ISRAELE-PALESTINA: Fotogrammi di sofferenza

Due israeliani e un palestinese, tutti registi
con un unico pensiero:
documentare le sofferenze di due popoli divisi
da una guerra, un muro, un odio che pare infinito.

Yoav Shamir, Eyal Sivan e Michel Khleifi sono tre film-maker, tre uomini che hanno in comune una grande e bella terra: l’antica Palestina, ora divisa tra i Territori palestinesi e Israele. I primi due sono israeliani, il terzo palestinese.
Condividono anche un’altra passione: quella per il cinema di denuncia sociale e politica.
Le loro opere – «Checkpoint» di Shamir e «Route 181» di Khleifi e Sivan – sono due capolavori del cinema-documentario, vincitori di numerosi premi inteazionali.

Yoav Shamir, regista isrealiano
Inquieto, un po’ timido, sempre attratto da nuovi stimoli suggeriti dall’ambiente e dall’epoca in cui viviamo, inglese fluente, Yoav Shamir, 33 anni, racconta la sua vita e il suo grande amore per il cinema, che, con Checkpoint, è diventato di «impegno politico e sociale».
Laurea in storia e filosofia all’Università di Tel Aviv, e master in cinematografia, il giovane cineasta entra con profondità emotiva nelle questioni esistenziali, sociali e politiche che costituiscono i temi dei suoi documentari.

