DOSSIER GIAPPONEIntroduzione

 

HIROSHIMA E NAGASAKI

I loro nomi saranno uniti per sempre, memoriale e monito di come l’uomo sia capace di una incredibile distruzione e autodistruzione: Hiroshima e Nagasaki.
Ricordare i nomi delle due città giapponesi, le sole al mondo ad aver subito il bombardamento atomico, significa «aborrire la guerra nucleare e impegnarsi per il futuro e per la pace», rifiutare la «potenza nucleare come mezzo per mantenere l’equilibrio del potere attraverso l’equilibrio del terrore» affermava Giovanni Paolo ii il 25 febbraio 1981, davanti al Peace Memorial di Hiroshima.
Lo sanno tutti cosa è capitato in quelle due città; ma conviene sempre rinfrescare la memoria.

I l 25 luglio 1945, una gelida nota del comando militare Usa dirama il seguente comunicato: «La 20a unità delle forze aeree sgancerà la sua prima bomba speciale, appena le condizioni atmosferiche lo permetteranno, all’incirca dopo il 3 agosto 1945, su uno di questi obiettivi: Hiroshima, Kokura, Niigata, Nagasaki. Per permettere agli scienziati militari e civili di registrare gli effetti dell’esplosione, un ulteriore velivolo accompagnerà l’aeroplano che trasporterà la bomba».
Il lunedì 6 agosto mattino, un quadrimotore B29, battezzato Enola Gay, si leva in volo da Tinian, con a bordo 12 uomini di equipaggio e il Little Boy (bambino, ragazzino): si tratta di una bomba lunga tre metri e 5 tonnellate di peso, caricata con 10 kg di uranio 235, la cui potenza distruttiva è valutata in 13 mila tonnellate di Tnt (trinitrotoluolo-toluene).
L’obiettivo non è precisato nel piano di volo; lo sceglierà uno degli aerei meteorologici che lo precedono, a seconda delle condizioni atmosferiche. All’altezza di Iwo Jima, arriva l’atteso bollettino: «Nagasaki coperto totalmente, Hiroshima visibilità dieci miglia».
Alle 7.59 l’aereo raggiunge l’obiettivo; alle 8,15 il pilota Thomas Wilson Ferebee apre il portellone e lascia cadere nel vuoto il Little Boy. La bomba scende in picchiata. L’aereo ha 45 secondi per allontanarsi. Gli uomini sottovoce contano i secondi, poi un lampo accecante: si eleva una sfera di fuoco del diametro di 600 metri, il cui centro ha una temperatura di 100 milioni di gradi.
Dopo 7 secondi un rimbombo assordante rompe l’innaturale silenzio. Dal punto dello scoppio si sprigiona una colonna di fumo, vapore e polvere, che s’innalza verso il cielo e dilata la sua cima fino ad assumere la forma di un fungo. L’esplosione demolisce gli edifici nel raggio di tre chilometri; la devastazione si allarga su una superficie di dodici chilometri quadrati: saltano le condutture, scompaiono intere strade, dal cielo cadono goccioloni enormi e viscidi; le acque dei canali straripano invadendo il deserto di macerie.
In pochi istanti 71 mila giapponesi sono vaporizzati; 20 mila moriranno nella notte; altri 60 mila nel corso dell’anno; oltre 100 mila i feriti, su una popolazione di circa 245.000 abitanti.
In quella «fine del mondo», come è ribattezzato quel 6 agosto 1945, si vedono i sopravvissuti vagare come fantasmi, pelli bruciate che si staccano dai corpi, madri che stringono al petto i figli carbonizzati, disperati che si suicidano.
Oltre 4.800 reperti, conservati nel Museo della bomba atomica di Hiroshima, parlano ancora degli effetti devastanti di quell’inferno.
Il 9 agosto, alle ore 12.00, Bock’s Car, un altro B29, sgancia la seconda bomba atomica, al plutonio, detta Fat Man (grassone, ciccione), questa volta su Nagasaki. Gli effetti sono identici: la città interamente distrutta, 41 mila morti e 70 mila ustionati gravi, anch’essi destinati a una lunga agonia.
Ai morti e feriti delle due bombe vanno aggiunte le devastanti conseguenze genetiche su migliaia di migliaia di altre persone, su animali e piante dei territori circostanti prodotte dalle esplosioni nucleari.

I l 14 agosto 1945 l’imperatore giapponese firma la resa. Gli americani continuano l’occupazione fino al 1948. Il trattato di San Francisco del 1951 restituisce formalmente la sovranità ai nipponici e la possibilità di ricostituire una forza militare di polizia, ma la politica giapponese rimane subalterna alle direttive di Washington, nonostante le proteste di piazza degli anni ‘70.
Anzi, il filo che lega il Giappone agli Usa diventa sempre più solido, fino ad appoggiare la guerra in Afghanistan e inviare truppe in Iraq.
Dal 3 novembre 1946, data di nascita della Costituzione giapponese, nessun soldato delle Forze di difesa interna ha messo piede fuori dall’isola. L’articolo 9 sancisce: «Aspirando sinceramente a una pace internazionale basata sull’ordine e la giustizia, la popolazione giapponese rinuncia per sempre alla guerra come un diritto sovrano della nazione e all’uso della forza per sedare le dispute internazionali».
Il premier Koizumi, però, si è creato una legge di durata biennale che prevede la possibilità d’inviare truppe per «speciali misure di intervento umanitario e di ricostruzione» nelle zone devastate dalla guerra. Così un contingente di 1.000 soldati è atterrato a Balad, in Iraq, a fianco degli americani.
Il tabù è rotto. Ma cosa pensano i cittadini giapponesi del fatto di trovarsi a combattere a fianco della stessa potenza che ha fatto vedere loro la «fine del mondo» e che sta sperimentando nuove armi nucleari miniaturizzate, ma altrettanto devastanti di quelle di 60 anni fa?
B.B.

B.B.




Africa occidentale – Sabbie che scottano

I confini del Sahel sono «porosi» e lasciano passare
di tutto: dal contrabbando ai terroristi.
In quest’angolo di deserto, ricco di petrolio, gli Usa hanno lanciato la Trans Sahara Counter Terrorism Initiative e hanno iniziato ad addestrare i militari
di Mali, Mauritania, Niger e Ciad. Ma tale iniziativa
si sovrappone a una serie di conflitti, più o meno latenti, che fanno dell’Africa occidentale,
a maggioranza musulmana, una zona complessa
e delicata. E rischia di causare un incendio.

La strada sembra allungarsi a ogni passo, come se scivolasse verso l’orizzonte tremolante, disciolta dalla canicola. Basta fermarsi e distrarsi un attimo per non avere più chiaro da dove si viene e in che direzione si sta andando.
«È come essere nel bel mezzo del nulla» spiega Amaka Megwalu, ragazza statunitense di origine nigeriana, che si trova in Senegal per un tirocinio estivo presso un’organizzazione non governativa con sede a Dakar. Accompagna le parole con ampi gesti del braccio, indicando un punto lontano nel deserto, che lei ha potuto solo immaginare. Perché quello che ha avuto nel nord del Senegal non è che un assaggio, innocuo e circoscritto, della landa polverosa che si estende dall’Atlantico al sud dell’Egitto, passando per la Mauritania, Mali, Niger, Ciad e Sudan.

CONFINI DA… «RIPULIRE»
Il Sahel, che significa «al limite del deserto», è l’anticamera del Sahara: la cintura che separa l’Africa tropicale dal mare di sabbia. Una terra dai «confini porosi», come l’ha definita il cornordinatore dell’antiterrorismo del dipartimento di Stato Usa, Karl Wycoff. Su tali confini vegliano soldati infiacchiti e mal equipaggiati, che si contendono gli spiccioli estorti ai viaggiatori.
Attraverso queste frontiere passano ogni giorno, e da secoli, carovane e contrabbandieri, che ai cammelli hanno ormai affiancato camion traboccanti di merci, che portano da un capo all’altro del Sahel storie e notizie raccolte lungo la strada.
Ma ciò che ha attirato l’attenzione di Washington non sono i tradizionali viaggiatori del deserto, bensì i nuovi carovanieri che da qualche anno attraversano queste stesse frontiere: mercanti di droga, schiavi, armi e diamanti, immigrati clandestini all’inseguimento del sogno europeo, ma soprattutto terroristi, impegnati in scorribande o alla ricerca di luoghi remoti e sicuri per costruire campi di addestramento dove dedicarsi al reclutamento di nuovi combattenti.
I membri dell’intelligence statunitense sono convinti che i terroristi responsabili dell’attentato a Madrid dell’11 marzo 2004 abbiano «un legame con il Nord Africa» e che il limitrofo Sahel si stia trasformando in un nuovo Afghanistan. «Vogliamo prevenire il rischio – dichiara il capo dell’antiterrorismo del Comando militare statunitense in Europa, il colonnello Powl Smith – per evitare di dover intervenire direttamente in Nord Africa come abbiamo fatto in Afghanistan». Per questo il dipartimento di Stato Usa ha deciso di irrompere nella millenaria immobilità del deserto, lanciando, nel novembre del 2002, la Pan Sahel Initiative, ora ribattezzata Trans Sahara Counter Terrorism Initiative. La sua messa in atto è cominciata nei primi mesi del 2004 e prevede l’addestramento di truppe scelte degli eserciti di Mali, Mauritania, Niger e Ciad, per aumentare l’efficienza nel controllo dei confini e «ripulire» la regione dagli islamisti radicali.
«Mettendo gli eserciti locali in grado di combattere da soli – prosegue il colonnello Smith – gli Usa non potranno essere usati come un parafulmine per la rabbia popolare della quale gli estremisti potrebbero approfittare».

