Isola ad alta tensione

Un anno fa la fuga di Aristide e l’inizio del governo provvisorio,
guidato da Gérard Latortue, incaricato di guidare Haiti verso la normalità.
Gli aiuti promessi per la ricostruzione sono ancora un miraggio, mentre violenze
e insicurezze continuano a insanguinare l’isola caraibica.

All’indomani dei sollevamenti popolari che hanno causato la fuga del presidente Jean-Bertrand Aristide (29 febbraio 2004), ad Haiti è stato messo in piedi un governo di transizione. Il suo mandato è ristabilire la pace sociale e portare il paese a elezioni libere nell’autunno di quest’anno.
Nonostante il dispiegamento dei caschi blu della Minustha (Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione di Haiti) le violenze nel paese non sono cessate. Il primo dicembre scorso le milizie dell’ex presidente hanno attaccato il palazzo presidenziale dove si trovava il segretario di stato americano Colin Powell in visita ufficiale. Altri disordini sono scoppiati contemporaneamente in vari quartieri della città.
Abbiamo incontrato il primo ministro al margine del 10° vertice della francofonia, che si è tenuto a Ouagadougou, in Burkina Faso.

Qual è il bilancio della partecipazione di Haiti al 10° vertice della francofonia?
Molto positivo, perché abbiamo ripreso contatto con tutti i paesi francofoni, in particolare quelli africani. Ma abbiamo incontrato un grosso problema: c’è stata una manovra per far sì che l’Unione Africana prendesse una posizione contraria al cambiamento della costituzione. Tuttavia, in questo incontro abbiamo potuto discorrere su quello che succede ad Haiti e abbiamo spiegato loro che non siamo un governo nato per prendere e conservare il potere, ma vogliamo semplicemente gestirlo per un periodo ben determinato, con mandato ben preciso: restituire l’ordine al paese e prepararlo alle elezioni.
I capi di stato hanno capito che questo è un governo che non vuole prendere una posizione e non parteciperà alla competizione elettorale. Ora c’è anche un certo interesse per il cammino intrapreso da Haiti, come modello di transizione, che può essere utilizzato per risolvere i problemi di altri paesi.
La cosa più importante è che tutta l’Organizzazione internazionale della francofonia (Oif) ha deciso di appoggiare il processo in corso e, allo stesso tempo, aiutarci nello svolgimento delle elezioni, inviando osservatori francofoni e poliziotti nell’ambito della cooperazione tra le polizie. Inoltre ci sono vari presidenti che vogliono venire ad Haiti, come il senegalese Wade e il segretario dell’Oif Adbou Diouf.

E dal punto di vista economico, avete insistito affinché alcuni paesi sblocchino una serie di fondi promessi?
Non abbiamo messo questo problema sul tavolo, perché i paesi che possono darci qualcosa, come Canada e Francia, hanno riaffermato la volontà di aiutarci e a breve. Sono soprattutto i grossi paesi come questi che giocano un ruolo effettivo sulla direzione dei finanziamenti inteazionali. I paesi francofoni nell’insieme hanno posto il problema della cooperazione internazionale, per cui il processo di sblocco dei fondi è troppo lento e non risponde sempre ai bisogni di finanziamento dei paesi in via di sviluppo.

E i fondi (un miliardo e ottocento milioni di euro) promessi dall’Unione Europea?
Non sono ancora stati sbloccati dall’UE: essi sono stati approvati nel luglio scorso; in agosto c’erano le vacanze e dopo è cambiata la Commissione europea. Nessuna decisione poteva essere presa. Ma il principio c’è: il pagamento si farà nei primi mesi di quest’anno.
Ma noi, come governo, abbiamo preso delle misure, senza aspettare questi soldi, per cominciare una serie di lavori. Il 15 novembre scorso abbiamo lanciato vari cantieri con i fondi del Tesoro haitiano e della Banca Interamericana di Sviluppo che ha già iniziato a pagare. Sono progetti per creare lavoro nel paese, perché la nostra opinione è nota: la causa essenziale dell’insicurezza è la disoccupazione, la miseria.