Yoav, su cosa concentra maggiormente la sua attenzione?
«Mi interessano i sentimenti, le emozioni della gente di cui parlo, israeliani, palestinesi o cubani (Cuba è stato il soggetto del mio primo documentario). Cerco di capire come certe situazioni condizionino i rapporti umani e l’esistenza di intere popolazioni, come nel caso del conflitto israelo-palestinese».
In un’intervista pubblicata l’anno scorso su Dox lei aveva dichiarato di non essere una persona politicamente impegnata, di non andare alle manifestazioni. È ancora vero?
«Ora che Checkpoint è uscito mi sono ritrovato, senza volerlo, politicamente coinvolto. Non ne posso fare a meno: è un film politico».
Il suo è un documentario completamente girato tra i 200 posti di blocco israeliani nei territori palestinesi. Denuncia la dura condizione di oppressione in cui vive la popolazione araba, ma anche il degrado umano e sociale dei giovani militari israeliani, costretti a obbedire a ordini di cui non comprendono la portata. È un’opera di notevole durezza, che non concede sconti. Perché, come israeliano, ha deciso di realizzarla?
«Volevo rendere visibile agli israeliani ciò che sta quotidianamente accadendo nei Territori palestinesi occupati, cosa ciò significhi per loro e per noi. Mi interessava far emergere le implicazioni psicologiche dell’occupazione.
Tra le difficoltà incontrate nella realizzazione di questo film c’è stata anche l’iniziale incomprensione dei miei genitori: provenendo da famiglie di militari, non riuscivano a comprenderlo, ad accettarlo. Ora è diverso: hanno finalmente imparato ad apprezzarlo».
Che cosa significa per gli israeliani far vivere un popolo sotto occupazione?
«È ciò che sta accadendo dal 1967: la nostra società è diventata più aggressiva, più brutale, al suo interno prima di tutto. In questi ultimi anni è stata pubblicata una ricerca che denuncia un aumento della violenza tra la popolazione israeliana. Violenza “civile”, dunque. C’è infatti una interconnessione tra la politica di occupazione e il peggioramento dei rapporti interpersonali nella nostra società: il primo aspetto inevitabilmente sta influenzando il secondo. Una società sana non può far finta che la violenza estea non condizioni, in negativo, i comportamenti all’interno della società stessa. Questo vale anche per la popolazione palestinese, che è diventata molto militarizzata; anche i giochi tra bambini imitano situazioni di aggressività. Siamo di fronte a due popoli che si stanno auto-distruggendo».
In Checkpoint lo spettatore non assiste a scene di violenza fisica, ma è molto presente la violenza psicologica. Perché ha scelto di cogliere questo aspetto piuttosto che l’altro?
«È vero, c’è molta violenza mentale, psicologica. Ho focalizzato le mie riprese solo nei microcosmi dei checkpoint, e non su ciò che accade per le strade. Ho sostato per ore, per mesi, tra il 2001 e il 2003 ai posti di blocco, e ho registrato ciò che vedevo: al 99 per cento si è trattato di violenza psicologica. La violenza fisica è minima, nella maggior parte dei casi assistiamo a scene come quella del soldato che proibisce alla mamma di portare il figlio dal medico, dall’altra parte del checkpoint».
Lo spettatore non può non provare empatia nei confronti dei palestinesi: avverte il loro dolore, la rabbia per le ingiustizie subite. Il suo, dunque, è un film di parte?
«Ho cercato di cogliere differenti punti di vista: talvolta quello dei palestinesi, talvolta quello dei soldati israeliani. Ho cercato di fare un film in cui venisse ritratto come vittima non solo il palestinese, ma anche il giovane militare. E la complessità di una situazione in cui tutti soffrono».
Ma la sofferenza dei palestinesi emerge in modo più evidente…
«Certo, perché loro sono le vittime. Anche se la verità non è solo bianca o nera: anche i soldati ai posti di blocco possono essere considerati delle vittime a causa della difficile situazione in cui si trovano. Talvolta possono sembrare delle “marionette” che eseguono ordini provenienti dall’alto. Sono molto giovani e spesso con poca consapevolezza del proprio ruolo. Forse per questo il film viene proiettato anche nelle caserme israeliane…».
Qual è il suo obiettivo: farli riflettere e cambiare atteggiamento nei confronti della popolazione palestinese?
«Non so in realtà perché l’esercito abbia deciso di proiettare il mio documentario. Forse perché, quando fai il soldato ad un posto di blocco non hai la possibilità di vedere la situazione con obiettività, dall’esterno. Ecco, allora, che questo film può aiutare a fare un passo indietro e a guardare in modo più oggettivo.
Molti fra gli alti livelli dell’esercito non sanno ciò che avviene ai checkpoint: qualcuno l’ha scoperto recandovisi in incognita ed è rimasto attonito».
Come vede il futuro?
«Qualche volta sono ottimista, qualche altra pessimista. Dipende. Penso che la soluzione è così semplice. Il grande problema è la de-umanizzazione dell’altro, del nemico, che non viene più percepito come essere umano. La società palestinese è molto scolarizzata, evoluta. Credo ci possano essere tanti punti di contatto, di dialogo. Le ferite possono rimarginarsi anche se profonde.
Un’altra questione è: due stati per due popoli, o uno stato per due popoli? Personalmente preferirei la seconda ipotesi. Altrimenti sarebbe come creare un ghetto ebraico in territorio arabo. Israele potrebbe invece assimilarsi nell’area: il 60 per cento degli israeliani ha radici arabe, viene, cioè, dal Marocco, dall’Iraq, dallo Yemen, ecc. La maggior parte è cresciuta in questi ambienti misti, parla l’arabo. Gli altri, quelli che arrivano dall’Europa o dall’America, in maggioranza sono di sinistra. Dunque, la soluzione potrebbe essere molto più semplice di quanto si pensi».
Se è così semplice, perché non è stata ancora trovata?
«Molti ci provano. È che tanti israeliani vedono i paesi arabi come un’unica entità: l’idea del panarabismo è ancora molto presente in Israele e anche quella di essere una piccola nazione circondata da nemici. La gente non sa che tra uno stato arabo e l’altro ci possono essere differenze e addirittura conflittualità. L’altro problema è la mancanza di democrazia nelle società arabe. Gli israeliani dicono: “Noi siamo democratici, secolarizzati, non vogliamo trovarci a convivere con situazioni dove manca la libertà”. Un altro ostacolo è la crescente islamizzazione della società palestinese».
Se i palestinesi potessero lavorare e i ragazzi andare a scuola, forse la situazione cambierebbe.
«Certo. Ma siamo dentro un circolo vizioso. Basterebbe, tuttavia, risalire alla storia degli anni ’50 e ’60 per capire quante e quali responsabilità, e interessi, l’Occidente ha nei confronti del Medio Oriente, della cui situazione ora sembra essersi lavato le mani. Ha manipolato, colonizzato, creato strategie e alleanze. E ora parla di pace: ma chi ha acceso per primo il fiammifero in questa polveriera?».
Yoav ha un sogno: far in modo che non esistano più i checkpoint, che l’esercito israeliano lasci i territori palestinesi, che occupazione e guerra abbiano termine e che palestinesi e israeliani possano vivere in pace in un unico Stato.
«Ciò che mi dà più gioia è quando i sostenitori della destra israeliana raccontano che il mio film ha cambiato il loro modo di vedere il conflitto con i palestinesi. Questo è già un grande risultato».

