia si concluda con esito positivo, sta terminando. Le mogli invocano la protezione del cielo sui loro mariti, i bambini corrono ad abbracciare i loro padri e i fratelli maggiori prima di vederli allontanare dai loro teepee.
I bisonti pascolano pacificamente a poche ore di marcia. Sono migliaia, tanto da trasformare la prateria in un’immensa coperta verde, punteggiata da macchioline marroni. I guerrieri si avvicinano lentamente, senza far rumore, mimetizzandosi con le stesse pelli dei bisonti uccisi l’anno prima. Poi, a un segnale convenuto, si alzano in piedi all’unisono, gettando le pelli sull’erba e mostrando i loro volti dipinti. Lanciano urli e gli animali, spaventati, iniziano a galoppare. Una corsa sfrenata di diverse miglia verso il baratro di una scarpata, che sprofonda per diverse decine di metri. Intuiscono il pericolo, poi lo vedono, ma non possono arrestare la loro marcia perché dietro migliaia di altri bisonti impauriti li sospingono inesorabilmente.
Le carcasse si accumulano, una sopra l’altra, schiacciando e soffocando gli animali che sono riusciti a sopravvivere al grande salto. Anche quest’anno la caccia è stata fruttuosa. La tribù avrà carne per sfamare i propri componenti e sufficienti pelli per difendersi dal rigido inverno delle pianure del Nordamerica.
Questa scena si è ripetuta per migliaia di anni a Head Smashed-In Buffalo Jump, nell’Alberta, il luogo più sacro di tutta la comunità aborigena del Canada, oggi trasformato in museo e dichiarato dall’Unesco patrimonio culturale dell’umanità.

Tutti gli aborigeni del Nord America (quelli che noi, persistendo nell’errore commesso da Cristoforo Colombo chiamiamo indiani d’America), cercano di recarsi, almeno una volta nella vita, in questo ombelico della loro cultura millenaria. Molti arrivano per assistere al pow-pow, la sacra cerimonia che saluta il culmine dell’estate con danze e balli, tenuti in ogni parte del continente. Ogni tribù, ogni clan, indossa propri abiti, intona propri canti, esegue le proprie danze che li contraddistingue da ogni altra nazione aborigena americana. In questo modo, perpetuano tradizioni e riti ancestrali tramandati di bocca in bocca, di generazione in generazione.
Nazioni, dicevamo. Gli aborigeni considerano la loro appartenenza tribale al rango di un qualsiasi altro stato del globo. Duroni, Iroquesi, Piedi Neri, Sioux, Apache… ogni gruppo è dotato di lingua, leggi, religioni, strutture sociali e di comando completamente differenti l’uno dall’altro. E, come qualsiasi altra nazione, anche queste si combattevano, creavano alleanze, commerciavano, massacravano, tradivano, complottavano.
L’arrivo degli europei e la creazione di quelle invisibili, ma invalicabili, barriere geografiche chiamate confini, hanno impresso una biforcazione storica al mondo aborigeno nordamericano. Al sud, la disordinata e individualistica corsa al lontano West dei coloni americani, non regolamentata da alcuna legge, ha causato lo sterminio degli abitanti originari. La disperata difesa del proprio territorio da parte di questi ultimi ha permesso, poi, di creare nel «viso pallido» la fobia del pellerossa, legalizzando i genocidi perpetrati dalle Giubbe Blu.
A nord, invece, il Royal Proclamation Act del 1763, che impediva ai coloni di appropriarsi dei terreni, se questi non erano prima acquistati dalla Corona, garantiva una sorta di ordine e legalità nell’espansione verso il Pacifico.
Del resto, l’incontro culturale tra le diverse etnie era già in atto sin dalla seconda metà del xvii secolo, quando i coureurs-de-bois (i commercianti franco-canadesi che trattavano con gli aborigeni l’acquisto di pelli) cominciarono a prendere per mogli (o amanti) le ragazze delle tribù visitate. I figli meticci nati da queste unioni diedero origine ai métis, il cui rappresentante più celebre rimane Louis Riel. Oggi, a fronte di 624 mila nativi canadesi, i métis sono 153 mila.

I rapporti tra Ottawa e gli aborigeni non sono sempre stati pacifici. Nel 1759, ad esempio, il generale Jeffrey Amherst, comandante in capo delle truppe britanniche in Nord America, cercò di sterminare gli autoctoni, regalando loro coperte contaminate di vaiolo, inaugurando l’epopea della guerra biologica.
Furono però i vicini statunitensi a creare i maggiori problemi: nel maggio 1873, un gruppo di contrabbandieri, che commerciava whisky in cambio di pellicce, si scontrò a Cypress Hill con guerrieri cree, piedi neri e assinibone, uccidendone 36 e creando pericolose tensioni con l’innocente governo di Ottawa, intervenuto in favore degli aborigeni.
Fu per evitare il ripetersi di simili scontri che, il 23 giugno 1874, il colonnello Patrick Robertson Ros creò le famose Giubbe Rosse. Solo due anni dopo, l’ispettore James Walsh venne chiamato a proteggere i sioux di Ta-tanka I-yotank, (da noi conosciuto come Toro Seduto), rifugiatisi in Canada per evitare rappresaglie dopo la battaglia di Little Big Ho e la sconfitta del Generale Custer (25 giugno 1876).
Queste prese di posizione, hanno creato nei nativi canadesi un clima di relativa fiducia nei confronti del governo di Ottawa, che mai si è riscontrato nei loro fratelli statunitensi.
Ma la creazione di riserve, iniziate nel 1876 con la stipula dell’Indian Act e le sovvenzioni ancora oggi elargite alle comunità locali, se da una parte hanno permesso il mantenimento di tradizioni, istituendo scuole e centri culturali, dall’altra hanno alimentato una sorta di passività nell’animo aborigeno. La disoccupazione tra le comunità indigene, molto più elevata rispetto alle altre etnie, è dovuta non solo a un reclutamento settario nel mondo del lavoro, ma anche a un senso di impotenza ed emarginazione che le generazioni si sono tramandate nel corso dei secoli.
I generosi sussidi di disoccupazione garantiti dallo stato disincentivano i giovani a trovare un lavoro stabile, mentre la crescente mancanza di valori morali, sommata all’asperità del clima e degli elementi naturali, viene spesso colmata dall’alcornol e dalla droga. L’antica e profonda saggezza degli avi rischia in questo modo di scomparire.
Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali

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