OCCHIO AL PETROLIO!
Washington ha ottimi motivi per preoccuparsi dell’Africa occidentale: secondo le stime dello stesso dipartimento dell’energia Usa, entro dieci anni un quarto del fabbisogno statunitense di greggio sarà soddisfatto proprio dai barili provenienti da questa regione del mondo.
Ma questa milionaria operazione di Washington (il budget iniziale di 6,25 milioni di dollari ha raggiunto i 125 milioni in 5 anni) si svolge su un terreno reso instabile proprio dai fiumi di petrolio che scorrono nel sottosuolo. La presenza dell’oro nero, infatti, provoca precarie alleanze e una costante imminenza di conflitti, legata a una logica immutabile che tuttora informa l’agire dei governi della regione, combinando la legge del più forte con la tendenza a vendersi al miglior offerente.
«Noi senegalesi non abbiamo niente: né oro, né petrolio, né diamanti. Solo arachidi e spiagge – constata con amara ironia madame Diakhoumpa, ricca dakaroise che affitta case ai funzionari inteazionali -. È per questo che ci hanno lasciato in pace. Ma tutto intorno a noi c’è guerra, fame, miseria».
La scoperta di nuovi giacimenti petroliferi in Africa occidentale rischia di replicare in tutta la regione le tensioni che da anni fanno della Nigeria, sesto produttore mondiale di petrolio, uno stato altamente instabile e percorso da conflitti che appaiono sempre più insanabili.
Accanto ai massacri nello stato federale centro-orientale del Plateau (effetto di reciproche rappresaglie tra le etnie di agricoltori stanziali tarok, di fede cristiana, e i pastori nomadi musulmani hausa fulani), la Nigeria paga un elevato tributo in termini di vite umane anche a causa della lotta senza quartiere che oppone l’esercito nigeriano ai pirati del petrolio: secondo le stime del colosso energetico Shell, viene sottratta una quantità di greggio pari a 60 mila barili al giorno.
«I gruppi criminali stanno aumentando di dimensioni e sono sempre meglio organizzati» rivela un abitante della città costiera Port Hancourt a Katharine Houreld del Guardian. «Ora non hanno più bisogno dell’appoggio dei politici, rubano oro nero e comprano armi autonomamente, e si stanno trasformando in vere e proprie milizie. Se le cose continuano così, il delta del Niger sarà una zona di guerra durante le prossime elezioni».
Visto il tragico precedente rappresentato dalla Nigeria, è ovvio che l’entrata in funzione dell’oleodotto, che collega il Ciad ai porti atlantici del Camerun, sollevi più di qualche perplessità quanto agli effetti che la sua presenza produrrà sulla stabilità della regione.
Il progetto, costato 3,2 miliardi di euro, rappresenta il più grande investimento della Banca mondiale nell’Africa sub sahariana: voluto nel 1996 dall’amministrazione statunitense del presidente Bill Clinton, l’oleodotto è stato sviluppato da un consorzio internazionale guidato dal gigante petrolifero Exxon Mobile, con la partecipazione di Petronas e Chevron Texaco.
Nel corso dei prossimi 25 anni, i proventi della produzione di greggio dovrebbero fruttare 2 miliardi di dollari al Ciad e 500 milioni al Camerun, risorse che i due stati si sono impegnati a investire nel miglioramento del sistema sanitario ed educativo, oltreché nello sviluppo di progetti agricoli.
IL CIAD INSEGNA…
Ma dare per scontato che queste promesse saranno mantenute significa sottovalutare le complessità delle dinamiche politiche africane e non tenere in considerazione l’intreccio contraddittorio e la volatilità degli equilibri politici della regione.
Il presidente ciadiano Idriss Déby, per esempio, si trova attualmente nel bel mezzo di una impasse le cui conseguenze possono travalicare i confini del suo paese e rischiano di mettere in discussione la sua stessa autorità.
La confinante zona del Darfur, regione occidentale del Sudan, è infatti da tempo insanguinata dai massacri compiuti dalle milizie arabe e musulmane janjaweed ai danni della popolazione nera, anch’essa di fede islamica. Più di un’autorevole fonte sostiene che sia proprio il governo sudanese a sostenere i «fucilieri a cavallo» (questa la traduzione del nome janjaweed) contro i gruppi ribelli presenti nel Darfur. Senonché la furia dei miliziani arabi si è scagliata sempre più spesso contro la popolazione civile, in particolare contro l’etnia zaghawa.
Ed è a questo punto che il Ciad entra in scena nel conflitto sudanese: il presidente ciadiano Déby, infatti, appartiene proprio all’etnia zaghawa, che vive in una zona a cavallo del confine tra i due paesi.
Secondo un recente rapporto della Banca mondiale, Déby sta subendo forti pressioni da parte della sua élite militare (anche questa di etnia zaghawa), affinché invii l’esercito ciadiano a difendere i «fratelli» sudanesi dalla ferocia dei janjaweed.
Si tratterebbe, dunque, per il presidente Déby, di lanciarsi in un clamoroso voltafaccia a Khartoum, nonostante il debito di riconoscenza nei confronti del presidente sudanese Omar Hassan Al Bashir, grazie all’appoggio del quale Déby era arrivato al potere in Ciad nel 1990.
La Pan Sahel Initiative, dunque, al di là delle parole e delle intenzioni del colonnello Smith, si innesta in una realtà tutt’altro che trasparente, dove l’addestramento militare viene fornito a eserciti di paesi percorsi da profonde contraddizioni politiche, inclini ai reciproci regolamenti di conti e propensi a interferire l’uno negli affari interni dell’altro, in maniera spesso sotterranea e incontrollabile. Tanto più che, paradossalmente, il più grande successo, per quanto riguarda la lotta ai gruppi terroristici che operano nel Sahel, lo ha ottenuto finora non l’esercito regolare ciadiano, bensì i ribelli di un brancaleonesco «Movimento per la democrazia e la giustizia in Ciad», che ha catturato, nel marzo del 2004, un gruppo di appartenenti all’algerino «Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento» (Gspc), sedicente affiliato di Al Qaeda e bersaglio dichiarato della Pan Sahel Initiative.

L’OMBRA DI BIN LADEN
Che i membri di Al Qaeda siano presenti in Africa occidentale non è una novità; così come sono da tempo noti i legami del Gruppo salafita con gli uomini di Osama bin Laden. «Fu l’allora capo del Gspc, Nabil Sahraoui – scrive il giornalista algerino Cherif Ouazani – che negli anni ’90 favorì l’infiltrazione in Algeria del messo di Bin Laden, Abdelaziz el Moukrine, e che lo aiutò a lasciare indisturbato il paese, quando Moukrine fu incaricato di organizzare il jihad in Arabia Saudita».
Il Gruppo salafita aveva goduto momenti di effimera notorietà, nel 2003, dopo essersi reso responsabile del sequestro di una trentina di turisti europei nel Sahara. I turisti furono rilasciati dietro il pagamento di un riscatto di 8 milioni di dollari, corrisposto dal governo tedesco, grazie al quale il Gspc aveva potuto rimpinguare il proprio arsenale.
Il protagonista dell’operazione fu Amari Saifi, ex paracadutista delle forze speciali algerine, convertitosi al terrorismo con il nome di Abderrezak el Parà, figura di spicco del Gspc, divenutone l’emiro dopo la morte di Sahraoui.
Proprio El Parà era alla guida del manipolo catturato nel marzo 2004 dai ribelli ciadiani. La sua cattura ha dato origine a una serie di trattative incrociate tra i governi di Ciad e Algeria, in cui è intervenuto anche il presidente della Libia Muhammar Gheddafi, da mesi impegnato a compiacere i governi occidentali, che gli hanno di recente concesso una sorta di riabilitazione internazionale, dopo averlo per anni considerato un nemico irriducibile.
La faccenda della consegna di El Parà aveva assunto i tratti di una telenovela: il governo algerino rifiutava di trattare con i ribelli ciadiani e faceva invece pressioni sul presidente Déby, dal canto suo incapace di imporre la propria volontà ai ribelli; fino alla pirotecnica entrata in scena del colonnello Gheddafi, che minacciò di intervenire militarmente, se El Parà non fosse stato consegnato alle autorità algerine.

TERRORISMO: FINCHE’ DURA…
Il risultato di un tale bailamme, nel corso del quale nessuno ha dato prova convincente di essere davvero interessato a catturare il terrorista, è stato quello di far sorgere dubbi sulle effettive intenzioni dei governi coinvolti, fino a suggerire un loro uso strumentale della campagna antiterrorismo americana.
«Abbiamo finito per pensare che nessuno degli stati africani vuole El Parà e che è nell’interesse di tutti lasciarlo libero di muoversi nel Sahel – ha dichiarato caustico l’incaricato degli Affari esteri del movimento ribelle ciadiano, Brahim Tchouma, alla ricerca di un riscatto per l’ostaggio -. Se venisse arrestato o ucciso, infatti, si interromperebbero anche i crediti americani che sono stati stanziati per combatterlo».
Il paradosso è evidente: se l’interpretazione data da Tchouma è corretta, i governi della regione, che ricevono denaro e mezzi finché esiste una minaccia terroristica da contenere, avrebbero interesse ad alimentare proprio quell’insicurezza che il governo Usa vuole ridurre con la Pan Sahel Initiative.
El Parà è stato rimesso alla custodia algerina nel novembre del 2004. Ciononostante, i vertici militari del Comando statunitense in Europa hanno ammesso che la loro iniziativa stenta a dare i frutti sperati. «Il problema – scrive il giornalista del New York Times Douglas Farah – è che gli Usa non stanno compiendo nessuno sforzo per competere sul piano delle idee». Viene lasciato il campo libero proprio a quei gruppi islamisti che trovano, specie nella rabbia dei giovani africani, terreno fertile per la propria predicazione.

FANATISMO E CORRUZIONE
Da mesi, ormai, c’è un regolare afflusso verso l’Arabia Saudita di studenti coranici, nigeriani e non solo, che vanno a perfezionare la propria preparazione in Medio Oriente e poi rientrano in Africa per fare proseliti. E il livello di fanatismo ha raggiunto vette preoccupanti proprio in Nigeria, dove gli estremisti musulmani avevano diffuso la voce che i vaccini antipolio, messi a disposizione dagli operatori umanitari occidentali, fossero in realtà un veleno, che avrebbe reso sterili i maschi musulmani, esortando così i genitori a non far vaccinare i propri figli.
Il fanatismo religioso e la corruzione dilagante in Africa occidentale finiscono poi per intrecciarsi con reciproca soddisfazione: celebre è l’episodio, riportato da Douglas Farah, del sodalizio tra l’ex presidente della Liberia Charles Taylor e gli emissari di Al Qaeda: questi avrebbero potuto contare sull’appoggio del liberiano per avviare un florido commercio di diamanti provenienti dalla Sierra Leone.
La compravendita di gemme aveva lo scopo di permettere ad Al Qaeda di diversificare le proprie risorse finanziarie e di svuotare i conti correnti non ancora scoperti e fatti congelare da Washington, come rappresaglia agli attacchi alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania nel 1998.
Si trattava di una colossale manovra di pulizia di denaro sporco, attraverso gli stessi canali usati dal movimento sciita libanese hezbollah, la cui presenza in Africa occidentale è di ben più vecchia data. A fare da intermediario a tutta l’operazione c’era il senegalese Ibrahim Bah, mercenario addestrato in Libia, che aveva combattuto negli anni ’80 in Afghanistan contro i sovietici e poi in Libano al fianco degli hezbollah. Lo stesso Taylor ottenne per il disturbo una notevole somma di denaro.

Non stupisce che, inserita in una rete di relazioni così fitta e insidiosa, la Pan Sahel Initiative non decolli: presidiare un mare di sabbia è una contraddizione in termini. Specialmente quando quel mare è solcato da flotte di combattenti della religione e del petrolio, che si alleano e si tradiscono in modo del tutto imprevedibile e sotterraneo. Viene da chiedersi se gli Usa hanno davvero imparato la lezione dell’Afghanistan: quella di non armare i loro futuri nemici.