MICHEL KHLEIFI, REGISTA PALESTINESE
Michel Khleifi è nato nel 1950 a Nazareth e nel 1971 si è trasferito a Bruxelles, dove ha studiato teatro all’Institut national supérieur des arts du spectacle (Insas). Attualmente insegna cinema all’Insas. I suoi film più famosi sono «Memorie fertili» (1980); «Nozze in Galilea» (1987), che ha ottenuto il premio della Critica internazionale al Festival di Cannes nel 1987; «L’Ordre du jour» (1993); «Conte de troi diamants» (1995); «Mariages mixtes en Terre sainte» (1996).
Capelli bianchi, faccia simpatica, è seduto al tavolino di un bar nei pressi di un cinema torinese ad osservare il via vai di giovani e adulti che entrano ed escono dalle sale dove è in corso una no-stop di film israeliani e palestinesi.

Signor Khleifi, come vede il futuro dei popoli israeliano e palestinese?
«Non posso dire come lo vedo, ma come lo sogno. La scelta migliore, ora, è tentare di umanizzare le due società in conflitto e creare le condizioni per la convivenza di due diverse “cittadinanze”. L’ideologia sionista purtroppo non riconosce questa possibilità. Solo se si cambia questa mentalità, si potrà trovare una soluzione avvicinando l’uno all’altro i due popoli.
È mai possibile essere trattati come delle bestie quando si viene fermati da un militare israeliano? Capita anche a me: sono invitato in tutte le università del mondo e quando arrivo in Israele, solo perché sono palestinese, vengo umiliato anche dal giovane soldatino israeliano appena arrivato dalla Russia. È una follia: fanno fatica a considerarci come delle persone. Siamo nullità.
Israele è una società automatizzata: hanno bisogno di parlare, di tirar fuori ciò che hanno dentro, di rielaborare».
Nei media occidentali quando si parla della Palestina la si associa spesso a Hamas.
«Hamas è lo specchio in cui si riflette il sionismo: il comportamento di quest’ultimo è causa di quello del primo. Se infatti io le rubo ciò che lei possiede, come reagirà? Mi ringrazierà o cercherà di riprendersi indietro ciò che le è stato tolto?
Il problema è che i sionisti sono arrivati in Palestina non con il desiderio di vivere in pace, ma con quello di imitare il colonialismo. Non hanno tenuto conto della popolazione palestinese. Hamas esiste, dunque, in quanto reazione a questa mentalità e a questa prassi distruttiva, lesiva dei diritti del popolo palestinese. Il problema, però, è come viene prodotta la violenza».
Route 181 è il frutto della collaborazione tra lei e l’israeliano Sivan. Come descrive questa relazione professionale e umana?
«Siamo amici e colleghi. Il nostro obiettivo era andare fino in fondo, nonostante gli ostacoli o le divergenze, e realizzare una grande opera. Non è stato facile lavorare in due e con esperienze diverse alle spalle. Abbiamo dovuto affrontare problemi durante le riprese, il montaggio, l’editing. Ma ce l’abbiamo fatta.
Il nostro film vuole essere uno strumento per parlare con le persone e per farle parlare. In genere, si sente solo la voce dei politici, mentre quella dei due popoli non viene mai ascoltata. Ma è proprio da loro che possono giungere soluzioni per una pacifica convivenza: è quello che abbiamo raccolto e registrato nel nostro viaggio-film».
Quali sono i suoi progetti cinematografici futuri?
«Tradurre ancora una volta in film la vita dei palestinesi».
Khleifi risponde velocemente a quest’ultima domanda e poi entra nel cinema, dove è atteso da un folto pubblico che ha appena assistito alla proiezione del suo film.