Ad esempio?
Intanto c’erano certe condizioni che dovevamo rispettare, come fare un decreto che crea la commissione per l’assegnazione dei mercati. Poi siamo in piena contrattazione per cominciare il più rapidamente possibile la ricostruzione di alcune importanti strade del paese, sia al nord che al sud.

A livello politico interno, i diversi attori sono oggi disposti a mettersi d’accordo per gestire la crisi?
Sanno bene che non c’è altra possibilità di uscire dalla crisi se non quella di assicurare il successo della transizione. In questi mesi tutte le attività pre-elettorali devono cominciare; quindi, se vogliamo veramente uscire da questa situazione per arrivare a un governo legittimo, non si può che appoggiare la transizione, per portare il paese alle elezioni a fine 2005.

Lo stato è in grado di garantire la sicurezza dei cittadini e di arrivare alle elezioni?
Abbiamo chiesto aiuto alle Nazioni Unite che hanno inviato i caschi blu della Minustha, perché fin dall’inizio abbiamo riconosciuto di non potercela fare da soli, con una polizia di 3 mila effettivi, mal formata, mal equipaggiata, che non aveva neanche le armi, per 8 milioni e mezzo di abitanti. Non sarà lo stato haitiano da solo che garantirà la sicurezza, ma in cooperazione con le Nazioni Unite e le truppe della Minustha.

Ma le violenze nella capitale e in altre città continuano…
Adesso va meglio e la Minustha sarà ben presto al completo, avrà il suo effettivo totale in questi giorni. Sono pronti a impedire ogni genere di disordine, come quelli che ci furono alla fine del mese di settembre. Entriamo in un periodo in cui la Minustha prende ancora più coscienza della necessità di garantire una sicurezza totale, affinché cessino le violenze e il processo elettorale possa realizzarsi nelle migliori condizioni possibili.

Alcuni vorrebbero ricreare le forze armate d’Haiti: lei cosa ne pensa?
Io non ho nessun problema affinché ci siano delle forze armate, ma noi non abbiamo il tempo di farlo. Occorre studiare la questione a fondo. Sarà il prossimo governo che entrerà in funzione il 7 febbraio 2006, a preparare uno studio sulla fattibilità di un esercito. Ristabilire un’istituzione così, dopo 10 anni, richiede un lungo periodo di preparazione. Non siamo contro, ma non abbiamo né il tempo, né i mezzi, né il mandato.

Ma ci sono le milizie, che si dicono ex militari, che dettano legge in alcune zone: ci sono due stati in Haiti?
No, è totalmente falso. Sono stato a Cap Haitien, il 19 novembre scorso, e c’era un solo stato che mi ha ricevuto. Per la questione dei militari è stato creato l’ufficio per la gestione dei militari smobilitati, che ha il compito di reinserirli. Sono pronti a rispettare gli accordi fatti tra il governo e questi ex militari. Abbiamo già 600 impieghi e aspettiamo che l’ufficio ci dia i nomi per assegnarli.

E come farete a eliminare il fenomeno delle bande armate?
Non tocca a me, ma alla Minustha insieme alla polizia nazionale. Vedremo, dobbiamo cominciare, per assicurare una certa stabilità, che non ci sia più la libertà di andare a sparare in qualsiasi momento in questo o in quel quartiere.