Mercella Federici




Aprire le porte

Tutte le volte che qualcuno mi chiede: «Ma cosa vuol dire, concretamente,
dialogo interreligioso?», mi sento un po’ a disagio. Non è facile rispondere. Perché dialogare non significa tanto «fare qualcosa», ma incontrare, capirsi, creare relazioni di amicizia… Proprio come nel «pellegrinaggio» che vorrei raccontarvi.

Il mio compito missionario in Corea, da qualche anno, è il dialogo interreligioso. È questa una dimensione dell’evangelizzazione con la quale molte persone ancora non sono familiari. Infatti, mi trovo un po’ imbarazzato tutte le volte che qualcuno mi chiede: «Ma cosa vuol dire, concretamente, fare il dialogo interreligioso?».
Non è facile rispondere. Perché dialogare non significa tanto «fare qualcosa», ma… molte cose: incontrare persone, parlarsi, capirsi, creare relazioni di amicizia e fiducia… Proprio come in questo «pellegrinaggio» un po’ speciale di cui vorrei parlarvi…

La partenza

Quando sono salito sul pullman dei «pellegrini» quella mattina del 23 novembre scorso, l’atmosfera al suo interno era fredda quasi come l’aria pungente dell’esterno. C’erano già varie persone e altre continuavano ad arrivare. Ma ognuno sembrava stare un po’ sulle sue, cercando un posto appartato dove sedersi, o concentrandosi sul giornale, alzando solo la testa di tanto in tanto, per «controllare» i nuovi che arrivavano. Evidentemente, tutti avevano ricevuto un invito simile a quello che avevo ricevuto io, ma il fatto di non conoscerci e di essere tutti di religioni diverse ci teneva ancora bloccati.
Questo tipo di «pellegrinaggio interreligioso» viene organizzato quasi ogni anno dal Kcrp (Conferenza coreana delle religioni per la pace), ramo nazionale dell’omonima organizzazione mondiale di Dialogo interreligioso (Wcrp), con il contributo finanziario del Ministero della cultura coreano. Avevo già partecipato una volta, nell’ormai lontano 1998, ma poi avevo perso i collegamenti, da quando ero stato destinato a Roma per qualche tempo.
Appena il pullman si muove, gli organizzatori prendono il microfono e cominciano le presentazioni. Non c’è che dire: siamo proprio un gruppo molto eterogeneo. C’è il vescovo anglicano della diocesi di Seoul e due dei suoi sacerdoti, più la pastora di un’altra chiesa, a rappresentanza dei protestanti; due laici buddisti (uno dei quali è l’attuale direttore generale del Kcrp); due monaci e una monaca del buddismo Won (una religione autoctona della Corea, che si rifà al buddismo, ma allo stesso tempo se ne differenzia nei simboli religiosi, nel fondatore e nell’insegnamento); ben quattro rappresentanti del Ch’on-do-kyo (altra religione autoctona coreana, fondata nel 1860… come avrò modo di sapere durante il viaggio); due rappresentanti del confucianesimo (uno dei quali già conosciuto in una mia precedente visita all’Università confuciana di Seoul); due membri di una religione che mai e poi mai avevo sentito nominare prima (un culto sorto dalla «religiosità popolare» coreana, in un’isola al sud del paese e che si rifà alla filosofia taoista orientale). E i cattolici? Beh, ci sono io (sono anche l’unico non coreano!) e tre laici, membri del Consiglio del Kcrp e che quindi sono anche gli organizzatori del viaggio. Che strano: neppure una suora!
Il bello è che, man mano che si fanno le presentazioni, l’ambiente si riscalda. Le persone sembrano uscire dal guscio dove si erano rifugiate e si aprono all’incontro. Saluti, sorrisi, scambio di informazioni… qualcuno cambia di posto e si avvicina. I giornali vengono messi da parte e il brusio delle conversazioni riempie il pullman…
Il dialogo comincia.

L’itinerario
Trattandosi di un «pellegrinaggio» interreligioso, è chiaro che le mete da visitare sono «luoghi sacri» appartenenti alle varie religioni. Secondo lo stile coreano, gli organizzatori hanno preparato e distribuiscono tutto: libretto informativo, lista dei partecipanti, acqua, frutta e delizie varie in quantità… perfino alcune pagine con inni, o canti sacri delle varie religioni. Così, tra una conversazione e l’altra, in cinque ore di viaggio, arriviamo a Kyong-ju, città storica e d’arte di primaria importanza in Corea.
Luoghi sacri dei buddisti – I primi a essere visitati sono luoghi del buddismo. Al tempio di Ki-rim ci aspetta un personaggio che ho il piacere di conoscere già da diversi anni. Si chiama Pop-myong ed è un monaco buddista, che qualcuno certamente definirebbe «atipico». Sempre pronto alla battuta e allo scherzo, perfettamente «aggiornato» su cantanti e personaggi dello spettacolo, costantemente mescolato ai giovani, che ogni anno porta addirittura in pellegrinaggio in India, zaino in spalla…
È lui che ci guida nella visita al tempio («Nel tempio ci sono cinque diverse fonti d’acqua… chi ne beve diventa saggio e raggiunge presto l’illuminazione!». «Quella statua di Budda è fatta di cartapesta e data dal tempo del regno di Shilla…»). Poi, subito dopo, le rovine di un altro tempio e una tomba «marina», collegata direttamente a quelle rovine («unica al mondo» la descrive il pannello turistico piantato sulla riva). Si tratta della tomba del gran re Mun-mu (morto nel 681), che ha riunificato sotto il suo comando la penisola coreana, allora suddivisa in tre regni.
Fu quello un periodo di grande espansione del buddismo in Corea, tanto da diventae la religione ufficiale. Il re morì, chiedendo la costruzione di un tempio-memoriale e di avere le sue ceneri deposte nel mare, per potersi trasformare in drago e continuare a difendere la nazione dai pericoli estei… La sua tomba, infatti, consiste in un isolotto che emerge a 200 metri dalla riva, con un laghetto al suo interno (curiosamente, a forma di croce), al centro del quale emerge una grossa pietra, sotto cui – si afferma – sono state poste le ceneri del grande re.
Ma non tutto è visita e spiegazioni; bisogna anche fare cena e raggiungere l’hotel, dove passeremo la notte. È in questi momenti informali che la spontaneità e le relazioni raggiungono il loro punto più alto e vero. Si chiacchiera allegramente, si ride, si pongono mutuamente domande, anche impegnative. L’ambiente è molto disteso… Perfino il vescovo anglicano sembra mettere da parte la sua «dignità episcopale», inserendosi bene nella compagnia.

Luoghi sacri del Ch’on-do-kyo – Il giorno dopo è la volta dei luoghi sacri del Ch’on-do-kyo. Veniamo portati, dopo colazione, ad un piccolo villaggio nei dintorni di Kyong-ju, dove c’è il «Ritiro di Yong-dam». In questa piccola casa rurale, immersa tra i boschi (peraltro rivestiti di bellissimi colori autunnali, nel momento in cui la visitiamo), il fondatore del Ch’on-do-kyo, Ch’oi-je-woo, nel 1860 ebbe la grande «rivelazione» che lo portò a fondare, appunto, la nuova religione. Il principio è: Dio non abita lassù nei cieli, lontano dagli uomini, ma abita il profondo, il cuore di ogni uomo.
Questa religione è vista come la «nuova creazione» del mondo. Infatti, sulla parete del Centro di formazione, costruito oggi accanto alla Casa del ritiro, c’è scritto a grossi caratteri: «Sii ri-creato e diventa una persona nuova!». I riti sono semplici e molto basati sull’uso degli elementi naturali, come l’acqua, che sgorga cristallina accanto alla Casa del ritiro (vedi box). Confesso che non conoscevo quasi nulla del Ch’on-do-kyo e, con questo pellegrinaggio, ho cominciato a vederla come una religione «simpatica»!

Luoghi sacri del confucianesimo – Nel pomeriggio, già di ritorno a Kyong-ju, è la volta del confucianesimo. Nel Hyang-kyo, una delle antiche e caratteristiche «scuole» confuciane, troviamo già preparate un gruppetto di persone, rivestite di abiti da cerimonia, pronte a svolgere per noi e assieme a noi un rito in onore di Confucio. Uno dei due rappresentanti del confucianesimo che è parte della nostra comitiva si offre di spiegare, per filo e per segno, le varie fasi del rito.
Entrata solenne, portando la tavoletta con il nome del Maestro; abluzione; processione all’interno del tempio (salendo ogni scalino prima con il piede destro); proclamazione solenne del motivo del rito (la nostra visita, in questo caso); offerta di incenso, inchini, uscita (dalla parte opposta a quella di entrata, scendendo ogni scalino prima con il piede sinistro). Tutto solenne, compassato, codificato, preciso… Noto che le persone che svolgono il rito sono tutte anziane. Non mi meraviglia: il confucianesimo, pur essendo molto vivo nella mentalità sociale coreana, non è certo al top degli interessi dei giovani modei (beh, questo è vero anche per altre religioni!).
Nella condivisione serale, particolarmente lunga, viene chiesto se il confucianesimo sia veramente una religione. Uno dei rappresentanti dice di no; ma l’altro, immediatamente, lo corregge e dice di sì. Certo, tutto dipende da cosa si intende per «religione». La condivisione, comunque, è bella e ricca. Ognuno dice come si è sentito nella visita ai luoghi di una religione diversa dalla propria. Prevale nettamente la volontà di non «farsi la guerra», di capirsi, il desiderio di unità e di collaborazione (per quanto possibile).