Box 1

La via della pace tra Palestina e Israele può passare anche dal cinema (documentari, film, cortometraggi politically committed). Dal lavoro corale, dall’amicizia e collaborazione di registi palestinesi e israeliani, da produzioni coraggiose che denunciano a un mondo occidentale sempre più sordo e cieco, imbonito dalle manipolazioni dei media, dei politici e dei grandi gruppi industriali, la tragedia di un popolo oppresso e quella del suo oppressore.
Raccontare le umiliazioni quotidiane subite dai palestinesi, la violenza che colpisce i bambini dei villaggi e dei campi profughi fin dentro le loro case – minando per sempre quel flebile accenno di fiducia e di protezione a cui ancora potevano auspicare – non è argomento che interessi i grandi giornali o le tv. Illustrare fin nei minimi dettagli l’effetto catastrofico di chi, fra i giovani palestinesi, si fa esplodere annientato da folle disperazione, quello sì, è tema che stuzzica e coinvolge.
Anche la critica nei confronti del governo israeliano per la sua politica nei confronti del popolo di Palestina, per noi occidentali è diventata un tabù: si è subito accusati di antisemitismo (come se semiti fossero solo gli ebrei e non anche tutti gli arabi!). Seppur una gran parte dei cittadini europei ritenga che il governo israeliano rappresenti la maggior minaccia per la sicurezza dell’umanità, governanti e leader di partito fanno fatica a raccogliere gli stimoli della gente comune e a prendere chiare posizioni di condanna nei confronti della disumana politica anti-palestinese di Tel Aviv. Perché, contrariamente a quanto sostiene certa propaganda e il recente libro della giornalista Fiamma Nirenstein (Gli antisemiti progressisti, Rizzoli 2004), denunciare Sharon e i suoi accoliti non significa essere antisemiti, bensì avere a cuore l’antica e ricca cultura ebraica.
Infatti, paradossalmente, i giudizi più duri contro la strategia di Sharon arrivano proprio dall’interno di Israele. Quasi a spiegare che malattia e cura sono compresenti in ogni realtà e che si può guarire dal dolore, ma attraverso il riconoscimento della dignità umana del proprio nemico, israeliano o palestinese che sia.

Box 2

ROUTE 181
Una strada di uomini e donne

Eyal Sivan, israeliano, e Michel Khleifi, palestinese, hanno dedicato oltre un anno alla realizzazione di un progetto cinematografico arduo e complesso che li ha portati a rivolgere uno «sguardo comune» sugli abitanti di Palestina-Israele. Nell’estate del 2002, di fronte a un quadro di violenza dilagante, i due vecchi amici si sono chiesti quale poteva essere il loro contributo di artisti impegnati per un cambiamento radicale della prospettiva del conflitto israelo-palestinese: «fare un cinema che faccia riflettere», si sono risposti, «e farlo insieme». Ecco, dunque, «Route 181 – Frammenti di un viaggio in Palestina-Israele».
Scrive Nadia Nadotti nella presentazione del cofanetto di 4 Dvd: «L’espediente narrativo è semplice: sovrapponendo all’attuale carta geografica di Palestina-Israele, la mappa tracciata dalle Nazioni Unite nel novembre del 1947, con la linea di partizione che avrebbe dovuto dar vita a due Stati sovrani e indipendenti, Israele e Palestina, e che invece fece da detonatore a un conflitto che dura ancora oggi, i due autori individuano un itinerario obbligato. Percorreranno il paese da sud a nord, seguendo chilometro per chilometro quella virtuale linea di spartizione, affidando alla natura dei luoghi e al caso gli incontri di cui daranno conto nel film.
Mettendosi in strada con una troupe composta solo di un cameraman, un tecnico del suono e un autista, i due cineasti, per oltre due mesi, nella tarda primavera del 2002, si immergono in quello straordinario laboratorio umano, sociale, culturale, etnico, linguistico che è oggi Palestina-Israele. (…) Non vanno alla ricerca di amici e nemici, ma di uomini e donni comuni, con le loro storie e le loro piccole, parziali verità, i loro ricordi, le loro rimozioni, la loro – a volte miserabile, a volte luminosa – umanità. (…) Ciò che Khleifi e Sivan vogliono è liberare la parola, permettere a chi il caso mette loro davanti di ripercorrere senza sentirsi minacciato una storia che è insieme privata e pubblica, personale e collettiva. Convinti che all’origine di ogni guasto storico e politico ci sia l’incapacità di riconoscere all’Altro la sua complessa umanità e dunque i suoi traumi, le sue paure, persino i suoi fragili e talora aggressivi discorsi di copertura – per l’appunto, il diritto al racconto -, i due cineasti formano una sorta di collettivo e informale setting analitico in grado di contenere, attraverso un fiducioso atto di nominazione, l’odio, la paura, le proiezioni reciproche, i sensi di colpa, la coazione a ripetere, la speranza, il desiderio».
A.La.
Fonti:
• I 4 Dvd sono pubblicati dalle Edizioni Bollati Boringhieri, corso Vittorio Emanuele II, 86, Torino; tel. 011-5591711; info@bollatiboringhieri.it
Inoltre:
• Associazione Documè, via San Pio V 14/c – 10125 Torino; tel. 011.66.94.833;
docume@tin.it

Angela Lano

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