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Haiti: paese suicida

I fondi promessi nello scorso luglio dalla comunità internazionale per la ricostruzione di Haiti (quasi un miliardo di dollari) non sono ancora arrivati. Ma il ministro degli esteri, Yvon Siméon, in seguito alla riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu dedicato ad Haiti, lo scorso gennaio, si è detto «ottimista» sullo sblocco imminente.
Intanto il primo ministro Gérard Latortue è riuscito a ottenere il finanziamento per le elezioni, previste a fine anno. Il 10 gennaio Canada, Stati Uniti e Unione europea si sono impegnati per un totale di 44 milioni di dollari necessari.
Ma ad Haiti, a un anno dai sanguinosi eventi terminati con la fuga del presidente Jean-Bertrand Aristide, oggi «ospite» in Sud Africa, e l’installazione dell’attuale governo di transizione, cos’è cambiato?
L’attualità è sempre dominata da violenza e da violazioni dei diritti umani. Le bande fedeli all’ex presidente continuano a imperversare nelle bidonvilles della capitale; gli ex ribelli, costituiti da ex militari, esponenti della destra storica ed ex putschisti si fanno ora chiamare Fronte di Resistenza Nazionale e controllano parte del paese, a dispetto della polizia nazionale, dei caschi blu dell’Onu e del governo che chiede a tutte le forze non ufficiali di deporre le armi.
Le Nazioni Unite, presenti con la missione di peacekeeping Minustha, forte di 7.400 effettivi sotto comando brasiliano (partecipano anche argentini, cileni, ecuadoriani, giordani, ecc.), che ha visto il suo mandato rinnovato fino a giugno 2006, ha seri problemi a mantenere l’ordine.

L’ agenzia stampa AlterPresse riporta che dal 30 settembre scorso un movimento violento è in corso in diversi quartieri della capitale. Le «chimere» rivendicano il «ritorno fisico» di Aristide. Ad oggi si registrano circa 200 morti, ufficialmente per scontri con la polizia. Da gennaio è in corso un’operazione di «pulizia» nelle enormi bidonvilles della capitale Port-au-Prince, che vede l’attuale amministrazione al centro di una polemica. Accuse di violenze, maltrattamenti ed esecuzioni sommarie, perpetrate dalla polizia, sono arrivate a decine alle organizzazioni per i diritti umani. La Coalizione nazionale per i diritti degli haitiani (Nchr) è stata informata di persone uccise dalla polizia: «Chiederemo alla polizia d’aprire le inchieste su questi casi e sugli atti di brutalità esercitati da poliziotti durante le operazioni» ha dichiarato il direttore Pierre Espérance all’agenzia Haiti Presse Network.
È nel corso di un rastrellamento della polizia a Cité de Dieu (nota bidonville) che è stato ucciso, il 14 gennaio, il giovane giornalista Abdias Jean. Sarebbe stato testimone scomodo di alcuni omicidi.
Nello stesso periodo altri due giornalisti del quotidiano Nouvelliste, sono stati malmenati, questa volta da sostenitori dell’ex presidente, mentre altri due colleghi hanno denunciato pressanti minacce di morte nei loro confronti.
Ma non basta. Il primo dicembre nel penitenziario nazionale di Port-au-Prince una rivolta è degenerata in massacro. Le cifre ufficiali di 10 morti e 40 feriti sono smentite da alcuni testimoni, che avrebbero visto molti più cadaveri. Le visite di parenti e giornalisti sono state, da allora, soppresse. Amnesty Inteational ha lanciato un appello affinché sia fatta chiarezza e rispettati i diritti dei prigionieri.

I ntanto sul piano diplomatico l’Unione Africana, per voce del presidente della Commissione Alpha Oumar Konaré ha espresso attaccamento al problema haitiano perché: «Haiti è un paese africano fuori dall’Africa». A Pretoria (Sud Africa) Konaré ha incontrato Aristide e Thabo Mbeki a gennaio, dopo aver fatto una visita il mese prima nel paese caraibico. Il risultato: un avvicinamento di Latortue, che ha sempre accusato Aristide di dirigere i suoi sostenitori dall’esilio, all’ex presidente per un’azione in favore del dialogo nazionale e la pace.
Nel paese, intanto, il progetto di dialogo inter haitiano, sostenuto dalla comunità internazionale, cerca di decollare. Una consultazione dei diversi partiti politici e settori della nazione è in corso sulle grandi questioni del paese. Micha Gaillard, politico e oppositore del regime di Aristide, incaricato della cosa, si è detto soddisfatto delle reazioni che ha incontrato nei confronti del dialogo nazionale. Il gruppo 184, gli oppositori democratici della società civile, tenta di formalizzare un progetto di contratto sociale e cerca fondi per realizzarlo. Il gruppo è deciso a contribuire alla realizzazione di elezioni trasparenti e corrette (9 ottobre, 13 novembre e 18 dicembre 2005). M.B.

Marco Bello