Luoghi sacri del buddismo-Won – La notte l’avevamo già passata in una «casa di ritiri» di questa religione. Al mattino, dopo colazione, abbiamo visitato il santuario di Song-ju. In questo paesino è nato, cresciuto, ed ha ricevuto l’illuminazione (nel 1916) il venerabile Chong-san (1900-1962), che divenne il secondo patriarca di questa religione, subito dopo la morte del fondatore vero e proprio del buddismo-Won, So-Tae-san. «Educa il popolo per costruire un mondo di pace» è il contenuto essenziale della rivelazione ricevuta in quel luogo. Possiamo addirittura stringere la mano ad una figlia del patriarca, ormai anziana monaca, ma con un sorriso smagliante e una vitalità impressionante. Ci invita tutti a costruire la pace.
Non posso evitare di pensare, dentro di me, a quanto «ottimiste» siano tutte queste religioni orientali, circa l’uomo e la sua capacità di trovare, seguire e realizzare il bene con le sole sue forze. Non sembrano prendere in seria considerazione la forza del male, che domina il cuore umano, e del peccato…

Luoghi sacri dei cattolici – Subito dopo il santuario di Song-ju, proprio nello stesso paesino, facciamo una brevissima visita al Centro di recupero per alcornolizzati, retto dalle suore di una famiglia religiosa francescana. Il posto è molto bello, costruito poco a poco dagli stessi pazienti, con una varietà di forme impressionanti e con abbondanza di statue della Madonna e della Via Crucis, un po’ dappertutto sulla collina. Tutti restano… meravigliati!
Meraviglia che cresce ancor di più durante la visita alla grande abbazia benedettina di Wae-gwan. Ci accoglie con un sorriso il superiore della comunità (l’abate è assente) e ci porta in chiesa. A me sembra proprio di «tornare a casa»! Il superiore si sforza di spiegare a quell’uditorio così inusuale la realtà della vita religiosa nella chiesa cattolica, la differenza tra sacerdoti diocesani e religiosi; le differenze, nell’unità, tra le varie famiglie religiose… Tutti ascoltano con attenzione, ma non credo che riescano a capire. Infatti, molti toeranno con me sull’argomento, dopo la visita.
Assistiamo alla celebrazione dell’ora sesta dei monaci e tutti, poi, mi diranno essere convinti di aver assistito alla messa… E quale meraviglia, da parte loro, rivedere le stesse persone, che prima erano avvolte nell’abito benedettino, indossare ora la tuta da lavoro, nel laboratorio per la fabbricazione di arredi sacri e in quello delle vetrate colorate… Non c’è che dire: la chiesa cattolica suscita rispetto, ammirazione a non finire e… (devo dirlo?) un po’ di «timore» su tutti («Ma perché la chiesa cattolica vuole far diventare cristiano il mondo intero?» – mi chiedeva sul pullman una signora del Ch’on-do-kyo).
Ma è già pomeriggio e ci aspetta un lungo viaggio per tornare a Seoul. Nel pullman si chiacchiera, si dorme, ci si scambiano indirizzi e numeri di telefono, si canta… e, all’arrivo, ci si separa con quella punta di dispiacere che sempre si prova a separarsi dagli amici; però, con la promessa di ritrovarci e continuare il dialogo.

Dopo questo tipo di esperienze di dialogo interreligioso, mi restano sempre nel cuore alcune sensazioni. Innanzitutto, la consapevolezza della mia grande ignoranza circa le altre religioni. Sì, so qualcosa, ma il vero «centro» delle religioni ancora mi sfugge. Quanto devo ancora studiare e sforzarmi per sapere e capire… È solo una «magra consolazione» l’aver constatato, una volta ancora, che l’ignoranza sul cristianesimo da parte degli altri è almeno pari alla mia sulle loro religioni.
Resta poi la sensazione di incompletezza. Ma non è certo realistico aspettarsi che un «pellegrinaggio interreligioso» di tre giorni possa coprire tutti gli ambiti e gli aspetti complessi del dialogo tra le differenti religioni. Diciamo che queste iniziative cominciano ad «aprire la porta». Toccherà poi a noi, interessati e dediti al dialogo, approfondire gli argomenti, entrare nel vivo delle esperienze religiose e spirituali delle varie fedi, anche se non è certo facile.
Infine, resta il proposito di mantenere e consolidare le relazioni create durante il pellegrinaggio. Da parte mia, ho promesso ai rappresentanti del Ch’on-do-kyo che andrò ad assistere, un giorno, al culto domenicale nella loro sede centrale di Seoul. Tutti mi hanno chiesto di avvisarli, perché vogliono accompagnarmi e spiegarmi bene le cose… Inoltre, la monaca del buddismo-Won lavora in una delle loro «parrocchie», non troppo lontana dal nostro Centro di dialogo interreligioso. Certamente andrò a trovarla, magari assieme al nostro gruppo. E speriamo che qualcosa di nuovo possa nascere…

Diego Cazzolato




Convertirsi al Vangelo

Annunciare Cristo in un mondo globalizzato, complesso e in continua evoluzione, costringe la chiesa a interrogarsi sulla natura della propria missione. Soprattutto impegna a un rinnovamento costante, ritornando alla radicalità evangelica.

Assumere l’oggi di Dio come spazio della missione significa accettare il nostro tempo, in tutta la sua ampiezza e profondità, complessità e drammaticità, come il luogo che Dio ci dà per l’annuncio del vangelo e l’edificazione del regno. «La missione oggi» è tutto ciò a cui siamo chiamati come uomini e come cristiani nel mondo.
Il tema è estremamente ampio e dinamico; per cui mi limito a formulare alcune domande, che la situazione e una più profonda riflessione sulla parola di Dio impongono.

ESISTE UN’UNICA MISSIONE?
Se «la chiesa che vive nel tempo è per sua natura tutta missionaria» (Ad gentes 2), è chiaro che ovunque c’è chiesa c’è missione. Ma è la stessa missione ovunque?
Oggi, anche l’Europa è terra di missione, ma essa è del tutto diversa da quella che i missionari svolgono in Asia, in Africa o in alcune parti dell’Oceania.
Guardiamo alle peculiarità della missione, nel suo concreto svolgimento: nei paesi musulmani vediamo una missione nella debolezza, nel silenzio e nel nascondimento, che ha poco in comune con la missione in Africa centrale o in alcuni ambienti tribali dell’Asia.
Se guardiamo alla missione nei paesi cattolici dell’America Latina, vediamo prospettive e problemi del tutto diversi da quelli che la missione affronta in India o in altri grandi paesi a maggioranza indù, buddista, shintornista.
La domanda diventa ancora più necessaria se si passa dal piano spaziale-geografico, a quello storico-temporale: che cosa ha in comune la missione di quegli «inviati apostolici» dei secoli scorsi con i missionari di oggi? I primi avevano come scopo la salvezza delle anime attraverso il battesimo: anime che venivano quasi strappate dal proprio popolo e dalla propria cultura, talora anche dagli affetti familiari, per essere «incorporate» in una nuova entità sovrumana come la chiesa, nella quale sola si riteneva risiedesse la salvezza.
Tanti missionari di oggi vogliono, attraverso il vangelo, difendere la dignità e l’integrità delle persone e dei popoli, delle loro culture e sistemi di vita, sottraendoli all’imperialismo economico, politico, militare e culturale dell’Occidente, e pensano alla chiesa più come segno e strumento di salvezza che come porto universale e obbligato della stessa salvezza.
Si obietterà che la missione è senza dubbio unica, perché nasce dall’unico mandato di Cristo ai dodici, rappresentanti tutto il popolo di Dio: «Andate in tutto il mondo e annunciate il vangelo a ogni creatura» (Mc 16,15); ma il Concilio Vaticano ii fa risalire la missione alla Trinità, dicendo che la chiesa trae la propria origine dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo.
La domanda diventa teologicamente molto intrigante, quando, a partire dalla Trinità, ci si chiede se è unica la missione che nasce dal Padre o sono due? Il testo del Vaticano ii dice: «La chiesa che vive nel tempo per sua natura è missionaria, in quanto è dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo che essa, secondo il piano di Dio Padre, deriva la propria origine» (Ad gentes 2). Non si dice dalla missione del Figlio e dello Spirito Santo, ma «dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo (nel testo originale latino: ex missione Filii missioneque Spiritus Sancti).
Senz’altro due sono i protagonisti: il Cristo e lo Spirito (cfr. Lumen gentium 3 e 4; Ad gentes 3 e 4). Nella Redemptoris missio il problema viene affrontato in maniera «difensiva», dicendo che «quanto lo Spirito opera nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e religioni, assume un ruolo di preparazione evangelica e non può non avere riferimento a Cristo, Verbo fatto carne per opera dello Spirito, per operare lui, uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale» (RM 29). E ancora che «l’azione universale dello Spirito non va separata dall’azione peculiare che egli svolge nel corpo di Cristo che è la chiesa» (RM 29).
Ciò non toglie che la missione, la quale fa capo al mandato di Cristo come proclamazione del vangelo, sia diversa dalla missione che lo Spirito svolge nella storia, servendosi non sempre e non solo della chiesa e dei suoi strumenti, per salvare, in modi misteriosi, ma reali, come dice lo stesso Concilio (LG 16; GS 22; AG 7) e come ripete la Redemptoris missio (10), quanti mai in questa vita potranno passare attraverso la fede esplicita nel vangelo e l’appartenenza alla chiesa visibile.
Questo ci introduce a una seconda domanda, molto impegnativa.

LE ALTRE RELIGIONI HANNO UNA MISSIONE?
Lo Spirito Santo agisce nel mondo, non solo mediante la chiesa e la sua azione, che pure egli suscita e sospinge, ma anche attraverso altre persone e istituzioni che si muovono, sia pure inconsapevolmente, nella prospettiva del regno di Dio. È quindi legittimo chiedersi: anche le altre religioni hanno una missione nei confronti dell’umanità? Se sì, questa loro missione è rivolta anche a noi cristiani, alle nostre chiese?
I francesi, che hanno la tendenza a risolvere in felici espressioni verbali problemi teologici molto complessi, parlano di mission de réciprocité o mission réciproque. Perché il dialogo interreligioso sia un vero dialogo, dicono, e quindi si parta da una condizione di parità iniziale, occorre che ognuno dei partner religiosi riconosca la missione dell’altro; cioè, riconosca che l’altro è deputato a conferirgli qualcosa di sé. Missione è dare e ricevere.
In questa ipotesi, avremmo qualche cosa da ascoltare da buddisti, musulmani, shintornisti, confuciani… e dovremmo riconoscere che questo «qualcosa» è il dono che Dio ha concesso e affidato a loro per noi.
Le chiese cristiane devono continuare ad annunciare Gesù Cristo e il suo vangelo, il mistero pasquale nella sua integrità; ma a loro volta devono accogliere la verità custodita nelle altre religioni.
Questa posizione fa scattare due tipi di attenzione: la prima, contro ogni forma di integralismo di chi dice di possedere l’intera verità. È chiaro che ogni religione si sente depositaria della Verità. Per il cristianesimo la Verità è Gesù Cristo stesso: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6; cfr. Gv 1,17-18; 8,31-32).
Ma dobbiamo fare tre notazioni: la prima è che si tratta di una verità «storicizzata». Dio si manifesta in pienezza nella storia di un uomo, che vive e muore dentro la storia e la cultura di un popolo. Dio, così, viene raccontato e non definito. Noterà l’evangelista Giovanni: «Dio nessuno l’ha visto mai. Proprio l’unigenito che è nel seno del Padre, lui ce lo ha manifestato (exeghésato = lo ha tratto fuori, fatto uscire; ma anche: lo ha narrato, raccontato. La Volgata infatti traduce: ipse enarravit).
La seconda notazione è che questa verità è la verità dell’amore, perché il culmine della narrazione di Dio sta proprio nella croce di Cristo, come supremo atto di amore per l’umanità. Non si potrà mai disgiungere la verità di Dio dall’amore di Dio.
La terza notazione si ferma sul fatto che questa verità di Dio in Cristo è ancora nascosta ai nostri occhi, proprio perché gli occhi non sono capaci: «Molte cose ho da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portae il peso (Gv 16,12). Solo lo Spirito Santo ci condurrà lentamente verso la verità tutta intera (cfr. Gv 16,13). Deve esserci in noi la tensione verso quella Verità che è Dio stesso, ma nessuno può dire di possederla e tanto meno usarla come un bastone contro gli altri!
Siamo rimandati al grande principio di Gregorio Magno: «Scriptura cum legente crescit». Benché la sacra scrittura contenga tutta la rivelazione di Dio, questa si fa strada nella mente umana man mano che l’uomo stesso cresce: intellettualmente, spiritualmente, culturalmente.
Il principio si può estendere alla chiesa, formata da tutti noi: «Scriptura cum legente ecclesia crescit». Anche la chiesa deve crescere, sotto l’azione dello Spirito Santo, per penetrare quel tesoro di verità che ha nelle sacre scritture.
E per crescere, la chiesa ha sì bisogno dei grandi santi e grandi teologi, dell’esperienza di fede di tutti i cristiani e del cammino secolare della sua tradizione; ma ha anche bisogno delle altre culture, altre religioni, altre «storie dell’uomo».
Solo quando tutti i popoli avranno dato il contributo della loro sapienza e religiosità, il vangelo di Cristo sarà meglio capito e la «narrazione di Dio» sarà completata.
Capiamo l’importanza di tutto questo nella natura della missione?
Il secondo tipo di attenzione ci porta sul lato opposto all’integralismo e fondamentalismo: il dialogo interreligioso non deve puntare alla riduzione delle varie religioni al loro minimo comune multiplo, a quella cosiddetta religione universale, che nasce come un vestito ritagliato da tante stoffe, con una scelta tutta umana di «pezze buone» e «pezze da buttare».
Alcuni cosiddetti pluralisti, anche in campo cattolico, tendono a questa formula. Uno di essi sosteneva, in un recente saggio, che tra le «pezze da buttare» ci fossero le categorie teologiche della «elezione» e della «incarnazione».

MISSIONE O EVANGELIZZAZIONE?
Questa terza domanda ha un riferimento storico-dottrinale preciso. Nell’esortazione apostolica di Paolo vi Evangelii nuntiandi (1975) la parola missione e derivati sono usati con molta parsimonia, mentre riprendono piede nella Redemptoris missio (1990) di Giovanni Paolo ii.
Questo cambiamento linguistico nasconde una diversa prospettiva o accentuazione. In Paolo vi prevale l’attenzione «agli uomini del nostro tempo», tutti bisognosi, in diverse situazioni, dell’annuncio evangelico. L’evangelizzazione ha come destinatario la chiesa stessa: «Evangelizzatrice, la chiesa comincia con l’evangelizzare se stessa… Essa ha bisogno di ascoltare di continuo ciò che deve credere, le ragioni della sua speranza, il comandamento nuovo dell’amore» (EN 15). Fanno seguito i lontani, il mondo scristianizzato, le culture, le religioni, i non credenti, i non praticanti… L’evangelizzazione è vista come un compito complessivo, globale, che si specifica per la diversità di situazioni e soggetti, ma resta necessario per tutti.
In Giovanni Paolo ii prevale invece il concetto dell’andare, con il richiamo ai suoi viaggi, uno dei simboli più evidenti del suo pontificato. «Già all’inizio del mio pontificato ho scelto di viaggiare fino agli estremi confini della terra per manifestare la sollecitudine missionaria; e proprio il contatto diretto con i popoli che ignorano Cristo mi ha reso ancor più convinto dell’urgenza di tale attività, a cui dedico la presente enciclica» (RM 1).
Rimane quindi più marcata la distinzione fra «quelli che restano» e «quelli che partono». Gli istituti missionari riacquistano tutto il loro risalto, anche nel nuovo contesto ecclesiale post-conciliare. Le chiese locali vengono esortate all’invio di religiosi e religiose, sacerdoti e laici.
Quali le conseguenze di una scelta nell’uno o nell’altro senso?
Nel primo caso (Paolo vi) è favorito il «sentirsi tutti missionari», perché ovunque c’è da evangelizzare; ma con il rischio che questa «evangelizzazione diffusa» rimanga nelle intenzioni, perché mancano metodi, mezzi, strutture appropriate.
Nel secondo caso (Giovanni Paolo ii) vengono favorite le vocazioni missionarie specifiche, la proiezione verso l’esterno, con il rischio, però, di far prevalere la visione geografica della missione, rispetto a quella antropologica, e di conservare il modello illusorio ed etnocentrico di un mondo occidentale cristiano, da cui il vangelo parte per altre regioni del globo.
Appare chiaro che, con l’affermarsi della globalizzazione, la prospettiva della evangelizzazione ovunque e sempre, in diversi contesti umani e con diversi approcci, si vada consolidando. È necessario però che la coscienza missionaria non rimanga solo un fatto verbale, che la corresponsabilità missionaria si affermi davvero e sia verificata da scelte concrete di testimonianza, annuncio, promozione umana, diversificate secondo i differenti ambiti. In questa prospettiva nasce la seguente domanda.

CURA PASTORALE,
NUOVA EVANGELIZZAZIONE
MISSIONE AD GENTES:
DISTINZIONI ANCORA VALIDE?
Sembra che già il papa, nel formulare questa distinzione nella Redemptoris missio, avvertisse una certa sua precarietà: «D’altronde i confini fra cura pastorale dei fedeli, nuova evangelizzazione e attività missionaria specifica non sono nettamente definibili, e non è possibile creare fra di esse barriere o compartimenti stagno» (RM 34).
Nella realtà concreta delle nostre comunità cristiane, poi, si è andati verso una certa polarizzazione tra cura pastorale e attività missionaria specifica. Si è creata una certa dicotomia tra chi si interessa prevalentemente della missione ad extra o del Sud del mondo e chi si interessa dei pochi cristiani rimasti. Quella che è rimasta completamente scoperta è la cosiddetta nuova evangelizzazione.
Nella relazione tenuta al Seminario di studio sul tema «L’ad gentes nella vita della chiesa italiana oggi» (Pesaro, 1-6-2004), mons. Dho, vescovo di Alba, vede questi segni nella crescita di missionarietà delle diocesi nel post-concilio:
– l’invio dei fidei donum in forma organica;
– progetti di aiuti vari con relativi gruppi di appoggio in diocesi;
– il ricupero delle forze missionarie religiose oriunde, ma non conosciute né valorizzate sul piano diocesano;
– prime esperienze di seminaristi nostri in missione temporanea;
– visite dei vescovi in loco;
– ristrutturazione degli Uffici missionari diocesani, fino allora piuttosto burocratici, in Centri missionari di animazione e cornordinamento;
– il coinvolgimento di piccole famiglie religiose non espressamente missionarie in progetti diocesani di invio ad gentes nei vari gemellaggi;
– la preparazione e formazione dei primi laici per le missioni diocesane e altre.
Parlando poi di parrocchie, il vescovo dice che manifestano la loro crescita in missionarietà:
– accogliendo le iniziative del Centro diocesano, dalla veglia di preghiera alle campagne di frateità e impegnandosi con rappresentanze parrocchiali o vicariali nel Centro stesso;
– instaurando molti rapporti con i fidei donum non solo delle proprie comunità, ma pure della diocesi;
– ricuperando contatti con i religiosi e missionari oriundi;
– offrendo forze giovani, specie laici, per i progetti diocesani in missione;
– favorendo molto in loco gruppi di sensibilizzazione sui grandi problemi della pace, globalizzazione, accoglienza e integrazione degli immigrati, con iniziative di commercio equo e solidale, banca etica, ecc.
In questi lunghi elenchi non c’è il minimo accenno a una crescita della missionarietà in loco, né a un «ritorno» dell’ad gentes nella pastorale della chiesa locale. Questo rende evidente la dicotomia di cui si è detto sopra. È possibile un’apertura missionaria verso le genti senza un contemporaneo entusiasmo di evangelizzazione nella propria terra?

QUALE MISSIONE NELL’ERA
DELLA GLOBALIZZAZIONE?
Abbiamo avuto questa fortuna: la chiesa ha presagito, profeticamente, la globalizzazione. Ha scritto Karl Rahner: «In un mondo che ancora cerca a tastoni se stesso, il Concilio Vaticano ii è stato germinalmente la prima autornattuazione ufficiale della chiesa in quanto mondiale».
Fin dagli anni ’60, la chiesa è pronta per la globalizzazione. I documenti conciliari parlano ben 17 volte dell’unità del mondo, e non solo sul piano religioso o filosofico (un Padre solo e tutti gli uomini idealmente fratelli!), ma su quella della concreta attuabilità storica. Del resto in due encicliche uscite nei tempi conciliari, Pacem in terris di Giovanni xxiii e Populorum progressio di Paolo vi, si insiste sul ruolo dell’Onu in vista della pace e della giustizia a livello mondiale.
Ma che cosa ha significato concretamente per la missione questo «presentimento storico» della chiesa? Ha significato un rapido, anche se non sempre omogeneo e ordinato, cambiamento degli atteggiamenti della missione e dei missionari di fronte ai popoli. Una vera e propria conversione.
Sono diventate rapidamente priorità per la missione: l’indipendenza di quei popoli; la necessità di liberazione dei poveri da ogni condizione oppressiva; la pace; i diritti umani; il rispetto delle culture e delle tradizioni popolari; la necessità di inculturare il vangelo e le chiese che nascevano dal suo annuncio; il dialogo interculturale e interreligioso; la difesa dell’ambiente; lo scambio fra le chiese, per il quale ognuna di esse (antica o nuova che fosse) si sentisse debitrice dell’altra; la comunione fra le chiese, non come uniformità, ma come commensalità delle differenze; il pluralismo ecclesiale nell’unità della fede («tanti cristianesimi in una sola Chiesa»).
Queste priorità non sono però ancora entrate nella coscienza di tutti i cristiani. Anzi, gran parte del mondo cristiano (e una parte più piccola di missionari in senso stretto) non ha fatto questa conversione e fa resistenza ad essa.

COME VINCERE LE RESISTENZE
A QUESTI MUTAMENTI?
La percezione errata della missione è una percezione sbagliata del cristianesimo; anzi ne è stravolgimento e strumentalizzazione ideologica.
È errata l’immagine romantica della missione, come antitetica al vero annuncio evangelico; ma lo può diventare anche l’immagine che vede la missione come difesa dei poveri.
Una percezione vera della missione passa attraverso una sua riscoperta nell’ascolto della parola di Dio.
Una immagine vera della missione passa attraverso una necessaria e permanente riforma della chiesa, che sia anche autoriforma di ogni nostra comunità e di ognuno di noi.
La «missione oggi» è prima di tutto un’esigenza di radicalità evangelica, un vivere il vangelo di fronte al mondo e contro lo spirito del mondo. Se questo avverrà anche solo in piccole, povere e disperse comunità sulla faccia della terra, la chiesa riprenderà lo slancio dei primi secoli. A giudicare da tanti segni, che solo chi ha fede può vedere, questo sta avvenendo.

Francesco Grasselli




Tre intuizioni originali

Missionari in tutto.
Senza mezze misure.
Plasmati dalla Consolata.
Così il fondatore aveva sognato i suoi figli, perché fossero davvero «aiutanti di Dio»
nel salvare il mondo.

Come fondatore ed educatore di missionari e missionarie, il beato Giuseppe Allamano si qualifica anche per tre intuizioni «originali», in quanto la loro «origine» va ricercata dentro di lui, in quel punto profondo e riservato della sua coscienza, dove più che le idee desunte dalla lettura di libri, o suggerite da altre persone, giunge la luce dello Spirito. Sono intuizioni avute nella riflessione e nella preghiera, maturate in convinzioni e concretizzate in programmi operativi e proposte missionarie.
Sarebbe superficiale spiegare la ricca personalità di un uomo come l’Allamano, limitando a tre le sue intuizioni originali, perché ne ha avuto molte di più e di notevole spessore. Ma queste sono decisive per capire il nucleo centrale del suo carisma e la novità delle sue proposte. Ecco di cosa si tratta: l’Allamano ha compreso di essere chiamato a raccogliere attorno a sé uomini e donne giovani, disposti a coinvolgersi totalmente nella missione; inoltre, che questi giovani mirassero a diventare di prima qualità e, soprattutto, che fosse chiaro a tutti come la realizzazione di questo progetto non era opera sua, ma di Dio e della Consolata.

Nella testa e nel cuore

La prima proposta che l’Allamano faceva ai giovani, dunque, era esclusivamente di tipo missionario. Il suo impegno di fondatore e formatore era indirizzato a questo obiettivo: cercare, preparare e inviare missionari, adeguati per qualità e quantità. Lo diceva francamente ai primi aspiranti: «Non essendo potuto essere io missionario, voglio che non siano impedite quelle anime che desiderano seguire tale via». E ancora: «Qui, l’aria è buona solo per coloro che vogliono essere missionari».
È necessario, però, chiarire che cosa egli intendesse per missione e missionario. Ed è qui che è possibile scorgere una sua prima intuizione: la missione, prima che un’attività da svolgere, è una «comunione» di vita con il «missionario per eccellenza», Cristo Signore, l’inviato del Padre. Quindi, per esprimerci con un linguaggio odierno: «Prima essere missionario e poi operare». I giovani aspiranti venivano coinvolti dall’Allamano nell’appassionante avventura di vivere di Cristo, per collaborare con lui alla salvezza dell’uomo.
L’idea, poi, che l’attività missionaria avesse la caratteristica della «collaborazione» era chiarissima nella sua mente. La spiegava così: «Il missionario è chiamato a cornoperare con Dio alla salvezza di quelle anime che ancora non lo conoscono; a prendere parte attiva e impegnare la propria persona alla grande opera della conversione del mondo. È questa, quindi, un’opera essenzialmente divina». E, citando san Paolo, aggiungeva con un senso di compiacenza: «Siamo aiutanti di Dio!».
Ma c’è ancora un aspetto da non tralasciare. L’Allamano era così tenace nel sostenere la vocazione missionaria (tanto da essere criticato da alcuni, quasi «rubasse» forze giovani alla chiesa locale), perché la considerava la migliore in assoluto. E lo spiegava in modo semplice alle ragazze che si preparavano a diventare suore missionarie: «Non si dice per superbia, ma voi sapete che lo stato di missionaria è il più perfetto che ci sia, perché è quello che Gesù ha scelto per sé. Tant’è vero che, se il Signore avesse trovato sulla terra uno stato più perfetto, l’avrebbe abbracciato. Ora, lo stato che più imita Nostro Signore, che si avvicina di più a Lui, è il più perfetto».
Era perciò ovvio che l’ideale missionario da lui proposto toccasse direttamente il rapporto delle persone con Cristo: «Così voi dovete avere non solo lo spirito del Signore; ma i suoi pensieri, le sue parole e le azioni; perciò dovete essere missionari nella testa, nella bocca e nel cuore». In definitiva, l’Allamano aveva capito che l’essenziale era educare i giovani a formarsi una personalità genuinamente missionaria, seguendo Gesù, il modello per eccellenza. La loro idoneità ad operare sarebbe venuta di conseguenza.
Ma se il discorso si fermasse a questo punto, sarebbe limitato; occorre, dunque, completarlo. Nella mente dell’Allamano, ai missionari era affidato il compito di collaborare alla salvezza «integrale» dell’uomo. Il che significa: salvezza soprannaturale (la prima per importanza), ma anche salvezza terrena, perché l’uomo totale è costituito da corpo e anima e le sue esigenze sono, allo stesso tempo, terrene e soprannaturali.
I primi missionari, accompagnati dalla saggezza del fondatore, avevano maturato la convinzione che il primo lavoro da compiere era di «elevare l’ambiente». Questa formula, da essi inventata, significava impegnarsi concretamente, perché il livello di vita della gente migliorasse. Ecco, allora, l’attenzione alle coltivazioni, all’istruzione, alla salute, ecc. Dunque, senza fare troppe discussioni teoriche, già all’inizio del secolo scorso, l’Allamano e i suoi giovani missionari avevano intuito che la promozione umana è parte integrante dell’evangelizzazione.
Nell’ambiente della chiesa torinese, però, dove si aspettavano notizie di conversioni in massa, non erano mancate critiche e l’Allamano ne aveva sofferto. Fortunatamente, in favore dei missionari della Consolata, intervenne la Santa Sede, che ufficialmente lodò il loro metodo di azione. È bello notare il sollievo dell’Allamano, quando poté scrivere ai missionari: «Il decreto della Santa Sede che ha approvato ufficialmente il nostro istituto, le attestazioni di Propaganda fide e le stesse parole del papa approvarono il metodo del nostro apostolato. Bisogna degli indigeni fae tanti uomini laboriosi, per poi poterli fare cristiani: ameranno una religione che, oltre le promesse dell’altra vita, li rende più felici su questa terra».
Non sembra vero, ma a questa vicenda si è richiamato ancora lo stesso Giovanni Paolo ii nel messaggio per il centenario del nostro istituto. Riportando le parole dell’Allamano appena riferite, il papa scriveva: «A questo proposito, vorrei evidenziare ancora un altro aspetto del vostro peculiare carisma. Fin dagli inizi, i vostri missionari hanno unito all’evangelizzazione un concreto sforzo di promozione umana, privilegiando la cura per i più poveri e gli emarginati. È uno stile apostolico che potremmo chiamare “integrale”, perché in esso sono tenute presenti tutte le esigenze dell’essere umano».

Gente di prima qualità

Un bel sogno che l’Allamano non smise mai di cullare era che i suoi missionari fossero tutti di «prima qualità». Sembra una pretesa, ma così lui li aveva immaginati, di fronte alla Consolata, prima ancora di dare vita ai due istituti.
Certamente, non si illudeva riguardo a quei giovani che stavano preparandosi per essere mandati in Africa. Li conosceva troppo bene; anche se sembrava felice, per il bene che voleva loro, di ammettere bonariamente: «Io vi credo più di quello che siete» e non temeva di offenderli, ricordando loro che «nessuno di voi è santo»; «non vi credo ancora santi». Così percepiva la propria vocazione: «Io ho il ministero di santificare le vostre anime»; perciò «non voglio altro che voi, cioè i vostri cuori, per aiutarli a santificarsi».
L’intuizione dell’Allamano su questo punto era chiara: quanti intendono seguire Cristo nella missione lo devono fare anzitutto nello stile di vita, cioè nella perfezione. Senza santità, non c’è apostolato. Anche questa intuizione era maturata nella sua esperienza personale. Fin da giovane, non aveva mai disgiunto il proposito di diventare sacerdote da quello di tendere alla perfezione più elevata possibile.
Per l’Allamano, dunque, il missionario deve tendere alla santità di vita, perché è un apostolo di frontiera. Ciò emerge chiaro dalla sua pedagogia: «Uno tanto più sarà santo, tante più anime salverà»; «dobbiamo prima essere buoni e santi noi, dopo faremo buoni gli altri; altrimenti, non saremo buoni né per gli altri, né per noi». «Prima santi, poi missionari»: sono ancora sue parole. Dove le avrà attinte, se non dalla sua coscienza? Solo un santo può avere idee del genere.
Al riguardo, c’è ancora un aspetto che merita la nostra attenzione: egli aveva compreso che la santità del missionario deve avere un «di più», proprio perché continuatrice della missione di Gesù. E si domandava: «Ma quale deve essere questa santità?». Ecco la risposta, di una semplicità disarmante: «Maggiore di quella dei semplici cristiani, superiore a quella dei semplici religiosi, distinta da quella dei sacerdoti secolari. La santità dei missionari deve essere speciale, anche eroica e all’occasione straordinaria da operare miracoli»!
È interessante notare che l’Allamano non proponeva l’ideale di santità in modo astratto o generico. I suoi discepoli potevano vederla prima di tutto incarnata concretamente nella sua persona e poi proposta da una pedagogia pratica e «mirata». Non si limitava ad affermare che il missionario «deve» essere santo, ma insegnava anche «come» esserlo nelle situazioni della vita di ogni giorno. Ispirandosi all’esempio di Gesù, il quale «ha fatto bene tutte le cose» (Mc 7,37) e seguendo la spiritualità dello zio, san Giuseppe Cafasso, avanzava una proposta in questi termini: «Fare bene il bene, meglio che si può, nelle cose ordinarie della vita, senza rumore, con costanza e riprendendosi subito dopo ogni sbaglio».
La convinzione che il «vero missionario è il santo» la troviamo espressa in modo quasi ufficiale nella lettera enciclica di Giovanni Paolo ii sulle missioni, dal celebre titolo Redemptoris missio (la missione del Redentore), nella quale si legge: «La rinnovata spinta verso la missione ad gentes esige missionari santi. Non basta rinnovare i metodi pastorali, né organizzare e cornordinare meglio le forze ecclesiali…: occorre suscitare un nuovo “ardore di santità”». Queste parole dell’enciclica sembrano proprio «copiate» dagli scritti dell’Allamano, tanto evidente è la concordanza. Di fatto, egli ne aveva pronunciate di simili almeno 80 anni prima!

La vera fondatrice

Anche l’Allamano, come tutti i fondatori di istituti religiosi, era convinto che la sua opera fosse originata da Dio e lo ha affermato più volte. La sua intuizione caratteristica è di avere saputo scorgere, proprio all’origine dell’istituto, anche la presenza attiva della Madonna Consolata. È lei la vera «fondatrice»!
Ne consegue che egli non accetta il titolo di fondatore. Sentiamolo dalla sua viva voce: «Questa casa l’ha posseduta Nostro Signore fin da principio ed è proprio sua come un campo è del proprietario. Quindi, non dite bugie affermando che il tale o il tal altro l’ha fondata. No, no, è la Madonna che l’ha fondata e il principio è venuto da Dio stesso». «Accetto di cuore i vostri auguri per l’onomastico, ma non dite più “fondatore”, questo è uno sproposito! La fondatrice è la Madonna».
Merita di essere riferita ancora questa testimonianza di un missionario dei primi tempi, per lo scherzoso gioco di parole che contiene: «Ci sono alcuni che mi chiamano fondatore dell’Istituto. Fondatrice di questo istituto è la Consolata. Io sono il “fonditore”, perché faccio fondere le offerte dei benefattori».
Perché un atteggiamento così deciso, da non ammettere repliche? Immaginiamo l’Allamano, prima della fondazione dell’istituto, da solo nel coretto del santuario, dove trascorreva lunghe ore in preghiera e da dove poteva ammirare l’effigie della Consolata, intento a discutere con lei sull’opportunità di una nuova fondazione. Certamente la Consolata lo aveva incoraggiato, forse anche convinto, vincendo la sua ritrosia, come lui stesso poi confiderà. Prima ancora che i missionari della Consolata esistessero, l’Allamano li aveva pensati e voluti, sostenuto direttamente dalla Madonna. Con un’esperienza così intensa, come avrebbe potuto, in seguito, anche solo supporre di essere lui il vero fondatore?
Partendo da questa profonda intesa con la Madonna, ecco la sintesi della proposta mariana che l’Allamano faceva ai suoi missionari e missionarie: «Portate il titolo della Consolata come nome e cognome»; «Il nome che portate deve spingervi a divenire ciò che dovete essere»; «Voi siete “consolatini”».
Nel 2001, congratulandosi per i nostri cento anni di vita, il papa ha voluto confermare questa proposta dell’Allamano: «Con l’aiuto della Consolata, carissimi fratelli, diffondete la vera “consolazione”, la salvezza cioè che è Cristo Gesù, salvatore dell’uomo».

L’Allamano ha maturato anche un’altra delle sue idee originali, con la quale vogliamo concludere, pur non avendola inserita nelle famose «tre intuizioni». Egli sentiva interiormente che avrebbe potuto accompagnare i suoi missionari e missionarie anche dopo la morte. Non era solo il suo affetto a suggerirglielo, ma la certezza di una vocazione speciale, che gli conferiva una «pateità perenne». E lo disse più volte, in tanti contesti differenti, tutti proiettati al futuro: «Quando sarò in Paradiso, e ciò sarà presto, pregherò per te, non perché ci venga subito anche tu, ma perché te lo prepari pieno di meriti»; «Farò più di là che di qua»; «Fare rumore non è nel mio spirito, ma dal Paradiso farò, farò»; «Quando sarò in Paradiso, sarò sempre al balcone; vi guarderò e vi benedirò ancora di più».
L’esperienza ci mostra che il fondatore sta mantenendo le sue promesse…

Francesco Pavese




LETTERE Uno “0” e quattro “10”

Non sono un’abbonata, ma alcuni amici mi hanno offerto in lettura Missioni Consolata, dicembre 2004. Ho cominciato a sfogliarla con pigrizia; poi, via via, sono stata sempre più presa. Bravi, bravi, bravi! Notizie, commenti, dati, informazioni, foto, cartine: tutto induce ad una piacevole lettura. Dovrei dire «drammatica lettura», perché i contenuti fanno accapponare la pelle. Però ho notato che anche le notizie più bieche e atroci portano sempre uno spiraglio di luce e speranza.
Sono arrivata all’articolo di Paolo Moiola «Altri 4 anni di guerre e terrorismo?»… e mi sono indignata. È questo sussulto che mi induce a scrivervi. Non sono facile all’indignazione e nemmeno sono capace di sentimenti negativi, perché la mia professione (sono assistente sociale) mi porta ogni giorno a frequentare bambini, uomini e donne, schiacciati da povertà, indigenza, violenza. E non voglio sprecare energie, se non per tentare di porre qualche rimedio istituzionale a drammi atroci.
Leggendo l’articolo di Moiola, sono stata presa da un’emozione interiore che non provavo da tempo: erano le cose che avevo dentro e che quell’articolo svelava compiutamente, con pudore, perché pacato nel tono, ma vero nella sostanza.
Sono cattolica praticante e la mia fede è elemento essenziale della vita, alla cui luce mi interrogo ogni giorno per rispondere con coerenza alla esigenza di verità che c’è in ogni uomo e donna. Sono indignata per la strumentalizzazione religiosa che è stata fatta nella campagna elettorale americana. Sono indignata per le centinaia di milioni di dollari profusi, cioè buttati al vento, mentre potevano risolvere enormi problemi nel Medio ed Estremo Oriente. Sono indignata che l’«11 settembre» sia diventato il refrain con il quale tutto deve essere giustificato e spiegato.
Nel mio piccolo verifico che anche i tagli all’assistenza ai bambini senza famiglia o violentati in essa… sono giustificati con «l’11 settembre». E potrei continuare con molti esempi.
Nell’articolo ho apprezzato le parole chiare e vere dei sacerdoti e quelle di Boutros Ghali. I sacerdoti non sono persone qualsiasi, essi devono essere liberi anche dall’influenza dell’ambiente che respirano e devono dire parole di coscienza che altri, per opportunismo o convenienza o peggio per interesse, non sono in grado di dire.
Oggi c’è il rischio e pericolo che anche noi in Italia stiamo correndo, senza che ce ne rendiamo conto: ridurre Dio a merce di parte o di partito, per giustificare comportamenti ignobili. Quando sento chiamare Dio in causa per dare una parvenza di giustezza alla guerra o a qualsiasi forma di violenza, mi vengono i brividi.
Allora mi rifugio nella Bibbia, là dove incontro il Dio di Maria che abbatte i potenti dai troni e innalza i miseri, sfama i poveri e manda i ricchi a mani vuote. Sì, è questo il Dio che Gesù è venuto a svelarci: il Dio delle beatitudini e della frateità universale.
Ammesso e non concesso che le guerre in Afghanistan e Iraq siano state opportune (non posso dire «giuste» senza essere blasfema!), penso che i credenti in Cristo avrebbero dovuto lo stesso contestarle e condannarle, perché non è con questi mezzi che i cristiani possono risolvere i problemi.
Alcuni amici hanno messo in discussione il loro anticlericalismo e la loro opposizione alla chiesa, perché leggono riviste come la vostra, dove parlate senza calcolo e senza compiacere i potenti di tuo. Per questo avete merito e siete lodevoli per articoli come quello di Moiola, in un tempo in cui troppi, si adeguano al vento, rinunciano alla propria coscienza e magari plaudono contro di essa.
Non oserei mai contestare i vescovi, per convinzione e rispetto, ma devo riconoscere che in questi ultimi tempi il loro silenzio su situazioni scottanti hanno allontanato dalla chiesa molti fedeli, come è vero che altri ne avete avvicinati voi con Missioni Consolata e il vostro servizio alla verità, detta e non strumentalizzata. Sono onorata di avervi conosciuto.
Nella comune fede del Verbo incarnato.

lettera firmata – Genova

E gregio direttore, mi domando se lei legge gli articoli prima che vengano inseriti nella rivista, perché «Altri 4 anni di guerre e terrorismo?» fa schifo, sia come stile sia come argomentazioni, e scredita la rivista.

ing. Lucio Baruffi
(e-mail)

C on vivo piacere ho letto l’articolo «Altri 4 anni di guerre e terrorismo?» sul post-elezioni di Bush. Siete stati capaci di superare i convenevoli e le opinioni di circostanza, offrendo uno spaccato onesto e veritiero.
Ho apprezzato particolarmente la pignoleria delle note con cui il vostro giornalista documenta le singole affermazioni. Quando la stampa cattolica raggiungerà questo livello d’informazione, uscendo dalle sacche di provincialismo e dai criteri di opportunità, sarà una festa anche per i laici, che stentano a trovare nel mondo cattolico quell’alone di libertà, unito alla professionalità.
Missioni Consolata ha l’uno e l’altra. Siatene fieri!
Criticare Bush e la sua politica miope non significa essere antioccidentali, anche se un cristiano deve essere sempre «pro» tutte le civiltà dei quattro punti cardinali, se è vero che crede in un Dio universale, creatore e padre di tutti gli uomini.

dott. Luca Melanino
Firenze

Caro direttore, ringrazio lei e l’autore di «Altri quattro anni di guerre e terrorismo?», per la lucida ed appassionata analisi condotta. Credo importante e necessario che anche (e soprattutto) le voci dei religiosi si alzino contro chi, con un moderno «Deus vult», si ammanta di Dio per interessi economici e politici, sprezzante della vita e del progetto sull’uomo che Dio, nostro malgrado, cerca faticosamente di portare a buon fine. Se un coro di voci come la sua, magari provenienti da alte gerarchie ecclesiastiche, parlassero chiaramente e costantemente ai potenti della terra…

Paolo Pontiggia (e-mail)

Spett. redazione, ho letto «Altri 4 anni di guerre e terrorismo?». Vi ho trovato molte informazioni che non conoscevo, come la storia delle tre suore detenute o la citazione di Ettore Masina sulle guerre dei poveri.
Vi auguro di poter continuare il vostro lavoro con lo stesso coraggio e la
stessa determinazione.

Marco Colucci (e-mail)

La lettera che ci «colpisce» di più è quella di Lucio Baruffi, secondo il quale l’articolo «Altri 4 anni di guerre e terrorismo?» fa schifo. La lettera è brevissima. Troppo. Gradiremmo conoscere le ragioni dell’insulto.
Ci colpisce pure (ma positivamente) Luca Melanino, che afferma: «Un cristiano deve essere sempre “pro” tutte le civiltà dei quattro punti cardinali, se è vero che crede in un Dio universale, creatore e padre di tutti gli uomini».
Questo, per i missionari, è fondamentale. Essi devono riconoscere e valorizzare «i germi del Verbo» presenti in tutte le culture (cfr. Ad gentes, 11). Ma devono altresì sapee prendere le distanze.

  • Ciò vale pure per i cristiani di ogni epoca.

Nella Lettera a Diogneto (scritto greco del II secolo) si legge: «I cristiani non si differenziano dagli altri uomini, né per territorio, né per lingua, né per consuetudini di vita… Ogni terra straniera è per loro patria, mentre ogni patria è per essi terra straniera».
(Le lettere più lunghe sono state sunteggiate. Sull’argomento altre ne sono arrivate: nei limiti del possibile, verranno pubblicate sui prossimi numeri di MC).

aa. vv.




LETTERE

Nel congratularmi con Missioni Consolata per lo splendido lavoro svolto, non posso non ribadire il concetto che un cammino credibile, sui sentirneri della giustizia e della pace, non può prescindere dal rifiuto della corsa agli armamenti e dalla denuncia dei folli sprechi di risorse che questa corsa impone.
Mi riferisco, in particolare, agli investimenti che si sono resi necessari per la realizzazione della portaerei «Cavour», la nuova ammiraglia della Marina militare italiana.
Come molti altri italiani, non sono in grado di dire quanto questo colosso d’acciaio, il cui peso totale supera le 27 mila tonnellate, sia effettivamente costato. Lo scorso settembre, sulle pagine di «D», settimanale de la Repubblica, Ambra Radaelli scrisse «900 milioni di euro», mentre il 20 luglio, il giorno del varo, gli autori del servizio che i TG della Rai dedicarono all’evento parlarono di «3 miliardi di euro».
Anche nel caso che la cifra esatta sia quella della Radaelli (cioè 1.743 miliardi delle vecchie lire), si tratta di una somma enorme, anzi di un FURTO ENORME, perché è denaro sottratto alla sanità, all’istruzione, alla lotta contro il crimine e l’illegalità, contro la fame, la miseria e il degrado ambientale.
Il fatto che il varo della «Cavour» sia avvenuto al cospetto di insigni esponenti del mondo politico e religioso (per esempio: il presidente della Repubblica Ciampi e l’arcivescovo di Genova Bertone) e che codeste celebrità abbiano espresso il loro plauso, usando parole forti e toni solenni, non mi tranquillizza affatto; anzi, rende la mia indignazione ancora più grande. È l’ennesima conferma della tragica confusione che i cristiani hanno della politica e che le alte sfere della gerarchia cattolica fanno: tra il POTERE DEI SEGNI, ovvero i sacramenti della salvezza (dono del Dio della giustizia e della pace), e i SEGNI DEL POTERE, ovvero eserciti, portaerei, cacciabombardieri, ordigni nucleari, mine, generatori di altre ingiustizie, altre guerre, altro terrorismo.
In particolare: i vescovi, se vogliono tornare ad essere quello che Dio li aveva chiamati ad essere, ossia pastori vigili e amorevoli, punto di riferimento per tutti i fedeli e non cappellani ad uso e consumo di pochi vip, si astengano dal manifestare apprezzamenti e consensi a certe infamie e dall’impartire benedizioni a certe mostruosità, che nulla hanno di autenticamente umano e cristiano.
Carlo Erminio Pace – Fano (PS)

N on molti lunedì fa, intervenendo a Varese presso gli stabilimenti dell’«Aermacchi», per partecipare alla cerimonia di presentazione del nuovo Aermacchi M-346, il Presidente del consiglio e leader di «Forza Italia», Silvio Berlusconi, si è espresso in questi termini: «Vorrei che tutte le settimane iniziassero così! Vi darò volentieri una mano a venderlo questo aereo, a venderlo in tutto il mondo! Mi trasformerò nel vostro commesso viaggiatore!…».
Io spero che un viaggetto Berlusconi lo faccia anche in Eritrea, Etiopia, Somalia o in un altro dei tanti paesi dove gli Aermacchi sono stati i protagonisti di bombardamenti che hanno provocato danni spaventosi e arrecato sofferenze atroci e ingiuste a milioni di persone inermi.
Spero pure che quanti hanno votato «Forza Italia» capiscano che un uomo che parla così non merita alcuna fiducia e, la prossima volta che si recheranno alle ue, diano la loro preferenza a candidati meno sensibili alle pressioni delle lobby del settore bellico. Spero che siano disposti a riconoscere che, se la pace viene prima della crescita economica e della competitività dell’«Azienda Italia», le fabbriche che producono aerei ed elicotteri da guerra devono riconvertirsi.
L’Italia non ha bisogno di altri commessi viaggiatori che girino il mondo per vendere Aermacchi, Agusta, Alenia e Fiat, perché ne ha già tanti e tanti sono i disastri che i prodotti (da essi propagandati) hanno causato in tutti i continenti. Troppi sono anche gli istruttori che hanno insegnato ai piloti delle aviazioni di altri paesi l’«arte» di sganciare bombe, mine e altri ordigni…
È bene che chi non lo sa lo sappia, e chi lo sa già non se ne dimentichi: negli anni della guerra in Libia e della prima Guerra mondiale gli italiani furono i primi a usare gli aerei per i bombardamenti e italiani furono gli addestratori dei 400 piloti americani che, nel 1917, arrivarono a Foggia dagli Stati Uniti per apprendere le tecniche di bombardamento.
Susanna Ruscianelli – Fano (PS)

Due lettere simili, entrambe provenienti da Fano. Reciproca telepatia?
Ci ha incuriosito quella del signor Carlo E. Pace, anche per il suo… cognome. L’interessato lo prende sul serio, facendone un impegno, una vocazione, contro la corsa agli armamenti. E fa bene.
La sua denuncia è confortata da significativi documenti della gerarchia cattolica. «Ogni estenuante corsa agli armamenti diviene uno scandalo intollerabile» recita l’enciclica Populorum progressio, 53. Gli fa eco il Catechismo della Chiesa Cattolica: «La corsa agli armamenti è una delle piaghe più gravi dell’umanità e danneggia in modo intollerabile i poveri» (n. 2329).

Susanna Ruscianelli, Carlo Erminio Pace




LETTERE Andreina, vivissima

Caro padre,
ricevo da anni molto volentieri Missioni Consolata. È una rivista sempre interessante e a me fa tanto piacere sapere come vivono i missionari sparsi un po’ dappertutto.
Ne ho avuta esperienza tramite un cugino missionario (padre Luigi Andeni, ucciso sei anni fa), che mi parlava sempre della sua vita in missione. Avevamo una fitta corrispondenza: io volevo sempre sapere della vita laggiù in Kenya. Ora che lui non c’è più, leggo Missioni Consolata per sapere ancora tutto. Ho 80 anni, però mi piace ancora tantissimo interessarmi di problemi e fatti capitati altrove e così mi sento viva…
Andreina Ferrari Bianchi
Soresina (CR)

Lei è vivissima, signora Andreina, e con il suo spirito tiene vive tante altre persone. Noi certamente. Grazie.

Andreina Ferrari Bianchi




LETTERE “Far come se…”

Spettabile redazione,
non sono un filosofo. La mia formazione non è umanistica. Invece il signor Bidelio mi pare che abbia una formazione di questo tipo. Però le sue argomentazioni non mi sembrano molto centrate (cfr. Missioni Consolata, settembre 2004).
Infatti, trattando delle frasi di padre Bartolomeo Sorge («purtroppo troppi cristiani fanno come se Gesù fosse risorto… Viviamo come se il vangelo fosse vero, ed invece è vero!»), Bidelio pone il dilemma: «Qual è il confine tra far come se e far finta che»? Nel post scriptum esce dal tema, perché argomenta sul «vivere come se Gesù non fosse risorto… come se il vangelo non fosse vero».
Questa è una divagazione, mentre il punto di padre Sorge è un altro e di estremo interesse. È difficile da spiegare, ma il nocciolo si trova nelle stesse parole di Sorge, e non in altre che portano fuori tema. Cioè: aderire, sia emotivamente che intellettualmente al vangelo, senza però essere veri uomini di fede. Mi pare che il pastore protestante Albert Schweitzer sia stato un fulgido esempio del genere.
Quando ci si chiede perché la fine dei tempi non sia avvenuta durante la vita dei primi discepoli («non passerà questa generazione…»), si incomincia a dubitare non solo delle convinzioni dei primissimi cristiani, ma anche delle parole che avevano portato a tali convinzioni, ossia delle parole dello stesso Gesù.
Poi, oltre alla questione escatologica, sorgono altri dubbi di fondo, ad esempio: perché la «leggenda» di Adamo ed Eva? Ma, se Adamo ed Eva sono leggenda, perché la necessità di redimere/riscattare il genere umano dal peccato originale? Non c’è più un Figlio di Dio che redima/riscatti da un qualcosa situato qualche migliaia di anni prima e che non esiste; non c’è un Figlio di Dio che insegni e ammaestri, di modo che gli uomini sappiano disceere ciò che è bene e ciò che è male. Pertanto la sua morte non redime/riscatta, ma è «solo» la prova del suo amore «temerario» per noi.
O, forse, il peccato originale non è questione di improbabili progenitori, ma, invece, dell’impasto di bene e male di cui ogni bambino che viene alla luce è e sarà composto. Si potrebbe parlare di «peccato» e «grazia» originali.
Questi sono i relativismi che ci portano al «come se». Nonostante i nostri dubbi, il vangelo resta l’insegnamento più alto e non vogliamo essere schiavi di superbia e ingratitudine.
Carlo May
Novara

Lettera non semplice, come non lo era quella del signor Bidelio. Ma il signor Carlo ci pare esplicito circa la centralità ed unicità di Gesù Cristo, figlio di Dio.
È «la questione delle questioni». Ovviamente anche in missione.

Carlo May




LETTERE Inno alla gioia

Circa quattro mesi addietro, ho scoperto che mia moglie Maria Teresa aveva un grosso segreto: aveva altri due figli, di cui non mi aveva detto nulla, poiché aveva effettuato… due adozioni a distanza! (Suppongo che la sua discrezione fosse determinata dal non far sapere alla mano destra ciò che fa la sinistra!).
Tale scoperta ha generato in me una gioia traboccante. E, sul suo esempio, qualche giorno fa ho anch’io richiesto di fare delle adozioni a distanza. Ma, al contrario di mia moglie, la gioia mi ha portato a comunicare il fatto a parenti e amici. (A quanto pare, non ho la stessa discrezione di mia moglie).
Però sia chiaro: non per vantarmi, ma perché la mia gioia doveva essere condivisa e non riucivo a tenerla dentro. Così altre persone mi hanno chiesto di sapere come fare per «adottare a distanza» e alcune di loro (ancor più gioia!) mi hanno comunicato di volerlo fare…
Tutta questa premessa per ringraziarvi, perché siete voi (e i missionari in loco) che avete permesso tale «estensione di gioia».
Manlio Mazza
Torino

Un principio della metafisica di san Tommaso d’Aquino suona: «bonum diffusivum sui». Il bene è contagioso.
L’abbiamo già scritto. Ma repetita iuvant…

Manlio Mazza